sabato 6 settembre 2014

I PALERMITANI ( GLI ITALIANI ? ) E I LIBRI

“Repubblica – Palermo” 6 . 9. 2014

I PALERMITANI  (O GLI ITALIANI ? )  E I LIBRI

        E se i palermitani odiassero i libri? Dell’intervento di Rubina Mendola (“Repubblica” del 4 settembre) mi ha convinto tutto, tranne il verbo nel titolo redazionale. “Odiare” è infatti, come è noto, l’altra faccia dell’amare; implica un vivo interesse per l’oggetto; esprime passione o per lo meno sentimento. Tra i miei compagni di scuola prima, tra i miei alunni dopo, in più di mezzo secolo non mi è mai capitato di registrare tanta attenzione verso i prodotti tipografici. Il palermitano medio non è “contro” i libri: egli piuttosto ne prescinde senza nessuna animosità. Vive come se essi non esistessero. Se ne accorgono o quando devono arredare una parete troppo nuda a casa o quando qualche stravagante, sull’autobus o in treno, ne sfoglia un esemplare. I nazisti avrebbero avuto difficoltà ad accendere dalle nostre parti i roghi con i testi ebraici: pochi avrebbero ritenuto opportuno sprecare il cerino per una montagna di carta.
     Diagnosi  e terapia di questa disaffezione cronica, accennate dall’articolo,  possono essere ovviamente ampliate. Un primo elemento accomuna la nostra città al Mediterraneo cattolico: laddove nell’Europa continentale, dalla Riforma di Lutero in poi, imparare a leggere la Bibbia  è stato il primo dovere del fanciullo, sino al Concilio Vaticano II (1962 – 1965) la Chiesa cattolica ha vietato, e poi fortemente sconsigliato, ai fedeli la lettura personale dei Testi sacri. Se Scrittura e breviari sono in mano ai preti, perché noi laici dovremmo occuparcene?
      Un secondo fattore è da individuare nel sistema scolastico. La pedagogia tuttora imperante misura la quantità delle nozioni apprese dall’alunno, meno la qualità della sua ricerca di nozioni. So che non è facile credermi, ma in più di un’occasione mi sono trovato in minoranza nel giudizio finale di alunni che i colleghi volevano premiare per la stessa ragione che mi spingeva a penalizzarli: avevano imparato tutto a memoria. Il testo in adozione nella classe diventa così, soprattutto per le intelligenze più vivaci,  sinonimo di strumento di tortura: perché sperare che venga ricercato anche dopo l’età scolastica?
    Un terzo fattore è costituito senza dubbio dai condizionamenti familiari. Quando un genitore chiede, sconfortato, cosa possa fare per invogliare il figliuolo alla lettura, la mia risposta è banalmente monotona: “Ogni tanto, apra un libro e  si faccia scoprire mentre legge”. In case non solo proletarie si usa accendere il televisore la mattina a colazione e spegnerlo solo la sera, prima di ritirarsi a dormire: perché meravigliarsi che, insieme al dialogo intrafamiliare, venga compromesso ogni desiderio di dialogo con i classici della letteratura?
     Aggiungerei un quarto fattore, per così dire sociale. Per chi la pratica come per chi la evita, la lettura è comunque un esercizio individuale. Questa dimensione intima, solitaria, è l’unica possibile e auspicabile? Da molti anni ormai mi capita di partecipare a incontri serali periodici  - di alcuni dei quali sono stato anche promotore – il cui perno non è il bridge o la proiezione privata di un film, bensì in commento di un libro assegnatosi di comune accordo la volta precedente.  Ho constatato che, con questi ritmi,  la passione di alcuni per i libri diventa contagiosa. All’inizio si partecipa a questi appuntamenti un po’ per noia, un po’ per curiosità, un po’ perché si desidera uscire dal letargo culturale della routine borghese; poi, vedendo quanto piacere hanno sperimentato altri nella lettura e con quanta partecipazione emotiva ne condividono le risonanze, si è indotti a rompere l’embargo auto-impostosi e a varcare le soglie di una libreria. Spesso il passo è fatale. Si entra per cercare il libro prescelto dal proprio giro di amici e si inciampa su un titolo accattivante, finendo con l’uscire con due o tre volumi in saccoccia.
      Là dove questa dipendenza psicologica dal libro si attiva c’è solo, ovviamente, da rallegrarsi. Tuttavia, a mio avviso, i frutti più fecondi si hanno quando l’amore per i libri ci porta oltre i libri: quando avvertiamo il desiderio di sperimentare nella nostra piccola o grande storia le convinzioni maturate e riusciamo a diffondere intorno a noi una piacevole sensazione di saggezza.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

3 commenti:

Anonimo ha detto...

aprire un libro ieri come oggi rimane un atto di ribellione. nessun paradosso per chi conosce la storia della trasmissione culturale nel nostro paese. ragazzi abbiate il coraggio della rivolta: LEGGETE!

Vittorio Riera ha detto...

