martedì 25 marzo 2014

"Siciliani si diventa" di Umberto Di Maggio (edizioni Coppola, Trapani 2013)


“Luoghi di Sicilia”
Ottobre 2013

SICILIANI SI DIVENTA    DI    UMBERTO DI MAGGIO
Molti conoscono Umberto Di Maggio come coordinatore regionale di “Libera”, l’associazione nazionale (e adesso anche internazionale) di associazioni e di cittadini coalizzati contro tutte le mafie, fondata una ventina di anni fa da don Luigi Ciotti. Meno numerosi i lettori dei suoi saggi, scientificamente attrezzati, di sociologia. Nessuno, invece, tranne forse qualche intimo familiare, ne conosceva la vena letteraria prima che l’editore trapanese Coppola pubblicasse questo suo breve, intenso, scritto: Siciliani si diventa (pp. 32, euro 4,00).
   Il titolo è un po’ enigmatico o, per lo meno, nasconde vari livelli interpretativi. Forse, il più immediato, è che l’isola è abitata in percentuale minima da autoctoni e nella stragrande maggioranza da ospiti che vi sono approdati per caso o per le ragioni più diverse e poi vi si sono insediati stabilmnete: dai Fenici ai Cartaginesi, dai Romani agli Arabi, dai Normanni agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi…sino agli Africani, agli Asiatici, ai Medio-orientali di oggi. In una seconda accezione, meno immediata, siciliani si diventa perché non basta nascere nell’isola: bisogna, poi, decidere di viverci (magari, come l’autore, dopo un periodo di fuga nel “continente”). Viverci, sì: ma come? Siamo qui, forse, al cuore della questione. Il siciliano autentico  - mi pare sia questo il messaggio cruciale di Umberto Di Maggio -  non è chi abita la regione parassitariamente (come i mafiosi, i loro amici e i loro complici di ogni ceto sociale) né chi vivacchia senza infamia e senza lode, senza rubare e senza produrre, ma accontentandosi di sopravvivere alla meno peggio. Egli è piuttosto chi si sbraccia, talora si sacrifica perfino, per lasciare la Sicilia un po’ migliore di come l’ha trovata, nascendovi o sbarcandovi da altri lidi.
    Questa tesi non viene dall’autore enunciata argomentativamente, bensì evocata liricamente: con una rilettura attualizzante del mito di Colapesce. Ci racconta, dunque, di un immigrato che  - giunto avventurosamente  a Lampedusa –  dopo aver “aiutato tutti gli altri a sbarcare, cadde in acqua andando a fondo” perché “non sapeva nuotare”. Arrivato “giù e ancora giù dove il Sole non riesce ad entrare”, si accorge che la piccola isola, “la splendida figlia di Sicilia, poggiava su una grande colonna di tufo giallo” e che “una grossa crepa stava facendo spezzare quel pilastro dove si reggeva tutto il peso dell’Isola”. Decide allora di accettare, come un compito, di restare là in fondo “a reggere Lampedusa: la porta dell’Europa e dell’Africa”. Come si chiamava il marinaio così generoso? Forse Ahmed, forse “quello di chi sceglie di dedicare ogni fiato, ogni energia, ogni battito del suo cuore a liberare, una volta per tutte, questa Terra. Il suo nome è il nome di tanti Siciliani onesti” che tali sono per scelta e per impegno, non certo per mera casualità anagrafica.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

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