domenica 30 agosto 2015

COME E' ANDATA LA SETTIMANA FILOSOFICA A CAVALESE (TRENTO) DAL 21 AL 27 AGOSTO?


    COME  E’ ANDATA LA XVIII EDIZIONE (nuova serie) DELLE “VACANZE FILOSOFICHE PER NON…FILOSOFI”  A CAVALESE (Trento) DAL 21 AL 27 AGOSTO 2015 ?





 La mattina di giovedì 27 agosto (2015) si è chiusa l’ennesima “Vacanza filosofica per non…filosofi” svoltasi a Cavalese (Val di Fiemme, provincia di Trento). E’ stata una settimana di bel tempo, con passeggiate, gite, escursioni in funivia e seggiovia, qualche festa popolare serale e persino un dopo-cena auto-organizzato di sckech e canzoni…Quando, nel bilancio conclusivo, qualcuno ha detto che si è trattato dell’edizione più bella degli ultimi dieci anni, mi è venuto spontaneo pensare: ma se questa dichiarazione è stata espressa anche altri anni, vuol dire che il trend di questa pratica filosofica è decisamente in salita !

    Comunque sia, è certo che quest’anno si è vinta una bella scommessa. Il tema della settimana (“Democrazia: realtà o utopia?”) si prestava almeno a un duplice errore: o ribadire, retoricamente, le lodi della democrazia oppure criticarla a colpi di obiezioni dettate dalla squallida cronaca quotidiana. Mi pare, invece, che l’alto gradimento dell’esperienza di riflessione e di confronto sia dovuto sia alla problematicità teoretica con cui il tema è stato sviscerato dai tre relatori sia alla sobrietà con cui sono stati suggeriti dei riferimenti all’attualità (riferimenti tanto più opinabili quanto più distanti dai nodi teorici, come la proposta di spezzare l’identificazione “una testa – un voto” o  la tesi della sostanziale anti-costituzionalità di qualsiasi metodo elettorale che non sia il proporzionale puro).

    Che anche questa edizione sia stata molto apprezzata non esclude, ovviamente, che la struttura e la metodologia dei seminari possano essere sottoposte a revisione sperimentale: alcune proposte in tal senso sono circolate (a mio avviso sarebbe stato preferibile che fossero state formalizzate in momenti più ‘ufficiali’ e indirizzate soprattutto a chi   - dopo il passaggio di consegne da me a Elio Rindone  – ha la regia  scientifica e organizzativa).

   Nell’impossibilità di sintetizzare i sei giorni di informazioni e discussioni, mi limito  - a beneficio della mia memoria e dei tanti lettori di questo blog che mi hanno chiesto affettuosamente aggiornamenti sul tema – a qualche riga molto succinta.

   Nei primi tre incontri Elio Rindone (Roma) ha ripreso alcuni studi recenti (soprattutto di Canfora e Zagrebrelsky) per evidenziare come la “democrazia” in Grecia, nel senso contemporaneo del termine, non sia mai esistita. Nel vocabolario ufficiale designava un regime patologico, degenerato: lo strapotere della classe popolare (demos) rispetto alle classi aristocratiche e plutocratiche. Per nominare qualcosa che si avvicina alla nozione odierna di “democrazia” alcuni pensatori greci hanno coniato il vocabolo polithia che designava una sorta di regime misto in cui un “signore” (o una ristretta cerchia di aristocratici) governava non in aperto contrasto con le classi popolari, ma in una qualche forma di cooperazione. L’Atene di Pericle è stata dunque un “principato” a partecipazione popolare: ma forse anche oggi negli Stati così detti “democratici”  - ha suggerito Elio - è una ristretta cerchia di oligarchi a manovrare  - con il consenso formale delle maggioranze – la storia dei popoli. Le riforme costituzionali tentate o realizzate dai governi Berlusconi e Renzi sembrerebbero andare in questa (pericolosa) direzione.

