martedì 14 luglio 2015

ROBERTO BIGINI SU "FILOSOFIA DI STRADA" (DI GIROLAMO, TRAPANI 2010)


“Phronesis”, Aprile 2012 (anno X, numero 18)
La Filosofia di strada di Augusto Cavadi

Sembra proprio aver avuto in mente la poesia Sunday night dell'americano Raymond Carver — «Mettici tutto dentro, mettilo a frutto, non lasciare niente da parte per dopo», quando Cavadi, nel 2010, ha licenziato questo importante Filosofia di strada. La filosofia in pratica e le sue prati­che. Cavadi infatti non si nasconde, né intende “lasciar da parte per dopo” acquisizioni impor­tanti per chiunque, filosofo o più comune mortale, voglia avvicinarsi (magari con profitto) alla consulenza filosofica e al mondo della filosofia-in-pratica più in generale. Ci pare di poter dire che questo Filosofia di strada, nonostante la sua specifica modernità, abbia i contorni di una vera e propria summa nel suo andare a fare il punto sulla “cosa in questione” a trent'anni dal suo ini­zio — inizio di cui lo stesso Cavadi è stato, dal 1983, nella sua Sicilia e non solo, coautore e pio­niere. Oneri e onori, come si dice.
            E il materiale non manca. Una prima parte, composta dai lineamenti essenziali si snoda attraverso un'introduzione al “contesto” mondano delle pratiche filosofiche (che cosa sono e perché nascono) sino ai quattro segnavia delle cosiddette connotazioni epistemologiche (in che senso la filosofia-in-pratica è “filosofia”, in che senso è “pratica”, in che senso è “dialettica” e in che senso, infine, è un “accompagnarsi” e non un curare); la seconda è quella dei confronti tema­tici (con psicologie e psicoterapie, pratica didattica e consulenza teologico-religiosa), la terza quella dei confronti puntuali con i più importanti protagonisti della disciplina, analisi critiche di ogni singola posizione articolate metodicamente in 1. Proposta 2. Consensi 3. Dissensi (Gerd Achenbach, Shlomit Schuster, Ran Lahav, Lou Marinoff, Eckart Ruschmann, Peter Raabe, Eite Veening, Tim LeBon, Andrea Poma, Alessandro Volpone, Neri Pollastri, Stefano Zampieri, An­tonio Cosentino); per arrivare, infine, alle considerazioni sintetiche (provvisoriamente) conclusive. È davvero impossibile darne conto con l'esaustività che richiederebbe, già solo per la polifonia e la storicità, nella loro stratificazioni, delle voci che concorrono allo spartito. Ci limiteremo di conseguenza ad alcune importanti, sottintese questioni preliminari.

            Ora, quale migliore inizio per un testo di filosofia-in-pratica del chiedersi perché la filoso­fia negli ultimi decenni abbia iniziato a piacere e il suo esercizio a essere addirittura richiesto, in concreto, nei vari ambiti dell'esistenza odierna? Come spiegare i milioni di copie vendute in tutto il mondo, ad esempio, da Lou Marinoff, pioniere statunitense della consulenza filosofica, senza sbalordire? È, questo crescente successo della filosofia, un suo proprio merito? O non è originato piuttosto dal demerito e dal fallimento altrui? O da entrambe le cose? In che senso registriamo oggigiorno «un incremento del fabbisogno di riflessività» se parallelamente, inversamente, «il numero degli iscritti alle facoltà filosofiche decresce o nel migliore dei casi si mantiene staziona­rio»? Basta l'antica distinzione tra bíos theoretikós e bíos praktikós, troppo frequentato il primo e troppo poco il secondo – come sembra ritenere Cavadi – a spiegarlo? Se infatti l'Atene della filo­sofia accademica piange, la Sparta delle scienze sue pronipoti ed epigone, di certo, non ride. Tra i rami in procinto di seccarsi che si dipartono dal tronco della filosofia Cavadi individua princi­palmente la direzione spirituale, la psicoterapia e il razionalismo onnipotente (anima, quest'ultima, non proprio indifferente all'essenza della filosofia). Al fondo della crisi delle tre prospettive sta il principio autoritario e asimmetrico, percepito ormai dalla gente per quello che probabilmente è: una forma di «sottile autoritarismo», buono unicamente per «mascherare da un lato la volontà di potenza di chi lo esercita, dall’altro la debolezza, se non addirittura il masochismo di chi la subisce». Per la psicologia, in particolar modo, si lamenta una mancanza di formazione storico-filosofica che la riduce, più spesso, a «pratiche di tipo quasi meramente riabilitativo», «meccani­co, quando non manipolatorio». Là dove invece, negli stessi ambiti, una tale ricerca sia stata fat­ta (Freud, Jung, Money-Kyrle, Bion) è significativo, fa notare l’autore, come si sia finito per fare della vera e propria filosofia; quanto alla crisi del razionalismo onnipotente, il discorso deve in­vece avvitarsi, fatalmente, su se stesso: che la crisi dei «grandi sistemi di pensiero del Novecento» (fine delle “ideologie” e dei pensieri “forti”) coincida con lo spazio diradato di un nuovo inizio, che «sgombrato il campo», Cavadi cita Volpone, «dai “deliri di onnipotenza” della ragione, a li­vello culturale, socio-economico, politico e persino ecologico, si possa finalmente (tornare a) parlare d’ideali a misura d’uomo», è questa, a nostro parere, senz’altro un’illusione. Non esiste infatti in alcun luogo «ideale» a misura d'«uomo», né a «misura» di alcunchè più in generale. Il tramonto di secolari questioni “prospettiche” e metafisiche sul mondo è, purtroppo, ben altro dalla loro pura scomparsa. È vero il contrario[1].
Ciò per quanto concerne il versante ex negativo, per così dire, dell'“altrui” demerito.
Ex positivo, di fianco all'albero della conoscenza, da quell'albero che potrebbe essere l'albero della vita si allungano, almeno in apparenza, ben più rigogliosi rami: quello delle giuste, benché ini­zialmente furiose, rivalitarie «istanze» del «pensiero femminista», con l’interrogazione attorno al­l’essenza del femminile; quello di un problematico e in definitiva illusorio «rifiuto del dualismo» metafisico anima/corpo (o più modernamente, dovremmo dire, res cogitans/res extensa) ad opera delle «neuroscienze», meritorie secondo Cavadi (che per primo lo segnala) di un iniziale recupe­ro della frattura, che è il classico irrisolto in tutta la filosofia, all’unità[2]; in terza ed ultima battu­ta, ma è sempre la stessa questione, la «ricerca di uno sguardo sinottico», quel legame onnite­nente conosciuto fino a due secoli fa appena, in filosofia, come “sistema” e destinato a restare, nonostante Nietzsche, la chiave di un rinnovato, ipotetico, pensiero “filosofico” futuro. È il pro­blema di un'unità di pensiero progettuale e trasversale al proliferare dei pensieri “specialistici”, raccolti ad oggi unicamente, come si sa e si dibatteva già nella Germania del primo Novecento, in un'unità meramente tecnica – rifiutando la quale, abbiamo detto, si va ben poco lontani. C'è quindi come un esaurirsi e un ritrarsi della linfa vitale della filosofia dai suoi rami più alti e più giovani (scienze tecniche e umane), attraverso il tronco (la filosofia), verso radici che non trag­gono più nutrimento dal terreno.
            Appare chiaro, d’accordo con Cavadi, e, aggiungiamo, sacrosanto, il bisogno di «un nuo­vo apprendistato per una nuova e più complessa conoscenza», ma non più, vorremmo dire, «sul­l'uomo», bensì riguardo quei contesti-aperture al cui interno l'uomo è volta a volta, storicamen­te, uomo. Ci pare, detto altrimenti, un errore di metodo prendere a modello le tecnoscienze e an­dare a interrogare l'uomo (il vivente ad esempio, nella medicina, a partire dal cadavere) nella fol­lia dell’interrogazione in scala 1/1. Ci pare un errore tanto quanto sarebbe assurdo e inopportu­no, per un trisavolo, intendere gareggiare seriamente coi pronipoti. Il pensiero è divenuto trop­po vecchio, sapeva ancora Nietzsche, per queste vittorie, troppo vecchio per questa sua configu­razione, consegnata e demandata a suo tempo a scienze anch'esse, ad oggi, in ritirata (di fronte alla comprensibilità dell’essenza dell'uomo e del mondo).
