martedì 1 aprile 2014

"Legalità" secondo Lorenzo Jannelli

Da Lorenzo Jannelli, Gip del Tribunale di Palermo, ho ricevuto in dono gli appunti - da me richiestigli - su cui ha basato il suo intervento del 14 marzo 2014 alla presentazione del mio volumetto Legalità (Di Girolamo, Trapani 2013, euro 7,00). 
Li socializzo, con gratitudine, ai miei venticinque lettori.

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LEGALITÀ
di Augusto Cavadi


Le leggi sono come ragnatele: quando qualcosa di leggero e di debole ci cade sopra, lo trattengono, mentre se ci cade una cosa più grande, le sfonda e fugge via.
Solone, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III sec.
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Il mio punto di vista è quello dell’operatore del diritto di un magistrato che lavora quotidianamente con le norme, cercando di conoscerne il più possibile e di capirne il senso (cosa, vi assicuro non semplicissima, data la produzione elefantiaca).
Forse per questo posso aver sviluppato nei confronti della “legalità” quel distacco del tutto simile ad un medico di corsia che visita il centesimo paziente della giornata.
Mi perdonerete, dunque, la personale difficoltà proprio nel parlare in pubblico di legalità. È senz’altro meglio, dal mio punto di vista, farne oggetto del mio lavoro.
Concordo con Cavadi. Il tema si presenta ostile, antipatico, quasi spiacevole. Oggi legalità porta con sé lo stesso piacere che proviamo quando accostiamo una lastra di metallo ad una parte nuda del nostro corpo. Freddo, piatto, rigido.
Talvolta la legalità è persino dolorosa, perché incide sulla carne delle persone: penso a tutti i lavoratori alle dipendenze di imprese sottoposte a sequestro che rischiano il licenziamento per i costi fiscali, previdenziali che prima venivano omessi e che, di fatto, nella nuova gestione legale, pongono l’impresa fuori dal
mercato. È una situazione drammatica che viene peraltro strumentalizzata dalla cultura mafiosa che ne approfitta per trovare una giustificazione la ripropone come conferma della bontà del metodo originario illegale.
Accanto ai drammatici aspetti sociali, non può neanche dimenticarsi che il contesto culturale di tipo individualista non è certo incline a mettere le briglie della regola oggettiva alla nostra sovradimensionata percezione dell'io.
Di fronte a queste difficoltà, questo contributo di Augusto Cavadi, che ringrazio per avermi dato l’occasione di essere qui tra voi oggi, raccoglie la sfida e affronta il tema difficile della legalità in modo godibile, chiaro e scorrevole, semplice ma non banale, riuscendo ad accompagnare il lettore in un percorso guidato alla riscoperta del senso di una parola che risuona costantemente nella nostra quotidianità, senza però nascondersi di fronte al grande dubbio che talvolta si insinua in tutti coloro che, operatori del diritto, insegnanti, politici, filosofi o semplicemente cittadini, si occupano del tema: in che misura e in che termini, oggi, abbia ancora senso parlare di legalità.
Di legalità in una terra, come la nostra, che ha visto scorrere il sangue di persone che facevano semplicemente il loro dovere.
Di legalità in una terra come la nostra, che ha visto seguire a quei fatti drammatici un forte sdegno ed una reazione vivace da parte di tutta la popolazione (penso alla fiumana di gente dei cortei cittadini successivi alle stragi del ’92, in cui vi erano lunghe catene umane che collegavano i punti nevralgici della città; invece dei “post” su FB, vi erano i lenzuoli che si appendevano ai balconi, non per asciugarsi al sole, ma per manifestare la propria rabbia e la voglia di cambiare registro).
Che senso può avere parlare di legalità in una terra come la nostra che ha poi lasciato cadere nel nulla quella primavera di speranze ed è finita con il riscoprirsi imbrattata, compromessa o almeno muta testimone del prevalere di logiche di illegalità a tutti i livelli? Dai precari che fermano il traffico per la strada, agli operai assunti in nero nella maggior parte di imprese edili che operano nel nostro territorio, alle occupazioni pre-natalizie nelle scuole, ai presidenti della regione condannati per mafia.
Dunque, possiamo e dobbiamo chiederci se oggi parlare di legalità tout court sia ancora utile.
