martedì 6 gennaio 2015

TEISMO, A-TEISMO O ANA-TEISMO?


“Comunicazione filosofica”


Novembre 2014 , n° 33

 


L’ANA-TEISMO: DOMANDE DA UNA NUOVA PROSPETTIVA








     La prospettiva anateistica



         Chi frequenta il confine fra la ricerca filosofica e l’indagine teologica si può confrontare con la traduzione italiana di un libro originariamente pubblicato in inglese nel 2010: R. Kearny, Anateismo. Tornare a Dio dopo Dio, Fazi, Roma 2012. Non è un testo agevole da sinettizzare perché l’autore, formatosi nell’ambiente francese diffidente verso ogni forma di trattazione organica, saltella qua e là spaziando, ben al di là dei confini disciplinari convenzionali, fra testi di letteratura, di filosofia e di mistica. Provo comuqnue a individuare, con un certo margine di arbitarietà, un filo rosso che attraversa le pagine fosforescenti di Kearney.

      Egli condivide la lettura che Hannah Arendt propone del tema nietzschiano della morte di Dio:



               E’ forse saggio riflettere su ciò che realmente si intende

               allorché si osserva che la teologia , la filosofia e la metafisica

              sono giunte a una fine: certo non che Dio è morto, qualcosa

              di cui possiamo sapere tanto poco quanto dell’esistenza di

              Dio[…]  , ma che il modo in cui si è pensato a Dio per migliaia

              di anni non è più convincente; se è morto qualcosa, può trattarsi

              solo del pensiero tradizionale di Dio[1].



     Aggiunge che la constatazione fenomenologica della morte di Dio, o del modo  di concepirlo in Occidente,  resterebbe parziale se si limitasse al registro teoretico. Essa coinvolge, infatti, altrettanto il registro storico-esistenziale delle inenarrabili esplosioni di odio distruttore verificatesi nel Novecento. Si badi bene: l’inedito di questi eventi sta anche nella proporzioni matematiche (solo la tecnica della Modernità avanzata poteva consentire di individuare, internare e eliminare nemici a migliaia, anzi a milioni, come in Unione Sovietica o in Cambogia), ma soprattutto nelle motivazioni ideologiche. Armeni, Tutsi, Bosniaci sono stati sterminati  - per la prima volta nella storia – in quanto appartenenti a un’etnia, a prescindere dalle responsabilità soggettive. Che poi fra questi popoli ve ne fosse uno – il popolo degli Ebrei – che si autointerpretava come “eletto da Dio” ne ha reso incomparabilmente più scandaloso il genocidio sistematico da parte dei nazisti. Questo intreccio di pensiero e di esperienza storica non va trascurato neppure per un momento se si vuole capire bene su quale background si profila l’anateismo:



                     Il Dio che è morto ad Auschwitz era il Dio della teodicea.

                        La fede del dopo-Olocausto non crede che Dio avrebbe

                        potuto arrestare la tortura; e così è stato[2].



  Ma Kearney non si ferma alla diagnosi. Se il teismo è morto   - o forse, più prudentemente, si  è eclissato – cosa ci attende nel presente e nel futuro? A questo punto le notazioni oscillano fra la prognosi e la terapia: l’autore un po’ prova a prevedere, un po’ a prevenire e curare. Ne riprendo (commentandole brevemente) alcune che,  inserite qua e là in un testo che non eccede certo in schematicità didattica, potrebbero sfuggire a una prima lettura.

     Innanzitutto: con il teismo soffre, e rischia di spirare, anche l’anti-teismo (o, se si preferisce, l’ateismo ‘positivo’). L’anateismo ha senso come



           terza via tra gli estremi del teismo dogmatico e dell’ateismo

            militante, le due convinzioni diametralmente opposte che nel

            corso della nostra storia hanno mutilato tante menti e anime.[3]



