venerdì 27 giugno 2014

IMMIGRATI NELLE CHIESE ? NO, PER...CARITAS !


“Centonove”
27.6. 2014

IMMIGRATI NELLE CHIESE ? NO, PER CARITAS !

  La notizia sarebbe di quelle buone e basta. Il sindaco scalzo chiede all’arcivescovo salesiano di Messina ospitalità per 500 immigrati e l’ottiene: uno di quei (rari) casi in cui l’intesa fra il potere temporale e il potere spirituale non aggrava i guai sociali, ma li allevia. Purtroppo, però, la notizia buona s’incrocia con un’altra simile ma di segno opposto: don Librizzi, che in qualità di direttore della Caritas diocesana di Trapani si occupa da decenni di accoglienza di extra-comunitari africani, viene arrestato per  prestazioni sessuali con migranti (maschi) ottenute, talora estorte,  in cambio di favori nell’iter di riconoscimento dello status di profugo.
    Sappiamo cosa impone l’etica in situazioni del genere: attendere l’esito dei processi presumendo, e  - perché no ? -  augurandosi, l’innocenza dell’imputato. E’ anche vero che, in questo caso, le intercettazioni telefoniche rese note dalla stampa  - suffragate da notizie informali che negli ambienti cattolici trapanesi giravano da tempo – non possono lasciare del tutto indifferenti. Comprensibile, dunque, la battuta goliardica che gira già a Messina: “Immigrati ospitati nelle chiese? No, per…Caritas!”.
    Come battuta funziona e difficilmente le si potrebbe negare il permesso di circolazione. Purché battuta rimanga. In assenza di una politica governativa seria, da decenni ormai l’associazionismo cattolico – spesso in collaborazione con altrettanto ammirevole volontariato sia protestante che laico – si spende su un fronte a dir poco scottante. Abusi ce ne sono stati e, a quanto è lecito supporre, continuano ad essercene: che siano individuati e colpiti ce lo auguriamo tutti, quali che siano le nostre idee politiche o religiose. Ma il rispetto verso la propria intelligenza e verso centinaia di operatori onesti e generosi impone di non fare di tutta l’erba un fascio. Conosco personalmente l’impegno di tanti preti delle diocesi di Palermo, di Mazara del Vallo e della stessa Trapani; di giuristi militanti di ispirazione laica come Fulvio Vassallo Paleologo e la sua scuola universitaria; delle chiese valdesi-metodiste che hanno approntato strutture d’accoglienza a Palermo e a Scicli (con il giovane pastore catanese Ciccio Sciotto) e, proprio in questi giorni, hanno aperto un punto di primo soccorso nell’isola di Lampedusa.  Che la magistratura vada a fondo, e in fretta, serve a tutti i cittadini ma, in primo luogo, a chi ha il diritto di non vedersi confuso con chi, secondo l’accusa di don Milani, si serve dei poveri anzicché servirli.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 25 giugno 2014

Invece della scomunica ai mafiosi...


L’ABBRACCIO MORTALE FRA GERARCHIE DELLA CHIESA E COSA NOSTRA

Ci sono almeno due ragioni che rendono eccezionale il libro di don Cosimo Scordato (Dalla mafia liberaci o Signore, Di Girolamo, Trapani 2014) che sarà presentato oggi alla feltrinelli di Palermo. La prima riguarda l’autore. La nostra città, capitale della mafia, è anche capitale dell’antimafia e ha saputo esprimere, nell’ultimo secolo e mezzo, sia valenti studiosi del fenomeno che coraggiosi lottatori. Molto più rari, però, sono stati i soggetti che hanno coniugato  - nella propria esperienza personale – l’analisi teorica e la pratica sul campo; la lucidità intellettuale e l’impegno quotidiano. Don Scordato è, da decenni, uno di questi protagonisti: nella sua incessante testimonianza umana e cristiana è impossibile scindere il pensiero dall’agire.
   Una seconda ragione di eccezionalità di questo libro riguarda il taglio e il livello dei contenuti. La stragrande maggioranza degli studi dedicati al rapporto fra Chiesa cattolica e organizzazioni mafiose perlustra, opportunamente e meritoriamente, il terreno storico-sociale: registrando i casi di collusione fra preti e mafiosi e i casi di conflitto fra preti e mafiosi. Ma l’analisi storiografica e sociologica, per quanto basilare, non è sufficiente. Bisogna avere la competenza, e il coraggio, di andare alle radici delle questioni: come mai la Chiesa cattolica meridionale attira tanti criminali? E come mai essi, una volta avvicinatisi agli ambienti ecclesiali, si trovano a proprio agio? L’ipotesi che si affaccia alla mente dell’osservatore spregiudicato, come don Scordato, è che le comunità  cattoliche dell’area mediterranea  -  per la struttura gerarchica, per la mentalità dogmatica, per un’idea patriarcale di Dio (più Padrino che Padre), per l’esaltazione della mediazione ‘clientelare’ dei santi… - siano tremendamente affini alle cosche mafiose. Che anzi abbiano potuto offrire a queste ultime dei modelli organizzativi, dei codici culturali, degli armamentari simbolici. Da qui la serietà della terapia: la Chiesa cattolica può diventare un efficace antidoto alla mentalità e alle pratiche di Cosa nostra solo se, prima di tutto, si converte al vangelo originario di Gesù Cristo. Una Chiesa più fraterna, più sobria, più solidale, più libera dalle lusinghe del potere politico sarebbe una Chiesa che non avrebbe bisogno di scomunicare i mafiosi: questi infatti , per primi, si terrebbero ben lontani da forme associative aliene dalla loro concezione familistica, predatrice, sfruttatrice, corruttrice, violenta. Una Chiesa più evangelica risulterebbe antipatica, irrespirabile, per gli uomini e le donne di mafia. E potrebbe diventare segno profetico di una società in cui nessuno – a nessun titolo – ha diritto di mortificare la dignità dell’altro, strumentalizzandolo ai propri fini di dominio e di profitto parassitario.