Cavadi, dicevo, non si spaventa e avvia il suo percorso, ricollegandosi al tradizionale binomio legalità – giustizia. Un equilibrio tra valori che nel tempo è stato variamente interpretato ed in cui i due poli opportunamente vanno tenuti distinti.
La preziosa distinzione tra legalità e giustizia, che a più riprese riemerge nel libro, non è però solo risonanza della competenza specifica dell'autore circa l'evoluzione storico-filosofica della idea di giustizia, ma mi sembra più espressione della percezione pratica della necessità di non limitare la legalità allo spazio angusto dei Tribunali e delle operazioni di mafia, affinché questa sorellastra, questa bistrattata “ancella della giustizia” possa essere riportata al ruolo proprio di “precondizione sociale” per una sana vita democratica.
La “sana vita democratica” da intendersi, in poche parole, come quel sistema politico-sociale che traspare e palpita negli articoli della nostra Costituzione repubblicana. Lavoro, diritti inviolabili, rifiuto della violenza, solidarietà, uguaglianza, autonomia “delle e nelle” formazioni sociali sono solo alcuni dei valori ispiratori della Costituzione, da cui non possiamo prescindere quando parliamo di legalità.
Dunque, passatemi la facezia, senz’altro Cavadi ci richiama ad una legalità di "sana e robusta costituzione".
Non è cosa da poco. E questo è, a mio modesto avviso, uno dei meriti del libretto, quello di rivalutare la legalità, riempiendola di quel senso e di quei significati da cui troppo spesso è stata privata in una lettura superficiale e francamente retorica o tautologica.
Badate bene, una legalità che Cavadi non solo riempie di contenuti costituzionali, ma che presenta anche come metodologicamente connotata dal confronto continuo con la Grundnorm costituzionale (o europea).
L'autore comprende chiaramente che la legalità deve essere metodologicamente “critica”, che non sono autenticamente amanti della legalità coloro che vogliono un cieco rispetto delle regole per il fatto stesso di essere regole.
«Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate». Sono parole di don Lorenzo Milani. Parole che a distanza di tanti anni non cessano di colpirci per la loro intensità.
Le regole sono garanzie generali di eguaglianza tra cittadini che si trovano nelle medesime condizioni, ma anche segnali d’allarme rispetto a situazioni di marginalità. Servono, dunque, a orientare il nostro agire, a risolvere o evitare problemi, certamente non a crearli. E, essendo come dice Cavadi, delle “parole” vanno anche, mi permetto di aggiungere, interpretate.
La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane. Anatole France, Il giglio rosso, 1894
La legalità critica, dunque, non pone su un piedistallo la regola in quanto tale senza riferimenti alla realtà cui si riferisce, ma la interpreta alla luce di quella realtà. Cercando di individuarne la ratio (diciamo noi tecnici), lo Spirito (prendendo a prestito il termine dal teologo) per verificarne l’applicabilità al caso concreto e per vivificare una lettera, una norma che altrimenti resterebbe morta.
E questo non è per nulla semplice. “Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni.” Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1763
La legalità critica è difficile. Non si tratta di essere dalla parte giusta o di aderire alla regoletta e basta, sentendosi a posto (l’obbedienza offre, in effetti, questo rasserenante effetto psicologico).
Una forma di espressione di legalità, ad esempio, che torna comoda alla categoria di cui faccio parte, è quella di coloro che esprimono una solidarietà-tifo per gli uomini dell'antimafia, della serie “io sto con Tizio o con Caio”: ferma restando la giusta esigenza di far sentire il proprio sostegno a persone minacciate o isolate, costoro, a mio avviso, rischiano alla fine di non fare un buon servigio a se stessi e all'antimafia, se non esercitano un doveroso vaglio critico.
Non solo perché finiscono con il mitizzare operatori del diritto con i loro pregi e difetti, punti di forza e debolezza, come in tutte le altre categorie (quasi si fosse coraggiosi solo perché magistrati o poliziotti o insegnanti di frontiera). Ma perché portano avanti un concetto di legalità astratto, formale, che non ammette la povertà del reale, la ambiguità della regola o lo sforzo difficile di interpretare le realtà, cui si confrontano continuamente - non senza errori - gli stessi interpreti. Una legalità statica che preferisce riposare all’interno di schemi o schieramenti preconfezionati, piuttosto che confrontarsi con il continuo mutare della realtà.