    Nei successivi quattro incontri Francesco Dipalo (Bracciano) ha focalizzato alcune aporìe della democrazia effettiva. Il principio di rappresentanza è un principio liberale, non democratico. Solo dopo la seconda guerra mondiale il filone liberale e il filone democratico si sono tendenzialmente congiunti nel regime liberal-democratico. Ciò non ha impedito che, sempre nel XX secolo, il vocabolo “democrazia” sia stato declinato in accezioni diverse dal registro liberale: per esempio nel nazional-socialismo e nel socialismo sovietico. Questa gamma di accezioni semantiche è legata alla polivocità della parola “popolo” e alla differenza fra “democrazia formale” (come metodo, come tecnica) e “democrazia sostanziale” (come uguaglianza tendenziale dei cittadini anche dal punto di vista delle opportunità economiche, sociali, sanitarie, di istruzione…). Comunque, mentre discutiamo di questioni ‘interne’ alla democrazia, non pochi studiosi parlano  - con toni in genere allarmati – di “post-democrazia”: uno spazio inedito dove i rischi sembrano di gran lunga prevalere sulle possibilità che si aprono.

    I tre incontri conclusivi sono stati guidati da Giorgio Gagliano (Palermo) che ha esposto, criticamente, tre saggi a diverso titolo illuminanti. Nel primo saggio Searle ricorda che ogni istituzione vive nella misura in cui la collettività lo consente: persino i regimi tirannici ci sono se, e sino a quando, la maggioranza della popolazione lo vorrà (attivamente o passivamente). Nel secondo Krippendorff insiste sulla necessità di fondare la politica su solide basi etiche, ma tali basi  - a loro volta – su una forte ispirazione estetica: le arti, e la musica in particolare, possono dare alla società le energie indispensabili a vivere la politica da co-protagonisti e non da sudditi; possono insegnare “l’arte di non essere governati”. Il terzo e ultimo saggio (“Destra e sinistra” di Norberto Bobbio) ci ha ricordato che la “democrazia” è il luogo di scontro-confronto di due prospettive ideologiche: la “destra” e la “sinistra”. Molte le contaminazioni (talora auspicabili, più spesso adulteranti) fra i due schieramenti, ma con una chiara linea di separazione: la “destra” constata le differenze ontologiche fra i cittadini e le cristallizza in “diseguaglianze”, la “sinistra” constata le differenze ontologiche fra i cittadini e prova ad attenuarle in nome della tendenziale “uguaglianza”.

       Personalmente, tra tante considerazioni, ne porto a casa una. La democrazia è una “realtà” ma soprattutto una  “utopia”: si tratta di una utopia auspicabile, desiderabile ? Qui mi capita di confondere i miei sogni con le mie conoscenze. Se gli esseri umani fossimo sani, sinceri, generosi, la democrazia (soprattutto nelle sue forme estreme come l’anarchia) sarebbe il regime migliore. Ma poiché non c’è dubbio che siamo anche esseri malati, ipocriti, egoisti non è per nulla detto che il massimo della democrazia ‘formale’ sia una méta per cui lottare effettivamente (almeno nel breve periodo: due o tre secoli…).  Con disappunto sentimentale, emotivo, ciò che ho capito del “legno storto dell’umanità” mi induce a ritenere che anche in ambito politico l’  “ottimo” può essere nemico del  “bene”; che il vestito splendido della democrazia diretta e universale possa non calzare a pennello  sul corpo deforme dell’umanità  concreta (finendo con il rovinare sia il vestito sia il corpo da vestire); che, in nome della conoscenza lucida, bisogna avere il coraggio di riconoscere l’oniricità dei nostri sogni e la saggezza per lottare affinché, in ogni fase dell’umanità, si abbia il massimo di democrazia praticabile (che, purtroppo, non coincide  - e forse non coinciderà mai – con il massimo di democrazia auspicabile). Bisogna avere l’onestà di affermare (contro ogni asserzione più coinvolgente, più appassionante) che in molti campi il riformismo è più rivoluzionario delle rivoluzioni. Nella biografia individuale dare a un bambino o a un adolescente l’intera auto-determinazione sarebbe più un gesto malevolo che benevolo: è attraverso una libertà sempre meno condizionata e limitata che può essere accompagnato alla maturità come età dell’assoluta auto-determinazione. Così, se non sbaglio troppo, per la biografia della specie umana: siamo ancora tra l’infanzia e l’adolescenza. Dare a tutti gli uomini l’intera responsabilità del pianeta e di sé stessi sarebbe prematuro e dannoso (pensatori di primo piano, come Hans Jonas, pongono senza falsi pudori la questione). Per Marx siamo alla preistoria di ciò che sarà un giorno la storia dell’umanità.  Aveva ragione, ma proprio per questo mi stupisce che si sia illuso  che bastasse una rivoluzione ‘puntuale’ per segnare il passaggio repentino dalla preistoria alla storia (come le vicende tragiche dell’Unione Sovietica si sono incaricate di dimostrare): forse gli è stato fatale credere che la contrapposizione fosse fra ricchi e poveri, non tra titolari di potere e privi di esso ( avendo ritenuto, per dirla con Dahrendorf, che il potere fosse una forma di ricchezza e non – come è davvero – la ricchezza una forma di potere). Il vero e indilazionabile obiettivo non è che tutti abbiano gli stessi diritti civili e politici: ma che tutti, con il contributo faticoso e diuturno di ognuno di noi, ne diventino degni.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 29 agosto 2015

