domenica 26 aprile 2015

SU PAPA FRANCESCO E DINTORNI. INTERVISTA A DON COSIMO SCORDATO


“Una città”
Marzo 2015 (n. 220)


UNA CHIESA CHE SI INTERROGA
Augusto Cavadi intervista don Cosimo Scordato 
 
Don Cosimo Scordato insegna teologia alla Facoltà teologica di Sicilia (Palermo) ed è tra i fondatori del Centro sociale autogestito,  a-partito ed a-confessionale, “S. Francesco Saverio” dell’Albergheria (quartiere di Palermo noto per il mercato Ballarò). Autore di diversi libri tra cui, recentemente,  quattro volumi di teologia dei sacramenti  (Il settenario sacramentale, Il pozzo di Giacobbe), un volume di omelie (Libertà di parola, Cittadella) e un volume di pastorale (Dalla mafia liberaci o Signore, Di Girolamo).


Quando, negli anni Ottanta, hai cominciato a parlare di 'Teologia del risanamento' a Palermo ti rifacevi esplicitamente alla 'Teologia della liberazione' sudamericana. Adesso abbiamo un papa che viene dall'Argentina: non è un esponente della 'Tdl', ma neppure un suo avversario. Come descriveresti la sua posizione a riguardo?

L'attuale papa, anche se non è stato un rappresentante e neppure un vero e proprio sostenitore della teologia della liberazione, recentemente ci ha tenuto che fosse pubblicato un volume di G. Gutierrez (fondatore della tdl)  insieme col card. Mueller, segretario della Congregazione della dottrina della fede; credo che la posizione 'distaccata',   assunta  dall'allora cardinale Bergoglio, fosse riconducibile anche a un atteggiamento prudenziale, data la situazione di rischio di tanti teologi vissuti sotto i regimi dittatoriali  dell'America Latina. Adesso papa Francesco si può sbilanciare maggiormente non solo perché gli orientamenti 'liberanti' della teologia si sono smarcati da alcune analisi, che allora sembravano un po’ troppo debitrici al marxismo; ma ancor più perché le dinamiche del capitalismo internazionale fanno emergere, in maniera ancora più insopportabile, le contraddizioni emergenti da un processo di concentrazione delle risorse economiche e finanziarie; in questo modo la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di oligarchie di potere esponendo la maggior parte dell'umanità al bisogno, alla dipendenza, alle difficoltà della stessa sopravvivenza. Il papa, facendo tesoro delle acquisizioni del magistero sociale degli ultimi pontefici, può fare più direttamente riferimento al mondo dei poveri; anche se non rinunzia a chiamare in causa le molteplici cause di carattere economico, finanziario, politico, che determinano la catastrofe di una umanità martoriata da guerre, conflitti, emigrazioni di massa, speculazioni di vario genere... la sua attenzione è concentrata sui poveri e i deprivati della nostra umanità. Il suo interesse principale è di richiamare l'attenzione verso di loro non solo da parte della comunità cristiana perché rinnovi quella scelta preferenziale dei poveri, già ispirata da Giovanni XXIII e rilanciata dal Concilio, ma anche della comunità internazionale perché riveda le politiche che non riescono a governare le logiche del profitto, impotenti (se non conniventi) di fronte a ciò che il capitale impone, provocando l'attuale insopportabile situazione di 'disordine mondiale'; e della società in generale perché maturi il senso di uno sviluppo non caratterizzato da disparità e diseguaglianze, piuttosto volto alla emancipazione e alla promozione di tutti.