Augusto Cavadi

sabato 21 giugno 2014

L'uomo e la libertà secondo Greci, Ebrei e Medievali: l'ultimo libro di Elio Rindone a Palermo

Lunedì 23 giugno alle 18,30  - presso il Centro studi "Bonelli" (Chiesa valdese di via Spezio, Palermo) presenterò, con l'autore, l'ultima pubblicazione di Elio Rindone: L'uomo e il suo destino. liberi per costruire un mondo più vivibile (www.ilmiolibro.it., pp. 246, euro 14,00).
Qui di seguito la mia Presentazione (pp. 7 - 11).


La domanda sull’uomo e la domanda sulla libertà sono legate a filo doppio. Un’antropologia filosofica minimamente soddisfacente non può infatti trascurare la questione della libertà e, a sua volta, l’esperienza interiore della libertà può costituire una chiave interpretativa dell’enigma umano. Proprio l’esperienza interiore ci attesta tuttavia, insieme alla nostra capacità di scegliere, i forti condizionamenti di tale capacità: talmente stringenti da indurci a supporre che essa sia un’ingenua illusione.
Talora chi s’interroga sull’uomo e sulla libertà – in ultima analisi sulla libertà dell’uomo – è tentato di gettarsi nell’impresa come fosse Adamo o Eva: fuori di metafora, come se non fosse all’interno di una storia, di una tradizione culturale, con cui fare i conti criticamente. Per assumere ciò che si ritiene ancora valido, per correggere ciò che si ritiene perfettibile, per rinnegare ciò che si ritiene falso e fuorviante.
Elio Rindone, come nei suoi scritti precedenti, pur non cedendo al vezzo dello storicismo meramente archeologico, è molto attento al background che la nostra generazione si porta – più o meno consapevolmente – sulle spalle: è molto attento, come recita il sottotitolo di un suo volumetto, a “interrogare il passato per non restarne prigionieri”[1].
Il passato della Modernità occidentale è, ovviamente, polimorfo, ma le varie correnti si lasciano – convenzionalmente – ricondurre a tre filoni principali: la sapienza greca, quella ebraica e quella medievale (che ha inteso mediare creativamente fra le due anteriori con risultati spesso problematici, come Rindone nota a più riprese).
Nella prima parte, dunque, l’autore espone – ovviamente limitandosi a esemplificare solo con qualche pensatore – la concezione della libertà nel mondo greco, nella cultura ebraica e nell’ambito della patristica e della scolastica, mettendo in evidenza pregi e limiti di ciascun paradigma. Similmente, nella seconda parte, illustra la concezione dell’uomo propria della grecità classica, della Scrittura e di alcuni fra gli esponenti più significativi del Medioevo.
Particolare attenzione meritano, a mio parere, queste ultime pagine, perché mettono in discussione quella che passa comunemente per concezione cristiana del destino ultimo dell’uomo. In esse si sostiene infatti, e la cosa certamente sconcerterà qualche lettore poco informato, che per secoli i pensatori cristiani si sono allontanati, stando almeno alle acquisizioni di una lettura della Bibbia condotta con metodo storico-critico, dal messaggio originario, che invitava a realizzare sulla terra il disegno divino di un mondo di giustizia e di pace, e, prendendo alla lettera espressioni metaforiche come risurrezione, inferno o paradiso, hanno posto in una dimensione ultraterrena il senso della vita umana.
Il significato complessivo dell’operazione è abbastanza chiaro: scardinare l’opinio communis secondo la quale fra greci, ebrei e cristiani fluirebbe un medesimo pensare, con qualche leggera modulazione che non ne intaccherebbe la sostanziale continuità. No: la verità storica è diversa. Si tratta di paradigmi teorico-etici differenti, ciascuno dei quali è dotato di una propria specificità che va individuata e valutata, senza confondere i messaggi in un blob indistinto da accettare o rifiutare en bloc.
Evitare di confondere non significa, ovviamente, rinunziare alla sintesi: oggi, nel XXI secolo, possiamo elaborare una concezione dell’essere umano e della sua libertà che, mettendo coraggiosamente in dubbio anche verità che apparivano indiscutibili, sappia trarre dalla multiforme eredità ‘classica’ degli spunti interessanti sia dal punto di vista dell’ermeneutica antropologica (cos’è l’uomo o, come ci correggerebbe Abraham Heschel, chi è l’uomo?) sia dal punto di vista della prassi individuale e collettiva.
Infatti, sapere se l’esistenza umana possa auto-interpretarsi come dotata di senso – e se possa perseguire tale senso con un margine di libertà – è rilevante solo in vista dell’esercizio effettivo di queste eventuali potenzialità: altrimenti la sorte di chi, pur ignorando la portata teoretica di questi interrogativi, vive nel quotidiano una vita ricca di significati e sperimenta la liberazione dai vincoli interiori e politici sarebbe di gran lunga preferibile a quella di chi sapesse tutto sulla possibilità, ma vivesse incatenato nelle strette maglie della necessità.


