lunedì 30 marzo 2015

LE CHIESE MERIDIONALI E LE CRIMINALITA' MAFIOSE: A CHE PUNTO SIAMO ?

Il prestigioso mensile interculturale "Confronti" ha inserito, nel numero di aprile, un dossier sulle varie sfaccettature del fenomeno mafioso oggi. Sono stato lieto di contribuire, su richiesta della Direzione, con alcune pagine su chiese e mafie che riproduco qui di seguito.

“Confronti”
Aprile 2015


LA STRATEGIA DEL BASTONE E DELLA CAROTA


Sul rapporto fra le chiese meridionali (cattolica, soprattutto ma non esclusivamente) e le associazioni di stampo mafioso è facile opporre apologia a demagogia. A chi sostiene  - soprattutto in ambienti di “sinistra” – che clericali e mafiosi vanno a braccetto si obietta – soprattutto in ambienti “moderati” – che non è vero; che anzi i cristiani di varie confessioni si sono sempre opposti con fermezza alla violenza criminale e che in alcuni casi (Piersanti Mattarella, Paolo Borsellino, Rosario Livatino… ) hanno pagato con la vita la loro opposizione.        Chi ha ragione? Per rispondere con un minimo di oggettività storica bisogna premettere che i cristiani del Meridione italiano si atteggiano nei confronti della mafia esattamente come la media dei loro concittadini. Una piccola parte ne è complice più o meno intimamente; un’altra parte, altrettanto piccola, si impegna seriamente nel contrastarla. E la maggioranza ? La maggioranza, per riprendere un’amara metafora di Giovanni Falcone, sta a guardare dagli spalti dell’arena come si svolge la corrida, alternando il tifo per il torero (le istituzioni statali sane) al tifo per il toro (le criminalità organizzate).
C’è una logica nell’alternarsi di rifiuto della mafia e di consenso sociale ad essa? Approssimativamente, sì. Ci sono momenti in cui le associazioni mafiose mostrano il loro volto armato, violento, talora terroristico: i cadaveri insanguinati per le vie di Catania e di Napoli, di Bari o di Palermo suscitano il ribrezzo e le maggioranze “silenziose” scendono in piazza, affollano le cattedrali in lutto, stendono lenzuoli bianchi dai balconi. Ma la mafia spara quando è in difficoltà. Ordinariamente le basta l’intimidazione. Anzi, spesso, non solo non deve esercitare violenza, ma neppure minacciarla: le basta comprare la libertà delle persone di cui vuole servirsi, corromperne le coscienze. Quando prevale questo volto apparentemente mite, o addirittura benevolo, la mafia ritrova il consenso sociale della maggioranza dei cittadini. E dei credenti. Insomma – per essere sintetici ma spero chiari – la strategia mafiosa alterna la carota della seduzione corruttiva con il bastone della punizione violenta ai disobbedienti: e sperimenta che con la carota guadagna più adepti di quanto ne ottenga con il bastone. L’era dello stragismo imposto dal boss  Totò Riina è durata circa dieci anni (e ha portato alla repressione giudiziaria e al conseguente  scardinamento della struttura militare di Cosa nostra); l’era del clientelismo corruttivo del politico  Totò Cuffaro è durata il doppio (e, per molti versi, sopravvive alla condanna giudiziaria del suo Demiurgo pacione per favoreggiamento mafioso).
Per capire un po’ più a fondo questo affresco storico-sociologico bisognerebbe accordarsi su una interpretazione della mafia come fenomeno complesso quale emerge, ad esempio, dagli studi di Umberto Santino e, più in generale, del Centro di studi siciliano “Giuseppe Impastato”: un’associazione di cosche criminali che hanno come obiettivo l’accumulazione del denaro e l’esercizio del potere mediante un vasto consenso sociale ottenuto mediante la condivisione di un codice culturale e la minaccia della violenza. Il punto nevralgico per intendere le relazioni fra mafie e chiese mi pare proprio il tassello del “codice culturale”. I mafiosi vogliono il controllo del territorio e sanno che, tradizionalmente, esso è in mano alle organizzazioni religiose (in primis le parrocchie cattoliche). Come fare per scalzare in un quartiere la presenza e l’influenza ecclesiale (che accompagna gli abitanti dalla culla alla tomba, passando per le tappe più significative dell’esistenza)?
In astratto essi avrebbero due vie: la contrapposizione frontale e l’infiltrazione mimetica. Nei rari casi in cui hanno adottato la prima strada (assassinando don Pino Puglisi, don Peppino Diana…) hanno sperimentato una sorta di effetto – boomerang : hanno scosso l’indifferenza dei fedeli, provocato sconcerto e sollecitato l’intervento più incisivo delle autorità giudiziarie. Più spesso i mafiosi hanno preferito, alla contrapposizione frontale, l’affiancamento complice. O in forma diretta (per esempio finanziando costruzione di chiese, erezione di oratori, festeggiamenti in onore di santi…) o, più spesso, in forma mediata: attraverso “amici” in comune che occupano ruoli istituzionali. I politici, collusi e compiacenti,  costituiscono il ponte dorato che lega abitualmente mafiosi e cristiani.
Due osservazioni su questa triangolazione mafia-politica-chiese.
La prima: non sono sempre e soltanto i soldi che passano dai forzieri mafiosi, macchiati di sangue innocente, alle casse parrocchiali, grazie alla mediazione dei politici (nazionali e soprattutto locali). I mafiosi sono sempre disposti a offrire agli ambienti cristiani (soprattutto cattolici) il supporto contro i “nemici” del momento: tipico (come ha documentato molto accuratamente lo storico della chiesa cattolica don Francesco Michele Stabile) il caso dei movimenti  di lotta contro i latifondi patronali ed ecclesiastici, i sindacati socialisti, il partito comunista. Schierandosi contro la “sinistra”, i mafiosi hanno lanciato un patto alla Democrazia cristiana e alle gerarchie cattoliche: un’alleanza (o per lo meno una convivenza non belligerante) in nome del principio per cui i nemici dei miei nemici sono miei amici.
La seconda osservazione: nessuna alleanza politica regge nel lungo periodo senza una consonanza ideale (o, per lo meno, ideologica). Più o meno sinceramente, i mafiosi vogliono adottare il punto di vista cristiano sul mondo, sulla storia, sulla vita. Un’impresa impossibile, a prima vista: come conciliare il vangelo della fraternità, della pace, della tenerezza con una mentalità ossessionata dall’accumulo del denaro, dal dominio sugli inermi, dalla minaccia della violenza? Tra annunzio cristiano e filosofia mafiosa l’incompatibilità è netta, insuperabile. Ma nei venti secoli del cristianesimo quel messaggio originario non è rimasto inalterato nella sua forza innovatrice, rivoluzionaria. E’ stato addomesticato, normalizzato, imborghesito. E’ diventato sempre più una dottrina dogmatica da accettare ciecamente e una ritualità formale da praticare. In particolare (come ho cercato di dimostrare ne Il Dio dei mafiosi), i membri delle cosche e i loro sodali hanno potuto adottare molti princìpi qualificanti del cattolicesimo mediterraneo: l’enfatizzazione della tradizione, l’assolutizzazione dell’obbedienza, il familismo esasperato, il maschilismo anaffettivo, la concezione riduttiva della donna…Il risultato di questi processi è un groviglio di simboli religiosi, interessi borghesi e atteggiamenti mafiosi che non sarà facile sciogliere. Soprattutto sino a quando ci rifiuteremo di vederlo senza schermi protettivi.


Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com



domenica 29 marzo 2015

MOVIMENTO 5 STELLE : LA PAROLA ALLA DIFESA

Ancora una volta sono lieto di ospitare nel mio blog, su richiesta dell'autore, un 'post' di Elio Rindone.

E se non fosse vero?

L’accusa più frequentemente rivolta ai parlamentari del movimento 5 stelle è quella di essere ‘inutili’, perché rifiutano ogni intesa con altri partiti e congelano così i milioni di voti ricevuti. Che sia questa l’immagine veicolata dalla stragrande maggioranza di televisioni e giornali è fuori di dubbio, ma ci si può fidare di mezzi d’informazione in buona parte controllati da chi è al potere? Chi fosse interessato ad ascoltare l’altra campana, potrebbe dare un’occhiata al video raggiungibile al link seguente e forse scoprirebbe che non è affatto vero che i pentastellati sono stati per due anni con le mani in mano. Hanno fatto numerose proposte: poche accolte, molte respinte da una casta che difende un sistema profondamente marcio, come rivelano gli scandali che scoppiano con una frequenza impressionate. Ma cos’altro si può chiedere a chi è in minoranza se non contrastare le riforme disastrose (senato, italicum, sbloccaitalia, riforma del lavoro e della scuola) approvate o progettate da una maggioranza parlamentare eletta con una legge dichiarata incostituzionale?

I 5stelle in parlamento

Elio Rindone

29/3/15

sabato 28 marzo 2015

LA TIRATA D'ORECCHIE DELLA DIA ALLA CHIESA CATTOLICA

Nella "Relazione" annuale della Direzione investigativa antimafia (Roma)  c'è un passaggio in cui gli estensori notano con approvazione che, dopo un lungo periodo di silenzio, anche la Chiesa cattolica si sta svegliando nel Meridione italiano e sta prendendo le distanze dalle infiltrazioni mafiose nei suoi organismi e nelle sue manifestazioni (processioni etc.).
L'agenzia di stampa "Adista" (Roma) mi ha chiesto alcune righe di commento da affiancare alle considerazioni di altri osservatori.
Il servizio, a firma di Valerio Gigante, è uscito su "Adista - Segni nuovi" del 4.4.2015.
Qui di seguito la mia sintetica dichiarazione:
 "Che papa Francesco non perda occasione per ribadire l’incompatibilità fra fede cristiana e appartenenza al mondo delle cosche mafiose è cosa buona (soprattutto se si nota la distanza dai due ultimi predecessori concentrati su questioni di sesso e dintorni). Sarebbe da ingenui, però, aspettarsi dei mutamenti repentini in una Chiesa che – dalle origini ottocentesche delle criminalità organizzate – ha optato per un’illusoria equidistanza fra Stato e mafia, certa di poter lucrare protezione e privilegi dall’uno e dall’altra. Serviranno ancora molti anni  - e alcuni papi  – per vedere risultati. Che autorità giudiziarie sollecitino i cattolici ad impegnarsi in questo processo di rinnovamento è altrettanto opportuno. A patto, però, che la critica sia accompagnata dall’autocritica. In Sicilia, per circa un secolo, le gerarchie ecclesiastiche hanno stentato persino ad ammettere che esistesse un fenomeno mafioso. Ma, nello stesso lasso di tempo, i procuratori generali, nelle statistiche dei reati a inizio di anno giudiziario, omettevano persino il vocabolo 'mafia' ".

venerdì 27 marzo 2015

COSA POSSO FARE PER COMBATTERE IL SISTEMA MAFIOSO ?


“Monitor”

27.3.2015

 COSA SI PUO' FARE CONTRO LA MAFIA....


Uno studente marchigiano, Enrico Tidei, mi ha scritto tempo  fa dopo un incontro che ho tenuto per la sua scuola, l’Istituto Tecnico Commerciale di Amandola (in provincia di Fermo). Avevo un po’ illustrato alcuni tratti essenziali del sistema di dominio mafioso nel Meridione italiano e il giovane interlocutore mi ha voluto indirizzare, via internet, una domanda: “Il governo vanta grandi successi nella lotta alle mafie e, a conferma, televisioni e giornali informano i cittadini sugli arresti quotidiani. Gli arresti sono necessari. Ma Lei pensa davvero che siano sufficienti per sconfiggere le mafie?”.

Se le criminalità di stampo mafioso fossero bande di delinquenti – come ce ne sono state in ogni epoca e come ce ne sono su tutto il pianeta – la repressione giudiziaria e poliziesca sarebbe sufficiente. Purtroppo, però, in diverse regioni del Sud (e, ormai, anche del Centro e del Nord) ci troviamo a fronteggiare delle organizzazioni complesse, poliedriche: che hanno una struttura militare, certo, ma anche una identità culturale, una strategia politica e una vasta ramificazione in campo finanziario ed economico.