       Seconda considerazione: poiché il “teismo dogmatico” e “l’ateismo militante” erano fedi che si incarnavano in strutture religiose (con propri padri fondatori, testi sacri, interpreti autorizzati più o meno infallibili, canoni di ortodossia dottrinale, gerarchie, liturgie, divise e distintivi…), si può ipotizzare di salvare le fedi dalla disintegrazione delle religioni: l’anateismo è proprio l’esplorazione della possibilità di una “fede senza religione”[4] (espressione che ha senso solo se si intende per ‘fede’ non l’accettazione di un ‘credo’ concettualmente formulato e organicamente organizzato, bensì l’apertura antropologica all’Oltre e all’Altro). Anche prima che le religioni implodano, l’anateismo ha una funzione catartica da svolgere. Infatti se ogni religione (teistica o ateistica), proprio in quanto ‘religione’ e non solo ‘fede’, è esposta al perenne rischio della degenerazione (sarebbe meglio dire che, storicamente, cade  costantemente nella degenerazione), vi è allora bisogno, altrettanto costantemente, di potenziare in ogni corrente religiosa la componente della fede, dell’apertura all’ignoto, dell’accoglienza del diverso. In una parola: vi è bisogno di enfatizzare la componente della “spiritualità “ dal momento che “l’impegno spirituale” possiede



                       gli strumenti per fornire uno dei più efficaci

                           antidoti al pervertimento della religione.[5]



     Ma che significa, per l’ana-teismo, valorizzare la fede (versus la religione), la spiritualità (versus il confessionalismo escludente)? Siamo a una terza considerazione di Kearney. Significa ristabilire il primato ebraico e proto-cristiano dell’ortoprassi sull’ortodossia:



                 Non chiunque mi  dice “Signore, Signore” entrerà nel regno

                 dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

                ( Matteo 7,21 )



                Mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò la fede

                partendo dalle mie opere. Tu credi che esista un solo Dio?

                Fai bene: anche i demòni credono e rabbrividiscono.  

                 (Giacomo 18 – 19)      



                Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è

                 mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede

                 non può amare Dio che non vede. 

                  (I Giovanni 4, 20).



       Questo primato dell’ortoprassi abbatte molte barriere ideali e ideologiche fra chiese, partiti, movimenti: non può condurre, dunque, a una sorta di irenismo pasticcione nel quale le diverse prospettive confluiscono e perdono i connotati specifici ?  Il rischio, ovviamente, c’è, ma Kearney ce ne mette esplicitamente in guardia (e questa può essere considerata una quarta e ultima tappa della sua proposta):



                  La via più breve dall’io all’io passa attraverso

       l’altro. […] Nella traduzione confessionale potremmo

       scoprire in un’altra fede qualcosa di mai sognato nella

        nostra. ; tutto questo sebbene – come abbiamo appena

        visto – si debba abitare intimamente la propria fede

        per essere in grado di riconoscere una simile rivelazione

        come nuova, come essenzialmente altra rispetto alla propria.

        La scoperta della saggezza di cui è latore lo straniero

        presuppone che l’io riconosca se stesso come diverso dallo

        straniero.[6]



      Nulla di più lontano, dunque, dall’auspicio di un potpourri planetario: chi cerca seriamente l’Assoluto non è un turista delle religioni, ma si concentra a vivere intensamente quella che, di volta in volta, o una volta e per sempre, gli sembrerà più congeniale. Chi non intravede l’Essenziale nella propria esperienza religiosa si condanna, inevitabilmente, a restare alla superficie di qualsiasi altra tradizione religiosa.



                            L’incontro con Dèi stranieri ci invita a scoprire aspetti

            nascosti del nostro Dio (spesso cristallizzati nelle convenzioni);

             inoltre, questo recupero delle origini recondite ci apre

            ulteriormente all’incontro con gli Dèi stranieri. Tuttavia tale

             incontro, che procede in entrambe le direzioni, non comporta

             l’annullamento in una totalità onnicomprensiva.[7]



   Solo chi cerca con tutto sé stesso ciò che siamo abituati a chiamare Dio può trovare anche in altre sapienze ciò che ignorava nella propria, come è capitato a Paul Knitter che è diventato veramente cristiano solo dopo aver conosciuto il buddhismo.[8]

      



Alcune considerazioni a margine





       Dopo aver tentato di restituire alcuni passaggi costitutivi della prospettiva anateistica, mi piacerebbe aggiungere qualche chiosa a margine dal punto di vista di un filosofo di strada (per mestiere) e di un teologo critico a rischio costante d’eresia (per diletto). Se non dovessero servire ad altro che ad aprire un piccolo dibattito fra lettori di queste tematiche, queste noterelle avrebbero raggiunto un obiettivo significativo.