A proposito dell’articolo di Augusto Cavadi “I palermitani ignorano i libri”

Riprendendo l’articolo di Rubina Mendola “I palermitani odiano i libri” (Palermo-Repubblica del 4 settembre u. s,), Augusto Cavadi, firma storica di Repubblica Palermo, si chiede alla luce della nota di costume (o, a mio parere, di malcostume) secondo cui i palermitani tengono acceso il televisore dalla mattina alla sera senza peraltro ascoltarla, aggiungiamo noi, e con spreco quindi di energia e contributo all’inquinamento non solamente acustico, Cavadi quindi si domanda e ci domanda: “Da dove dovrebbe arrivare l’invito alla lettura?”
Certo, con questi chiari di luna, la domanda potrebbe cadere nel vuoto, nel senso che si sarebbe tentati dal rispondere sconsolatamente “da nessuno”. Non dagli insegnanti prigionieri come sono – o come ritengono di essere – dei programmi (oltre che dei presidi); non dalle famiglie affaccendate appunto ad ascoltare la televisione accesa soltanto, per fortuna, con funzione di sottofondo, salvo poi andare a chiedere lumi circa il fatto che i loro figli non leggono (anche a chi scrive, quando insegnavo, che capitava di chiedere a sua volta: Signora, e lei legge? suo marito prende in mano un libro anche per far finta solamente di leggere? No? E allora, che va cercando? concludevo bruscamente. Legga e vedrà che qualcosa ne uscirà fuori); non dalle librerie che hanno, in genere, la necessità di vendere e quindi di sopravvivere trascurando altri aspetti essenziali per la solo sopravvivenza (a Parigi, quando alcuni ani orsono, la visitai, una gande libreria che si estendeva in altezza lungo 5 piani, aveva il settore di libri usati per ragazzi e cioè i futuri potenziali lettori e quindi acquirenti; a Palermo, invece, la ritengono quasi un’offesa farsi indicare lo spazio riservato ai libri di seconda mano).

Vittorio Riera ha detto...

(Continua il commento precedente)
Potremmo continuare lungo quella falsariga. Pure, una risposta, vogliano tentare di darla a Cavadi e rispondiamo subito che l’invito a leggere dovrebbe giungere ancora una volta anche dalla scuola. E non perché si debba ritenere la scuola la panacea, il toccasana di tutti i problemi sociali, ma perché proprio la scuola e, per essa, gli insegnanti, tutti gli insegnanti che operano all’interno del gruppo classe – e sottolineiamo tutti – è delegata in maniera specifica a questa funzione, alla funzione cioè di far nascere nei bambini e nei ragazzi il gusto alla lettura. Solo che questa delega non deve averla, a nostro parere, soltanto l’insegnante di lettere, com’è d’uso, ma tutti – e torniamo a sottolineare tutti – i docenti, da quello di matematica a quello di filosofia, di psicologia, di sociologia, di economia, da quello di chimica a quello di fisica, storia, geografia e così proseguendo. Oggi, peraltro, i testi in uso sembrano suggerire una direzione del genere. Abbiamo sfogliato testi di matematica per le scuole medie con interessanti schede biografiche di matematici non soltanto dell’antichità o con aneddoti e indovinelli riconducibili a tali grandi pensatori o con intere pagine tratte dalle loro opere; ma quanti dei docenti ricorrono a questi strumenti che si configurano come contributo a far nascere l’amore per la lettura? Da una piccola indagine da me fatta interpellando 10 ragazzi i cui libri avevano letture del genere, il risultato è stato deprimente: zero. Ma, si potrà obiettare, non tutti i testi presentano letture del genere. Dubitiamo, ma se anche fosse così, chi o che cosa impedirebbe a un insegnante di filosofia di leggere qualche pagina di Kant invece di studiarne il pensiero solo sui libri di testo o di ascoltarne la spiegazione del docente di turno? Chi lo impedirebbe, qualche preside di corto intelletto del genere di quelli raccontati dallo stesso Cavadi nel suo libro Presidi da bocciare? Ma i presidi non c’entrano all’interno della libertà di insegnamento di cui godono ancora oggi gli insegnanti. L’importante è non scantonare e attenersi rigidamente alla materia che si insegna. L’importante è andare al di là del programma, arricchirlo di nuovi strumenti, nuove metodologie. Chiediamoci ancora: Chi impedisce a un insegnante, poniamo, di chimica di leggere la tragica vicenda di Lavoisier? Si farebbe anche storia, peraltro, e non importa che sia un insegnante di chimica a fare contemporaneamente una lezione di storia, o di biologia o di economia dal momento che il Lavoisier è stato anche biologo ed economista. Chi lo impedirebbe? Il preside censore, per ricorrere a un’altra categoria di presidi illustrata dal Cavadi? Ma il preside non c’entra per nulla con il modo di fare scuola di un insegnante. Lasciamolo pure con le sue numerose incombenze molte delle quali, sia detto per inciso, potrebbe benissimo delegare al segretario oggi elevato al rango di dirigente amministrativo. Possiamo interrompere qui i nostri esempi circa i mille modi per fare lettura a scuola e per invogliare i ragazzi a leggere. Basta che gli insegnanti escano dalla loro rigida liturgia e non considerino i programmi dei feticci dinanzi a cui inchinarsi e i presidi dei totem dinanzi a cui scappellarsi.

VITTORIO RIERA