Se è così, la convinzione che trapela dal modo in cui Enrico pone l’interrogativo è ben fondata: lo smantellamento della struttura militare, per quanto necessario, è insufficiente. Catturati cinque boss, le organizzazioni mafiose ne eleggono altri cinque; sequestrate dieci imprese commerciali, le organizzazioni mafiose si impadroniscono di altre dieci. . .

Da questa complessità alcuni si lasciano scoraggiare: la mafia è troppo radicata, e troppo diffusa sul territorio, perché la si possa davvero estirpare ! E’ una reazione comprensibile, ma non giustificabile. In ogni caso, non è l’unica possibile. In Sicilia migliaia di cittadini  - una minoranza rispetto a cinque milioni di abitanti, ma una minoranza riflessiva e combattiva – provano a contrastare le associazioni mafiose precedendo, affiancando e continuando l’opera della magistratura e delle forze dell’ordine. Come ?

Ognuno di noi può fare qualcosa. Favorire gli imprenditori puliti che si impegnano, pubblicamente, a non pagare il pizzo; scegliendo partiti politici e candidati che non abbiano frequentazioni sospette; testimoniando nei luoghi di lavoro  - soprattutto nelle scuole, negli ospedali e nelle carceri – i princìpi dell’uguaglianza democratica, della solidarietà civile, della giustizia sociale, della legalità costituzionale. La mafia è un cancro e la tattica più urgente è isolare gli “uomini d’onore” e i loro complici per evitare che moltiplichi le sue metastasi inquinando in maniera definitiva il tessuto circostante.

E’ bene che queste cose si sappiano non solo dalle nostre parti, ma anche nel resto del Paese dal momento che – per riprendere la metafora di Leonardo Sciascia – “la linea della palma” va salendo: e contrastare i mafiosi nei primi tentativi di infiltrazione è molto meno arduo che provarci quando ormai si sono insediati stabilmente in un territorio.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

mercoledì 25 marzo 2015

A SINISTRA DEL PD : TIMORI E SPERANZE


“Siciliapiu.info”
22. 3. 2015

SPERANZE E TIMORI ALLA SINISTRA DEL PD

L’interesse del convegno a Palermo su Il centrosinistra tra riformisti e riformatori (20 - 21 marzo 2015) risalta se lo si inserisce in un processo nazionale più ampio, incentrato su un interrogativo fondamentale: l’attuale PD è il massimo di “sinistra” che possiamo permetterci (e, soprattutto, di cui ha bisogno il Paese)?
La questione, almeno per alcuni di noi, non è così semplice come appare ad altri. I devoti del renzismo non hanno dubbi nel rispondere affermativamente, proprio come i suoi demonizzatori non hanno dubbi nel rispondere negativamente. Ciascuno dei due fronti ha abbastanza ragioni da accampare. Non c’è dubbio, infatti, che la maggioranza degli italiani è culturalmente “moderata” e che ciò che ha foggiato Renzi  - una versione postmoderna, tecnocratica e liberal  della Democrazia Cristiana o, s si preferisce, una versione domestica del Partito Democratico statunitense –  costituisce l’organizzazione politica più avanzata che possa aspirare, oggi, al governo dell’Italia.
Ciò assodato, ci si può chiedere però se un “centro” (per quanto meno corrotto e meno parolaio dei contenitori-azienda sfornati da Berlusconi) possa svolgere bene  - o almeno discretamente – la propria funzione senza né una “destra” decente né una “sinistra” consistente. L’illusione dei partiti “pigliatutto” (espressione che in politologia non ha un’accezione negativa) è di poter fare a meno degli “estremi”: ma la storia la smentisce. In prospettiva, infatti, un’egemonia centrista senza pungoli né da un lato né dall’altro è destinata prima a creare organizzazioni extra-parlamentari più o meno eversive (alimentate da tutti coloro, specie giovani, che non vedono possibilità di essere rappresentati dentro le istituzioni) , poi a estinguersi per auto-combustione da sostanze inquinanti (massoni, mafiosi, speculatori e arrampicatori di ogni colore si precipitano, infatti, per dirla con Flaiano, in soccorso del vincitore, la cui motonave finisce con l’affondare per eccesso di passeggeri più o meno abusivi).
Riusciranno i nostri eroi  - Civati, Landini  & orfani di Vendola – a costruire l’alternativa di “sinistra”? A caldo risponderei: spero tanto di sì, temo tanto di no. Alcune ragioni della speranza le ho appena evocate. I timori li posso sintetizzare in due o tre punti. Il primo, e fondamentale, è la difficoltà di una base ideologica. Comunismo marxista e socialdemocrazia possono offrire ottimi elementi di analisi e di intervento, ma solo se ripensati creativamente anche alla luce dei fallimenti (parziali) del Novecento. Ma ad oggi questa base teorico-programmatica, intessuta di ciò che di più valido possono offrire altre tradizioni politiche (dal cattolicesimo democratico all’ambientalismo sino all’anarchismo), è stata elaborata?
Mi pare di no. E quel che è più grave mi pare che non sia neppure in agenda. Sono qui al secondo motivo di timore: una “sinistra” all’altezza delle sfide contemporanee dovrebbe attivare laboratori di studio, di progettazione, di diffusione delle idee scientificamente e filosoficamente fondate. I leader populisti non si battono con gli slogan perché, su quel piano, sono dei maestri. In una battaglia politica i comunicatori sono preziosi, ma senza retrovie di pensatori  sono condnnati a comunicare il vacuo: sono come mitragliatrici senza munizioni.
Mi rendo conto di non stare aggiungendo nulla di sostanziale alla tesi di Gramsci secondo cui il blocco storico dei privilegiati può essere scardinato solo da una “riforma intellettuale e morale”. Già: anche “morale”. E qui arrivo al terzo, e ultimo, motivo di sconforto. Tra i protagonisti del movimento che si riunisce a Palermo ci sono anche personaggi che, in più di un’occasione, hanno dato prova di disinvoltura etica. Diciamo, per non sbilanciarci andando al di là dei dati noti e incontestabili, che hanno dimostrato un pragmatismo molto elastico. Se anche su questo versante – soprattutto su questo versante – non si danno segnali chiari e costanti di “diversità” (per evocare Berlinguer) non si andrà lontano. Se dobbiamo navigare a vista, chiudendo ora un occhio ora due su alcuni princìpi deontologici, la gente si chiederà perché votare per le imitazioni se sono già disponibili, sul mercato politico, gli originali.