            «Può allora la filosofia costituire una risorsa per “superare gli steccati disciplinari che frantumano la conoscenza sull'uomo”?». Secondo Cavadi sì, e proprio a patto di rimanere filoso­fia pur andando a cercare interlocuzione con uomini e donne che «fuori da quella tradizione sono nati, sono cresciuti e oggi vivono e agiscono». Il ragionamento è giusto: va cercato il “fuori” dalla filosofia. Solo che il “fuori” non è, a nostro parere, dove Cavadi vorrebbe trovarlo, e cioè in strada e nell'agorà. Accademia o agorà, siamo infatti già tutti preordinati, gettati e strut­turati secondo il progetto “filosofia”, già tutti indistintamente, esperti o meno, dentro di essa. Non dobbiamo affatto stupirci, snobisticamente, del continuo raggiungerci e ragguagliarci da parte dei media circa la “filosofia di vita” di questo o quel personaggio mondano, pubblico o meno pubblico (la differenza sta liquefandosi). E non dobbiamo stupirci perché chiunque, ri­flettute o meno, ha rappresentazioni e ontologie del mondo, senza le quali, in questo mondo, non muoverebbe neppure un passo. L'«apertura», ha ben detto una volta Vattimo, è di suo filo­sofica. Ancor prima era stato Heidegger a tematizzare l’impossibilità di «una introduzione alla filosofia», «rappresentazione» molto diffusa che vede l’uomo quotidiano «anzitutto fuori» dalla filosofia: «In verità l’uomo storico sta già sempre, secondo la sua stessa essenza, nella filosofia. Perciò non si dà alcuna “introduzione” – pensando rigorosamente – alla filosofia […] La filoso­fia, in quanto autentico pensare, è la contrada – senza dubbio lontana e ancor sempre ignota – in cui il pensare abituale soggiorna costantemente senza esserne esperto»[3].
            Se le cose stanno così, la filosofia può esser risorsa solo su un altro terreno, andando cioè a cercare la propria essenza fuori da sé, comprendendosi in modo (è giusta l'intuizione di Cava­di) non-filosofico (qui dove allora il filosofico non potrà più essere punto di partenza e di ritor­no del giro di pensiero, ma tappa intermedia tra due stadi velati). Cercandosi là dove forse non è più “filosofia”, ma unicamente e solo pensiero. La scomparsa e insieme il dominio incondiziona­to del mondo da parte della filosofia potrebbero, da una parte, spiegare in che senso, oggi, sia come filosofi che non-(ancora)-filosofi, non si possa decidere più nulla; dall'altra, nella ricerca di un nuovo terreno per il pensiero, questa scomparsa della forza propulsiva della filosofia tutta potrebbe spiegare la strana ambivalenza per la quale mentre «si registra nel contesto sociale un “incremento del fabbisogno di riflessività”», nello stesso istante «il numero degli iscritti alle facoltà filosofiche decresce, o nel migliore dei casi si mantiene stazionario». Perché qui in realtà sono nominate, benché erroneamente con lo stesso linguaggio (filosofico), due cose diverse: mentre il numero degli iscritti alle facoltà filosofiche decresce, aumenta la domanda sociale di pensiero – di cose pensate. Il che è ben diverso.
            Comunque la vediamo, è possibile e auspicabile parlare con Cavadi di una «rinascita del­la filosofia; ma di una filosofia che si proponga di dare risposte sempre più dettagliate non solo alle formulazioni ‘classiche’ delle domande ‘perenni’, ma anche alle loro formulazioni cangianti, impure, approssimative (che “non trovano adeguata soddisfazione nelle forme storicamente de­terminate del sapere scientifico”)» e dunque, insieme ad essa, del «concretizzarsi di una nuova professione, il filosofo-in-pratica». Quali allora i criterî direttivi di questa nuova filosofia-in-pratica? Esiste una “fondazione” di questa pratica? È possibile esibirne finalità, metodologie, fondamenti? E in ogni caso, è davvero necessario?