Se si leggono i documenti degli ultimi pontefici non si può negare che i riferimenti alle fasce povere dell’umanità siano numerosi. Vedi qualche nota di novità in questo papa?
La consapevolezza, che papa Francesco ha lasciato trasparire nei suoi molteplici interventi (dalle brevi omelie di Santa Marta ai discorsi ufficiali nei suoi viaggi apostolici internazionali), è accompagnata anche da quel suo stile di vita col quale ha tentato, fin dall'inizio del suo ministero petrino, di rilanciare non solo l'immagine di una chiesa 'per i poveri', ma anche e preliminarmente quella di una chiesa povera. La sua scelta di vivere in un appartamentino, che gli consente anche di essere vicino alle persone che si muovono nello stato del Vaticano; i suoi molteplici gesti di semplicità, che lasciano intravedere la naturalezza evangelica del suo modo di esprimersi e rapportarsi con chiunque; i suoi diversi appelli rivolti alla curia romana (e ai cardinali) al superamento di ogni forma di carrierismo e di mondanità, oltre che la determinazione (sulla scia del tentativo precedente di Benedetto) di portare lo Ior alla massima trasparenza gestionale anche in vista di un suo inserimento nella White List... sono tutte manifestazioni di quella svolta che Francesco, prima di proporla all'esterno della Chiesa, vuole praticare per primo lui stesso, cercando di coinvolgere coloro che, essendo ufficialmente suoi collaboratori, dovrebbero trovarsi in prima fila accanto a lui. Tutto questo non è facile da realizzare, data l'opacità che ha caratterizzato diversi aspetti della vita di quello che sommariamente chiamiamo 'Vaticano'; il papa stesso ne è consapevole; ma gli scandali accumulati negli ultimi decenni, oltre che gli squallidi giochi di potere e di corruzione, più volte venuti alla luce da inchieste e da indagini giornalistiche, hanno reso più urgente la decisione di papa Francesco di dare, per fedeltà al vangelo e per rispetto della Chiesa, un cambio di direzione che, seppure è appena agli inizi e lanciato con gesti concreti ma con prevalente valore simbolico, ha il compito di indicare che la prima conversione deve essere condivisa e maturata all'interno della Chiesa; prima di additare al mondo le beatitudini di Gesù, i cristiani debbono essere i primi interpreti e testimoni della gioia del vangelo (l'evangelii gaudium). Il progetto di papa Francesco, su questo versante, è avviato; ma, come si può comprendere, deve diventare sempre di più il progetto di tutta la Chiesa; come tale esso richiede che le diverse componenti della comunità ecclesiale (dai vescovi alle più piccole aggregazioni laicali) lo facciano proprio interpretandolo in proporzione alle possibilità locali.
Tutto questo ci sembra importante e preliminare a tutto il resto; i discepoli di Gesù non possono non ritrovarsi accanto a chi soffre (dai poveri agli sfruttati agli immigrati) e spesso loro stessi condividono le diverse situazioni di deprivazione. La collocazione del credente è già segnata: è dalla parte degli ultimi, dei crocifissi della terra con i quali condividere il cammino di risurrezione e di riscatto.

La dimensione esistenziale, a livello personale e comunitario, è certamente necessaria. La ritieni anche sufficiente?
   Ovviamente no. Non va trascurata la dimensione politica di detta problematica; infatti, ormai è acquisito che il fenomeno della povertà e dei poveri, pur riconducibile a tante cause storiche, culturali, sociali… se vuole essere superato deve approdare al livello politico; se l'attenzione al povero nella sua concretezza ha la precedenza su ogni altro discorso, la risoluzione della povertà passa necessariamente (anche se non esclusivamente) dall'intervento della politica, intesa come l'arte che riconosce i nessi di causa-effetto dei fenomeni sociali e tenta di approntare le soluzioni permanenti, non intervenendo solo sugli effetti, ma lavorando ancor più sulle cause che li provocano. Certamente, negli interventi di papa Francesco si coglie in primo luogo il grande afflato, che lo spinge verso i poveri, in quanto persone compromesse nei propri diritti ed esposti alle solitudine dell'emarginazione e dell'abbandono (non sempre, però, in maniera incolpevole). Ma forse altrettante forza e determinazione andrebbero manifestate nei confronti della conversione della politica e dei politici. Alla politica, infatti, è affidato il compito più delicato e più prezioso di dare priorità al bene comune dandogli la forma in istituzioni adeguate, che salvaguardino tutti nei loro diritti e doveri; mentre spetta ai politici il compito di mediare il bene comune tra le diverse istanze della collettività, attraverso leggi, delle quali essi dovrebbero essere i primi osservanti, orientando (e ridimensionando) l'interesse proprio o di gruppo verso la realizzazione del bene della comunità.
Non è un caso che, negli anni dopo il Concilio, si è potuto parlare di carità politica, intendendo la politica come lo spazio privilegiato nel quale concretizzare e mediare l'amore per la comunità; e, viceversa, intendendo la carità non solo come atto singolare e privato, ma come attitudine a farsi coinvolgere in tutto quello che ridonda a beneficio e promozione dell'intera comunità. La ripresa di questi temi non potrebbe che dare ulteriore consistenza al servizio dei poveri quanto più si riesce a rimuovere la loro povertà e quanto più ognuno di loro diventa non solo destinatario degli interventi altrui ma anche promotore del bene degli altri.