Augusto Cavadi


domenica 22 marzo 2015

CI VEDIAMO MARTEDI' 24 MARZO 2015 ALLA "FELTRINELLI" DI PALERMO ?

Martedì 24 marzo, alle ore 18, insieme a don Francesco Michele Stabile e all'autore, presenterò alla Libreria Feltrinelli di Palermo il libro del giovane studioso Salvo Ognibene, L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti (Navarra, Marsala 2015).
 

L'ANTIMAFIA E' TUTTA SOSPETTA ?


“Repubblica – Palermo”
21.3.2015

COME RICONOSCERE L’ANTIMAFIA AUTENTICA

Giovanni Fiandaca ha opportunamente avviato la riflessione sul doloroso frangente del fronte antimafia: spaccato per accuse contrapposte e, per giunta, in alcuni casi fondate. Del suo articolato ragionamento vorrei estrarre un passaggio e approfondirlo: con quali criteri possiamo distinguere l’antimafia autentica dal suo alias strumentale? Diciamolo subito: non è un test agevole. Ma irrinunciabile. L’esercito in  guerra contro il sistema di dominio mafioso non può permettersi doppiogiochisti  tra le proprie fila, soprattutto se occupano posti di rilievo.
Mi pare che, per un esame approssimativamente attendibile,  si possa provare a formulare tre domande. La prima: questo personaggio, o questo insieme di personaggi, sta guadagnando in termini finanziari dal suo impegno antimafia? Negli ultimi quarant’anni ho conosciuto centinaia di cittadini che hanno attivato associazioni, centri studi, movimenti, riviste, coordinamenti, centri sociali…non solo senza ricavare profitti ma investendo denaro di tasca propria. Questo non significa che le organizzazioni antimafia che ricevono fior di quattrini dalla Regione siano senz’altro inquinate: tuttavia la gratuità dell’impegno è un indicatore di cui tener conto.
Si potrebbe obiettare che individui e collettivi siano mossi  - quando non da cupidigia finanziaria – da desiderio di carriera. E’ uno dei sospetti formulati da Leonardo Sciascia nella famigerata polemica contro i “professionisti dell’antimafia”.  Una disamina onesta dei dati statistici conferma, da una parte, che in alcuni casi dichiararsi antimafiosi agevola il successo nella propria professione; ma che in molti più casi o non comporta vantaggi o comporta seri svantaggi. Ai magistrati, agli assistenti sociali, agli insegnanti, ai preti… che si sono schierati con decisione contro i mafiosi, di solito ciò non ha comportato privilegi. Se mai sorrisetti di compatimento, quando non aperta diffidenza. Ritengo un indizio di autenticità dell’impegno antimafioso di un funzionario  pubbblico constatare (senza aspettare necessariamente che venga assassinato dalle cosche criminali) che, proprio in conseguenza del suo impegno, viene scavalcato nell’assegnazione degli incarichi di responsabilità da colleghi più ‘moderati’, più ‘prudenti’.  Talora persino ricorrendo a modifiche della normativa vigente pur di bloccarlo.  Anche qui vorrei essere chiaro: ciò non significa, automaticamente, che chi fa carriera combattendo la mafia sia un opportunista. Significa solo che chi continua a fare antimafia, nonostante gli svantaggi in termini di  carriera professionale (e persino mettendo a repentaglio la stessa vita), offre un elemento di autenticità non trascurabile.
Ma – e siamo a un terzo criterio di discernimento – se non per fame di denaro e di carriera, non ci si potrebbe collocare fra gli antimafiosi per fame di notorietà, di successo massmediale?  E’ questa una tentazione ben radicata, e ben diffusa, fra i militanti dell’antimafia. La visibilità nella carta stampata o in televisione appare troppo spesso la passione segreta, ma divorante, di minoranze consistenti . Va precisato che si tratta comunque di minoranze numeriche e che solo per imperdonabile e qualunquistica ingenerosità si può semplificare il quadro ed affermare che in Sicilia ci si schiera contro la mafia per strappare quello straccio di notorietà che non si è stati capaci di raggiungere in altri campi e con altri mezzi. A piccole dosi, questa pulsione esibizionistica  è un vizietto più ridicolo che pernicioso. Grave diventa quando provoca spaccature fra un’organizzazione e l’altra solo per un’intervista in più o per un servizio televisivo in meno. Ancora più seria si fa la situazione quando l’esponente antimafia investe il patrimonio di visibilità pubblica candidandosi nelle fila di un partito politico.  E’ lecito affermare che passare dall’impegno antimafia (nella professione o a titolo di volontariato) all’impegno politico-istituzionale sia un chiaro sintomo di inautenticità? Ovviamente, no. Specie quando la decisione di candidarsi non è esclusivamente individuale ma nasce come risultato di una sinergia più ampia, come risposta all’invito di una fetta rilevante del movimento antimafia. Solo chi ha lo sguardo impuro proietta, in chiunque si renda disponibile alla politica attiva, volontà di dominio. Se però questo stesso esponente del movimento antimafia non si limita a dichiararsi disponibile, ma briga per candidarsi; una volta eletto non si mostra né capace di espletare il nuovo compito né di studiare per rendersene degno; non si limita a un periodo determinato della sua vita, ma si abbarbica alla poltrona  violando le norme statutarie del proprio partito o aggirandole saltellando da una lista all’altra… Ecco altrettanti indizi di una strategia che, per parafrasare don Lorenzo Milani, si serve dell’antimafia anzicché servirla.