SERGIO VELLUTO ALLE PRESE CON "VECCHI OMICIDI"


“Centonove”, 27.9.2015

VECCHI OMICIDI DI … VELLUTO

        Sergio Velluto ha già mostrato, con il triller Il pretesto (Claudiana, Torino 2011), propensione e stoffa per  i romanzi storici. E, in attesa del secondo volume della medesima saga sui codici valdesi, ha dato alle stampe questo Vecchi omicidi (Web & Com, Torino 2013) che gioca su due piste temporali: la contemporaneità e gli anni della resistenza antinazista fra il 1943 e il 1945. Poiché anche questo romanzo appartiene al genere “giallo” non possiamo dire come, e perché, si incrociano le esistenze di due signori molto anziani: Renato, ingegnere in pensione dopo decenni di lavoro in Fiat, e un suo coetaneo ebreo  – di cui non conosciamo il nome – emigrato negli Stati Uniti d’America da bambino perché rimasto orfano di guerra. Ciò che invece possiamo dire è che anche questo racconto di Velluto riesce ad avvincere il lettore sin dalle prime pagine e sorprenderlo con colpi di scena imprevisti. Sullo sfondo si avverte lo sguardo panottico dei servizi segreti israeliani e vaticani : l’onniscenza di questi ultimi, a differenza del Mossad, si estende non solo nello spazio ma anche nel passato. Qua e là non mancano scorci di dinamiche sentimentali e di esperienze erotiche, a riprova che la grande storia non cancella le microstorie private di cui è invece intessuta.
      Le vicende narrate, senza minimamente mettere in dubbio chi avesse ragione e chi torto nella Seconda guerra mondiale (in particolare, in Italia, fra “partigiani” democratici e “repubblichini” fascisti), evidenziano comunque che le sofferenze implicate da ogni guerra si distribuiscono equamente fra chi vince e chi perde: che, dunque, in ogni ipotesi, ci sono giochi in cui – come sentenzia il cervellone elettronico del film Joshua citato da Eva, la bella figlia di Renato – “l’unica mossa vincente è non giocare”. In situazioni di guerra non solo si patisce, ma si fa patire dolore agli altri. Si dà il peggio di sé. Lo ricorda la saggezza di una casalinga, sposa e madre: “Non crediate di essere migliori di loro. Anche noi siamo molto vicini a toccare il fondo”. “Loro” sono i fasci-nazisti; “noi” i resistenti e la popolazione civile.
       Se è così, dopo ogni guerra bisognerebbe che, da una parte e dall’altra, si sbarrasse una pagina e se ne aprisse una nuova. Nel senso non di  seppellire nell’oblìo i caduti, ma di sradicare ogni – sia pur legittimo e umano – risentimento.   Come insegna anche questo romanzo, la vendetta ha sempre la mira sbagliata: per quanto mossa da intenti accettabili (“La mia non è una vendetta, è solo un’azione necessaria per rimettere le cose nel loro giusto ordine”), spesso finisce con lasciare indenne il vero colpevole e abbattere gli innocenti.
                                                 Augusto Cavadi
                                            www.augustocavadi.com 