Sinora ti sei riferito alla povertà tipica di chi stenta ad avere i mezzi sufficienti per mangiare, bere, istruirsi, curarsi, riprodursi…Tuttavia sappiamo che nel mondo si registrano nuove forme di povertà: la solitudine, l’esclusione, l’emarginazione. Penso a chi non ha trovato un compagno di vita; a chi lo aveva trovato ed è stato abbandonato; a chi lo ha trovato ma, poiché è dello stesso sesso, deve vivere clandestinamente il proprio rapporto di coppia. Ritieni che la Chiesa – su impulso del papa argentino – possa operare per alleviare, da parte sua, questo genere di miseria psico-sociologica?
Vorrei sottolineare, nello stile di Francesco, la sua attenzione a quello che, un po’ ottimisticamente, potremmo chiamare ‘stile sinodale’.
In primo luogo, mi riferisco non tanto al sinodo che ha convocato quanto a tutto ciò che lo sta preparando attraverso un’ampia consultazione della base ecclesiale; infatti tutte le diocesi, ma anche i vari gruppi ecclesiali sono stati interpellati per dare un loro contributo e, come viene ribadito, non si tratta soltanto di dare risposte alle domande già formulate ma anche di offrire considerazioni e prospettive anche al di fuori delle domande proposte.
Inoltre, i primi Lineamenta, ovvero il primo materiale offerto per la consultazione, pur costruiti a partire da una base contenutistica tradizionale, contengono anche una serie di domande che hanno il sapore della novità. Il fatto stesso di interrogarsi su problemi o situazioni (risposati, omosessuali…) rispetto ai quali nel passato si sarebbe già data per scontata la risposta, rappresenta un fatto molto significativo del senso ecclesiale; interpellare i fedeli significa disporsi ad ascoltare anche risposte che non siano allineate sugli orientamenti tradizionali; d’altra parte, il tanto invocato sensus fidei (senso della fede) o il consensus fidelium (consenso dei fedeli) non deve essere interpretato nel significato passivo di chi non può se non ‘calare la testa’ alle decisioni del magistero papale o episcopale, quanto piuttosto nel suo significato attivo, attraverso il quale il popolo cristiano interagisce col ministero ordinato.
Infine, anche la decisione del papa di restare un passo indietro rispetto alle decisioni che sono emerse dai dibattiti del pre-sinodo, senza ritagliarsi un compito di controllo, supervisione o di decisione autonoma, non solo esprime un grande rispetto nei confronti del momento sinodale, riconosciuto in tutta la sua portata ecclesiale; ma anche lascia intendere che detta esperienza ecclesiale va vissuta per davvero accettandone anche tensioni, incertezze e soprattutto il travaglio di una ricerca. Non ci sarebbe niente di confezionato, piuttosto emerge la voglia di lasciarsi interrogare per davvero dal disagio della gente e dal desiderio di interpretare sempre più intensamente la misericordia di Dio, che vuole la vita e  la gioia dei suoi figli.
Comunque, riteniamo importante la presente consultazione perché ancora una volta essa chiama in causa la soggettualità dei laici in quanto essi sono i primi interpreti della loro condizione nel mondo; sarebbe strano che un questionario sulla famiglia, che certamente va pensato alla luce dell’evangelo, non dovesse accogliere la voce di coloro che vivono in prima persona le gioie e i problemi, le speranza e le attese di quella vita familiare della quale, pur con tante difficoltà, i laici sono i titolari. Come ci meraviglieremmo se i laici volessero sentenziare sulla vita monastica, così ci sorprenderemmo se non fosse preso in considerazione  quanto verrà espresso da coloro che vivono dall’interno la vita familiare.
Venendo alla reale apertura del papa sui problemi della vita famigliare e dintorni, la prima impressione che ho avuto, leggendo uno dei primi volumi delle sue interviste antecedenti al pontificato, è stata quella di riscontrare un lui una concezione fondamentalmente ispirata al Concilio ma con una forte base tradizionale; il che mi ha indotto a pensare che, a partire da suddette premesse, non ci fosse grande possibilità di andare avanti nella esplorazione di nuove comprensione e nuove soluzioni,
A poco a poco ho compreso, invece, che egli, più che preso da considerazioni di carattere teorico (che comunque restano sullo sfondo), è maggiormente richiamato dalla condizione di sofferenza che caratterizza la vita di tante persone; di primo acchito egli sente, entra in sintonia, con questa sofferenza e intende farsene carico, come il buon samaritano del vangelo, e solo successivamente si pone il problema di come ricercare soluzioni più ‘umane’ e come conciliarle con la tradizione.
Il fatto stesso che ha voluto da parte dei sinodali la ricerca più coraggiosa e il confronto più frontale tra i diversi orientamenti lascia intendere che, nonostante le sue premesse tradizionali, egli stesso è interessato ad ascoltare, a farsi attento a nuove possibilità e ad esplorarle in forza della misericordia e della tenerezza, rivelata e donata da Dio alla sua Chiesa.