                                                                                                         Augusto Cavadi
                                                                                           
                             
                            www.augustocavadi.com



[1] E. Rindone, Ma è possibile essere felici? Interrogare il passato senza restarne prigionieri, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004.





venerdì 20 giugno 2014

La pedagogia di Rousseau secondo Giovanni Di Benedetto


“Centonove” 20.6.2014

LA DIFFICILE ARTE DI EDUCARE


   Dopo due o tre secoli gli scritti di uno scienziato conservano solo un valore storiografico ma hanno poco o nulla da dire ai posteri: l’evoluzione della ricerca scientifica li rende obsoleti. Non così per filosofi, letterati, artisti, poeti: restano contemporanei di chiunque li legga, dopo pochi anni o dopo millenni. Se qualcuno ne dubitasse potrebbe aprire la bella monografia (Un’arte che si impara. Educazione e politica nell’Emilio di Rousseau, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2014) che Giovanni Di Benedetto ha dedicato ad una delle arti più difficili: l’educazione di ogni nuova generazione. E lo ha fatto prendendo spunto, con fedeltà al testo originario ma non in maniera pedissequa, da quel romanzo semplice da leggere e rivoluzionario nei contenuti  - Emilio – che J. J. Rousseau ha pubblicato nel 1762 e che ha dato una svolta epocale alla storia della pedagogia teorica e praticata.
    Il pensatore ginevrino, certamente non scevro da contraddizioni nel corso delle sue riflessioni e soprattutto nella sua vicenda esistenziale, è però consapevole di non avere ricette infallibili: “Nella misura in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poiché l’armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno”. Un secolo e mezzo dopo Freud gli farà eco rispondendo alle richieste di consigli da parte di una madre: “Non si preoccupi, signora. Si comporti, piuttosto, spontaneamente: tanto, qualsiasi atteggiamento assumerà, sarà senz’altro sbagliato”.
    Pur nell’incertezza di base, alcuni punti fermi si possono comunque individuare. E Di Benedetto, genitore e insegnante, li rintraccia con acume nelle pagine di Rousseau: evitare “la logica del comando, della forza e dell’obbedienza” che provoca, quando ci riesce, un assenso ipocrita; scartare il nozionismo e sollecitare il pensiero autonomo; convincersi che nel processo educativo bisogna imparare a “perdere tempo” piuttosto che a cercare e a imporre accelerazioni illusorie e alla fine dannose; mirare, al di là della mera istruzione, all’arte di vivere da parte dell’allievo…
    Se alcune di queste indicazioni sono entrare nella mentalità comune (anche se non altrettanto nella pratica educativa quotidiana), altre stentano molto ad essere comprese e condivise. E invece, anche nell’ottica di Di Benedetto, sono rilevanti in sé e di bruciante attualità. Mi riferisco, soprattutto, all’idea che “educazione e politica sarebbero parti complementari di un unico insieme”: sia nel senso che il sistema educativo è condizionato dal sistema socio-politico sia nel senso che, a sua volta, può condizionare le trasformazioni delle istituzioni e delle pratiche politiche. Quanto avrebbero da imparare gli insegnanti – e in generale gli educatori – odierni che oscillano fra il silenzio pudico sulle tematiche politiche e gli interventi inopportunamente propagandistici! Che la politica debba restare fuori dalle scuole, dalle parrocchie, dalle associazioni apartitiche è inoppugnabile se per politica intendiamo competizione elettorale a colpi di slogan e di pettegolezzi; ma se intendiamo informazione critica sulle diverse proposte ideologiche e programmatiche avanzate dagli schieramenti presenti nel Paese e nel parlamento, la politica  - in quanto cultura politica – non può continuare a restare fuori dalle aule se non si vuole affossare del tutto quel poco di democrazia che ci rimane nell’era della teledipendenza.
    Tra i valori socio-politici che, secondo Rousseau, andrebbero indicati ai giovani come primari e irrinunciabili, l’uguaglianza effettiva dei cittadini; l’amore per la società (inteso come capacità di immedesimarsi nelle gioie e soprattutto nelle pene altrui); il disprezzo dei corrotti e dei parassiti (“Colui che mangia nell’ozio il pane che non ha guadagnato da sé; e il titolare di rendite, pagato dallo Stato per non far niente, non differisce affatto ai miei occhi dal brigante che vive a spese dei viandanti”); la libertà non “dai”  legami sociali , ma “di” costruire relazioni eque in un contesto istituzionale orientato al primato del bene comune rispetto all’interesse privato.
     Ci si potrebbe chiedere come mai, dopo più di due secoli, delle indicazioni così limpide da apparire evidenti non abbiano dato i frutti sperati. Ma la risposta è tanto semplice da risultare disarmante: questo genere di insegnamenti incidono solo se testimoniati con la vita prima che proclamati dalle cattedre.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 19 giugno 2014

Ci vediamo lunedì 23 giugno 2014 a Palermo?


Lunedì 23 giugno alle 18,30, presso il Centro evangelico di cultura "Giacomo Bonelli" (via Spezio 43, adiacente la chiesa dei Valdesi dietro il teatro Politeama), Augusto Cavadi presenterà, insieme all’autore, il libro di Elio Rindone

                                        L’uomo e il suo destino.
                            Liberi per costruire un mondo più vivibile
                              (ww.ilmiolibro.it, pp. 246, euro 14,00)

Chi desidera restare per una sobria cenetta a “Il mirto e la rosa” (via Principe Granatelli, 30) può prenotarsi allo 091.324353 oppure 392.6478676 (euro 13,00).


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La sapienza greca, quella ebraica e quella medievale hanno qualcosa da dirci sull’uomo?  Al di là di equivoci e luoghi comuni, alla scoperta dell’autentico messaggio che viene dal passato per aprire prospettive fruttuose sul presente e sul futuro.

Elio Rindone è stato docente di storia e filosofia nei licei. Dopo il baccelleriato in teologia presso l’università del Laterano, ha  condotto ulteriori ricerche presso l’università di Nimega (Paesi Bassi). E’ autore di vari libri e articoli su riviste specializzate.


lunedì 16 giugno 2014

Nino Cangemi su “Palermo. Guida insolita a una città indecifrabile” di Augusto Cavadi


La Palermo “indecifrabile” di Augusto Cavadi

“siciliainformazioni.it” del 16.5.2014


(http://www.siciliainformazioni.com/101574/palermo-indecifrabile-augusto-cavadi)



Palermo è una città dai mille volti. Tanti tra di loro contraddittori. La bellezza del suo patrimonio architettonico, unico per l’eterogeneità di stili, stride con l’incuria degli amministratori; la religiosità ostentata sino al folklore spesso non corrisponde ad un credo sincero; l’abbondanza del cibo da strada e la vitalità dei mercati popolari storici occultano l’omologazione culturale e la crisi galoppanti; l’accoglienza dei palermitani fa a pugni con la criminalità mafiosa, sempre presente seppure negli ultimi anni strategicamente nascosta.