sabato 22 agosto 2015

A proposito dei funerali del boss Vittorio Casamonica a Roma

Corsi e ricorsi dei rapporti tra clan e Chiesa

“il manifesto”
22 agosto 2015




Nel 1990, nella stessa parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà che l’altro ieri ha ospitato il funerale in stile “Padrino” di Vittorio Casamonica, furono celebrate le esequie di Enrico “Renatino” De Pedis, uno dei boss della banda della Magliana, il cui corpo venne poi tumulato – con l’autorizzazione del Vicariato – nella cripta della basilica di San Apollinare (dove è restato fino al 2012, quando poi fu cremato).
Corsi e ricorsi storici che, al di là delle coincidenze, mostrano quanto le relazioni fra Chiesa e mafie siano state e siano ancora intrecciate. Una storia che comincia da lontano, e lontano da Roma, già nell’800, quando i livelli erano contigui e sovrapposti. Fino al 1963, quando a Ciaculli c’è la prima grande strage di mafia, e la Chiesa comincia a porsi il problema, anche perché a Palermo il pastore valdese Panascia aveva preso una posizione pubblica netta, mentre il cardinale Ruffini minimizzava. Per arrivare alla prima svolta bisogna aspettare il 1993, con l’anatema di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi e l’omicidio di don Puglisi (e, l’anno successivo, di don Diana, a Casal di Principe).
Da allora la riflessione si sviluppa e le iniziative antimafia si moltiplicano, fino alla «scomunica» ai mafiosi pronunciata da papa Francesco. Ma la consapevolezza non è unanime in tutta la Chiesa, così come l’impegno è a macchia di leopardo: accanto a preti e gruppi in prima linea, continuano ad esserci silenzi, omissioni, collusioni, feste patronali e processioni religiose guidate dai boss che in questo modo consolidano potere e prestigio, con la benedizione ecclesiastica (a giorni la Conferenza episcopale calabra pubblicherà le proprie linee guida sulle processioni proprio per evitare infiltrazioni).
Il funerale del proprio famigliare organizzato dai Casamonica – benché Roma sia una realtà sociale diversa – si colloca in questo contesto. «Tra i messaggi più persuasivi che le organizzazioni mafiose lanciano per raccogliere consensi c’è l’ostentazione dell’impunità e da questo punto è stato un capolavoro di promozione dell’immagine pubblica del defunto e dei suoi eredi immediati», spiega Augusto Cavadi, autore fra l’altro del saggio Il Dio dei mafiosi (Edizioni San Paolo). «In una società ancora imperfettamente secolarizzata, l’impunità terrestre, per quanto rilevante, non è esaustiva. Allora con gli elicotteri e la carovana dei fuoristrada sbatto in faccia la mia superiorità rispetto ai poteri civili, ma con la ritualità religiosa tolgo ogni eventuale dubbio sulla mia impunità post mortem. La volontà del padrino è legge incontrastata in cielo come in terra».
«Credo di aver fatto solo il mio dovere. Sono un prete, non un poliziotto e nemmeno un giudice», scrive sul sito internet della parrocchia don Manieri, che ha celebrato il funerale. «Se un signore mi chiede di celebrare il funerale di un suo congiunto lo celebro, non è scritto da nessuna parte che debba indagare su chi è, personalmente non conoscevo il nome del boss dei Casamonica per me poteva essere il più lontano dei parenti». Il vescovo del settore est di Roma (dove si trova la parrocchia), mons. Marciante, dichiara a Radio Vaticana di non essere stato informato – del resto anche il parroco ha ammesso di non aver informato nessuno –, spiega che «il funerale non si poteva proibire», ma aggiunge che «se avessimo saputo che dietro questo funerale c’era questo spettacolo avremmo suggerito di celebrare le esequie in un modo più discreto».
Ed è quello che è già avvenuto in altre situazioni e in contesti più difficili rispetto a Roma, perlomeno sotto l’aspetto del controllo del territorio da parte delle organizzazioni mafiose. Nel 2007, per esempio, l’allora vescovo di Piazza Armerina, mons. Pennisi, non vietò il funerale al boss gelese Emmanuello, ma negò l’uso della chiesa principale e celebrò le esequie in forma strettamente privata nella cappella del cimitero. Il vescovo di Acireale, mons. Raspanti, invece nel 2013, ha emanato un decreto che proibisce in tutta la diocesi i funerali religiosi ai condannati per mafia. Un passaggio decisivo secondo Alessandra Dino, sociologa palermitana, autrice di numerosi saggi sul rapporto fra Chiesa e mafia, fra cui La mafia devota (Laterza): «Non si può più dire non sapevo o non avevo capito, c’è una dimensione pubblica che la Chiesa non può ignorare».
                                                                                                                        Luca Kocci