Questo che dici riguarda un po’ il metodo. Per entrare nel merito, a che punto siamo secondo te con la riflessione sulla crisi del modello tradizionale di famiglia?

  Nello specifico di questa domanda, mi piace ricordare un documento approvato dalla nostra comunità sul tema “Famiglia e familiarità”. Vorremmo condividere alcune considerazioni per un approfondimento dell’attuale tematica familiare; essa, per la novità di tanti aspetti, è più grande di noi e richiede pacata riflessione e disponibilità a capire, prima ancora di offrire tempestivamente idee chiare e distinte (incluse le presenti!). Le riassumo per punti principali.
Tenere alla famiglia - E’ opportuno che la comunità cristiana ribadisca il valore positivo della vita familiare, così come è maturata in quasi tutte le culture ed è stata recepita anche dalla tradizione ebraico-cristiana; essa prevede il vincolo coniugale tra partners eterosessuali e la nascita dei figli all’interno del loro rapporto. Per i credenti tutto questo viene considerato un dono di Dio e quindi possibilità di incontrarlo e celebrarlo nel rapporto di amore tra i diversi membri della famiglia; la realizzazione della famiglia richiede una scelta consapevole e responsabile; il riferimento all’inclinazione naturale non è sufficiente, ci vuole una maturazione personale; non si può affermare che tutti di fatto sono chiamati al matrimonio e alla vita familiare; resta aperta la domanda sull’autorealizzazione di coloro che non avessero la suddetta vocazione.
       Il tema del matrimonio, a fondamento della famiglia, va ripensato intorno all’esperienza dell’amore di coppia; il matrimonio ha senso se riesce a dare forma all’amore di due persone, pronte a donarsi reciprocamente, a elaborare un progetto comune della propria vita e a condividere la gioia della propria esperienza con altri (bambini/e). Ciò che conta è che detto amore sia coniugale, cioè capace di congiungere per davvero le due esistenze, orientandole in un cammino che le proietta  verso tutta la vita. Solo l’amore coniugale, e quindi una relazione che impegna in maniera unica l’interezza delle proprie persone (corpo, mente, spirito), è la garanzia perché si dia un’autentica realizzazione del matrimonio nella duplice celebrazione liturgica ed esistenziale.
Famiglia: quale modello? - Storicamente la famiglia ha avuto diversi modelli di realizzazione; in essi hanno preso corpo diverse precomprensioni antropologiche, diversi orientamenti culturali e giuridici, diverse  connotazioni psicologiche e sociali…  si pone il problema sul modello di famiglia che sta maturando nel nostro tempo e nell’ambito della cultura occidentale (termine ancora troppo generico); si pone altresì il problema del rapporto con gli altri modelli di famiglia, che si affacciano ormai da tempo sulla scena occidentale; si ritiene opportuno che l’accettazione e l’integrazione tra di diversi modelli di famiglia abbia come criterio di riferimento il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana.
Famiglia… d’ amore e d’accordo! - La famiglia solo in quanto è fondata sull’amore della coppia e quindi si sviluppa nella condivisione di amore con i figli e resta aperta ai bisogni della società va considerata come spazio autentico di realizzazione delle persone che in essa crescono.
Laddove l’amore non fosse il principio ispiratore ed alimentatore della vita familiare e in essa dovessero prevalere rapporti di prevaricazione, di mancanza di rispetto e di libertà, essa non può essere sostenuta di per sé, piuttosto va aiutata a recuperare le condizioni minime di convivenza tra i suoi membri e, se ciò non avvenisse, va accettata la separazione.
D’altra parte la costruzione della vita familiare richiede impegno da parte di tutti i suoi membri e della comunità. Riteniamo possibile tuttavia  sviluppare forme nuove di condivisione e mutuo aiuto tra le famiglie in una visione di piccole comunità interfamiliari. Si parla ancora di chiesa domestica con una visione di famiglia ‘sola’ e chiusa nel proprio guscio. È nel cammino con altre famiglie che spesso si scoprono forme nuove di espressione della fede all’interno della domus.  Dalla messa in comune delle esperienze di tutti e dal dialogo costante con ciascuno, in momenti comuni e  nel rispetto di tutte le posizioni, può emergere il profilo di una famiglia in grado di affrontare le sfide della modernità in chiave positiva.
Allora la sfida per la Chiesa è di sostenere la coppia a crescere nell’amore reciproco, nella pari dignità tra uomo e donna e nella sua autonomia in tutti i suoi aspetti: in una fecondità che va ben oltre quella genitoriale, nella ricerca di una paternità responsabile, in una affettività e sessualità unitiva, nell’accoglienza dei figli, in uno sguardo aperto al prossimo e alle sue necessità, in una sobrietà di stile di vita, ecc.  La coppia così formata sarà quindi capace di vivere nella realtà avendo sempre presente gli ideali a cui si ispira in un esercizio responsabile della cittadinanza e di presenza adulta all’interno della Chiesa.

