sabato 29 novembre 2014

CI VEDIAMO A PALERMO DOMENICA 30 NOVEMBRE 2014 ALLE ORE 10,30 ?


Domenica 30 novembre alle  ore 10,30 -  presso i locali della Comunità Cristiana El Shaddai di via C. Beccaria 9 (vicino Palazzo Gamma, di fronte al Velodromo di Palermo) - terrò, all'interno della celebrazione liturgica festiva, una riflessione biblica sul tema "Le beatitudini evangeliche: significato originario e strumentalizzazione ideologica".

venerdì 28 novembre 2014

CI VEDIAMO A PALERMO SABATO 29 NOVEMBRE 2014 ALLE ORE 17,00 ?

Sabato 30 novembre, alle ore 17.00, nell'ambito di una Giornata di studio sul "Libro Rosso" di C. G. Jung,  presso il prestigioso Palazzo Alliata di Villafranca (nella piazza Bologni di Palermo), terrò una conversazione sul tema: "Il Libro rosso e la faticosa ricerca di una spiritualità laica"
Chi lo desidera può partecipare, gratuitamente, all'intera giornata (dalle 9,00 del mattino sino alle 18,30) nel corso della quale relazioneranno Livia Di Stefano, Ferdinando Testa e Vincenzo Guzzo.
Come potete intuire dai nomi degli altri tre relatori della giornata, sarò un...infiltrato nel magico e labirintico mondo degli junghiani. Ma il filosofo-consulente non può scegliere le tematiche: deve accettare di portare il contributo della propria riflessione là dove qualcuno lo convoca...
 

giovedì 27 novembre 2014

UN FIGLIO DEL BOSS GRAVIANO PUO' CRESIMARSI IN CATTEDRALE ?


“Repubblica – Palermo”
25.11.2014

QUELLA ESCLUSIONE SI E’ RIVELATA UN ERRORE

    D’accordo: sapere che porte della Cappella Palatina si aprano per celebrare le nozze della nipote del latitante Messina Denaro non è una bella notizia. Né sarebbe risuonata elegante la notizia del conferimento del sacramento della cresima al figlio di uno dei due fratelli Graviano in quella stessa Cattedrale che ospita le spoglie di don Pino Puglisi, assassinato proprio su ordine del padre del cresimando. Ma siamo sicuri che la decisione migliore sia di impedire alcuni accessi ecclesiastici a eredi di famiglie mafiose?
    Premesso che solo gli stupidi trovano risposte semplici a domande difficili, va però aggiunto che sarebbe ancor peggio evitare di porsi le domande difficili per evitare di dare risposte sbagliate. Nel nostro caso mi pare che il divieto di accesso alle chiese ai familiari dei mafiosi sia controproducente da più punti di vista.
    Innanzitutto perché non è giusto che le colpe dei padri ricadano automaticamente sui figli e la percezione di un’ingiustizia subita può indurre un familiare indeciso, specie se giovane, a propendere verso la china dell’illegalità criminale piuttosto che verso la cima della legalità democratica. Secondariamente perché sopprimere i sintomi oscura ulteriormente diagnosi e terapie. Molto più istruttivo sarebbe, invece, risalire dalle conseguenze alle cause: e su queste agire con incisività. Gli scenari ipotizzabili in proposito sono, essenzialmente, due.
     Secondo il primo, due fidanzati chiedono il matrimonio cattolico o un adolescente il sacramento della confermazione senza che nessun prete gli abbia spiegato, in fase di preparazione, l’incompatibilità fra il vangelo e la lupara. Se così fosse avvenuto; se la catechesi si riducesse a una spruzzatina di formule dottrinarie o a qualche generico invito ad essere compassionevoli a natale con i bambini poveri, senza sollevare interrogativi scomodi sui meccanismi sociali che producono ingiustizia e corruzione; che responsabilità avrebbero i giovani di famiglia mafiosa nel bussare alle porte delle parrocchie?
     Secondo uno scenario alternativo, a fidanzati e candidati alla cresima si dovrebbe spiegare con chiarezza che la sequela di Cristo è una sequela entusiasmante ma impegnativa; che comporta una chiara opzione per  gli sfruttati, per i minacciati, per i deboli; che non si possono servire due padroni, il Dio della condivisione fraterna e il Satana dell’accaparramento ingiusto dei beni altrui.  Se ciò avvenisse  - o se avvenisse più spesso di quanto avvenga per ora nel Meridione italiano –  la pratica religiosa cesserebbe di essere un fatto burocratico e folcloristico a cui accostarsi, sia pur episodicamente, per tradizione e per conformismo. In questa ipotesi  - e solo in questa ipotesi – avrebbe senso per le chiese cristiane sia accogliere festosamente i figli di boss che dichiarassero pubblicamente la propria distanza dalla mentalità mafiosa familiare (Peppino Impastato è stato il primo, ma non l’unico, a farlo in questi decenni); sia invitare quanti si rifiutassero di esternare il proprio dissenso morale dal proprio ambiente di provenienza, e si intestardissero nel perseguire le orme paterne, ad accontentarsi di un rapporto individuale con Dio, senza chiedere la mediazione orizzontale di una comunità che si ritiene chiamata a dare una testimonianza collettiva e organica di un modo di vivere radicalmente altro rispetto alla sete di potere e di denaro che caratterizza, da sempre, le associazioni mafiose. Non si tratterebbe, insomma, di scomunicare attivamente qualcuno, bensì di fargli prendere coscienza del fatto che si è già collocato da sé, autonomamente, fuori dalla comunità dei “poveri di Javhé”.