     Per capire – ed eventualmente valutare – la proposta dell’anateismo di Kearny può essere istruttivo rispondere a due distinte questioni: quale percorso ha alle spalle? Quali prospettive davanti? E’ evidente che le due domande consentono risposte di differente tenore: più attendibile (anche se necessaraiemnte parziale) la risposta alla prima, più opinabile (in quanto necessariamente ipotetica) la risposta alla seconda.



Quale background ?

   Se considerato in sé stesso, isolatamente, l’anateismo può essere recepito come poco più di uno slogan che tenti di varare una nuova moda filosofico-teologica, effimera come tutte le mode. Ma, a ben guardare, esso è il punto di arrivo (temporaneo) di un ben più lungo processo di pensiero: come tutte le ri-nascite, infatti, presuppone prima una nascita e poi una morte.

   Nel nostro caso: la nascita del teismo e la sua morte.

   Se partiamo dall nascita del teismo, la narrazione ‘canonica’ (o sarebbe meglio dire la vulgata) è, a grandi linee, la seguente. Un popolo mediorientale (gli Ebrei) ritiene di ricevere l’automanifestazione di un Dio unico e lo annunzia, senza particolare sete di proselitismo, alle genti che entrano in contatto – più o meno pacifico – con esso. Ma è un annunzio ‘profetico’, nel senso che tutto cò che Jhvh dice di sé  lo comunica attraverso la mediazione di uomini e donne in carne ed ossa, di soggetti concreti: dunque l’autorivelazione dell’Eterno dipende dalla fiducia che ogni generazione presta ai mortali da lui prescelti come portavoce autorizzati.

    Questo movimento di fiducia, di affidamento, funziona – più o meno – nell’alveo della tradizione ebraica (Mosé, i profeti…) sino all’eresia cristiana: ma quando alcuni  Ebrei che hanno abbracciato l’interpretazione del messaggio profetico tradizionale elaborata da Gesù di Nazareth - e dalla sua cerchia di discepoli (diretti e indiretti: tra questi ultimi Paolo di Tarso) -  iniziano a diffonderla fuori dalla Palestina, si   accorgono di una difficoltà insormontabile. Il mondo dei Greci (e dunque, per estensione, la vasta area mediterranea segnata dall’ellenismo) è restìo ad accettare dottrine trasmesse per fede: con pistis si designa una forma di conoscenza non superiore, ma inferiore alla conoscenza certa. Da qui l’intuizione disastrosamente geniale attestata dagli Atti degli Apostoli     17, 22 – 31 : provare a identificare il Dio dei Greci con il Dio degli Ebrei (ri-presentato, in continuità con la migliore tradizione profetica, dal profeta di Nazareth). A differenza della lettura di gran lunga dominante, secondo cui l’ellenizzazione del cristianesimo (o, per alcuni come Bontadini, la cristianizzazione dell’ellenismo) sarebbe stata provvidenziale, trovo geniale, ma disastroso, il tentativo perché non si è provato a mescere acqua con acqua o a impastare pane con pane, bensì a omologare acqua con pane. Fuor di metafora: il discorso dei Greci sul divino si snodava su un registro epistemico radicalmente altro rispetto al discorso degli Ebrei sul divino. Ai primi interessava sapere “chi” fosse Dio o, per essere più precisi, “che cosa fosse” (e solo conseguentemente cosa volesse dall’umanità, ammesso che si aspettasse qualcosa e non fosse, come supponeva Aristotele, sovranamente ignaro e indifferente alle faccende terrestri); ai secondi interessava sapere “che cosa volesse” Dio dagli uomini (rassegnati a ignorare per sempre di “cosa” fosse fatto Dio, “come” funzionasse la sua mente inaccessibile) e, soprattutto, cosa gli uomini potessero “fare” per Dio.

   Rispetto a questa differenza irriducibile, netta, di prospettiva, altre differenze (pur notevoli) di contenuti passano in secondo piano. E comunque complicano ulteriormente il tentativo di traduzione dal biblicese al filosofese.