Augusto Cavadi
                                                     


venerdì 20 marzo 2015

VIOLENZA SULLE FEMMINE: SOLO COLPA DEI MASCHI ?


 “MONITOR”
20.3.2015

IL RUOLO DEI MASCHI E DELLE FEMMINE


 Fabio Nestola, che vive a Roma,  è uno dei lettori che ci può seguire anche fuori dalla provincia di Trapani perché le riflessioni in questa rubrica sono gentilmente riprese e rilanciate sul web da alcune rassegne-stampa online (nel suo caso da www.cronachelaiche.globalist.it) . Riferendosi al resoconto di un incontro pubblico tenutosi a Palermo alcuni mesi fa (cfr. “Monitor” del                    23.1.2015), il cortese lettore enuncia due punti di disaccordo (per altro strettamente legati).
       Il primo di carattere linguistico: “La contrapposizione maschi/donne slntentizza  - a mio sindacabilissimo parere - un pregiudizio ideologico che va oltre il mero lessico. La scelta dei termini ha il suo peso. Non maschi/femmine, non uomini/donne, l’articolo parla solo di maschi e di donne. Ovviamente non è una caratteristica esclusiva del Suo articolo, la contrapposizione maschio/donna inquina atti parlamentari e talk-show televisivi, saggi ed articoli, manifestazioni e convegni”. Su questa prima osservazione non posso che dichiararmi d’accordo: sarebbe più logico, e più coerente, parlare o di maschi/femmine o di uomini/donne. Preciso però che, nel mio caso (non posso rispondere di tutti quelli che scrivono in italiano !), ero partito escludendo la coppia maschio/femmina perché non mi piace designare così il secondo sesso; ma quando mi sono trovato di fronte a uomo/donna mi sono chiesto se fosse una dizione abbastanza chiara dal momento che in italiano “uomo” indica non solo il genere maschile ma anche il genere umano (incluso, dunque, il genere femminile). Da ora in poi  - lo prometto – solo uomini/donne !
   Ma l’osservazione di Fabio Nestola è stata dettata da una preoccupazione ben più che filologica o stilistica: teme che abbia usato “maschio” per marcare una responsabilità morale nei confronti della violenza contro le donne. Perciò egli aggiunge: “Un profondo condizionamento culturale ha ormai trasformato maschio in insulto, tara genetica disfunzionale, infezione della quale vergognarsi. Qualsiasi episodio di cronaca nera lancia la campagna antimaschile, dallo stalking alle percosse, dal maltrattamento all’uxoricidio.
Reati gravissimi, sia chiaro, ma emerge un’anomalia dal fatto che la crociata - invece che contro una minoranza deviante - parta contro l’intero genere maschile. Rivendico il diritto di non sentirmi in colpa quando arrestano il Massimo Carminati di turno, spero concorderà”.  Se si vuole affermare che la responsabilità etica è, prima di tutto ed essenzialmente, personale, ovviamente concordo col garbato interlocutore. Chi accusa i maschi (o gli uomini) in blocco di violenza sulle donne sbaglia come chi accusa gli scozzesi di essere tirchi o i siciliani di essere mafiosi. Ciò precisato, aggiungerei che non siamo individui isolati, come ci raffigura la cultura liberal-borghese; la responsabilità primaria e irriducibile del soggetto che picchia, violenta o uccide non esclude, a vari livelli analogici, la cor-responsabilità secondaria di un contesto culturale, sociale e politico. L’uxoricida o il padre che picchia a morte la figlia disobbediente non sono isole nell’oceano: prima, e intorno, ad essi circolano idee, pregiudizi, costumi, normative che possono favorire  - o per lo meno non scoraggiare -  determinati gesti criminali. Di questo ambiente inquinato siamo tutti, almeno un po’, responsabili: sia con ciò che diciamo e facciamo, sia con ciò che non diciamo e non facciamo. Quando dico “tutti”, intendo proprio tutti: maschi in primis ma anche femmine. Della violenza contro le donne, come di ogni altro tipo di violenza sul pianeta, nessuno si può ritenere perfettamente innocente.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 18 marzo 2015