Dunque che fare?
Cavadi ci propone nel suo libro un termine assai nominato in ambiente religioso (sul quale mantengo una personale laica difficoltà tutte le volte che lo si riserva esclusivamente alla autorità e non anche ad ogni singolo individuo), il discernimento, dal greco krinein, l’opera del setacciare in cui nel crivu vengono filtrate le sostanze e ove si assiste ad una separazione. È proprio questo discernimento, che è il succo anche della mia professione, che ci porta a pensare alla legalità come arte, come una cosa bella ed intrigante, altro che materia fredda e antipatica.
Alla fine si scopre che la legalità è bella e può persino essere divertente.
In questo senso, vi porto una mia piccola esperienza.
Interrogandoci sulla bulimica (e talvolta improvvisata) offerta di iniziative in tema di legalità che registriamo tra maggio e luglio, con alcuni miei colleghi ci siamo interrogati sulle modalità con le quali poter veicolare un messaggio
significativo in tema di legalità. Abbiamo pensato a due concetti: il gioco e la memoria.
A vergogna degli uomini, si sa che le leggi del gioco sono le sole che dappertutto siano giuste, chiare, inviolabili e osservate. Voltaire, Dizionario filosofico, 1764
Nel gioco, la regola viene vista nel suo senso più puro, ossia come strumento per un obiettivo comune. Se la regola dice che la palla deve oltrepassare la linea di porta per essere goal, non ha senso che un giocatore pretenda di aver fatto goal se tira la palla in calcio d'angolo. Non è quello il gioco concordato, il gioco cambia e perde la sua identità se si cambia la regola. Pensate al sistema elettorale ed a come cambia il senso complessivo se solo cambia una delle regole.
Il paragone con il gioco aiuta anche a comprendere che l'altro può essere avversario, ma non necessariamente nemico. Anzi forse è proprio questo essere sottoposti alla stessa regola che, nel permanente conflitto di posizioni, ci trasforma in avversari, ma non ci rende nemici.
Accanto al gioco, abbiamo pensato che è necessaria la storia, far conoscere come nel tempo l'arte della legalità è stata in concreto declinata, a volte anche in modo tragico (come nelle stragi di mafia) o in modo innovativo (e non meno cruento) con le lotte non violente di Gandhi.
Ecco come è nata la NBM, che va in giro per l'Italia proponendo incontri con studenti, cui affianchiamo allo stesso tempo partite di basket di beneficienza. Insomma divertimento e rispetto delle regole.
Ecco perché la legalità per altre popolazioni diverse dalla nostra non è vista così male, tanto da essere autenticamente interiorizzata.
Parlare in Gran Bretagna di legalità ci impone lo sforzo di convincere l’interlocutore che la regola fissata sia discutibile o sbagliata. In Sicilia all’enunciazione di una regola, quale che sia, segue ordinariamente un silenzio di attesa: si, la regola è questa … però ?? Si attende un però, una eccezione che contraddice quella regola.
L’interiorizzazione della regola, la fedeltà di cui parla Cavadi, è in realtà frutto ed, al contempo, obiettivo della assimilazione metodologica della legalità critica,
che nel rispetto del canone costituzionale non esclude (anzi talvolta impone) il ricorso alla dura battaglia contro la regola ingiusta: ecco che la legalità non è solo teoria, ma anche prassi che ci permette di parlarne senza scadere in vuota retorica.
L’auspicio è che questa legalità critica possa essere interiorizzata fino al punto di vedere un giorno una terra illegale come la nostra manifestare “fedeltà” verso il rispetto delle regole, quella devozione verso la legalità che riscontriamo, quasi canzonandole, nelle culture nordeuropee o nordamericane e che noi facciamo ancora troppa fatica ad assimilare, preferendo gustarci la nostra superiorità intellettuale rispetto ai cd. pecoroni che, però, vivono in un mondo civile.
La legalità di Cavadi ci aiuta in questa direzione.
14 marzo 2014

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