Chi arriva a Palermo da un lato è attratto dal suo fascino, dall’altro è disorientato: troppe le luci e le ombre per afferrarne l’identità.

Augusto Cavadi, saggista palermitano dai molteplici interessi (filosofici, sociologici, teologici, pedagogici), col suo “Palermo, guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile”, edito da Di Girolamo, accompagna il turista in un tour singolare che non nasconde le contraddizioni del capoluogo dell’isola “luogo dell’incontro – e del contrasto – fra poesia e prosa, fra picchi di bellezza e ferite orride”. Il suo obiettivo è non solo far conoscere Palermo a chi si appresta a visitarla, ma fornire una bussola per coglierne, tra le sue manifestazioni plurivalenti, l’essenza.

Quella di Cavadi è davvero, come recita il sottotitolo, una guida “insolita”.

Per diversi motivi.

Innanzitutto perché l’autore, pur suggerendo un tragitto (o più tragitti tenendo conto del tempo di cui dispone il turista), si mette da parte lasciando la parola a tanti scrittori, noti e meno noti, che hanno esplorato (a loro modo) Palermo: da Goethe a Maupassant, dalla Maraini a Consolo, da Brandi ad Alaimo, senza dimenticare Zullino, la cui Guida ai misteri e ai piaceri di Palermo è un libro, oggi introvabile, che penetra nei segreti della città col gusto della provocazione. La pluralità di voci arricchisce la guida, sia perché gli autori citati sono figli di epoche diverse testimoniandosi così l’interesse che Palermo ha suscitato e continua a suscitare nel tempo, sia per la loro diversa estrazione: alle osservazioni dei letterati si accompagnano quelle di sociologi, di esperti d’arte, di giornalisti.

Inoltre in quella di Cavadi, a differenza delle guide tradizionali, non si suggerisce soltanto un excursus architettonico: alle bellezze dei monumenti di Palermo si aggiunge un percorso di orientamento sociologico. Sicché tra i luoghi da visitare viene pure indicato l’Albero di Falcone di via Notarbartolo, espressione della resistenza palermitana alla mafia, quella mafia che –non può negarsi- incuriosisce i turisti e che, secondo l’autore, va spiegata onorando la memoria di chi l’ha contrastata piuttosto che presentata nei suoi aspetti folkloristici (Cavadi ha anche pubblicato La mafia spiegata ai turisti, tradotta in tantissime lingue).

Altro aspetto originale della guida di Cavadi è la presenza, accanto a brani letterari e sociologici di spessore, di pezzi umoristici. Non stupisce perciò che in questa guida vi sia posto per un dialogo esilarante di Ficarra e Picone o per considerazioni brillanti, sospesi tra il serio e il faceto, di autori meno noti. Ciò rende il libro oltre che istruttivo accattivante. E d’altra parte l’umorismo è un’altra chiave per meglio decifrare la palermitanità.

Come ogni buon guida, quella di Cavadi è agile: appena 172 pagine in formato tascabile al prezzo di 9,90 euro. Un’occasione per i turisti (e non solo) che vogliono scoprire la città nei suoi vari aspetti e attrazioni, anche quelli gastronomici, su cui pure si sofferma l’autore, e indagare sui suoi enigmi.

Il libro sarà presentato mercoledì 18 giugno alle 18,30 a Mondello presso il “Circoletto” di Fondo Anfossi.

domenica 15 giugno 2014

Conversazione su Palermo + cenetta al "Circoletto" di Mondello per mercoledì 18 giugno

Ho ricevuto questo gradito invito che socializzo, a mia volta, assai volentieri agli amici di Palermo e dintorni.


I N V I T O

Mercoledì 18 Giugno 2014 alle ore 18,30 presso “il Circoletto” di Fondo Anfossi (via Basilea 4, Palermo-Mondello), Augusto Cavadi presenterà il suo ultimo libro:

                        Palermo. Guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile
                                         (  Di Girolamo Editore, Trapani 2014 )

L’autore  intratterrà con i partecipanti un dialogo, un po’ serio e un po’ ironico, sugli argomenti del volumetto e condividerà la cena sociale come gradito ospite.
L’occasione si pregia di introdurre l’associazione, oltre che a momenti ludici e musicali, anche ad eventi culturali, volti a soddisfare le diverse esigenze degli associati e a promuovere la conoscenza del già prestigioso ex “Circolo del Bridge” in qualificati ambiti sociali.

Augusto Cavadi, filosofo consulente, scrittore, pubblicista, collaboratore del quotidiano “La Repubblica” è fondatore della “Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone”. E’ animatore di eventi culturali diversi, quali le “domeniche laiche” conviviali, le serate di “lettura condivisa”, le “cenette” filosofiche per non filosofi  e le vacanze etc.
 Ha scritto diversi libri e saggi di prevalente impegno civile, consultabili sul sito www.augustocavadi.com

P.S. : Si ricorda che, per gli ospiti, la cena ha un costo di  € 10 e  che gli amici di Augusto Cavadi che intendono fermarsi per la cena dovranno prenotarsi, contattando il socio Ruisi ai seguenti recapiti: Tel. 091-309051/091- 543735– cell. 3298783233 -  e.mail invia.posta@tin.it


                                                                                                                                              IL PRESIDENTE

sabato 14 giugno 2014

COSA SCRIVE (troppo generosamente) MARIA D'ASARO SUL MIO "LA RIVOLUZIONE, MA A PARTIRE DA SE'"


“Centonove” 13. 6. 2014-06-13

CAVADI E IL SENSO DELLA VITA





“Devi essere tu quel cambiamento che speri di vedere nel mondo”, affermava Gandhi nel secolo scorso. In armonia con l’esortazione del Mahatma, Augusto Cavadi nel saggio La rivoluzione, ma a partire da sé  (IPOC, Milano, 2014, € 16) si chiede se anche nella società odierna, “liquida” e senza certezze, valga ancora la pena impegnarsi per cambiare in meglio il mondo. La sua risposta è senz’altro positiva. Ed è argomentata in modo tale da parlare alla mente e al cuore del lettore, con un apprezzabile “understatement” comunicativo,  che evita toni e pretese da “guru”: è come se infatti l’autore ci prendesse amichevolmente per mano, proponendoci, quasi sottovoce, le sue ponderate riflessioni esistenziali.