Nella mentalità cattolica la valorizzazione della famiglia è stata enfatizzata al punto da diventare, o per lo meno da apparire, una legittimazione del familismo (più o meno “amorale”). Pensi – pensate tu e la tua comunità – che extra familiam nulla salus ?
    Affermare la positività della famiglia non significa che sia negativo tutto quello che non è famiglia; se la vita di coppia eterosessuale che realizza la famiglia è modalità antropologica fondamentale sia per la vita delle persone che per la convivenza civile, essa non è l’unica forma di realizzazione dell’amore. Finora si è dato per scontato che esistono altre forme di familiarità e di realizzazione della persona; basti pensare alle famiglie religiose della tradizione e alle nuove forme di aggregazioni (religiose) tra persone che, in rapporto di amore reciproco, condividono valori e scelte di vita; accanto alla condizione ottimale della vita idilliaca familiare (che resta desiderabile), va riconosciuta una vasta gamma di altre opportunità.
Sono possibili forme di vita nell’amore anche se non sono segnate dalla definitività e dalla totalità e dalla eterosessualità; la decisione di stare insieme con la possibilità dell’unione di vita nella misura in cui non arreca danno a terzi e promuove il bene degli interessati può essere accolta come esperienza salvifica,  seppure proporzionatamente alle modalità della sua realizzazione; a partire dalla precedente considerazione non va considerato valido il principio “o tutto o niente”, ma va riconosciuta la positività anche della ‘parzialità’ delle diverse esperienze di amore.
Riteniamo opportuno, inoltre, che lo Stato e la Chiesa, nel rispetto delle reciproche competenze,  prendano posizione sui problemi precedenti.