domenica 9 agosto 2015

APERTE, SINO AL 10 SETTEMBRE 2015, LE ISCRIZIONI ALLA SCUOLA PER CONSULENTI FILOSOFICI

Quanti, tra voi, sono laureati in filosofia  - ma anche sinceramente desiderosi di affrontare la vita con CONSAPEVOLEZZA e di aiutare i non-filosofi di professione a RIFLETTERE CRITICAMENTE sulle proprie questioni esistenziali - possono iscriversi per il biennio 2015 - 2017 alla Scuola di Formazione "Phronesis" (l'unica associazione di filosofi-consulenti riconosciuta dal Governo italiano).
Per i dettagli consultate la pagina FB  Phronesis Consulenza Filosofica oppure 
il sito  www.phronesis-cf.com
Ovviamente sarebbe utile informare dell'opportunità i vostri amici  laureati in filosofia (purché, a prescindere dall'età anagrafca, non siano dei ragazzini capricciosi né alla mera ricerca di un'occasione di guadagno).

martedì 4 agosto 2015

A 94 ANNI SI E' SPENTO CASSISA, L'ARCIVESCOVO AMICO DI POTENTI


“Repubblica – Palermo” 4.8.2015



ADDIO A MONSIGNOR CASSISA, ARCIVESCOVO AMICO DEI POTENTI E CONTESTATO DAI FEDELI



Per quasi un ventennio (1978 – 1997) mons. Salvatore Cassisa è stato l’arcivescovo di Monreale, una delle più vaste e ricche diocesi della Sicilia, il cui territorio va dal trapanese al corleonese. Il Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, aveva diviso i prelati in due schieramenti  abbastanza netti: alcuni avevano preso sul serio l’invito a vivere il ministero pastorale in sobrietà e distanza critica dai poteri civili; altri, ritenendo questa conversione un indebolimento dell’influenza sociale della Chiesa, avevano ritenuto opportuno mantenere lo stile pre-conciliare di un cardinal Ernesto Ruffini. Cassisa non ebbe dubbi su quale versante riconoscersi e, con una sincerità che poté talora risultare sfrontata, non fece nulla per nascondere le sue relazioni con i potenti dell’isola. Alcuni ruoli istituzionali, più o meno strettamente legati alla sua funzione episcopale, lo costrinsero quasi a tessere un’intricata tela di rapporti impegnativi. Intanto come Presidente (e pressocché dominus unico) della Fabbriceria del duomo, una sorta di cantiere perenne che ha macinato, durante gli anni di Cassisa, almeno quarantacinque miliardi di lire di contributi finanziari pubblici tra lotta alle termiti, interventi di restauro e “investimenti per l’occupazione”. Poi come Priore dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, organizzazione fortemente elitaria dal punto di vista sociale di cui hanno fatto parte, durante il priorato dell’arcivescovo, funzionari dello Stato come Bruno Contrada e imprenditori come Arturo Cassina, per decenni “re degli appalti” nella Palermo democristiana. Rinomati i suoi ottimi rapporti anche con scienziati di fama internazionale come Antonio Zichichi.

    Da buon siciliano, Sua Eccellenza non si è mai rifiutato di dare una mano né ai parenti né agli amici. Non potranno certo accusarlo di scarsa generosità le sue due nipoti che, grazie a piccoli risparmi e a qualche regaluccio dello zio, sono riuscite a costruirsi due ville di settecento milioni di lire ciascuna . Celebre, poi, la protesta di Leoluca Orlando quando fu da lui pressato invano affinché versasse un centinaio di miliardi delle casse comunali al Luogotenente dell’Ordine del Santo Sepolcro, Arturo Cassina, per lavori che il sindaco di Palermo ritenne mai eseguiti. Lo stesso Orlando che rinunciò ad accogliere papa Wojtyla all’aeroporto di Punta Raisi, nel 1995, per la presenza di Cassisa, in quel momento nel pieno di una tempesta giudiziaria.