Cavadi registra innanzitutto la crisi, nel mondo occidentale, di tutti i massimi sistemi: religioni storiche, ideologie politiche, fede nelle potenzialità degli individui. Ma, nonostante il crollo delle “grandi narrazioni”, con Vasco Rossi che mette persino in musica questa nostra incertezza “voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa  vita (e questa storia) un senso non ce l’ha”, l’uomo contemporaneo continua ad avere un’enorme “fame di senso”, come sottolineava con sagacia lo psicoanalista Victor Frankl, sopravvissuto ai lager nazisti. Ecco allora l’urgenza di trovarlo, un senso alla vita e di darsi anche un progetto per realizzarlo, perché non siano gli altri a decidere per noi: “è importantissimo prendere coscienza di ciò che, oggi, ispira la nostra esistenza (…): se scopriamo che si tratta di un valore reale (…) cercheremo di vivere con più coerenza il nostro progetto esistenziale; se al contrario scopriamo che si tratta di un valore troppo esiguo … gli concederemo minor spazio nell’economia della nostra esistenza”. Fondamenti essenziali su cui poggiare il proprio impegno nel mondo sono allora la fedeltà al reale, intesa come fedeltà alla Terra e alla Storia, la fiducia nell’essere umano, nonostante i suoi limiti e fallimenti, e la fiducia nell’Amore, anche senza un preciso e codificato orizzonte religioso confessionale.

Ci sono poi alcune condizioni necessarie perché la dimensione personale dell’impegno possa avere radici solide e profonde: la vigilanza intellettuale: “osservare ciò che accade nella storia; documentarsi (…), riflettere per farsi un giudizio critico”; la capacità di fruire della bellezza: “a che scopo liberare gli uomini della miseria economico-sociale se non per aprire loro una prospettiva sulla bellezza in tutte le sue manifestazioni?”; la cultura della sobrietà e del rispetto ecologico; il dialogo senza riserve fra tutti gli uomini. Perché possiamo mettere una “giunta” alla società e lasciarla un po’ migliore di come l’abbiamo trovata (il termine “giunta” è mutuato  dal vocabolario del nonviolento Aldo Capitini) Augusto Cavadi sottolinea poi l’opportunità che ognuno di noi rifletta, secondo la sua formazione e sensibilità, sulle parole e sugli esempi di vita di maestri quali Socrate, Buddha o Gesù Cristo,  e ricerchi in se stesso e stimoli negli altri “ciò che significa giustizia o bellezza, amicizia o santità”: perché una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.

L’autore ci esorta anche a impegnarci - nel nostro quartiere e nella nostra città, come in associazioni con un respiro e un raggio d’azione nazionale e internazionale - con un atteggiamento interiore contraddistinto dalla gratuità, dalla continuità, dalla socialità, dall’attenzione privilegiata agli ultimi, nella consapevolezza però che “se sono uno studente che non studia, un docente che non si aggiorna, (…) un commerciante che evade il fisco, un funzionario che accetta tangenti … non ho il diritto di illudere me e gli altri attraverso alcuna forma di volontariato”. E, dopo aver sottolineato con le toccanti parole di Giacomo Ulivi, il partigiano ucciso a 19 anni per il suo impegno antifascista, la necessità della partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica, l’autore suggerisce alcuni criteri per restituire lievito e sostanza all’impegno politico: l’importanza di scegliere rappresentanti politici dotati di un buon bagaglio intellettuale e morale, capaci di operare delle scelte coraggiose, pronti a rischiare l’insuccesso (“ciò che dobbiamo cercare è la vittoria delle cause giuste, non la vittoria in quanto tale”), decisi a scegliere la nonviolenza come metodo ordinario di lotta, capaci di coniugare la micro-politica con gli orizzonti internazionali.

Nelle ultime pagine del saggio, davvero illuminanti  le riflessioni con cui l’autore ci invita a superare, proprio al fine di realizzare la rivoluzione a partire da sé, “la schizofrenia sociale per cui si è cristallizzata una rigida divisione del lavoro fra ‘contemplativi’ e ‘tecnici’ (…) mentre: “un’antropologia lucidamente attenta a tutte le sfaccettature dell’essere umano non può esimersi dall’elaborare una sempre più approfondita filosofia della prassi: non per contrapporre contemplazione e azione, ma per evidenziare la loro comune radice, la loro reciproca appartenenza e il loro unico fine”. Alla fine Cavadi ci presenta alcuni “compagni di viaggio”: testi letterari, filosofici e religiosi ai quali è debitore per le sue scelte “rivoluzionarie”. A questo punto, per approfondire adeguatamente modelli, metodi e prospettive della rivoluzione a partire da sé, forse alle cento pagine del libretto se ne sarebbe addirittura dovuta aggiungere qualcuna in più. Il testo è comunque un ottimo spartito in cui la partitura musicale dell’impegno è suggerita con grande maestria. Sta a noi lettori arricchire i suggerimenti di Cavadi con le nostre consapevoli “note” esistenziali.                                                 Maria D’Asaro (“Centonove” n.23 del 13.6.2014, p.32)

venerdì 13 giugno 2014

Il dialogo con Orlando Franceschelli continua...