            Il bisogno di una fondazione epistemologica della filosofia-in-pratica è del tutto compren­sibile, connaturato com'è alle radici del progetto filosofico greco e ripropositivo, per un altro giro, di quello che in filosofia da sempre è il problema (or ora sfiorato nel «rifiuto del dualismo» metafisico e della «ricerca di uno sguardo sinottico»). Ha ragione Cavadi: l'obiezione per cui sol­tanto la filosofia come disciplina, e non come pratica, sarebbe legittimata alla ricerca di una fon­dazione epistemologica, non è che un'inutile astrazione – il rinvenimento di una tale fondazione sarebbe in grado, infatti, di riverberare e contrario sulla filosofia come disciplina e sulla filosofia più in generale. Di sicuro il tono di certe «richieste (e proposte) di una fondazione epistemologi­ca» risponde e corrisponde senz'altro, come dice Zampieri, a un mimetismo per lo più accade­mico, tale per cui l'esigenza fondativa risulta autoriferita e «supposta», più che reale e orientata alla vita. Ma non può essere questo un deterrente; ancora più discutibile la disinvoltura di chi, come Pollastri, liquida la questione dell'impossibilità di una «teoria della consulenza filosofica» con la disarmante osservazione che una teoria della stessa filosofia non è mai stata «neppure ten­tata nella storia del pensiero occidentale», come se ciò autorizzasse l'omissione definitiva di quel­la che è La domanda, anziché riattizzarla con maggiore urgenza. Come mai, dovremmo invece chiederci, non esiste una teoria della filosofia? In che senso proprio quel tipo di linguaggio e di pensiero deputati in modo eminente alla comprensione del mondo rimane esso stesso incompre­so, incomprensibile e inoggettivabile? È ammissibile continuare a filosofare, non importa se in teoria o in pratica, poggiando su un terreno-fondamento ancora così sconosciuto, e perciò in modo tale da aver più solo una pallida idea di ciò che facciamo quando filosofiamo?
            Per Cavadi dunque una (e non la) teoria della filosofia-in-pratica, la si chiami «identità fi­losofica», ma anche solo “statuto”, «è costituita come ogni altra disciplina scientifica da un “in­sieme organico pratico-tecnico-teorico”». La teoria – benché a tutt'oggi dissolta e, come abbia­mo detto, rimpianta neppure dagli addetti ai lavori – è qui anzi tanto più importante perché va a riaffermare la differenza di statuto della consulenza e della filosofia-in-pratica dalle altre scienze, risolte per lo più in sperimentazione diretta e aggiustamento della tecnica (e non della teoria) di riferimento. Citando Althusser, Cavadi argomenta che «la filosofia-in-pratica rischierebbe di eclissarsi se accettasse di presentarsi come “una semplice pratica che a volte, ma non sempre, dà dei risultati; semplice pratica prolungamento di una tecnica [...] ma senza teoria, perlomeno senza una vera teoria; che essa, infine, può confrontarsi con i protagonisti del dibattito culturale solo se, come ogni ‘scienza’, può, “con pieno diritto ambire al possesso del proprio oggetto – che sia suo e solamente suo ”».

            Riguardo alle questioni terminologiche, benché maggiormente spendibile e di “successo” in contesti privati e aziendali, «la formula ‘consulenza filosofica’ è infelice in quanto si presta a troppi equivoci e fraintendimenti». Di conio anglosassone infatti, il philosophical counseling (o counselling) indica qualcosa di troppo modernamente, e pragmatisticamente, definito riferendosi in vari modi al “problem solving” e al cosiddetto “benessere” del “cliente”; con questa curvatura di senso si rischia di dissolvere lo statuto, appunto, e la grande specificità della filosofia-in-pratica nel mare magnum esclusivamente moderno dei counseling.
