giovedì 2 aprile 2015

I PASTORI HANNO A CHE FARE CON PECORE ?

“Adista – Notizie”


4 aprile 2014

 

Come sanno i lettori di questo blog, "Adista" è un'agenzia di stampa di Roma che ospita su ogni numero un commento a un vangelo domenicale redatto da qualcuno che sia "Fuori tempio". Questa volta mi è stata chiesta una riflessione su una pagina del vangelo secondo Giovanni.



PASTORE, MA NON DI PECORE


Commento a Giovanni 10, 11-18




   Per quanto di raffinata istruzione, il redattore del quarto vangelo canonico  - un teologo esperto di Scrittura quanto di filosofia greca e tradizioni sapienziali gnostiche – sapeva di rivolgersi ad una società in cui il 90 % delle persone erano impegnate in attività agricole e pastorizie. Egli può dunque presupporre nei lettori  - o, per meglio dire, ascoltatori – una serie di esperienze e nozioni che mancano totalmente a noi abitanti delle metropoli del XXI secolo. E questa lacuna la paghiamo cara in termini di equivoci e di banalizzazioni.

     Il fraintendimento cruciale può riguardare la figura del pastore e il suo rapporto con il gregge. Nell’ottica comune l’allevamento è  funzionale allo sfruttamento e alla macellazione dell’animale. Ciò è verissimo, ma non è tutta la verità. Infatti, nel vissuto di un pastore (che non sia diventato l’imprenditore odierno di immensi lager anonimi) la logica dello sfruttamento convive, sin quasi a confondersi, con un atteggiamento di familiarità, di affezione, quasi di confidenza con ciascuna delle sue pecore. Come si possa macellare una mucca o un agnellino, dopo averne avuto cura per mesi o per anni sino a chiamarli per nome, resta enigmatico e di ardua spiegazione (specie se non si tengono in debito conto inveterati pregiudizi antropocentrici): ma resta il fatto che per il pastore-proprietario il gregge è un’estensione del nuceo familiare. Ed è su questo versante, su questa valenza, che gioca la metafora evangelica.

       Può un pastore riconoscere ed essere riconosciuto da una sua pecora?  Può essere disposto a rischiare la propria incolumità per difenderla da aggressioni estranee? Chi di noi ha condiviso anni di intimità con un cane, un gatto o un cavallo può intuire le ragioni di una risposta affermativa. Chi non ha fatto mai simili esperienze affettive può essere agevolato nella comprensione dal confronto fra il pastore-proprietario e il pastore-mercenario. Quest’ultimo, infatti, è presumibilmente un salariato occasionale: in quanto tale, non ha avuto il tempo di maturare un rapporto di reciproca complicità psicologica con ciascun membro del gregge; qualora, poi, dovesse sostenere un attacco di lupi, la prospettiva di perdere uno o due animali non sarebbe per lui tanto disastrosa da giustificare reazioni eroiche di difesa.

         Gesù viene qui comparato, dunque, a un pastore-proprietario esclusivamente da alcune angolazioni, non da tutte: l’analogia, come sempre, coglie delle somiglianze senza escludere delle dissomiglianze ancora maggiori. Egli infatti non può disporre della vita e della morte dei discepoli, ma della propria: a differenza dei pastori in senso letterale, raggiunge il compimento della propria missione quando sacrifica non la vita altrui per la propria sopravvivenza, bensì la sua vita per la sopravvivenza e il benessere degli altri.

         Se questi aspetti della metafora fossero stati ben presenti alla mente delle guide delle comunità cristiane, nessuno avrebbe osato attribuirsi  - del tutto abusivamente, per altro, rispetto al testo evangelico che parla esclusivamente di Gesù – il titolo di “pastore”.  Tale si è infatti solo quando, e nella misura in cui, si dona la vita per i fratelli più deboli. Ogni altra attribuzione suona forzata, se non addirittura falsa.

    Questa pagina biblica vuole evidenziare la dignità irriducibile e originale di ciascun discepolo, non certo confinarlo in una condizione di inferiorità mentale né di subordinazione gregaria. Nessuno deve obbedire a nessuno come una pecora al proprio padrone; nessuno può mungere né tosare nessuno per accumulare latte o lana per sé. E la stessa iscrizione che campeggia nella basilica di San Pietro – “Ut unum sint” – suonerebbe blasfema se si riferisse al progetto di ricondurre i credenti del pianeta sotto la giurisdizione papale: si riferisce, infatti, al desiderio di Gesù di essere riconosciuto come la porta del Regno di Dio a cui sono chiamati uomini e donne di ogni angolo della terra.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.it

1 commento:

Maria D'Asaro ha detto...

Autentica e intrigante, la tua riflessione. In piena sintonia con analoghe riflessioni di d.Cosimo Scordato, su tale brano evangelico.