Augusto Cavadi

domenica 23 novembre 2014

INVITO A DIALOGARE VIA MAIL, FB O SETTIMANALE CARTACEO


“MONITOR” 17.10.2014

CI FACCIAMO QUALCHE BELLA RAGIONATA ?
         Comunemente la filosofia viene considerata una disciplina scolastica : alcuni la ricordano astrusa, noiosa e del tutto priva di incidenza nella vita effettiva; altri ne hanno un ricordo più gradevole ma comunque sfocato; la maggior parte delle persone, poi, non ha alcuna idea precisa perché a scuola non l’ha studiata né male né bene.
   Prima di diventare una materia universitaria e di alcuni indirizzi scolastici, la filosofia è stata per millenni un modo di vivere: Socrate, Platone, Epicuro, sant’Agostino, Pascal, Spinoza, Locke, Marx…non sono mai stati professori. Erano soldati o preti, scienziati o pulitori di occhiali, medici o  leader politici: vivevano la vita di ognuno, ma venivano chiamati ‘filosofi’ perché la vivevano con un atteggiamento mentale particolare. La vivevano col desiderio di interrogarsi, con tutti i mezzi possibili, sul significato di ciò che facevano, di ciò che li circondava, di ciò che accadeva: volevano sapere che significasse conoscere, amare, soffrire, essere giusti, provare piacere, morire. E tanto altro ancora. Anzi, per essere precisi: volevano sapere tutto ciò che si può sapere, a cominciare dal perché alcune cose le sappiamo con certezza e tante altre le ignoriamo con altrettanta certezza.
   Persone così innamorate del sapere, così curiose, così felicemente o doloramente inquiete ne troviamo anche oggi in tutti gli strati sociali e in tutti gli ambienti sociali: chi di noi non conosce un calzolaio o un avvocato, un venditore ambulante o un ingegnere, che non si accontenta del proprio mestiere ma ama pensare, leggere, confrontarsi con gli altri per andare sempre un po’ più in là di ciò che la gente accetta conformisticamente?
   Se anche fra i lettori di questo settimanale ci fosse qualche filosofo-per-passione (se ne trovano perfino fra i professori di filosofia, anche se raramente) , sarebbe bello provare a ragionare insieme utilizzando sia il sito web sia questa rubrica sull’edizione cartacea. Certo non si può trattare di una conversazione filosofica completa che è possibile solo se all’affermazione di uno segue l’opinione di un altro e poi il primo risponde e poi il secondo risponde alla risposta del primo…e così via. Possiamo però avviare delle riflessioni critiche che poi ognuno potrà sviluppare per conto proprio: o nel silenzio della propria stanza (dialogando con sé stesso) o trovando un interlocutore in carne ed ossa disposto a dialogare con lui (un marito, una figlia, un amico o un filosofo-consulente che abbia aperto uno studio proprio per accogliere professionalmente quanti cercano qualcuno con cui con-filosofare).
    Concretamente, allora, chi vuole ponga una questione che veramente gli sta a cuore, partendo da una situazione personale o sociale che sta attraversando e mi scriva all’indirizzo di posta elettronica (acavadi@alice.it) o lasci una lettera scritta a mano alla redazione di questo giornale. Vedremo insieme chi di noi vorrà poi riprendere la questione posta e partecipare alla discussione chiarificatrice in comune. Molto probabilmente l’integrarsi di più punti di vista, argomentati e non asseriti dogmaticamente, getterà sull’interrogativo iniziale (“Ha senso essere fedeli nei rapporti umani?” “Ha senso rischiare la vita per non pagare il pizzo?” “Che senso può riconoscersi in una malattia grave terminale?”…) un po’ di luce chiarificatrice. E, come dicono gli Orientali, meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 21 novembre 2014