    Come se ciò non fosse abbastanza, bisogna aggiungere che non si trattava di tradurre una immagine biblica di Dio, bensì diverse: quante sono le concezioni presenti in una biblioteca di 73 volumi scritti lungo sei o sette secoli di storia! Ma anche se fosse stata una sola  - o se delle tante concezioni bibliche di Dio se ne fosse privilegiata una sola – si sarebbe parata innanzi una seconda, colossale difficoltà: in quale delle ‘lingue’ filosofiche greche tradurre quell’unica (ipoteticamente unica) immagine biblica di Dio?  E in effetti la storia registra un pluralismo di categorie filosofiche adottate da Apologisti, Padri della Chiesa e Dottori della Scolastica: ognuno di questi pensatori ha ripensato i dati biblici (già problematici per molti versi) in uno degli ‘alfabeti’ tramandati dalla tradizione greca (il platonico per alcuni, l’aristotelico per altri, lo stoico o il plotiniano per altri ancora…).

    Già all’alba della Modernità  - diciamo fra il Quattrocento e il Cinquecento – dirsi teisti (o monoteisti) suonava generico al punto da risultare equivoco: che cosa avevano in comune il Dio di Abelardo, di Duns Scoto, di Guglielmo d’Ockam, di Marsilio Ficino, di Nicolò Cusano? Indubbiamente alcuni tratti si sovrapponevano, ma le differenze non erano certo minori. Il Concilio di Trento aveva due strade principali: o lasciare ai teologi, ai mistici e ai fedeli la totale libertà teoretica puntando su quel piano operativo, caratteristico dell’esperienza ebraica e proto-cristiana, nel quale si erano posti Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso; oppure prendere posizione sul piano dottrinario, stabilire autoritariamente una ortodossia e avviare, anche con l’istituzione dei Tribunali dell’Inquisizione, una strategia repressiva del pluralismo teologico  che è perdurata sino ai nostri giorni (forse, si spera, sino all’elezione di papa Bergoglio che appare più orientato a rivalutare l’aspetto ‘pratico’ della fede cristiana).

   Il teismo canonizzato a Trento è il monoteismo platonico-aristotelico (sì, anche platonico, come ha ben dimostrato a suo tempo Cornelio Fabro) di san Tommaso d’Aquino: ma se la Chiesa cattolica ha tentato (ovviamente inutilmente) di eternizzare questo fotogramma, il film della storia è andato avanti con il passaggio dal teismo monoteistico ancora riconoscibile in Cartesio al deismo lockiano e illuministico. Sino a dove si sarebbe potuto arrivare in quest’operazione di depurazione teoretica del divino? Mi pare che si possano rintracciare tre direttive principali.

   La prima è spinoziana/feuerbachiana/nietzscheana: la morte del Dio greco-medievale per un graduale recupero della naturalità del cosmo. La seconda direttiva è kantiana/kierkegaardiana/barthiana: delegittimare l’autorità della ragione per lasciare all’opzione di fede l’esclusiva del passaggio dal mondo al “Totalmente Altro”. La terza direttiva non si rassegna al tramonto dell’onto-teologia e con Hegel, Schelling e il Neo-tomismo del Magistero pontificio riprende il filo del pensiero “forte” come se Kant non ci fosse (stato). Questo tentativo di riscossa metafisica, che si colloca nel segno della continuità con la tradizione speculativa, è, ad oggi, minoritario (se non fallimentare), anche per via delle notevoli discordanze interne al medesimo schieramento.

 La prospettiva dell’ana-teismo, stringi stringi, è di stampo esistenzialistico e si colloca nella seconda delle tre direttive sommariamente individuate. Non mi pare di essere ingiusto verso di essa se vi riconosco la posizione di chi sostiene che,



                                dopo il parricidio d Dio, l’effimera libertà da un ordine

               prestabilito reca con sé la necessità di pensarsi individualmente

               liberi di creare nuovi valori – anche di sottomettersi al Signore

               di Abramo ed Isacco o di abbracciare la croce con il Cristo. Ma lo

               si deve soggettivamente volere[9].



     Se fosse così, la strada percorsa da Kearney ci porterebbe a una specie di Speakers Corn in Hyde Park, dove chiunque può salire su una cassetta di legno e tenere il comizio che preferisce: resta da chiedersi che senso abbia il confronto dialettico fra discorsi che posseggono uguale titolo di legittimità solo perché ugualmente inverificabili (in qualsiasi accezione si intenda la verificabilità in metafisica). Trovo in questo esito dell’ana-teismo motivi di forte perplessità.