L’apertura alla procreazione è considerato, nell’ottica cattolica, se non più l’unica ragion d’essere del matrimonio certamente una delle finalità costitutive. Ex cathedra papa Francesco non si è mai pronunziato, ma ex microphono ha fatto scalpore con qualche battuta semiseria (“I cattolici non sono obbligati a fare figli come i conigli”). Una vostra riflessione in proposito?
       Riguardo alla missione genitoriale dei coniugi ci richiamiamo all'affermazione della Gaudium et Spes, n. 50: "I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria" e quindi trarne l'invito ad "annunziare e promuovere efficacemente la apertura alla vita e la bellezza e la dignità umana del diventare madre o padre". Quel che invece ci lascia perplessi è il richiamo ai "metodi naturali" come unici strumenti per la paternità e la maternità responsabili. Su come combattere la piaga dell'aborto, ci sembra che il vero discrimine non sia fra i vari metodi contraccettivi, la cui scelta dovrebbe essere lasciata alla responsabilità dei coniugi, ma fra la contraccezione e le pratiche abortive, che invece sopprimono una vita umana in formazione. Continuare a sostenere l’unicità dei metodi cosiddetti naturali rischia di allontanare dalla vita sacramentale quei pochi cristiani che ancora ritengono un obbligo morale questa prescrizione della Chiesa o, peggio, di favorire la mentalità per cui certi precetti si devono proclamare, ma non vanno presi sul serio.

Suppongo ti riferisci al riconoscimento giuridico  - e prima ancora sociologico e morale – delle “coppie di fatto”, specie se fra partner del medesimo sesso.
         Circa l’accoglienza degli omosessuali ci sono parse di apertura le proposizioni nn. 50, 51, 52 della Relatio post disceptationem della prima sessione del Sinodo, delle quali però non si trova più traccia nei Lineamenta. In particolare: n. 50. “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?"
A noi sembra che le comunità stiano sempre più maturando quanto la cultura contemporanea comincia a considerare acquisito; la condizione omosessuale non è più ritenuta una malattia, ma una modalità della realizzazione dell’umano. Tutto questo non può non portare al ripensamento radicale dei problemi tradizionali della ‘legge naturale’ e del ‘peccato contro natura’, dando precedenza assoluta all’affermazione che ognuno vale in quanto persona e in quanto capace di amare; tanto più se consideriamo la condizione di figli di Dio donataci in Gesù Cristo e nel suo Spirito.
Pensiamo che la Chiesa dovrebbe astenersi da ogni giudizio morale sulla condizione omosessuale e mettere in atto azioni di accoglienza e di integrazione per creare al proprio interno un consenso tale da rendere possibile l’accettazione, anche formale, delle coppie gay e lesbiche con un effettivo accompagnamento pastorale degli omosessuali senza intendimenti “missionari” di redenzione dal peccato. Purtroppo, dobbiamo registrare una chiusura totale di molte chiese particolari nei confronti sia delle situazioni considerate “oggettivamente disordinate” dal punto di vista della sessualità, sia dei tentativi di legiferare in tale direzione. La nostra chiesa locale si è dimostrata negli anni  favorevole ad una legge sulle unioni civili e già accoglie e sostiene con amore fratelli e sorelle omosessuali condividendo con essi sia l’Eucarestia domenicale sia visioni e programmi di partecipazione per le campagne di solidarietà sociali, ecc. 
Negli ultimi anni, grazie anche alla tenacia dei gruppi di omosessuali credenti, alcune diocesi hanno avviato timidi tentativi di pastorale verso persone appartenenti alle minoranze sessuali. Partendo dal presupposto che gli omosessuali sono persone come le altre e, quindi, crediamo che la Chiesa, affinché possa offrire cammini di vita cristiana adeguati al loro vissuto, non debba individuare dei percorsi pastorali specifici. Piuttosto dovrebbe rendere più flessibile il proprio atteggiamento, abbandonando la concezione antropologica del passato e riconoscendo l’amore omosessuale. apporto di affetto continuato e fedele, puntando a garantire anche il futuro della coppia stessa; le storie di vita di tante coppie omosessuali testimoniano, non meno delle coppie eterosessuali, capacità di donazione, fedeltà di impegni, voglia di realizzazione nella comunione. Da madre la Chiesa deve solo desiderare che i propri figli possano realizzarsi a partire da quello che sono, riconoscendo che l’amore omosessuale non solo è possibile, ma è già una realtà sperimentata da tante persone e verso la quale va incanalata la tendenza omoaffettiva.