Piuttosto la consulenza filosofica ha a che fare, essendone un sottoinsieme, con le cosiddette pratiche filosofiche, nate nel secolo scorso — il Sokratisches Gespräch di Nelson, la Philosophy for children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach, il Cafè philó e la Consultation philoso­phique di Sautet — e accumunate da una doppia dislocazione del filosofare (di luogo: dall'acca­demia alla strada, e di attori: dal docente-discenti al filosofo-uomini di strada). Diversamente da queste pratiche però, che «hanno senso anche in rapporto a soggetti che non siano particolar­mente motivati all'interazione specifica con un filosofo» (i bambini in una Philosophy for chil­dren ad esempio), «la consulenza filosofica si dà solo quando un soggetto (o una pluralità di sog­getti) chiede esplicitamente e formalmente di entrare in rapporto dialettico con un filosofo (co­nosciuto e riconosciuto e cercato in quanto tale).

            Confrontarsi con le definizioni, con tentativi, dunque, in qualche modo sistematici è, come abbiamo detto, per un filosofo, esercizio doveroso oltre che lodevole. Ecco le coordinate di Cavadi: «la filosofia-in-pratica o è una filosofia o è un bluff». E ancora: «la filosofia-in-pratica, in quanto è filosofia, è la dimensione costitutiva di ogni pratica filosofica». In essa è questione di «rendere l'atteggiamento filosofico tradizionale (anche) un motore di trasformazione del tessuto antropologico» e di «soddisfare una esplicita domanda di confronto razionale dialogico su pro­blematiche esistenziali o sociali, proveniente da singoli o gruppi». Il filosofo ‘praticante’ o ‘consu­lente’ (come preferisce chiamarlo Cavadi, posponendo di posizione e significato il termine or­mai inflazionato e negativo – specialmente in Italia – di “consulente”) «può essere tante cose, ma prima di tutto ed essenzialmente deve essere un (almeno discreto) filosofo». Anche qui, sfuggen­doci lo statuto più intimo della filosofia, resta da capire in che senso un filosofo sia e possa esser tale. Apparentemente meno impegnativa, più sbrigativa e anglosassone (benché altrettanto insi­diosa) la proposta di Andrea Poma, per il quale la connotazione di “esperto in filosofia” la cui competenza specifica non è elaborar dottrine e ontologie da offrire al consultante, ma mettere a sua disposizione strumenti, metodi e teorie della storia del pensiero (già pensato) si rivela la più adatta. Non già filosofo, bensì unicamente esperto. Ma se è lo stesso Poma, obietta Giorgio Giacometti, a indicare nella “problematizzazione infinitamente aperta e aprente” (quel ripensare al già-pensato detto da Achenbach “secondo pensiero”), l'esercizio filosofico fondamentale, come può uno che è unicamente un “esperto” condurlo in porto con successo? A meno che tecnico (esperto) e filosofo, obiettiamo a nostra volta, non si inverino l'uno nell'altro e non siano, in definitiva, che un'identica persona.
            Delineata l’identità della professione, «un’attività filosofica», e i suoi fini, «operare una trasformazione pratica», restano da trattare «i metodi con cui tale fine può essere perseguito». Ora, «il domandare della filosofia», interloquendo con Sini, «non ha in sé un metodo e neppure è metodo esso stesso», tuttavia, puntualizza giustamente Cavadi, «la filosofia ha diversi metodi, è cioè un'attività plurimetodica». E in ogni caso un metodo la filosofia-in-pratica ce l'ha nella dia­lettica, ossia nel linguaggio (logos) socialmente condiviso (dia) e pazientemente argomentato. Di più, questo tratto duale o comunitario del dialogo filosofico ha la particolarità di esercitare un più vasto controllo sui presupposti del darsi della consulenza: la dia-logica mette sotto esame la sua stessa possibilità e può pertanto orientare al cambiamento dei presupposti della consulenza come pure a una sua interruzione. «La filosofia», rilevano achenbachianamente Cavadi e Conte­sini, «è quel sapere che non può non chiedersi che cosa sta facendo, non può usare un metodo senza dare conto del metodo stesso», un sapere ben allineato e attestato su una «meta-teoria pra­ticante» e su un «lavorare non tanto con i metodi, ma sui metodi». Dall'alto di questa postazione fintamente favorevole, in quanto