CONSIGLI FILOSOFICI PER SVALIGIARE LE BANCHE

 www.diogenemagazine.it
18.3.2015
IL FILOSOFO E L'ARTE DI RAPINARE LE BANCHE

E se un un bandito adotta un filosofo come consulente? Succederà – potrà succedere – ciò che è capitato a un certo Hubert, rapinatore di banche nonostante (o grazie a) diverse protesi ortopediche, che ha assunto come complice e consigliere Eddie Coffin, cinquantenne calvo e panciutello, docente  un po’ insoddisfatto di filosofia a Cambridge. Che cosa combini questa strana coppia lo potrete apprendere leggendo il romanzo di Tibor Fischer La gang del pensiero ovvero La zetetica e l’arte della rapina in banca. Qui mi limito a segnalare la conclusione operativa cui, dopo alcune settimane di consulenza filosofica, Hubert è approdato al colmo dell’entusiasmo per la nuova disciplina: 
Quando entriamo in una banca e annunciamo che siamo la Gang del Pensiero, se qualcuno ci risponde subito con una citazione tratta da un classico della filosofia, lasciamo in pace quella banca. Il nostro slogan sarà: solo la conoscenza vi salverà dalla Gang del Pensiero. Invece di chiamare la polizia, studiate i classici. Non comprate un allarme, procuratevi le opere di Zenone (p.189).
Ma quali i tratti essenziali della filosofia del professor Coffin, intendo della sua visione-del-mondo (in ordine - decrescente - di rilevanza teoretica)? Ho provato a spulciarli ed evidenziarli per chi di voi non avrà la curiosità di leggere l’intero romanzo.
Ragione strumentale (o scientifico-tecnica): facoltà necessaria ma non sufficienteLa ragione era considerata una novità curiosa nel mondo antico, era un ramo dell’industria dello spettacolo; è solo nel diciottesimo secolo che la ragione comincia a guadagnarsi da vivere, per portarvi da Londra a Edimburgo in minor tempo. La cosa diede una nuova spinta ai ragazzi del giro, che si misero tutti a cavalluccio di Newton. […] La ragione ha avuto il suo momento migliore quando ci ha portato da Londra a Edimburgo (e nell’ottundere qualsiasi dolore che possa risultare da tale viaggio). Però non va molto bene quando si tratta di decidere se valga la pena o no di andare (p. 162).
Natura: tutti la invocano, nessuno la descrive con precisioneSecundum naturam vivere (Seneca). […] Questa non invecchia mai. La si sente dappertutto: l’unico problema è decidere che cosa sia la natura. Se trovate qualcuno che ve lo spiega, dategli tutti i vostri soldi (p. 93).
Verità: vi aspiriamo, ma la raggiungiamo anche?Ogni generazione vede se stessa arrivata su bordo estremo, un bordo tagliente che continua a farsi strada. Un’abitudine in cui cadono tutti, a cominciare dai greci, i quali anche se ammettono che ci sono cose ancora avvolte nella nebbia, hanno inventato l’illusione che l’assegno sia stato già spedito. I vari chiliasti-visionari-millenaristi, insieme ai riempitori di vasche da bagno, ai fisici e agli abacologhi sono tutti d’accordo nel ritenere che LA COSA è a portata di mano, il PERCHЀ è vicino. Sia a livello di civiltà che a livello personale è sempre la stessa musica, non vediamo l’ora di ricevere il premio finale,la verità vera; e invece, tutto quel che otteniamo è uno scoppio di oscurità. Le ossa delle varie civiltà sono più grandi delle nostre, ma le delusioni sono le stesse (pp. 186 – 187).
Conosci te stesso: e se poi, conosciutomi, mi faccio schifo?Non ho mai capito perché Platone ha fatto tanta pubblicità alla vita consapevole. Lasciamo un momento da parte il fatto che non vale la pena vivere una vita senza consapevolezza, ma lo stesso potrebbe dirsi di una vita consapevole. Se si applica la zetetica alla propria vita ci si rende conto che è un mucchio di sterco fumante: una cosa è rendersi conto dell’assoluta indegnità della propria esistenza, affondare il dito nel viscidume della propria anima, tutt’altra cosa è impegnarsi a porvi riparo. È molto più facile tramutare un banchetto in escrementi che rendere commestibili gli escrementi. Oppure prendiamo l’oracolo di Delfi: conosci te stesso. E se si è il tipo di persona che si preferirebbe non conoscere? Mettersi davanti allo specchio e spararsi in faccia la propria faccia non è che sia una cosa invariabilmente congeniale. Siamo costretti a cuocere nel brodo del nostro io, sia che l’aroma ci piaccia o meno. Cosa quest’ultima che, sospetto, accade più spesso di quanto non si sia pronti ad ammettere, come esser costretti tutta la vita a lavarsi nella stessa acqua (pp. 80 – 81).
Tempo: sempre troppo o troppo pocoLa vita, le cose, la propria posizione passa di colpo dall’aver un sacco di tempo, troppo tempo, a disposizione al non averne affatto. Non riesco a individuare un punto dove il tempo ha brillato nel modo giusto (p. 179).
Il segreto dell’etica: non sciupare ciò che si haLe teorie sono teorie. Il vero segreto dell’universo sta nell’essere  in grado di goderselo. Godere di quel che si ha. È l’unica strada che va a parare in paradiso (p. 127).
Amicizia: vedi morte.
Morte: cosa si perde davvero morendoMi rendo sempre più conto che l’unica cosa che mi mancherà  sono gli amici. A parte il diluvio di terrore di trasformarsi in carcassa, la cosa che mi dà più fastidio è l’idea di perdere quella manciata di persone con cui posso avere una conversazione decente. Ci vuole una vita per  procurarsele. Perdere la vita non è poi una gran perdita, perdere loro, invece sì (pp. 136 – 137).
Elogio della pigrizia, tesoro nascosto agli occhi degli altriЀ raro che siano riconosciuti i meriti della pigrizia. Immagino succeda perché i suoi adepti sono troppo pigri per mettersi a comporre panegirici in suo onore. È come il pasto gratis, il più semplice dei vizi. Illimitata, gratis, inesauribile, la fusione fredda dell’abiezione. La meglio cosa. La si può praticare ovunque e, se praticata come si deve, nessuno si accorgerà che la state praticando.  Qualsiasi cosa richiede tempo, un investimento, soldi. La pigrizia, come certe idee divine, è in ogni dove. E non c’è pericolo di overdose (p. 138).
Altruismo: variazioni sul tema Il miglior modo di prevenire che una fanciulla indifesa, fuggita  dalla città di provincia e giunta a Londra senza un soldo, sia corrotta da stupratori malvagi e senza scrupoli, naturalmente è di provvedere di persona (p. 246).
Vecchiaia: vantaggi sconosciuti
Una delle caratteristiche del mio invecchiare è che voglio soprattutto provare emozioni, anche se sono emozioni negative (p. 181). Uno dei pochi veri vantaggi della perdita della gioventù è che in realtà mi aspetto così poco dalla vita che posso apprezzare meglio certe cose quando capitano (p. 192).
Futuro: una possibilità nelle mani dell’oggiChissà quali delle nostre convinzioni o delle nostre pratiche farà ridere  a crepapelle il futuro? O magari il futuro non avrà neanche la possibilità di esistere. Magari quella possibilità saremo noi stessi a negargliela. Siamo maturi per provocare una stupefacente catastrofe (p. 188).
Rivoluzione: ottima copertura per pessime stragiErano passati circa diciannove anni da quando Hume aveva licenziato il Trattato sulla natura umana e una sessantina da quando Locke si era sgravato di Sul governo civile e del Saggio sull’intelletto umano. I duri della ditta inglese si stavano preparando a lanciare guerre civili in America e in Francia, entrambe sarebbero state chiamate rivoluzioni perché è un termine che facilita le carneficine (p. 161).
Guerra: una spiacevole esperienza facilmente sostituibileL’unico consiglio che posso darvi nel caso in cui qualcuno vi inviti ad andare in guerra, è di urlargli in faccia no e, se è più piccolo di voi ed è improbabile che risponda nella stessa maniera, appioppategli anche uno sganassone sulla bocca in modo che non ve lo chieda di nuovo e voi possiate cambiare idea. Se poi volete sapere che cosa si prova, non mangiate e non dormite per tre giorni, rotolatevi un po’ nel fango, visitate l’obitorio, poi bendatevi gli occhi e attraversate  l’autostrada (cercate di farlo alle tre di mattina, in modo da avere qualche probabilità in più); se riuscite a sopravvivere, è un modo più semplice e meno costoso di fare la stessa esperienza (p. 208).
Eurocentrismo: è importante ciò che avviene fuori dalla Francia?Per quanti castighi si meriti, questo secolo è stato molto generoso per un sacco di gente. Una prima metà quanto mai bellicosa, ma anche se ci sono state una gran quantità di guerre, disastri, epidemie, zadrugas che hanno fatto a pezzi altri zadrugas (le dispute più feroci sono sempre quelle che avvengono tra persone indistinguibili dall’esterno), germi del male sotto molteplici forme, tutto ciò ha avuto luogo in paesi dove non c’erano ristoranti francesi come si deve, e perciò non sono poi tanto importanti (p. 188).
Maschio: una macchina complicata per reggere un arnese sempliceNon volevo che scoprisse che, come la maggior parte degli uomini, ero anch’io un sistema che serve a tenere in vita un fallo (p. 207).
Animali: lezioni di tenerezzaUna volta provavo disprezzo per la gente (soprattutto per gli inglesi zoolatri) che spende un sacco di soldi per assecondare la propria simpatia verso gli animali; invecchiando ho scoperto invece la gioia che può derivare dall’essere amati e dal procurare gioia, anche se si tratta solo di un cane che concede i suoi scodinzolii a chiunque non lo prende a calci (p. 235).
Matrimonio: l’errore che manca agli scapoliTi sei mai sposato? Ecco uno sbaglio che non ho mai fatto. La vita è troppo breve per farli tutti. A meno che non si resti svegli fino a tardi e ci si alzi presto la mattina (p. 192).
Simpatia: il simile è attratto dal peggioreMi era simpatico per tutta una serie di motivi; anche se lui aveva un gran successo in cose in cui non riuscivo, era una delle poche persone che abbia mai incontrato più disordinata, più imbranata, più distratta, più fervidamente zimometra di me (p. 193).
Carcere: non sempre il male viene per nuocereNon c’è niente, assolutamente niente, che fa incazzare di più uno sbirro del fatto che uno che è stato dentro dieci anni ha un vocabolario più scelto del suo (p. 180).
Vi serve un esercizio filosofico (facoltativo) conclusivo? Provate a ripercorrere le ‘parole’ della visione-del-mondo di Coffin e, al posto delle sue definizioni, date le vostre. Alla fine vi troverete con una mappa concettuale davanti: uno squarcio significativo della vostra visione-del-mondo! 
Augusto Cavadi18/03/2015