...sul sito www.tuttavia.it di giovedì 12 giugno 2014.
Queste pagine sono particolarmente dedicate ai partecipanti alla Festa della filosofia d'a-Mare che si è svolta a Favignana dal 2 al 4 maggio 2014.


“Tuttavia.it”
12.6.2014

 L’universo ha un creatore provvidente o è una fucina autogena di vita ?  E – di conseguenza – l’essere umano è il punto di arrivo di un progetto intelligente o piuttosto uno degli innumerevoli prodotti casualmente emersi a un certo punto dell’evoluzione? E – infine -  la morte per il soggetto individuale  costituisce un passaggio verso la vita piena o, al contrario, la dissoluzione senza ritorno? Orlando Franceschelli, filosofo romano già noto per i suoi testi dedicati a Karl Loewith e a Charles Darwin, nella sua ultima opera (Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Donzelli, Roma 2014) espone, in forma quasi sistematica, le proprie risposte a tali ineludibili questioni.
   L’opzione metodologica è il “criterio epistemologico della plausibilità”(p. 4): una teoria filosofica  può “legittimamente pretendere” di essere riconosciuta come plausibile se “soddisfa il duplice requisito della compatibilità  con la scienza e della validità argomentativa” (p. 14).  Tale prospettiva “sollecita non solo a praticare scrupolosamente il principio di carità interpretativo”, ma anche “la disponibilità a rivedere le proprie tesi” (ivi).
   Tra le teorie filosofiche che rispettano il criterio della plausibilità l’autore rivendica un posto per il “naturalismo (e ateismo) metodologico” (p. 18): spiegare gli eventi naturali iuxta propria principia, senza far ricorso a “entità e fattori soprannaturali” (pp. 20 – 21). Seguendo questa direttiva metodologica si arriva ad una  visione del cosmo caratterizzato da “autarchia ontologica, contingenza evolutiva e sovrumanità della realtà fisica” (p. 22). Coerente con questa cosmologia risulta l’antropologia: l’uomo non più capax Dei bensì capax naturae (cfr. pp. 27 – 31). “L’antropologia dell’ecoappartenenza”  implica, tra altre caratteristiche, “la consapevolezza che l’uomo e la sua storia non costituiscono il fine dell’esistenza e dei processi evolutivi della natura, il cui accadimento si protrarrà – con le stesse sterminate vicissitudini temporali di quando ancora non c’eravamo – anche dopo che noi non ci saremo più. Con ogni probabilità neppure come specie e certamente come individui destinati a morire” (pp. 71 – 72).
       Una concezione del cosmo e dell’uomo di tal genere esclude qualsiasi ipotesi di felicità? Franceschelli lo nega con fermezza e, a riprova, delinea una vera e propria “etica dell’ecoappartenenza” (p. 73) incentrata sull’impegno a   “ricercare, definire e vivere una felicità  che effettivamente sappia alimentarsi, per quanto ci è possibile, di piacere, saggezza e virtù. E perciò sappia essere anche concretamente solidale” (p. 139). Un impegno che si lascia riassumere nella Regola Aurea che l’autore propone di riformulare così: “fai per la fioritura della felicità degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la fioritura della tua felicità” (p. 154). Nonché di estendere “i diritti al benessere e alla felicità anche agli altri animali non umani ma senzienti, in sintonia con prospettive morali non più antropocentriche e speciste ma sensiocentriche” (ivi).
       La “saggezza della felicità possibile e solidale” non esclude “la conspevolezza e la memoria della sofferenza o memoria passionis, per dirlo con questa  pregnante nozione usata dai teologi quando opportunamente invitano a far rientrare anche  <<l’autorità dei sofferenti>> tra le voci dell’odierno pluralismo. Si tratta appunto non di una contrapposizione ma di un legame, nel senso che continuare ad aspirare alla felicità anche quando si prova sofferenza e ad essere consapevoli e memori di ogni sofferenza anche mentre si è felici, consente di vivere tutta la propria felicità in un modo ancora più sereno, gradevole e autentico” (p. 156). 
                                                         ***
   Come tutti i libri meditati a lungo, e altrettanto a lungo sperimentati esistenzialmente, questo di Orlando Franceschelli suscita miriadi di riflessioni e di domande.
    La prima non può non riguardare l’impianto epistemologico: se una teoria (nel nostro caso il naturalismo) risulta “plausibile”, significa che si affianca ad altre possibili teorie altrettanto plausibili o che le esclude?  Nel testo mi pare di cogliere in proposito una certa oscillazione: talora sembrerebbe che l’autore chieda “soltanto” diritto di cittadinanza alla propria prospettiva al pari del creazionismo monoteistico, talaltra che neghi tale par condicio al creazionismo monoteistico. Forse l’apparente contraddizione si scioglie ammettendo che, in linea di principio, ci potrebbero essere per l’autore anche altre teorie plausibili sul mondo e sull’uomo; ma che in linea di fatto il creazionismo monoteistico non rientri fra queste altre possibili teorie plausibili.
    Questa ipotesi interpretativa suggerisce ai pensatori creazionisti una seria revisione della propria proposta teoretica. Questi ultimi, infatti, tendono quasi sempre a suffragare la propria tesi della dipendenza ontologica, radicale costante, del mondo da Dio sulla base della Bibbia (tradotta, magari, in linguaggio tecnicamente filosofico). Ma è un procedimento due volte fragile. Prima di tutto perché, in sede esegetica, si è appurato che la Bibbia non propone una creatio ex nihilo bensì una sorta di plasmazione della materia caotica originaria con cui Dio stesso per così dire si affatica. Secondariamente perché, ammesso e non concesso che la Bibbia professasse la creatio ex nihilo,  una professione di fede non possiede nessuna plausibilità (nel doppio senso illustrato da Franceschelli: compatibilità con le acquisizioni scientifiche e rigore logico-argomentativo). Conclusione sul tema: il monoteismo creazionistico non va presentato come un dato di fede, ma come una delle teorie filosofiche elaborate nell’alveo della tradizione cristiana (indubbiamente suggestionata da intuizioni poetiche contenute nei Testi canonici), la cui attendibilità è affidata esclusivamente alla sua “plausibilità”. Al punto che si potrebbe essere cristiani (o ebrei o musulmani) pur non condividendo il monoteismo creazionistico e si potrebbe condividere il monoteismo creazionistico senza essere cristiani (o ebrei o musulmani). Chiarisco questo aspetto metodologico non per risolvere la questione che pone Franceschelli (la natura o è autarchica ontologicamente o non è natura: la nozione di “natura creata” è una contradictio in adiectis), ma per indicare il piano corretto (a mio avviso) su cui discuterla.
     Se sul piano teoretico Franceschelli non appare per nulla morbido con i credenti cristiani, molto più conciliante si mostra sul piano etico. Egli infatti dedica un intero paragrafo (pp. 48 – 53) a una sorta di alleanza pratica con i discepoli del vangelo (che, per via dell’equivoco appena segnalato e di cui il pensiero cristiano è il primo responsabile, Franceschelli identifica tout court con i sostenitori del “teorema-creazione”): “Provare a dirsi il meglio tra simili del samaritano: per una laica e solidale civiltà del dialogo” (p. 48). Da una parte, dunque, l’autore sollecita i “naturalisti” come lui “a un compito propositivo che per essere realmente assolto ha bisogno non tanto di militanza anti-teista, ma del conforto  di evidenze empiriche, di argomenti validi, di condotte pratiche che sobriamente comunichino la plausibilità e la saggezza del naturalismo anche a chi naturalista non è”; dall’altra, poi, chiede ai credenti “un analogo atteggiamento di costruttiva laicità che l’odierno pluralismo richiede anche a ogni testimonianza di fede realmente adulta, ossia impegnata anch’essa a ceracre ragioni plausibili al proprio credere” (p. 50).
    A margine di questa proposta di alleanza sinergica mi limito a due sole osservazioni. Franceschelli avrebbe potuto essere sia più esigente che più riconoscente con gli interlocutori cristiani. Più esigente su un tallone d’Achille dell’etica cristiana: l’insensibilità verso gli altri viventi (dal momento che l’antropocentrismo biblico coniugato con l’umanesimo greco ha finito col privilegiare “le capacità razionali e discorsive” dimenticando “quelle di provare dolore e piacere, innegabilmente possedute anche dagli animali non umani ma appunto senzienti” (p. 154).  Più riconoscente riguardo alla testimonianza storica  del mondo cristiano sul versante della solidarietà sociale. Infatti, a mio avviso, se è vero che  - sulla carta – naturalisti e credenti nel vangelo concordano “nell’ammonimento della Regola Aurea a fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi stessi” (p. 49), in concreto la saggezza naturale induce i filosofi a porre dei limiti abbastanza netti alla propria autodonazione oblativa. Non perché non vogliono fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a loro; solo che non si aspettano che qualcuno  - dopo averli filantropicamente sostenuti in varie necessità – sia perfino disposto a dare la vita per loro. Tra i tanti che hanno notato questo surplus motivazionale dei credenti sugli altri un intellettuale, come Paolo Flores D’Arcais,  che non eccede in indulgenza con le chiese cristiane: “praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’eguale dignità non resti retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un  Altro (inteso proprio come Dio padre). […]. La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità” (P. Flores D’Arcais, Dio esiste?, “Micromega”, 2/2000, p. 40).