Da parte loro, poi, anche i beneficiati  dell’arcivescovo sono stati spesso fedeli: il giorno dopo l’assassinio di Salvo Lima, Cassisa espresse ai cronisti tutto il proprio dispiacere per la fine di “un amico che, proprio alcuni giorni fa, è corso in arcivescovato perché avevo bisogno di chiedergli un favore”.  (In realtà, l’eurodeputato democristiano era anche un mezzo parente da quando un suo cugino in seconda aveva preso in moglie una delle nipoti dell’arcivescovo).

     Come tutte le personalità dai tratti forti, anche Cassisa ha avuto i suoi critici e i suoi avversari. A qualche giornalista, ad esempio, non fece ottima impressione una fotografia, proprio all’ingresso del duomo, dell’arcivescovo con il papa (casualmente in secondo piano). Qualche ex-tossicodipendente ricorda di aver ricevuto con un pizzico di delusione, insieme ai suoi compagni, il dono per ciascuno di loro da parte dell’arcivescovo in visita alla comunità di recupero di Pagliarelli: una foto gigante del presule benedicente con lo stesso gesto del Cristo Pantòcrator dell’abside della cattedrale di  Monreale.  Le accuse di monsignor Giuseppe Governanti (ex presidente del Tribunale ecclesiastico regionale), riguardanti  tangenti del venti per cento sui lavori di restauro del duomo, costrinsero le procure di Palermo e di Milano a indagare sul presule (che, comunque, uscì prosciolto, a differenza di Angelo Siino, ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, condannato per gli stessi reati). L’arcivescovo tentò di punire in maniera esemplare il suo presbitero che aveva “intaccato, svilito e pregiudicato, il prestigio e la funzione dell'autorità diocesana", ma dovette fare marcia indietro quando i parrocchiani di Governanti misero nero su bianco una lettera indirizzata direttamente a Giovanni Paolo II.  Se la giustizia umana fu propizia (in altra occasione la Cassazione annullerà le condanne per truffa all’Unione Europea in due gradi di giudizio) , molto più severo si rivelò il giudizio del Vaticano che lo sostituì, con il cardinale Pappalardo,  nella carica di  Priore dell’Ordine dei Cavalieri e gli rifiutò qualsiasi proroga al compimento dei 75 anni. Furono dimissioni laboriose con strascichi pirandelliani. L’arcivescovo, infatti, in vista del pensionamento si era fatto ristrutturare un piano della curia con vista sull’ex Conca d’Oro e lì continuò a ricevere clero e laici, in imbarazzante condominio con i due vescovi successivi: Pio Vittorio Vigo e Cataldo Naro. Quest’ultimo – notissimo e apprezzato storico dei rapporti fra Chiesa cattolica e cosche mafiose -  si oppose  decisamente all’anomala convivenza e ottenne dalla Congregazione romana per i vescovi un decreto ingiuntivo di sfratto (pena la sospensione a divinis).  Ma, secondo alcuni suoi intimi, la tensione con l’ingombrante predecessore non fu estranea all’infarto cardiaco che ne interruppe tragicamente la missione, a neppure sessant’anni, due giorni prima che il decreto entrasse in vigore.  Un saggio a firma del filosofo del diritto della Sapienza di Roma, Francesco Mercadante, ha reso pubbliche nel 2010 delle lettere esplosive. Da una parte Cassisa che scrive al cardinale Re, suo referente a Roma: “Qui a Monreale Naro non è al posto giusto.Si cerchi un’altra sede, si provveda dall’alto”; dall’altra Naro che scrive a un amico: “Io temo che il cardinale Re stenti a considerare che nella mia diocesi sono comprese capitali della mafia”.

    Dove riposeranno le spoglie dell’Emerito  che la Provvidenza ha voluto mantenere in vita sino ai 94 anni? Scartata una prima ipotesi da lui vagheggiata (una cripta nel duomo, sotto la tomba in porfido di Guglielmo I il Malo e quella in marmo bianco di Guglielmo II il Buono, gli ultimi re normanni in Sicilia), si era poi accontentato di una tomba sotto la cappella di San Placido: ma da allora sono passati alcuni decenni e  tre successori (di altra pasta e con altre concezioni ecclesiologiche). Basterà attendere poche ore per saperlo con certezza.



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com