UN VESCOVO ANTICONFORMISTA E UN GIOVANE MARTIRE DELLA CAMORRA


“Centonove”
21.11.2014

DON PEPPINO DIANA, VITTIMA DI TERRA DI LAVORO

     Il 2014 volge a conclusione e sarebbe davvero triste se passasse sotto silenzio, almeno fuori dall’area campana, il ventesimo anniversario dell’assassinio di don Peppino Diana (caduto sotto il fuoco della camorra il 19 marzo del 1994). Grazie al vescovo emerito di Caserta, Raffaele Nogaro, chi vuole ha adesso l’opportunità di leggere un breve ma denso volumetto (R. Nogaro, Peppino Diana. Il martire di Terra di Lavoro, Introduzione di Sergio Tanzarella, ll pozzo di Giacobbe, Trapani 2014, pp. 75, euro 7,00) che ne richiama il profilo biografico e, soprattutto, il significato civile e cristiano della testimonianza.
     L’autore, con poche ma efficaci pennellate, rappresenta il contesto in cui il delitto si è consumato: “A Casal di Principe, come in vaste zone della Campania, tanti interessi brutali fanno contrasto con le opere della carità. E’ la camorra. Non tanto un deperimento organico della società locale quanto una serpe che succhia il sangue della gente e mette il veleno nelle coscienze”.
     Don Nogaro, che sa per esperienza personale quanto sia difficile assumere un atteggiamento di opposizione al dominio mafioso (Sergio Tanzarella lo ricorda molto bene nella splendida Introduzione), tiene molto a sottolineare il coraggio anticonformistico del suo giovane prete (e di quella minoranza di preti che lo sostennero in vita): “La camorra sa bene come misurarsi con le forze dell’ordine e con le pattuglie armate, sa bene come incantare la magistratura e le ambizioni politiche dei rampanti locali. Rimane svigorita di fronte all’emergenza dello spirito e alla sollevazione delle coscienze. E non valgono tanto le denuncie piazzaiole e le manifestazioni scenografiche. Sono anzi applaudite queste forme di vistosità dagli stessi interessati, che sviluppano su di esse i loro punti di onore e le loro leggende memorabili”.  Ma che significa, in concreto, per un prete “sollevare le coscienze”? Significa abbandonare la logica introversa della cura dell’ovile per aprirsi alla logica estroversa del servizio alle pecore smarrite; deporre la mentalità del funzionario del tempio per convertirsi alla mentalità del diacono del territorio; lavorare per “la Chiesa del popolo, la Chiesa dei poveri, la Chiesa di tutti che considera peccati contro lo Spirito gli attentati contro la giustizia: evasione fiscale, assenze ingiustificate dal lavoro, disimpegno professionale, cultura della corruzione (intimidazioni, tangenti, estorsioni), raccomandazioni, interessi di lucro negli operatori sociali-sanitari-assistenziali, dispotismo politico piuttosto che professionalità del bene comune”.
     Se questa strategia pastorale fosse perseguita da tutti i preti, o per lo meno dalla maggioranza dei preti, don Peppino Diana sarebbe ancora vivo. Ma le chiese del Sud, nel loro insieme, non hanno voluto combattere il male della criminalità organizzata: “si sono rassegnate a forme di convivenza e di opportunismo”. L’eccezione dunque andava punita per evitare che la testimonianza diventasse contagiosa: “Giuseppe Diana, al fianco di Giuseppe Puglisi, è il riscatto delle nostre terre sempre oppresse, è l’anima pulita della nostra chiesa meridionale”.
     Come tutti i libri sinceri, anche questo suscita interrogativi impegnativi. Uno fra tutti: mafiosi e camorristi vanno scomunicati? Don Nogaro sostiene di no perché “la scomunica definisce la distruzione della persona, il fallimento totale della speranza. E la Chiesa delude profondamente quando scomunica”. Altri, come don Cosimo Scordato, autore del recente Dalla mafia liberaci o Signore ! (Di Girolamo, Trapani 2014), sono di parere opposto: la scomunica segna ed enfatizza un dato di fatto oggettivo, rimarca l’inconciliabilità della fedeltà al messaggio cristiano con la fedeltà ai dettami mafiosi. Forse esiste, anche se più faticosa, una terza via: rendere le comunità cristiane talmente fraterne, talmente libere dal potere e dal denaro, talmente appassionate alla difesa della legalità democratica e dell’ambiente naturale, da indurre i mafiosi ad auto-scomunicarsi. Sarà un giorno meraviglioso, se mai verrà, il giorno in cui camorristi e ‘dranghetisti si diranno: ma che ci andiamo a fare in chiesa? Là ci sono solo matti che vivono di poco per potersi aiutare a vicenda. Non c’è trippa per i gatti. Meglio provare ad infiltrarsi altrove…

                                                   Augusto  Cavadi
                                      www.augustocavadi.com

mercoledì 19 novembre 2014

IL SISTEMA DELLE TRUFFE IN ITALIA


“Centonove”
7.11.2014

L’ESERCITO DELLA TRUFFA

         Non è vero che l’Italia sia fanalino di coda in Europa da ogni punto di vista: quanto a numero ed entità di truffe ai danni delle risorse europee primeggiamo. Né è vero che la Sicilia sia fanalino di coda in Italia da ogni punto di vista: quanto a numero ed entità di truffe ai danni delle risorse europee primeggiamo. Come spiegano Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo in un libro immeritatamente trascurato (L’esercito della truffa. La Sicilia delle cricche e dei furbetti, Round Robin, Roma 2013, pp. 133, euro 12,00), “la Sicilia è la regione che ha beneficato in assoluto della quota maggiore di fondi nel periodo 2000 – 2006, ben 17 miliardi, addirittura cinque volte superiore al totale assegnato al Centro-Nord (3 miliardi e mezzo)”. Dovremmo essere un paradiso terrestre, ma non lo siamo: infatti “su 2.177 progetti finanziati ne sono stati conclusi   - al 30 giugno del 2011 – 186, con una percentuale (8,6 %) pari alla metà della media delle regioni del Mezzogiorno (16 %)”.
      Ovviamente le truffe ai danni dell’Unione Europea non sono le sole consumate dai nostri specialisti locali. Gli autori della ricerca giornalistica hanno l’imbarazzo di elencare in maniera completa le tipologie: corsi di formazione a misura dei…formatori, contact center fantasma, agenzie di scommesse capaci di alterare i dati da comunicare ai Monopoli di Stato, compagnie turistiche che acquistano uno yacht extra-lusso con i finanziamenti ottenuti per l’acquisto di ventiquattro imbarcazioni; cooperative attivissime solo sulla…carta; compagnie di assicurazioni con “finte vittime, finti incidenti, soldi veri”; “falsi promotori finanziari”; morti che risultano abbastanza vivi da riscuotere pensioni e altri emolumenti assistenziali; and so on.
      Se nel libro non ci sono dati cronologicamente più recenti è perché ”la truffa è un sistema così congegnato e perfetto, ormai, che si viene a scoprire dopo, molto dopo, quando il danno è stato fatto. Le Procure indagano in Sicilia sui fatti di cinque, sei anni prima”.  La diagnosi è chiara, molto meno evidente la strategia terapeutica: ma “già dare strumenti più efficienti agli investigatori, investire nella formazione del personale, accelerare i tempi dei processi” potrebbero costituire dei passi in avanti concreti. E, magari, a monte, insinuare fra la gente il dubbio che il denaro non dia la serenità a cui tutti aspiriamo. Soprattutto quando è sottratto all’uso comune.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