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 12 giugno 2014

L'INEDUCAZIONE SESSUALE NELLE SCUOLE


“Repubblica – Palermo”

12.6.2014

 

LA BABY-MAMME E IL SILENZIO DELLA SCUOLA

    Secondo gli ultimi dati Istat (relativi all’intero anno 2012) nella sola provincia di Palermo 433 ragazze (dai tredici ai diciannove anni) hanno partorito un figlio. Poche di loro sono sposate o con un compagno stabile: ancora meno hanno scelto, e non subìto occasionalmente, la maternità. Che infanzia – e in prospettiva che vita – attenda questi neonati è facile immaginarlo: e non solo nelle fasce economicamente e socialmente più deboli della popolazione. La situazione non è molto differente nel resto dell’isola, soprattutto dove la presenza di ragazze immigrate alza ulteriormente la media statistica. Se si sommano a questo numero gli aborti (ufficiali e clandestini) si  arriva a un quadro che non dovrebbe lasciare indifferenti.
      Da una prospettiva emergenziale, attenta più agli effetti che alle cause, ci si attenderebbe innnanzitutto una mobilitazione delle strutture sanitarie. Secondo l’allarme lanciato recentemente ad un congresso della CGIL, a Palermo è stato chiuso anche l’ultimo consultorio di via Massimo D’Azeglio e l’ottanta per cento dei ginecologi, operanti in cliniche pubbliche o convenzionate, si dichiarano obiettori di coscienza rispetto alla legge 194 del 1978 (che regola attualmente le interruzioni volontarie di gravidanza).  Sarebbe interessante verificare quanti tra questi medici-obiettori si astengono davvero dall’intervenire clandestinamente  nei casi in cui vengano interpellati da parenti, amici o da clienti particolarmente facoltosi.
        Se, comunque, si possono ammettere divergenze di opinioni sul versante del “dopo”, è davvero incomprensibile e intollerabile che non si registri unanimità di intenti e di strategie effettive in fase preventiva. In particolare, colpisce la latitanza pedagogica della scuola. Con ipocrisia tutta italiana, si lascia a qualche spiegazione occasionale del professore di biologia o della professoressa di religione l’onere di colmare alcune lacune madornali: per il resto, silenzio. I frutti avvilenti di questa politica non potranno che riprodursi anno dopo anno.
       Non si tratta di una questione da affrontare dilettantisticamente e ci si può augurare che, nei mesi estivi, le agenzie educative più sensibili approntino dei progetti meditati per la ripresa autunnale. Innanazitutto c’è da agire sul piano elementare dell’informazione: presentare, senza tecnicismi, la dimensione sessuale dell’essere umano dal punto di vista della fisiologia e della psicologia, con un panorama dei metodi contraccettivi sinora approntati dalla ricerca scientifica. Anche in questo campo, però, la scuola non può non ordinare i dati informativi alla formazione critica dell’alunno:  che, in concreto, significa stimolare una valutazione personale del come, quando, con chi realizzare la propria genitalità e, più ampiamente, la propria affettività. In una società multiculturale questa fase di riflessione etica non può certamente essere delegata a esponenti, per quanto preparati, di una confessione religiosa: chiunque si candidi a svolgere questo genere di educazione sessuale dovrebbe farlo solo in una prospettiva laica. Che non significa, ovviamente, polemica verso questa o quella tradizione teologica, bensì di evidenziazione dei punti comuni e di onesta rappresentazione delle opinioni divergenti. Ormai esiste una discreta letteratura sull’argomento che può servire da base per conversazioni realmente libere fra docenti e allievi. L’essenziale, comunque, dopo più di due secoli resta l’avvertenza di Rousseau: quando si avanzano delle proposte che riguardano la morale, l’insegnante deve guardarsi particolarmente dall’assumere toni cattedratici e ancor meno prevaricatori. Molto meglio offrire le poche certezze e i molti interrogativi che, anche da adulti, ci pone la dimensione sessuale e sentimentale dell’esistenza.