  

Quali prospettive?



    Altre perplessità mi suscitano le proposte per così dire in positivo, o in prospettiva, avanzate da Kearney. Le elenco un po’ schematicamente (e perciò brutalmente).



a)   Egli (come ho riferito sopra) presenta l’anateismo quale terza via fra il tesimo dogmatico e l’ateismo dogmatico: ma è possibile, però, obiettargli che non ogni teismo è “dogmatico” (e militante) né ogni ateismo è “militante” (e dogmatico). C’è un teismo sobrio, problematico, sofferto (penso al Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas o al Dio dopo Darwin di Vito Mancuso) così come c’è  un ateismo sobrio, problematico, sofferto (penso al cosmocentrismo di Karl Loewith o al naturalismo darwiniano di Orlando Franceschelli): se qualcuno si riconosce nell’uno o nell’altro, che ragioni intellettuali e etiche gli restano per abbracciare l’ana-teismo?

b)   Egli (come riferito sopra) basa la sua proposta sul capovolgimento gerarchico della ortodossia rispetto all’ortoprassi. Trovo questo ribaltamento assiologico fondato esegeticamente, liberatorio esistenzialmente, proficuo socialmente: come tollerare l’intolleranza ecclesiastica, dal IV secolo a oggi, che ha mandato al rogo vittime di tutte le chiese (non solo della chiesa romana)[10]? Tuttavia… Tuttavia, affinché la sacrosanta battaglia contro l’intolleranza non diventi a sua volta intollerante, bisognerebbe aggiungere ciò che Kearney non dice mai: che l’ortoprassi, necessaria e sufficiente dal punto di vista teologico, non può essere usata come arma impropria per combattere, in ambito filosofico, i tentativi dell’intelligenza umana di indagare la dimensione noumenica. Teismi, ateismi, agnosticismi: quali di queste teorie guadagnerà l’assenso intellettuale della comunità mondiale dei pensanti? E’ una domanda a cui non si può rispondere a priori. Ciò che si può, anzi si deve, dire è che non saranno un versetto della Torah o una frase di una Lettera attribuita a Paolo o di una sura coranica a valere come argomento filosofico, logico-razionale. Ma se qualcuno rinunzia a parlare in nome della Bibbia o di qualche altro testo sacro, gli si deve riconoscere tutto il diritto (intellettuale, intendo, chè quello giuridico è fuori discussione)  di elaborare ipotesi, mostrare dati  scientificamente attendibili, costruire visioni-del-mondo…in cui egli proponga una sua concezione di Dio o del divino (una sua concezione teo-logica nell’accezione aconfessionale, laica, teoretica del termine).  Alla vita di fede le speculazioni metafisiche su Dio fanno male (nella meno peggiore delle ipotesi, fanno perdere tempo); ma per la vita intellettuale sono irrinunciabili. Mario Ruggenini ha ripetutamente sostenuto,  da posizioni estranee a qualsiasi tradizione confessionale, che senza la domanda su Dio la filosofia perde il proprio cuore. Torni dunque il Dio della prassi auspicata da Kearney, ma senza concorrenza con un eventuale Dio del pensiero che venga proposto con onestà intellettuale e rispetto delle differenze epistemologiche.

Questa prospettiva  - riservare alla fede la  competenza sulla pratica di vita      (Spinoza diceva sulla “obbedienza” al volere divino) e alla ragione filosofica la competenza sulla riflessione intorno al divino -  non è quella di Kearny: forse ne rappresenta addirittura il capovolgimento.  Egli, infatti, afferma chiaramente:



                            la mia posizione ermeneutica in quest’opera è filosofica

                        piuttosto che teologica[11].