superiore (“sui” metodi), dal distaccarsi metodico da ogni me­todo (il «metodo del non-metodo», lo chiama giustamente Giacometti) è desunto il fondamento di ogni «pratica autenticamente filosofica». Corretto. Qui iniziano però anche i problemi. Ag­giunge infatti ancor più lucidamente Lucina Regina, creando, almeno nei razionalisti, un certo scompiglio, che questa «peculiare convivenza di rigore e sregolatezza nella filosofia risiede nella necessità di affidarsi al concetto e di fidarsi del concetto, sperando nella sua verità». Verbi mag­giormente consoni, com'è evidente, a un contesto teologico (“sperare” e “aver fede”) più che ra­zionale-ontologico. Si prospetta dunque anche nella pratica filosofica il salto in un buio (simil­mente al salto nel buio della fede nel credo religioso-teologico) solo declinato sul versante onto­logico: il salto nel buio del concetto. Quale che ne sia la rappresentazione-guida (fede, concetto o altro...) e per quanto esplicativa essa possa essere, sappiamo ora che il pensiero filosofico resta guardato da una velatezza che fondamentalmente gli sfugge e che un tale sfuggire riguarda ogni suo versante (riguarda, com'è stato detto una volta, l'«onto-teo-logia» per intero).
            Precisa comunque Cavadi che possiamo intendere per metodo il discorso a patto di non intendere per discorso una “procedura”, «una via canonica seguendo la quale è certo che si arrivi a una meta prevista». È vero il contrario (seguendo la quale è certo che ogni meta prevista sia di­sattesa). Il discorso è metodo in quanto via al non-arrivare, “punto di non arrivo”. Sempre più metodo, capiamo, e sempre meno vita conosciuta, cose pensate. Tutto destruens.
È chiaro che «cadere nell'inconcludenza», ammette Cavadi, è un attimo. Anche se questo, ag­giungiamo noi, non è un rischio specifico della “professione” filosofica che, come ogni altra in questo caso, ha “obbligo” unicamente di prestazione, “di mezzi”, piuttosto che “di risultato”.
Non esiste – ma nemmeno, dovremmo dire, ci interessa – procedura in grado di attivare dialo­ghi filosofici, né di assicurare preventivamente un risultato. Come diceva Socrate nel Teagete il dialogo è governato dall'enigma, da una potenza insolita e non prevedibile. Così non a tutti la sua conoscenza procurava giovamento. Alcuni interlocutori, non avendo orecchie giuste al suo ragionare, non accedevano ad alcuna verità. Per lo stesso motivo duemila anni dopo, alla fine di questa stessa parabola di pensiero, Nietzsche chiamava il suo Zarathustra “un libro per tutti e per nessuno” (per tutti coloro che hanno occhi e orecchie per intendere e per nessuno di coloro che non ne ha). Non dev'essere una nostra preoccupazione.
            Quanto a Socrate, prosegue Cavadi, il continuo richiamarsi «al Socrate platonico» dell'o­dierna letteratura sulla consulenza filosofica, ha generato l'errata impressione che il rapporto dialogico filosofico a due sia «asimmetrico» o «asintotico» (non convergente, secondo la capziosa precisazione di Giacometti) e che una tale asimmetria produca di per se stessa quell'odiosa uni­lateralità e dipendenza caratteristica, invece, delle psicagogie. Non è il nostro caso. Infatti, ben­ché «la “determinazione” principale della filosofia-in-pratica» sia quella di «essere una filosofia per non-filosofi», Cavadi ci insegna che il consulente «deve essere in grado di utilizzare la dispari­tà di conoscenze/abilità/competenze iniziale per abolirla: per mettere l'altro nelle condizioni di poter dialogare con tale libertà interiore e psicologica da diventare un pari grado».
Di più, proprio la disparità è la risorsa, in quanto è lo spazio e la distanza percorrendo le quali, in un senso e nell'altro, consulente e consultante saggiano e ponderano, nella distanza stessa, le rispettive e reciproche posizioni. L'asimmetria è così indicazione, se mai, di una relazione di pensiero praticabile. E in questo andirivieni di entrambi, la sorpresa del filosofo (più che dell'o­spite), la miglior garanzia di riuscita. Lasciare che gli altri, dice bene Zampieri, benché indiretta­mente, attraverso la loro comprensione, ci arrivino e ci trasformino (“la parola di un non filoso­fo può deviare la mia traiettoria nel mondo”).