lunedì 16 marzo 2015

NAZIONE NON SIGNIFICA NAZIONALISMO

Su cortese richiesta dei redattori veneti del mensile "Madrugada", continuano le puntate del mio piccolo dizionarietto di politica per profani.


“Madrugada”

Marzo 2015



NAZIONE


         In politica è difficile, se non addirittura impossibile, trovare una categoria ideale immune da strumentalizzazioni che ne deformano il significato originario. “Nazione” non fa eccezione. Essa nasce, tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, come idea-simbolo nel senso etimologico del termine ‘simbolo’ (ciò che cuce, mette insieme, aggrega). E aggrega un popolo (il popolo degli Stati Uniti d’America prima, il popolo francese poi e via via altri popoli europei ed extra-europei) affinché la consapevolezza della propria identità (etnica, linguistica, culturale, etica) lo sostenga nella lotta di liberazione da popoli stranieri, invasori o comunque sfruttatori, o da governi opprimenti.

         Purtroppo ben presto la nazione, da bandiera degli oppressi, diventa una clava che gli ex-oppressi brandiscono per opprimere altri popoli: e contro le armate napoleoniche il filosofo prussiano Fichte proclama i suoi celebri Discorsi alla nazione tedesca. Quest’opera può costituire un interessante oggetto di osservazione in laboratorio. In essa infatti la difesa della nazione patria è realizzata in maniera ineccepibile, ma con argomenti e toni che preparano il passo successivo: il passaggio, disastroso, dal principio di nazionalità al nazionalismo.

        Proviamo a capire come. Fichte (siamo all’inizio del XIX secolo) sostiene che un popolo è tale se unito da una medesima lingua, intendendo con questo termine un fattore spirituale e non certo una convenzione tecnica fra individui. Aggiunge che la lingua tedesca è una lingua “viva”, a differenza delle lingue neo-latine che sarebbero “morte”: dunque una lingua che sola può creare “qualcosa di nuovo” sul palcoscenico della storia. Tale privilegio è per i tedeschi anche una responsabilità: come il “dotto” è superiore alla media dei contemporanei e, proprio per questo, deve mettersi alla loro guida ma in atteggiamento di servizio, di “missione”, così la “nazione tedesca” deve svolgere una funzione di guida e di illuminazione nei confronti del resto dell’umanità.

        Non siamo dunque al nazionalismo come imperialismo aggressivo (anche perché Fichte sostiene che la Prussia debba chiudersi in sé stessa, senza “accogliere in sé e mescolare con sé un popolo di altra lingua”): ma la storia registrerà, in pochi decenni, il passaggio da una superiorità etica e diaconale a una superiorità politica, militare e addirittura razziale. Il nazismo (ricordiamo che il nome sintetizza la formula più ampia “nazional-socialismo”) costituirà l’esito tragico di questa evoluzione – o piuttosto involuzione. Né la traiettoria è molto diversa se si osservano le ambizioni imperialistiche della Gran Bretagna, della Francia e persino dell’Italia fascista.