       Anzi,  per trasparenza, aggiunge di fare riferimento a una determinata     prospettiva filosofica,



                             quella fondata, da una parte, sulle teorie moderne della

                fenomenologia e dell’esistenzialismo, e, dall’altra, sui concetti

                postmoderni di poststrutturalismo e decostruttivismo.[12]



              Se è così, la convinzione che col crollo delle pretese conoscitive della teologia debbano implodere le pretese conoscitive della filosofia, vale quanto valgono le teorie di “Derrida, Levinas, Kristeva”[13]  o Vattimo (che non a caso firma la Introduzione all’edizione italiana del libro). Ma è una convinzione che mi lascia assai perplesso. Non per giocare con le reminiscenze platoniche, ma quando Kearney  - per limitarmi a una sola esemplificazione fra le molte possibili – scrive  che



                          solo ammettendo di non conoscere effettivamente nulla

                  di Dio, possiamo iniziare a ripristinare la presenza del sacro

                 nella carnalità dell’esistenza terrena[14],



    mi frulla spontaneamente una domanda: non bisogna sapere qualche cosa di minimale su Dio (dare un minimo di significato al semantema “Dio”) per poter sapere di “non conoscere effettivamente nulla di Dio”? Così come per poter affermare di non conoscere le equazioni di secondo grado devo avere una qualche nozione, per quanto approssimativa e confusa, di “equazione”? E’ bene che la riscoperta della fede autentica, in quanto riscoperta della dimensione erotica e soprattutto agapica dell’esperienza antropologica, ci liberi dai dogmatismi confessionali; ma non sarebbe altrettanto auspicabile che ci liberasse (ammesso che fosse possibile)  dalla benedetta condanna ad interrogarci incessantemente, in quanto animali pensanti,  su ciò che intendiamo quando parliamo  - per ammetterlo o per negarlo – di “divino”, di “santo”, di “sacro”.

    L’ineliminabilità di un logos intorno al theos, o al theion, insomma di una teologia filosofica, laica,  sembrerebbe confermata anche dall’osservazione della storia del pensiero occidentale recente. In esso qualche studioso ha distinto, a proposito del nostro tema, due percorsi principali. Il primo esclude come irrilevante la questione su Dio. Ma un secondo percorso che



                  riconduce la filosofia verso il tema originario e

     fondamentale dell’Essere e dell’Intero, ossia del senso

     ultimo della realtà;



 verso



                     un pensiero metafisico inusitato che, facendo

     propria la lezione nietzschiana, vada oltre la superata

     ontologia occidentale, basata sull’Essere di Parmenide

     e sulla Sostanza di Aristotele – in tal senso esso si manifesterà

    paradossalmente come ‘anti-metafisico’ – senza per questo

    rinunciare a porsi la domanda fondamentale: “che cos’è

     l’Essere?[15].



     Il “disegno di una metafisica innovativa”   - quale ci viene prospettato, da postazioni assai diverse, da protagonisti come Heidegger[16] e Wittgenstein[17]  (per limitarci a due fra i molteplici riferimenti possibili) –





                     risponde, in ultima istanza, al bisogno dell’uomo contemporaneo

       di riconsiderare sotto una diversa luce, relazionale, globalizzata, ecumenica

      e, soprattutto, “pratica” il tema del divino[18].



    Se Dipalo ha ragione, non si tratta di opporre la prassi alla teoria, ma di elaborare una nuova teoria in cui la dimensione pratica abbia tutto lo spazio a cui ha diritto (o, meglio, di cui noi mortali abbiamo bisogno).

 c) Non vorrei chiudere la riflessione sulle prospettive dell’ana-teismo senza aggiungere almeno un’ultima notazione (questa volta soltanto di consenso).

   L’ana-teismo non può non indurci a guardare con occhi più attenti, e orecchie più disponibili, alle spiritualità lontane dalle nostre tradizioni. Significativa la scelta di Kearney di proporre il Mahatma Gandhi  come



                  l’ultima figura […] esemplificativa  del momento sacramentale

                che caratterizza l’anateismo.[19]

Tra i tanti aspetti della sua testimonianza, infatti, egli          


                     è stato coraggiosamente interreligioso, in quanto

               riteneva che ogni tradizione sapienziale aspira a una

                vita di servizio per gli altri. Per lui, tutti i percorsi

                spiritauli erano “differenti vie che convergono nello

                stesso punto”. E avendo presente ciò , non gli fu difficile

                dichiarare che, benché fosse un hindu, era anche “un

                musulmano, un cristiano, un ebreo e un sikh”.[20]





 Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com







[1] H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 2009, p. 91, cit. in  R. Kearny, Anateismo, cit., p. 77.

[2] R. Kearny, Anateismo, cit., p. 80.

[3] R. Kearny, Anateismo, cit., p. 3.