La storia di molte coppie  - omosessuali ma anche eterosessuali – è segnata dal desiderio di una unione definitiva e dall’impossibilità pratica di realizzare tale desiderio iniziale (per responsabilità di uno dei coniugi o dei due o talora di nessuno dei due). Nei casi più fortunati, il sogno originario si realizza in un secondo o in un terzo tentativo di unione matrimoniale (o anche di convivenza). Che riflessioni avete maturato in proposito, anche alla luce di ciò che sembra muoversi anche nel più ampio orizzonte ecclesiale?
Per quanto riguarda la condizione dei divorziati risposati forse è venuto il momento per radicalizzare la riflessione sulla validità del sacramento comprendendola sempre più come meta da raggiungere e, in ogni caso, verificabile solo alla fine, quando cioè la coppia ha compiuto tutto il suo percorso. Questo potrebbe aiutare a superare l’idea che il matrimonio o è valido o è nullo; ovvero o è totalmente valido o è totalmente inesistente. Questa posizione è conseguenza di una impostazione prevalentemente giuridica del sacramento, che approda all’idea: o tutto o niente. Ma siccome il contenuto del matrimonio è la relazione di amore, essa non è facilmente riconducibile al contratto come se si trattasse di impossessarsi di qualcosa; piuttosto ha a che fare con lo sviluppo e la maturazione delle due persone e della loro vita di coppia, che li impegna continuamente a verificare l’autenticità della loro scelta.
Non possiamo ignorare che in vari casi, il matrimonio sacramentale, frutto di una decisione consapevole e vissuto originariamente come impegno definitivo, può subire una crisi lacerante, la quale porta i coniugi alla separazione. Per alcuni di loro la nuova condizione può risultare umanamente molto gravosa e determinare la decisione di stabilire un nuovo legame affettivo, volendo comunque vivere in modo pieno l’appartenenza alla Chiesa. La quale dovrebbe prendere atto della caducità umana riconoscendo che il matrimonio, in quanto relazione fra persone, può, purtroppo, concludersi. Nella nostra esperienza avvertiamo che i battezzati divorziati e risposati sono desiderosi di attenzione per la propria storia di sofferenza e di rispetto per il fallimento della loro storia coniugale e chiedono di poter partecipare pienamente alla vita della Chiesa, e quindi di accedere ai sacramenti che la Chiesa stessa indica come nutrimento indispensabile di una fede e di una vita cristiana.  È certamente molto importante che essi  vengano accolti senza alcuna discriminazione all’interno della comunità cristiana in cui vivono, prendendosene cura.
L’accoglienza, l’inclusione e l’unico amore di Dio per tutti i figli deve essere il metro per lenire sofferenze, rimarginare ferite e riscoprire la gioia del Vangelo.   “L’arte dell’accompagnamento” è una necessità evidenziata nel dibattito sinodale con particolare riferimento alle famiglie ferite. Riteniamo che l’accompagnamento rispettoso e pieno di compassione dovrebbe essere una prerogativa imprescindibile non solo della Chiesa ma di ogni essere umano credente e non credente. E’ doloroso e sconfortante lo sguardo giudicante e punitivo di quella parte della Chiesa che si ritiene detentrice di un potere assoluto e discrezionale sull’accesso al Sacramento dell’Eucaristia per i divorziati risposati come se fosse proprietà ‘disponibile’ alla Chiesa e non dono di Dio. 
Se dovesse  ritenersi necessario, un eventuale percorso di riammissione ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia, che ricordiamo è offerta non per i giusti, ma per chi sa di dover essere salvato, e quindi particolarmente riservata a chi è nel bisogno,  potrebbe  farsi riferimento alla prassi attualmente in vigore nelle Chiese ortodosse che prevede la possibilità di seconde nozze dopo il divorzio. Un percorso di revisione che  potrebbe agevolare la comprensione dei motivi del fallimento del precedente matrimonio e la individuazione di atteggiamenti e scelte di vita atti ad evitare il ripetersi di situazioni foriere di sofferenze.