lunedì 17 novembre 2014

CI VEDIAMO MERCOLEDI' 19 NOVEMBRE A PALERMO ?

Alle 18. 30 (esatte !) di mercoledì 19 novembre , presso la libreria indipendente "Modusvivendi", presenterò “Palermo. Guida insolita alla scoperta di una città indecifrabile”(Di Girolamo, Trapani 2014, euro 9,90).

Nel corso della presentazione sarò felicemente interrotto dai commenti al pianoforte di Giorgio Gagliano e da letture di Arianna Gagliano

Vini offerti da Tasca d'Almerita sponsor di cultura.

domenica 16 novembre 2014

Perchè il Liceo di Castelvetrano (Trapani) non può avere l'aula magna intestata a Peppino e Rita


“Repubblica – Palermo” 13.11.2014



I SOFISMI DI UNA PRESIDE CHE NON AMA L’ANTIMAFIA





   I dirigenti scolastici non sono né migliori né peggiori della media dei cittadini. Dunque non può stupire che fra di loro ci siano pochi impegnati attivamente e sistematicamente contro il dominio mafioso; ancor meno numerosi collusi con esponenti di Cosa nostra; e una grande maggioranza di equilibristi che decidono di non stare né con la mafia né contro la mafia. Non può stupire, ma può lo stesso amareggiare. Così come ci amareggia apprendere che la preside del Liceo “Cipolla” di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro, abbia ignorato la delibera del Collegio dei docenti e del Consiglio d’Istituto di intitolare l’Aula Magna dell’Istituto a Peppino Impastato e a Rita Atria. Nell’impossibilità di contattare per telefono la signora Tania Barresi, che si è trovata più di una volta fuori ufficio da qualche minuto prima di essere chiamata dal centralino della scuola, dobbiamo accontentarci delle motivazioni riportate dalla stampa locale: “Fosse per me, intitolerei l’aula magna ad un uomo di cultura, sarebbe più proficuo per gli studenti”.
   Se fosse una discussione serena e seria si potrebbe obiettare che Peppino Impastato è stato, anche, un uomo di cultura (giornalista, poeta, politologo, animatore di iniziative culturali) e che la stessa Rita Atria, con la sua decisione di passare dalla parte di Paolo Borsellino, ha inciso nella cultura siciliana più di tanti di noi che scriviamo libri e teniamo conferenze. Ma chiaramente siamo davanti a argomentazioni sofistiche che coprono una posizione facile da assumere e difficile da legittimare: la scuola deve restare estranea alle problematiche socio-politiche contemporanee, soprattutto quando si toccano nervi scoperti. Anche l’altra grande agenzia educativa capillarmente sparsa in Italia  - intendo la Chiesa cattolica – ha avuto ed ha tra i suoi esponenti (soprattutto fra i preti della provincia di Trapani) un atteggiamento analogo. Se il sistema mafioso fosse un mero fenomeno delinquenziale, questa neutralità della scuola e della Chiesa cattolica si potrebbero in qualche misura giustificare: non mi pare che ci siano progetti educativi centrati sulla lotta al contrabbando delle sigarette o all’adulterazione dei vini. Purtroppo, però, la mafia non è solo un soggetto militare, ma molto altro: e, fra questo molto altro, è anche un’agenzia culturale. E’ portatrice di credenze, simboli, assiomi etici, paradigmi pedagogici: inquina e corrompe i cervelli delle nuove leve, adesca gli animi di favoreggiatori e complici vari. Va dunque combattuta con tutte le armi del potere politico (almeno nella misura in cui non è esso stesso colluso), del potere giudiziario, ma anche del potere culturale. I mafiosi hanno una “visione del mondo” che comporta una certa concezione della vita, della morte, della famiglia, dell’amicizia, dell’onore, della lealtà, della solidarietà, della religione: intellettuali ed educatori (dalle scuole elementari all’università) non possono esimersi dall’analizzare questa filosofia mafiosa e dal tentare di destrutturarla nelle menti dei giovani, proponendo alternative credibili e appetibili.
     Proprio il dirigente scolastico Francesco Fiordaliso , che ha lasciato a settembre la poltrona all’attuale preside Barresi,  era noto per l’impegno costante in questa battaglia culturale contro la tavola dei valori mafiosi. Chi gli è succeduto nel compito difficilissimo di gestire il liceo ha ragione nel rivendicare la propria originalità individuale (“Non voglio sminuire il lavoro del mio predecessore, che stimo, ma io non sono ”Fiordaliso Bis” e lavoro in maniera diversa”); purché la legittima rivendicazione della propria personalità e del proprio stile educativo non diventi un alibi per zittire la volontà democratica degli altri membri della comunità scolastica. Soprattutto quando tale volontà democratica si esprime in difesa dei valori costituzionali che le organizzazioni mafiose (spesso, proprio nella provincia di Trapani, in combutta con associazioni segrete e circoli elitari) minacciano alla radice. Se si tratta di implementare la formazione complessiva di docenti e discenti, ogni proposta ulteriore non può che essere benvenuta: ma perché costruire il nuovo sulle macerie di ciò che è stato avviato con fatica e pazienza negli anni precedenti?