Augusto Cavadi
  www.augustocavadi.com

venerdì 6 giugno 2014

Ci vediamo in Liguria da venerdì 13 a domenica 15 giugno 2014 ?


BUONA LETT(erat)URA
piazza della piccola editoria indipendente

ANDORA – GIARDINI DI PALAZZO TAGLIAFERRO
14 – 15 GIUGNO 2014
con il patrocinio del COMUNE DI ANDORA
e la collaborazione di PENTAGORA EDIZIONI


ESPOSIZIONE-MERCATO DI LIBRI
DI NARRATIVA, POESIA E SAGGISTICA
REALIZZATI ALL’INSEGNA DELLA CURA E DELLA BUONA QUALITA’ EDITORIALE

HANNO ACCOLTO L’INVITO
Araba Fenice (Boves), Di Girolamo (Trapani), Edizioni della Decrescita Felice (Roma), Edizioni del Foglio Clandestino (Sesto San Giovanni), Gorilla Sapiens (Roma), Il Pozzo di Giacobbe (Trapani), Keller (Rovereto), Leucotea (Sanremo), Libreria Editrice Fiorentina (Firenze), Pentàgora (Savona), Philobiblon (Ventimiglia), Ricca (Roma), San Marco dei Giustiniani (Genova), Scrittura Pura (Asti)

-       nel piano nobile di Palazzo Tagliaferro, si svolgerà la mostra antologica di Alessio Delfino
Photographier les yeux fermés rêves les yeux ouverts

-       Sabato 14, 18:30 presentazione di Parole di terra. Dal saccheggio della terra al ritorno della comunità, di Pierre Rabhi (Pentàgora 2014), a cura di Maurizio Pallante.

-       Sabato 14, 20:30 presentazione di Cucinare il giardino, di Libereso Guglielmi (Zem 2014).




In contemporanea, nel corso delle due giornate, si svolgerà l’incontro:


Incontro Nazionale di Riflessione e Condivisione
promosso dal Movimento per la Decrescita Felice
ospitato da Palazzo Tagliaferro e Associazione Whitelabs, nell’ambito della rassegna estiva Sguardi Laterali


Ad Andora (SV), Palazzo Tagliaferro, il 14 e 15 giugno sono attesi due giorni di riflessione e condivisione intorno al tema “arte e decrescita”,  promossi dal Movimento per la Decrescita Felice.

L’iniziativa cade un anno e mezzo dopo la pubblicazione del Manifesto ‘Arte e Decrescita’, per segnare un passo nella riflessione artistica, filosofica ed estetica sui punti critici dell’innovazione, della compulsione all’originalità, della modernità.

‘Una delle malattie del nostro paese è la scarsità di visioni politiche in materia di architettura, edilizia e urbanistica che hanno lasciato questo spazio, così strategico per la nostra identità culturale e ambientale, nelle mani di specialisti privi di responsabilità e attenzioni per il bene della comunità nel suo insieme’. Lo smarrimento di un orizzonte simbolico e il conseguente abbraccio del principio di casualità o – di segno solo apparentemente opposto – del più ferreo determinismo condannano il nostro tempo alla perdita di senso e alla disintegrazione del legame profondo che unisce – e, in un certo senso, rende sinonimi – la bellezza e il bene comune.

L’incontro di articola in due momenti:
-       il sabato 14 pomeriggio (15-18), quattro seminari contemporanei curati da
Maurizio Pallante, Innovazione e compulsione all’originalità
Giannozzo Pucci e Lèon Krier, Urbanistica, architettura e decrescita
Alessandro Pertosa, Arte ed entropia
Massimo Angelini, Lo smarrimento della prospettiva nella contemporaneità;
-       la domenica 15 mattina (10-13), plenaria con condivisione dei lavori seminariali e dialogo sui temi affrontati, e rilancio del Manifesto  ‘Arte e Decrescita’.

Per ciascun seminario è previsto il limite di 20 partecipanti che saranno inseriti in ordine di iscrizione.
La partecipazione è gratuita e aperta a tutti. La preiscrizione ai seminari può essere fatta attraverso il form http://doodle.com/wkr6ydcq6s6kw86b
Per informazioni: Luigi Giorgio (luigi.giorgio.lg@gmail.com - 348.5809209)