[4] Ivi, p. 4.

[5] Ivi, Prefazione, p. XXIII.

[6] Ivi, p. 235.

[7] Ivi, p. 239.

[8] Cfr. P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, Fazi, Roma 2010.

[9] F. Dipalo, Il divino dopo la morte di Dio: verso un nuovo concetto di spiritualità ecumenica nel mondo contemporaneo in AA. VV., Dio e il divino. Quante vie sono possibili in filosofia per sapere se Dio esiste e, se esiste, per sapere chi è?, Il giardino dei pensieri, Bologna 2013, pp. 128 – 129.

[10] Un “Elenco provvisorio degli italiani uccisi in quanto ‘eretici’ ” lo si trova in Appendice (pp. 199 – 202) al volume di V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi,Roma 2012.

[11] Ivi, p. XXVII.

[12] Ivi.

[13] Ivi.

[14] Ivi, p. 5.

[15] Ivi, p. 129.

[16] “Quella di Heidegger è una concezione  del divino ‘debole’ e ‘al femminile’. Un Dio absconditus (nascosto) che non ‘riempie’ , ma ‘contiene’, non s’impone attraverso la violenza del concetto , ma gentilmente si fa da parte affinché le sue creature  - gli enti – possano dar vita ad una fenomenicità danzante. Un Dio siffatto, non essendo concettualizzabile, non dogmatizza , non si lascia strumentalizzare né dà adito a fondamentalismi. Ad esso l’Occidente può pervenire recuperando quello spazio di spiritualità che la tecnica trionfante sembra aver del tutto estinto ” (Ivi, pp. 142 – 143).

[17] ”Anche in Wittgenstein, dunque, il divino si configura come ulteriorità. La sua ‘indicibilità’ non produce affatto un silenzio rassegnato, nichilistico, ma sviluppa nuove possibilità di comprensione, in senso meditativo ed esperienziale” (Ivi, pp. 146 – 147). Poiché, secondo Ernst Jungel (Dio, mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982), il soggettivismo cartesiano e kantiano, abbracciato entusiasticamente dalla maggior parte dei teologi moderni, porta dritto dritto alla “morte di Dio”, Fergus Kerr ha sostenuto che la critica di Wittgenstein a questa “epistemologia mentalistica e individualistica” ed il recupero da lui attuato della “dimensione corporea, storica ed istituzionale” del soggetto umano costituiscano un passaggio inaggirabile per salvare la possibilità di una teologia autenticamente cristiana (La teologia dopo Wittgenstein, Queriniana, Brescia 1992, p. 30).

[18] Ivi, p. 130.

[19] R. Kearney, Ana-teismo, cit., p. 212.


[20] Ivi, p. 215 (dove si trovano i rimandi bibliografici alle citazioni gandhiane).

4 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Dopo aver letto il titolo del libro ho detto a Kearny: Anateista sarai tu! nel senso che nel mio frequentare «il confine fra la ricerca filosofica e l’indagine teologica» pur trovandomi prossimo a numerose posizioni di Kearny che hai sintetizzato, mi sembra riduttivo definire la complessità di un percorso -sia pratico che teoretico- con un’etichetta. Se ho ben inteso “ana” di Anateismo è inteso come ‘all’insù, in alto, sopra’; rimanendo nell’asfittico orizzonte delle etichette che nel caso di specie indicano, forse con eccessive pretese, inedite “terze vie” avrebbe anche potuto definirlo Anaateismo. Suona male e si modificherebbe il punto di partenza ma, tutto sommato, in questo sostituire l'ordine dei fattori, il prodotto finale rimarrebbe invariato.
Caro Augusto le tue “considerazioni a margine” risolvono le mie perplessità.

Francesco Dipalo ha detto...