            «Da Socrate ai giorni nostri», chiarisce infine Cavadi, «il dialogo filosofico ha per lo più assunto i caratteri di un apparato retorico-didattico finalizzato a condurre l'interlocutore verso conclusioni prefissate: esemplare la formula “dialogo ecumenico” che, senza neppure troppi sot­tintesi, serve alle chiese cristiane per contaminare le altre delle proprie teologie e, nel caso di dia­loghi ecumenici interreligiosi, per ottenere dalle confessioni religiose differenti la legittimazione della propria identità». Quindi dialogo come procedura volta al controllo, al dominio e alla riaf­fermazione di un sé già-noto (la «conservazione-accrescimento» del proprio «punto di vista del valore») e come tattica esplorativo-conoscitiva in ordine a un esito di tipo paternalistico (mani­polazione, psicagogia, conversione o sé-duzione, pilotaggio).
            Modalità per noi ingiustificabile nemmeno se la finalità fosse il problem solving, «la riso­luzione del problema dell'interlocutore». Dunque non il “dialogo” (come si è venuto storica­mente inverando) ma, come indicato da Pollastri e Miccione, piuttosto la “conversazione” intesa come «modalità interamente comunicativa “più libera, più gratuita, nella quale ci si confronta umanamente e non tecnicamente, nella quale l'argomentare va avanti senza finalità e, per que­sto, fa accadere il suo proseguimento, non lo insegue né lo causa”: “l'obiettivo è che succeda qualcosa, ma non che questo qualcosa sia determinato”». Cavadi suggerisce però secondo noi a ragione, al posto del debolistico “conversazione”, il termine “colloquio”, o al limite anche lo stesso “dialogo”, ma a patto di intendere «senza possibilità di equivoci che “esso è esigente e ha uno scopo preciso, che è la verità. Dunque può essere anche duro. Ma non è né la discussione eristica tra due che si vogliono sopraffare, né la persuasione occulta esercitata da chi cerca solo di plagiare l'altro”». La verità è infatti il presupposto del dialogo, «che ciascuno dei due interlocu­tori “voglia veramente trovare la verità”». Perciò non «si deve sgambettare per partito preso un avversario, ma neppure blandire, ruffianamente, un cliente». Verità indica qui la sottomissione non solo della posizione dell'altro, ma anche della propria, all'unica legge del pensiero, quella di contraddizione.
            Il metodo è allora «dis-corso», dis-correre, scorrere “qua e la” (dis) della “cosa”, tra i dialo­ganti non meno che tra i rami dell'albero dell'essere (i génh toû 3ntoj di Platone), e dunque per ben due volte dialettica. Gli esiti, però, generalmente scettici (lett. di pura “osservazione”) di una tale dialettica sono respinti con forza da Cavadi, assieme «all'opinione diffusa fra i consu­lenti attuali che il modello in proposito sia Socrate [...] come maestro di scetticismo» e la conse­guente fondazione della filosofia-in-pratica come attività di pensiero «fondata di diritto su pro­spettive scettico relativistiche [...] mero esercizio critico sulle diverse discipline [...] priva di capa­cità conoscitiva autonoma». Il dialogo «non va assolutizzato» poiché piuttosto è con e attraverso di esso che riusciamo a toccare e ad essere toccati, se siamo fortunati, le e dalle “cose stesse”.