Augusto Cavadi


giovedì 13 novembre 2014

Ci vediamo a Trapani sabato 15 novembre 2014?


Ci vediamo a Trapani sabato 15 novembre?

   Avremo due occasioni per incontrarci. 

* Alle ore 17,30 presenterò il libro (scritto con l’aiuto di Elisa Poma), La bellezza della politica. Attraverso e otre le ideologie del Novecento,  presso l’Istituto “Leonardo da Vinci”  (piazza XXI Aprile, Trapani).
Successivamente, alle ore 20.30 esatte, condurrò un aperitivo filosofico presso il Bar Bandini (v. Beatrice 1, al centro storico di Trapani).


lunedì 10 novembre 2014

E' uscito l'ultimo libro di Andrea Cozzo: "Stranieri. Figure dell'Altro nella Grecia antica".

La relazione di Andrea Cozzo al seminario della scorsa primavera organizzato dalla Scuola di formazione etico-politica "G. Falcone" sull'immigrazione in Europa è diventata un libro !
Stranieri. Figure dell'Altro nella Grecia antica 
 (Di Girolamo, Trapani 2014, pp. 158, euro 12,00) 
è già disponibile nelle principali librerie, fisiche e virtuali, italiane.
Data l'importanza del volumetto, agile ma intenso, sarà presentato 
in varie città italiane.
Prima occasione: giovedì 13 novembre alle 17,30 alla Feltrinelli di Palermo.
Sono sicuro che chi conosce la competenza, e soprattutto la saggezza esistenziale, di Andrea non perderà l'occasione di incontrarlo de visu e, comunque, di acquistare questa sua ultima opera.

domenica 9 novembre 2014

INTERROGATIVI FILOSOFICI: NE DISCUTIAMO VIA E-MAIL ?

Care e cari,
 un settimanale cartaeco di Trapani (www.monitortp.it) mi ha gentilmente messo a disposizione una rubrica ("Spazio aperto") per dialogare con chi lo desideri su tematiche di "filosofia-in-pratica". Da oggi metterò sul mio blog le 'puntate' sinora pubblicate nella viva speranza che alcuni/e di voi vorranno porre questioni e proporre considerazioni critiche  dalle quali possa trarre materiali interessanti per il mio 'pezzo' settimanale.
Con affetto,
Augusto



“Monitor” 10.10.14.

   Quando un mio amico trapanese ha avuto in mano il depliant in cui si annunziavano 8 aperitivi filosofici mensili presso il bar Bandini di via Beatrice gli è scappato da ridere: “E tu pensi che, per otto sabati, alle 20 e trenta, troverai nella mia città persone disposte a incontrarsi per parlare di filosofia? Se ne venrranno più di quattro o cinque potrai gridare al miracolo: vuol dire che Trapani ha subito una modificazione genetica”.
    Immaginate dunque la mia sorpresa quando, all’ora e al posto stabiliti dall’associazione culturale “La calendula” (che mi aveva formulato la proposta), ho trovato una trentina di persone, disciplinatamente sedute a cerchio intorno a due tavolinetti. E tutte disposte ad ascoltare, a riflettere, a dire la propria. In non più di dieci minuti ho offerto lo spunto di discussione della serata: che cosa sia davvero l’amore platonico. Nell’opinione comune si tratta di una relazione puramente mentale, disincarnata, asessuata, fra due tipi che vorrebbero ma non se la sentono…In realtà, se andiamo a leggere le pagine bellissime del Simposio (o Convito) in cui Platone fa raccontare da Socrate ciò che una donna – Diotima – aveva un giorno insegnato sull’amore, scopriamo che la concezione platonica è ben diversa dai luoghi comuni che gli si attribuiscono. Egli infatti sostiene con chiarezza che l’eros scatta solo in presenza di un singolo corpo bello: vediamo un altro (o un’altra: Platone non andava troppo per il sottile sulle preferenze sessuali) e ne restiamo attratti. Vogliamo unirci fisicamente con lui (o con lei). La maggior parte della gente si ferma a questo primo gradino e, tramontata la passione sessuale, resta con il vuoto in mano. Platone ritiene che il filosofo non si accontenta del primo stadio dell’amore ma sa elevarsi a un secondo livello: l’amore verso la bellezza corporea in generale. Dunque il senso estetico che sa apprezzare anche la bellezza di una donna che non è la nostra o di una figura scolpita nel marmo. Ma è questo il top della bellezza? Platone pensa di no. Egli ritiene infatti che, al di sopra della bellezza estetica, ci sia la bellezza morale: esiste un fascino in figure come Falcone e Borsellino che danno volontariamente la vita per la giustizia e la libertà dei concittadini. Anzi, aggiunge il filosofo ateniese, ancora più affascinante della bellezza etica, c’è la bellezza delle istituzioni: una città in cui l’amministrazione funziona, le strade sono pulite, la gente rispetta gli altri, è una città bella. Essa esercita un fascino che, purtroppo, molti di noi meridionali stentiamo a percepire…Ma, sfidando il paradosso, Platone va ancora più a fondo (o, se si preferisce, ancora più in alto): e indica il gradino successivo dell’amore per le verità scientifiche. Solo chi di noi ha faticato dietro un telescopio o dietro un microscopio per anni, prima di fare una nuova scoperta astronomica o chimica, può capire a quale passione si stia riferendo Platone. A questo punto il racconto accenna a un vertice sommo: l’amore non per cose belle, non per azioni belle, non per verità scientifiche belle, ma per la Bellezza assoluta (che coincide con il Bene supremo). Ma qui siamo oltre la ragione, oltre la possibilità di parlare: solo i mistici sanno che cosa significa amare la Sorgente eterna di tutte le bellezze passeggere.
    Forse vorreste sapere che cosa hanno detto i partecipanti all’aperitivo filosofico del 4 ottobre 2014 (dai trentenni agli ultrasettantenni): ma il mio spazio a disposizione è finito. Se volete, fatevi vivi sabato 15 novembre: stessa ora, stesso posto.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 6 novembre 2014