Ho appena finito di leggere il tuo articolo sull’anateismo di Kearny. Una delle peculiarità della concezione buddista è proprio di distinguere il piano della prassi, cui viene data la preminenza, rispetto alla teoria. Considera che la svolta ortopratica e terapeutico-soteriologica viene impressa dal Buddha storico su una tradizione di pensiero mitilogico, liturgico ma anche altamente intellettualizzato che intorno alla metà del primo millennio prima di Cristo, di fatto, non aveva rivali in nessuna parte del mondo. Ciò non toglie che nei secoli successivi all’ortopratica si sia affiancata una produzione filosofico-intellettuale di grande rilievo, senza per questo che i due aspetti siano finiti per confliggere come nella dicotomia tra tradizione biblica e tradizione filosofica greca.
I due corni della questione sono presenti anche nella tua persona. C’è la grecità dia-logica di Socrate con la sua urgenza di ricerca intellettuale, la sua inquietudine razionale. E c’è l’impegno etico-politico, sorretto sia in termini esperienziali-umani che teoretici dalla teologia agapica cristiana che si affianca e dà corpo al socratismo. Ma poi c’è anche un’altra dimensione, più intima, più personale, che sono sicuro tu conosci, e che si pone al di là della filosofia filosofata a colpi di argomenti, passione nobile erotica, e dell’impegno, altrettanto nobile, con la gente, ispirato dall’agape cristiana. Mi riferisco all’esperienza della kenosis come esercizio spirituale di svuotamento dall’egocentrismo, e di ricollocamento in un altrove pacifico, attingendo al quale si possono poi trovare le energie “giuste” per il primo ed il secondo tipo di attività. Ecco kenosis, svuotamento è detto in altri termini il cuore della pratica meditativa buddista (lì si parla di vuotezza, sunyata).
Se non ho agio a far i conti con me stesso, se non imparo la semplicità, l’umiltà del confronto con la mia interiorità, tutto diventa più difficile. La ragione s’inceppa, lo spirito di servizio verso l’altro si consuma. Occorre avere un “posto dove tornare”. Qualcosa mi dice che intendi perfettamente quello che intendo, al di là delle parole. Ecco, nella tradizione buddista, accanto a testi di grandissima profondità filosofica, troviamo una letteratura a supporto della pratica della sperimentazione del sé: consigli su come rettamente concentrarsi, su come sedere, su come camminare, su come mangiare, ecc. La prova non è affidata tanto alla razionalità degli argomenti – che pure è spesso evidente – o al comandamento divino – che è invece del tutto assente – quanto alla empiria: fallo e poi mi dirai.
Insomma, lo stesso Socrate, che pure non era mai a corto di argomenti, quando parla del daimon che, tacendo, si limita a non vietargli questa o quella cosa, fa riferimento anch’egli ad una dimensione che è oltre-logica, divina, spirituale, o chiamiamola come ci pare.
Seguendo il tuo ragionamento sull’anateismo abbiamo bisogno: 1) di riscoprire le radici di una spiritualità praticata, da cui attingere risorse per un’etica condivisa; 2) ripensare il divino in termini filosofici, non dogmatici. Davvero, da questo punto di vista la tradizione buddista ha molto da insegnarci. Questa è sostanzialmente anche la mia tesi, fermo restando che sono un pessimo praticante (in senso buddista) ed un pessimo filosofo (in senso occidentale).
La parola chiave per me suonerebbe “umanismo ecumenico”: se riuscissimo a creare delle categorie pratiche trans-culturali di ricerca umanistica, non avremmo bisogno di dogmatizzare su Dio, sarebbe lì, si rivelerebbe da solo, per quello che ci è dato saperne: non-onnipotente, ulteriore, aperto, energetico-materiale, padre, meravigliosamente vuoto e per questo meravigliosamente accogliente.
Va beh dai tanto io non rischio niente, nemmeno una cripto-accusa di eresia. Chissà che un domani non si riesca a lavorare ad un testo congiunto su questi temi, declinando in maniera innovativa greco, cristiano e buddista.
Apprezzo moltissimo che alle parole tu faccia seguire sempre i fatti. Virtù rarissima, tra colleghi ed editori.
A presto
Francesco

Unknown ha detto...

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Elio Rindone ha detto...

Molto interessante il tuo articolo filosofico; non mi convince, però, quest’affermazione: La seconda direttiva è kantiana/kierkegaardiana/barthiana: delegittimare l’autorità della ragione per lasciare all’opzione di fede l’esclusiva del passaggio dal mondo al “Totalmente Altro”. La nozione di fede di Kant mi pare troppo diversa da quella degli altri per metterli assieme.
Mi pare giusto che la ragione umana si fermi alle soglie del mistero perché, quando cerchiamo di attraversarle, adoriamo i nostri idoli.