        Le generazioni nate dopo le ceneri della Seconda guerra mondiale avvertono, comprensibilmente, un rigetto viscerale verso tutto ciò (“patria”, “nazione”…) che – pur non presentandosi come “nazionalismo” – ne evoca lo spettro. I campionati mondiali di calcio sembrano l’ultimo luogo in cui ci si ricorda, con ambigua fierezza, di essere tedeschi, francesi o italiani. Come valutare questa tendenza culturale?

         Per contribuire ad elaborare una (non facile) risposta si potrebbe iniziare con due dati. Il primo è di sradicare ogni pretesa di essere, come individui o come popoli, gli “eletti da Dio”: l’odio anti-semitico è stato ed è il frutto di un’invidia che vorrebbe sostituire la propria “elezione” alla pretesa altrui di essere stati “eletti”. Agli occhi di Dio tutti siamo (potenzialmente) prescelti  e tutti (potenzialmente) reprobi:   chi di noi ha giocato correttamente e fruttuosamente la partita lo si saprà sempre a posteriori.

       Il secondo dato è che ogni aggregazione è funzionale alla relazione: una coppia è tale se l’intimità è funzionale all’accoglienza; una città è tale se la coesione interna è funzionale alla cooperazione esterna; così una nazione. La consapevolezza di appartenere a una lingua, a una storia, a una terra, a una tradizione culturale ha senso solo come presupposto all’apertura più ampia verso le altre lingue, le altre storie, le altre terre, le altre tradizioni culturali. Il principio di nazionalità è destinato a perdere senso se non come palestra, luogo di allenamento, per maturare un principio di solidarietà planetaria.



                                                             Augusto Cavadi

                                                    www.augustocavadi.com


sabato 14 marzo 2015

IL SESSO COME POTERE, COME VIA AL POTERE, COME EFFETTO DEL POTERE


“Monitor” 13. 4. 2015

IL SESSO E IL POTERE

Il filosofo “normale” affronta i temi che sceglie autonomamente, da sé; il filosofo di strada deve misurarsi, invece, con le tematiche che gli vengono poste da altri. Giovedì della scorsa settimana alcuni amici, che stanno  avviando anche a Palermo un gruppetto di autocoscienza maschile per riflettere sulle responsabilità degli uomini rispetto alla violenza sulle donne, mi hanno chiesto di introdurre un seminario su <<sesso e potere>>.
Mi è sembrato opportuno precisare, innanzitutto, che avrei inteso “sesso” sia in senso circoscritto (l’esercizio dell’apparato genitale) sia, soprattutto, in senso ampio (la sessualità che permea, colora di sé, l’intera nostra soggettività: cervello, emozioni, tratti relazionali...inclusi).
Così inteso, il sesso può essere considerato – rispetto al potere – almeno da tre angolazioni: come forma di potere, come via al potere, come effetto del potere. Sintetizzo brevemente ciò che ho proposto da ciascuna prospettiva.
Il sesso è una forma di potere: grazie ad esso possiamo relazionarci ad altri, unirci strettamente, perfino riprodurci. Come ogni forma di potere, in sé stesso è positivo (e comunque ineliminabile). Diventa negativo (e va eliminato o comunque limitato) quando si trasforma in “dominio”. Come distinguere il “potere” (capacità preziosa  di influenzare il comportamento altrui) dal “dominio” (capacità dannosa di annichilire l’altro riducendolo a mero strumento della nostra volontà di potenza)? Dal fine, dallo scopo, con il quale si esercita. Gli esempi di sesso finalizzato al “dominio” sono innumerevoli, ma non mancano – se pur più rari – gli esempi del sesso finalizzato alla fioritura dell’altro. Socrate utilizzava il suo sexy-appeal per educare Alcibiade: recentemente Massimo Recalcati ha ripreso questo aspetto della relazione pedagogica nel suo saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Le “assistenti sessuali” previste in alcuni Paesi europei per venire incontro alle esigenze fisiologiche e affettive dei portatori di handicap costituiscono un altro esempio di potere sessuale finalizzato al piacere altrui, non al dominio sull’altro.
Il sesso può costituire una via al potere. Che il nostro fascino ci spiani la strada verso molte carriere, pubbliche e private, è un dato oggettivo di cui non sarebbe saggio scandalizzarsi. L’interrogativo serio è piuttosto un altro: sino a che punto è un processo legittimo di auto-promozione e da che punto diventa, invece, un processo  di auto-degradazione,  di prostituzione?
Il sesso, infine, può costituire un effetto del potere. <<Comandare è meglio che fottere>> secondo l’adagio popolare; ma non c’è dubbio che chi “comanda” moltiplica le sue possibilità di “fottere”.  Anche qui siamo di fronte a dinamiche psicologiche naturali da gestire piuttosto che da esorcizzare vanamente. Un limite invalicabile dovrebbe essere la libertà (almeno relativa) del partner privo di “potere”: che egli subisca il fascino di chi ha autorità politica o economica o culturale è nell’ordine delle cose; che sia costretto dalla minaccia, dal ricatto, da parte del soggetto “forte” è tutta un’altra faccenda. Nell’ambito sessuale tutto è moralmente lecito, ma solo se avviene nel consenso reciproco. Ecco perché il rapporto di un miliardario italiano con una ragazza disoccupata proveniente da una modestissima famiglia di immigrati africani, così come il rapporto fra un adulto maturo e un ragazzino dodicenne, possono suscitare dubbi ben fondati: in questi casi la sessualità è ancora “potere” o è diventata “dominio”?

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com




mercoledì 11 marzo 2015

CI VEDIAMO VENERDI' 13 MARZO 2015 A TRAPANI ?

Venerdì 13 marzo 2015 appuntamento per un aperi-cena filosofico destinato ai "non filosofi".
L'apppuntamento è per le 20, 30  (esatte !) nell'accogliente "Angelino" (via Ammiraglio Staiti, 85), proprio di fronte all'ingresso del porto di Trapani.
Per informazioni contattare Ambrogio Caltagirone, presidente dell'Associazione "La Calendula", al 389.0944816.
La quota di partecipazione è di euro 12,00 a persona.