L'OMERTA' DI SALVATORE CUFFARO


“Repubblica – Palermo”

4.11.2014



L’omertà di Cuffaro e i valori cristiani



    Il comportamento esemplare di Salvatore Cuffaro come detenuto ha una macchia che gli impedisce di ottenere l’uscita dal carcere per l’affidamento ai servizi sociali: persevera nel rifiuto di collaborare  con i magistrati per consentire l’individuazione delle “talpe” interne agli apparati investigativi e giudiziari. La notizia di cronaca merita qualche riflessione ulteriore non solo per la notorietà pubblica del condannato ma soprattutto per la tipologia simbolica del suo atteggiamento.

    Ridotta all’osso, la questione può essere sintetizzata in una domanda: al di là dell’aspetto legale (penalmente rilevante), dal punto di vista morale fa bene Cuffaro a non denunciare i suoi ex-complici? Né sorprenda l’aggettivo ‘morale’ all’interno di un modus operandi criminale: la mafia è mafia – e non deliqnuenza comune – proprio perché una società improntata a un’etica. Disgustosa, inaccettabile quanto si voglia; ma un’etica.

    Ora, in base alla tavola dei valori mafiosi, il comportamento di Cuffaro è ineccepibile; anzi inevitabile. La fedeltà alle regole, esplicite e implicite, dell’organizzazione criminale  è , in teoria, un principio etico irrinunciabile (dico in teoria perché, in pratica, la storia più che secolare di Cosa nostra ci attesta trasgressioni continue e clamorose): e, tra queste regole, una delle più enfatizzate è l’omertà. Ogni forma di collaborazione con il sistema giudiziario statale viene considerata un tradimento della “fratellanza di sangue”: dunque, potenzialmente, punibile con la pena di morte. Del tutto comprensibile  - il che non significa giustificabile – che Cuffaro (“favoreggiatore” dei mafiosi) abbia paura e preferisca un anno di galera in più rispetto al rischio di gravi ritorsioni.

    Ma Cuffaro è anche, dichiaratamente, cattolico. Ciò non dovrebbe essere un fattore decisivo per dargli coraggio? La fiducia in un Maestro che si è fatto crocifiggere per difendere la causa degli ultimi della storia, delle vittime di ogni forma di prepotenza e di sfruttamento, non dovrebbe sostenerlo nella difficile scelta a cui è chiamato dalla legge degli uomini e dalla sua coscienza di credente? Purtroppo la risposta non è così inequivoca come dovrebbe risultare. Ci sono inchieste, interviste, documenti vari (molti dei quali confluiti nel bel libro della sociologa palermitana Alessandra Dino La mafia devota) che attestano, da parte di preti e personaggi interni al mondo cattolico, una mentalità ben diversa. A parere di tali esponenti della Chiesa cattolica il pentimento soggettivo, nel “foro interiore”, sarebbe necessario e sufficiente: opzionale, o addirittura sconsigliabile, tradurre in gesti pubblici la denunzia degli ex-complici. Quando in determinate contingenze l’arcivescovo  Di Giorgi      chiese a un gruppo di docenti della Facoltà teologica un parere sulla questione, la risposta fu netta: il cattolico è, prima di tutto, un cittadino. Se esce da Cosa nostra deve testimoniare davvero la propria conversione riparando, per quanto possibile, le ferite procurate; restituendo il mal tolto; aiutando lo Stato a perseguire i criminali e a impedire che continuino a seminare paura e morte. Purtroppo quel parere autorevole, confermato dal cardinale dell’epoca, è poco noto persino negli ambienti cattolici e, come dimostra il caso Cuffaro, disatteso da quei pochi che lo conoscono. Non resta che sperare che l’atteggiamento dell’ex-presidente della regione siciliana non venga assunto, nel presente e nel futuro, a modello da altri in situazioni analoghe. Comunque anche questa vicenda conferma quanto sia arduo il percorso di esodo della Sicilia dal sistema di dominio mafioso.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

martedì 4 novembre 2014

Ci vediamo mercoledì 5 novembre, alle ore 18.15, a Palermo ?