            Doveroso rivolgere un ultimo sguardo a una questione puntualmente ricorrente nel diba­tito sulla consulenza e sulla filosofia-in-pratica – se e in che senso, cioè, sia “cura”. «Il pensiero occidentale nutre da diversi secoli un forte disagio di fronte alla richiesta di confrontarsi con le vite di singoli umani. Un disagio che [...] viene fatto sparire aprendo rapidamente la botola della malattia. Chi nutre un interesse a pensare la propria esistenza fino in fondo è consigliabile che oggi viva nascostamente [...] se facesse troppo clamore attirerebbe il medico o il sacerdote. Gli si chiederebbe di essere un malato o un fedele» (Miccione). Ed è proprio a questi “perplessi”, «che non si lasciano convertire né alla medicalizzazione né alla teologizzazione del disagio», che si ri­volge la filosofia-in-pratica. Ora, nonostante Heidegger e ogni pur legittimo tentativo di ricon­testualizzazione, il termine “cura” si rivela qui, alla nostra bisogna, del tutto fuorviante, o come ha ben detto Pollastri «una nozione da usare con cura». Quand'anche volessimo parlare di «una cura dei... sani», rileva giustamente Cavadi (ma l'accordo tra i consulenti italiani è pressoché unanime), andremmo a infilarci nel cortocircuito di un ossimoro che lascia solo spaesati: ci sa­rebbe qualcuno di “si-curo”, di non esposto ad alcun pericolo (sine cura) perché ancorato al fon­damento di una qualche sapienza (il filosofo), che assumerebbe paternalisticamente su di sé la cura, l'affano, il pericolo di un ospite invece “intimidito”. Ma questa è proprio la cifra di ogni altra professione, non di una consultazione filosofica, non di un colloquio pensante. È vero l'in­verso. Proprio la presunta assenza di pericolo (la sine cura) delle nostre rappresentazioni quoti­diane (in cui indebitamente e per abitudine finiamo per mettere residenza) è ciò che per entram­bi, filosofo o apprendista tale, si tratta di abbandonare. Proprio l'esposizione al “pericolo”, l'al­lontanarsi, «senza alcuna rete protettiva» (Rovatti), dall'ombelico delle proprie pre-compren-sioni, fa di un semplice dialogare un colloquio filosofico, un lasciarsi giocare – secondo le sue proprie, imprevedibili regole – dal gioco della verità e di due (o più) semplici sconosciuti, veri compagni di strada, ancorché per breve tempo, nella tenebra di una notte che da troppo tempo tarda a rischiarare.
Senz'altro da leggere.

Roberto Bigini


[1]    A proposito dell’oltrepassamento della metafisica qui adombrato è stato osservato una volta (tra il '36 e il '46) da Heidegger che «la scomparsa non esclude, ma anzi implica, che ora per la prima volta la metafisica pervenga al dominio incondi­zionato nell'essente stesso, identificandosi con questo essente inteso come forma priva di verità del reale e degli oggetti [..] La metafisica non si lascia metter da parte come un'opinione, come una dottrina a cui non si crede e che non si sostiene più [..] La metafisica oltrepassata non scompare. Essa ritorna sotto forma diversa e mantiene il suo dominio come permanente distinzione dell'essere rispetto all'essente».
[2]    Difficile infatti pensare che proprio le neuroscienze, ultimissime nate dal tronco della Filosofia, riescano là dove questa, malradicata sin dall'inizio, non è riuscita in due millenni di evoluzioni. Il “rifiuto” della distinzione resta problematico non tanto perché il dualismo e la distinzione siano veri, ben posti, “pensati”. Al contrario, perché conformemente alle su­permetafisiche di riferimento indicate da Cavadi (ebraismo, buddhismo, fenomenologia husserliana, neurofisiologia), le neuroscienze utilizzano la distinzione, filosofica e già compiuta, tra sensibile e non-sensibile per rifiutarla, utilizzano, cioè, indebitamente ciò che dicono di rifiutare — che «la mente» sia «tempo incarnato, situato, cosciente di sé, intenzionale e pervaso di significati», addirittura «un grumo di tempo fattosi corpo nell’umano» non “spiega” né ridice in alcun modo quest'esistenza a cui vorremmo finalmente avvicinarci e, almeno noi filosofi di strada, magari, accompagnarci (che cosa sono qui infatti “mente”, “tempo”, “coscienza”, “intenzionalità”, “significato” e addirittura “incarnarsi”?). Il “rifiuto della distinzione” nelle neuroscienze non è allora che un ennesimo, nietzscheano, “rovesciamento sul luogo del rovesciato”.
[3]    Cfr. Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano, 2009

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