2 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Mi ha favorevolmente colpito quell'inciso riguardo la miseria personale:
«non sempre, però, in maniera non incolpevole»,
l'ho avvertita digressione preziosa che merita approfondimento e sviluppo: invece di considerare il povero vittima di sempiterni funzionamenti magici, destino che fagocita miserabili incapaci di intendere e volere, viene implicitamente proposta una personale imputabilità produttrice - ben inteso CON tutto il resto, a iniziare dalla politica - di personale redenzione.

Elio Rindone ha detto...

Grazie all’intervistatore e all’intervistato per la bella intervista, cui aggiungo qualche mia riflessione (il testo completo su www.italialaica.it dal 25.04.2015).
Un abbraccio a entrambi,
Elio
BILANCIO DI UN BIENNIO DI PONTIFICATO
All’intervistatore gesuita che gli chiedeva chi fosse Jorge Mario Bergoglio, il papa gesuita rispose definendosi un peccatore, e poi aggiunse: «Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo» (Civiltà Cattolica 19/9/2013). I primi due anni di pontificato mi pare che abbiano ampiamente confermato tale auto definizione, che riecheggia l’esortazione evangelica “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo 10, 16) ed è in linea con la fama di maestri di diplomazia che da sempre accompagna i membri dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola.
In pochissimo tempo, infatti, Bergoglio è riuscito a conquistare, e non solo tra i fedeli, un entusiastico consenso già con la scelta di un nome evocativo come quello di Francesco e poi con uno stile di vita sobrio, perciò assolutamente inconsueto ai piani alti della gerarchia ecclesiastica, e con parole e gesti che esprimevano la sua calda umanità e una sincera partecipazione alle sofferenze degli ultimi.
La popolarità del papa è cresciuta nel corso dei mesi a seguito di scelte sicuramente apprezzabili, come la decisione di recarsi a Lampedusa per il suo primo viaggio da pontefice, la dichiarata volontà di fare pulizia in casa propria, con particolare riferimento alla piaga del carrierismo e agli scandali della pedofilia e dello IOR, la convocazione di un sinodo sulla famiglia, preceduto da un’ampia consultazione tra i fedeli e che forse si concluderà con qualche apertura circa la comunione ai divorziati.
Ma i fatti a mio avviso più rilevanti, e che non a caso hanno avuto minore eco sui grandi mezzi d’informazione, sono stati la pubblicazione (24/11/2013) dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium e il breve Discorso indirizzato (28/10/2014) ai rappresentanti dei Movimenti Popolari nel corso dell’incontro promosso dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e dalla Pontificia Accademia delle scienze sociali.
(...)
Sarebbe cioè necessario mettere in discussione – con l’idea, che non ha alcun fondamento nel vangelo, di un potere autoreferenziale che ha il suo vertice in una struttura monarchica sacralizzata che si pretende depositaria della verità – un intero impianto dottrinale: infatti, se non muta la comprensione che il cattolicesimo ha di se stesso, dei propri dogmi e della stessa organizzazione ecclesiastica, tutti i cambiamenti saranno scritti sulla sabbia. Ma da Bergoglio non ci si può aspettare nulla del genere, perché egli condivide la visione tradizionale della fede, la vive intensamente e agisce di conseguenza. In effetti, è ridicolo chiedere a un papa di fare la rivoluzione: e del resto, se mettesse in discussione la dottrina, Francesco sarebbe subito accusato di eresia, provocando scissioni insanabili all’interno della struttura ecclesiastica.
Il programma riformatore di Francesco, quindi, credo che, pur senza farsi illusioni, vada apprezzato, perché a un papa non si può chiedere di più. Anzi, può tentare una simile impresa solo un papa gesuita, un uomo, per tornare alle sue parole citate in precedenza, che sa muoversi; che sa quando parlare, a chi parlare e che cosa dire; che sa ciò che può e vuole cambiare e ciò che non può e non vuole cambiare e, soprattutto, con quali tempi innovare per non fare saltare in aria l’intera baracca.