Sapete cosa sia l'ecumenismo? Bruno Di Maio l'ha raccontato in chiave autobiografica nel suo L'ecumenismo fa bene al cuore (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014). Domani, alle 18.15, presenteranno l'agile volumetto - insieme all'autore - Peter Ciaccio e Renata Brambille. Introdurrò l'incontro e coordinerò il il dibattito.

domenica 2 novembre 2014

Primo bilancio del Convegno sulle spiritualità nel Mediterraneo oggi


Care e  cari,

     grazie a tutti quelli di voi che mi chiedono, in queste ore, come è andato il Convegno su “La dimensione spirituale della vita nel Mediterraneo. Il sé e l’altro: identità e accoglienza” svoltosi a Palermo dal 29 al 31 ottobre. Provo a socializzare un primo tentativo di bilancio.
      Il dato più facile da registrare è, ovviamente,  numerico: nelle cinque sessioni dalla sera del 29 alla sera del 31 ottobre abbiamo avuto una media di 70 – 80 persone (considerando le mattinate in cui delle classi scolastiche hanno spostato l’asticella oltre il centinaio di presenze e le sessioni pomeridiane in cui non si è mai andato al di sotto delle 40-50 persone).
       Più delicato, e articolato, il bilancio qualitativo. L’esordio è stato davvero felice: Francesco Forgione (nella qualità di direttore generale della Fondazione Federico II di Palermo, “braccio culturale” dell’Assemblea regionale siciliana) non si è limitato a un saluto ‘formale’ ma ha tratteggiato un affresco realistico e aggiornato della situazione socio-politica della Sicilia nel contesto mediterraneo. Annamaria Amitrano ha, intelligentemente, evitato di spendere i 45 minuti a disposizione di ogni relatore per descrivere la religiosità popolare, preferendo piuttosto offrire alcuni strumenti interpretativi elaborati dall’antropologia culturale e concentrarsi su un aspetto ricorrente: la priorità della produzione  simbolica “dal basso”  rispetto alle forme “alte” di religiosità (su cui per altro l’impronta della prima non cessa di esercitare il proprio condizionamento). Alberto G. Biuso ha poi esposto, con il sussidio di alcune riproduzioni fotografiche di opere d’arte, una assai suggestiva apologia del “paganesimo”: a suo parere l’idea di un panteismo, che riconosca nel politeismo il tentativo di nominare in molti modi la dimensione sacra dell’essere, non è per nulla un reperto archeologico ma vive nell’arte e in generale nella cultura contemporanea una stagione tanto più felice quanto maggiori sono le difficoltà in cui si dibattono  le religioni monoteistiche.
        Nel medesimo orizzonte immanentistico  si è inserito la mattina seguente, con grande forza comunicativa, Orlando Franceschelli: non in nome di una metafisica, però, bensì sulla base della fiduciosa accettazione delle acquisizioni scientifiche attuali (in particolare dell’evoluzionismo cosmologico e biologico). Il suo “naturalismo”, lungi dall’essere riduttivo rispetto alla ricchezza dell’umano, si auto-interpreta come capace di una spiritualità caratterizzata dalla ricerca esperienziale di una sobria “felicità possibile”.
        Non meno elegante e accattivante è stata la relazione-testimonianza del rabbino Pierpaolo Pinhas Punturello che, con ammirata capacità di sintesi, ha esposto alcuni punti qualificanti della spiritualità ebraica: una spiritualità del tutto mondana, incarnata, in cui la consapevolezza di vivere al cospetto dell’Eterno porta non alla svalutazione del temporale bensì alla sua massima valorizzazione. Davvero illuminante, poi, il dialogo con alcuni presenti (per esempio a proposito dell’ebraicità di Gesù di Nazareth che solo nella teologia cristiana contemporanea viene, a fatica, riconosciuta e accettata in tutte le sue sconvolgenti conseguenze).
    Non c’è spiritualità senza confronto con la sofferenza fisica, col dolore, con la morte. La sessione pomeridiana del secondo giorno è stata incentrata proprio sul tema del male nell’esperienza umana. Patrizia Baldieri, che ha esposto una relazione preparata seguendo accuratamente tutti gli aspetti della tematica del convegno, ha illustrato la prospettiva buddhista, preoccupandosi di sciogliere alcuni fraintendimenti (per esempio a proposito della “vacuità” del “Sé” da intendere come rinunzia non alla propria soggettività ma all’eccessivo attaccamento ad essa sino al punto da illudersi che sia sottratta all’universale condizione di “impermanenza” di ciò che si dà nel mondo). E’ sembrato che anche Luigi Vero Tarca  - se sono stato in grado di decifrare il suo linguaggio filosoficamente elaborato – abbia proposto una sorta di demistificazione del negativo: se, infatti, sul piano fenomenico esso si impone inesorabilmente, ad una analisi razionale più profonda esso sarebbe inammissibile. E’ la tesi di ogni monismo ontologico (da Parmenide a Emanuele Severino): apparentemente il carnefice è il negativo della vittima; in ultima analisi, carnefice e vittima sarebbero due lati dell’unico Assoluto.
     La mattina del terzo giorno si è ritornati, con l’imam Yusuf Dispoto, dal monismo al mono-teismo: una prospettiva che, lungi dall’identificare Assoluto e relativo, ne marca assai decisamente l’abissale differenza. Dio è Dio (per gli islamici come per i cristiani e prima ancora per gli ebrei) e la creatura è creatura: il Corano e la vita esemplare del Profeta per eccellenza (Maometto) costituiscono la via migliore che la creatura umana possa seguire per sintonizzarsi con il volere, indiscutibilmente saggio, di Allah. Anche l’imam Dispoto, come la sera precedente la psicoterapeuta Baldieri, aveva preparato una relazione accuratamente aderente alle tematiche del convegno: ed è stato davvero motivo di rammarico che entrambi abbiano deciso di trasmettere integralmente i contenuti predisposti, e di farlo restando fedeli alla lettura del testo, rischiando di appesantire l’uditorio  eterogeneo e, comunque, costituito in maggioranza da persone che si accostavano per la prima volta a questo genere di problematiche. Per fortuna, là dove è rimasto un po’ di tempo per lo scambio dialogico con il pubblico, la comunicazione con il relatore si è vivacizzata, riuscendo a coinvolgere anche i più giovani.
     Il registro della comunicazione diretta è stato recuperato, in misura crescente sino a diventare quasi incantamento, con le ultime tre relazioni. Pierpaolo Comolli ha proposto una intrigante lettura sociologica del fenomeno religioso oggi: da una parte le antiche “narrazioni” confessionali perdono di credibilità (e le chiese si svuotano); dall’altra, proprio perché minacciate da questa perdita di credibilità e dalle tendenze sincretistiche, le istituzioni religiose tradizionali tendono a marcare in maniera più forte i propri contorni, enfatizzando le caratteristiche identitarie e alzando mura difensive. Quanto al futuro, il relatore ha auspicato una (improbabile) terza via tra il dissolvimento delle chiese istituzionali e il loro irrigidimento fondamentalista: l’appartenenza ad una tradizione comunitaria consapevole della propria relatività e, perciò, sinceramente aperta a quanto di valido possa acquisire dall’interazione dialogica con altre tradizioni comunitarie.
    Il pastore valdese Ciccio Sciotto ha raccontato risorse e rischi di questa contaminazione a partire dalle vicende recenti delle comunità valdesi-metodiste dell’Italia meridionale il cui stile tendenzialmente calvinista è stato significativamente modificato dall’inserimento di sempre più numerosi membri di chiesa provenienti dal continente africano. Per le chiese europee questo impatto dei migranti costituisce un appello molto forte, e molto concreto, ad abbattere le frontiere culturali, prima ancora che legali, riscoprendo l’originaria dimensione universalistica del movimento cristiano. Universale, in greco, sarebbe “cattolico”: ed è a questo significato etimologico del vocabolo che si è rifatto don Cosimo Scordato contrapponendolo al significato ordinario di denominazione di una delle tante chiese cristiane (quella romana di lingua latina).  Vivere l’universalità significa coniugare l’attenzione al qui-ed-ora del frammento senza perdere l’apertura intenzionale all’intero: in concreto, accettazione dell’altro in quanto portatore di qualcosa che, irrimediabilmente, mi manca.  Questa accoglienza dell’altro sino alla tendenziale identificazione con lui, non in quanto simile a noi ma proprio in quanto altro,  trova, per il credente, il prototipo nella fede trinitaria: Dio si rivela identificandosi con l’uomo ridotto a uno straccio, dunque con l’uomo nello stadio esistenziale quanto più estremamente lontano da Lui si possa immaginare.
     Il resoconto delle tre giornate sarebbe imperdonabilmente lacunoso se si tacesse del breve, ma intenso, momento artistico del secondo giorno in cui il gruppo “I mandolini dei Nebrodi” hanno suonato e cantato alcuni toccanti brani della tradizione musicale mediterranea.
        Come avevo anticipato nella breve introduzione al convegno, il sogno che ho condiviso con alcuni amici che mi sono stati vicini in questa avventura (soprattutto Giancarlo Lo Curzio che si è sobbarcato la maggior parte delle incombenze diplomatiche e burocratiche) sarebbe di rendere annuale l’appuntamento di queste giornate delle spiritualità (al plurale) nel Mediterraneo, per fare di Palermo il seme di un giardino delle sapienze: un luogo, intendo, in cui  - come in uno dei mosaici delle nostre cattedrali – ogni tassello mantenga la propria identità (depurata dalle scorie prodotte nel corso dei millenni) ma in vista di un quadro d’insieme che solo dà senso ai singoli mattoncini.
        Perché questa ipotesi di avveri saranno necessarie varie condizioni: un numero meno esiguo di operatori effettivamente impegnati nella preparazione dell'evento; un numero meno esiguo di enti finanziatori; soprattutto la stessa generosa disponibilità dei relatori di quest’anno a partecipare a titolo gratuito.
         Ovviamente l’esperienza effettuata suggerirà, inoltre, delle opportune modifiche in sede di progettazione. Prima fra tutte una riduzione delle voci invitate (facendo in modo, però, che nel corso di un triennio si abbia modo di ascoltarne almeno tante quante se ne sono ascoltate quest’anno): in modo che ogni ospite abbia più spazio per confrontarsi sia con l’uditorio sia, soprattutto, con gli altri ospiti relatori (la cui presenza in sala nel corso di altre relazioni si è mostrata, già da quest’anno, preziosa).

Augusto Cavadi