giovedì 31 marzo 2016

CI VEDIAMO A PALERMO, DOMENICA 3 APRILE 2016, ALLE ORE 17 ?



Domenica 3 aprile 2016, alle ore  17, presso la sede del CeSMI  
(Centro Studi di Medicina Integrata) in via Annibale 30 (zona Addaura), 
seconda sessione della “Piccola scuola del pensare filosofico”per non-filosofi di mestiere guidata da Augusto Cavadi.

Lo scambio di riflessioni verterà sul tema:

Dal desiderio di vendetta al perdono: 
un percorso possibile ?

E’ obbligatoria la prenotazione al numero 339. 6749999

Quota di partecipazione: euro 8,00.
E' necessario essere soci del Cesmi (quota annuale euro 30,00), 
ma è possibile partecipare per una prima volta a un incontro 
versando solo la quota di euro 8,00.

Si prega di arrivare dieci minuti prima dell'inizio della sessione (dunque alle 16, 50).



mercoledì 30 marzo 2016

CORREZIONE PARZIALE DELLA DATA DI MAFIA E 'NDRANGHETA AL CERVANTES DI PALERMO

La conversazione di Francesco Forgione e mia, all'Istituto Cervantes di Palermo, su mafia e 'ndrangheta (a partire dal suo La 'ndrangheta spiegata ai turisti e il mio La mafia spiegata ai turisti, editi entrambi da Di Girolamo) avverrà il 31 marzo 2016 alle ore 18. Il giorno della settimana è GIOVEDI', non (come erroneamente avevo scritto) mercoledì. 

                                                                                °°°
L'Instituto Cervantes di Palermo

ha il piacere di invitarvi alla conferenza dal titolo

Le mafie e il mondo
La globalizzazione del fenomeno fra Europa e Sudamerica

Descrizione: http://difusionelectronica.institutocervantes.es/archivos/74/75198_untitled.png

Intervengono: Francesco Forgione, Augusto Cavadi, Vittorio Coco

Modera: Leonardo Mesa

Giovedì 31 marzo, alle ore 18:00

Instituto Cervantes di Palermo, via Argenteria Nuova, 33

Ingresso libero

L'Instituto Cervantes di Palermo presenta questa conferenza nella quale intervengono tre esperti della materia che parleranno della storia del fenomeno mafioso, del suo rapporto con la società moderna, delle radici che le mafie autoctone hanno messo in tante parti del mondo, in particolar modo in America Latina, sfruttando le enormi opportunità che il mondo globalizzato offre.

Francesco Forgione, giornalista e scrittore. Direttore della Fondazione Federico II. Deputato della Regione Siciliana dal 1996 al 2006. Presidente della Commissione parlamentare Antimafia dal 2006 al 2009. Tra i suoi libri dedicati alla criminalità organizzata: "La 'ndrangheta spiegata ai turisti".
Augusto Cavadi è consulente filosofico e collabora stabilmente con l'edizione siciliana di "Repubblica". Tra i suoi libri dedicati alla mafia e all'antimafia, "Il Dio dei mafiosi" e "La mafia spiegata ai turisti".
Vittorio Coco, dottore di ricerca in Storia contemporanea, è assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: "Relazioni mafiose. La mafia ai tempi del fascismo" e "La mafia dei giardini. Storia delle cosche della Piana dei Colli".

Per ulteriori informazioni contattare:
Instituto Cervantes Palermo
Chiesa di Santa Eulalia dei Catalani
Via Argenteria Nuova, 33
90133 Palermo
Tel.: 39 091 888 95 60
cultpal@cervantes.es

lunedì 28 marzo 2016

CI VEDIAMO A PALERMO GIOVEDI' 31 MARZO 2016 ?

Giovedì 31 marzo 2016 , alle ore 18, presso  l'Instituto Cervantes di Palermo (via Argenteria Nuova, 33), Francesco Forgione ed io parleremo delle mafie nel Mediterraneo oggi. Introdurrà l'incontro Vittorio Coco, modererà il dibattito Leonardo Mesa.
L'iniziativa prende spunto dalla pubblicazione del libro di Francesco Forgione 
La 'ndrangheta spiegata ai turisti, e del mio La mafia spiegata ai turisti, entrambi editi da Di Girolamo (Trapani).

                                                            ***

L'Instituto Cervantes di Palermo
ha il piacere di invitarvi alla conferenza dal titolo
Le mafie e il mondo
La globalizzazione del fenomeno fra Europa e Sudamerica

Intervengono: Francesco Forgione, Augusto Cavadi, Vittorio Coco
Modera: Leonardo Mesa
Giovedì 31 marzo, alle ore 18:00

Instituto Cervantes di Palermo, via Argenteria Nuova, 33

Ingresso libero
L'Instituto Cervantes di Palermo presenta questa conferenza nella quale intervengono tre esperti della materia che parleranno della storia del fenomeno mafioso, del suo rapporto con la società moderna, delle radici che le mafie autoctone hanno messo in tante parti del mondo, in particolar modo in America Latina, sfruttando le enormi opportunità che il mondo globalizzato offre.
Francesco Forgione, giornalista e scrittore. Direttore della Fondazione Federico II. Deputato della Regione Siciliana dal 1996 al 2006. Presidente della Commissione parlamentare Antimafia dal 2006 al 2009.
Augusto Cavadi è consulente filosofico e collabora stabilmente con l'edizione siciliana di "Repubblica". Tra i suoi libri dedicati alla mafia e all'antimafia, "Il Dio dei mafiosi" e "La mafia spiegata ai turisti".
Vittorio Coco, dottore di ricerca in Storia contemporanea, è assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: "Relazioni mafiose. La mafia ai tempi del fascismo" e "La mafia dei giardini. Storia delle cosche della Piana dei Colli".
Per ulteriori informazioni contattare:
Instituto Cervantes Palermo
Chiesa di Santa Eulalia dei Catalani
Via Argenteria Nuova, 33
90133 Palermo
Tel.: 39 091 888 95 60
cultpal@cervantes.es
 

domenica 27 marzo 2016

IL SENSO DI NOI SICILIANI PER LE LEGGI


“Il Gattopardo”
Magazine in abbinamento al “Giornale di Sicilia”
Marzo- Aprile 2016

I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI
(Sesta puntata)

    I visitatori che arrivano in Sicilia da Paesi ad alto tasso di civilizzazione devono accettare, se vogliono evitare stress eccessivi, di mutare alcuni punti di vista. Talora persino di capovolgerli. Essi, ad esempio, sanno che una società funziona se chi infrange la legge va incontro alla sanzione sociale della disapprovazione pubblica. Dalle nostre parti questo può avvenire, ma può succedere con la stessa probabilità anche il contrario. Un mese fa, sull’autobus, ho subito un borseggio con destrezza e ho constatato con orgoglio il coraggio di alcune ragazze che hanno redarguito, a voce alta e forte,  il ladro. L’episodio mi ha compensato dell’amarezza provata, tante volte, quando sono  rimasto isolato per aver cercato di rispettare le  norme.
  Siete alla guida di un’auto e vi fermate a uno stop ?  Vi è concesso. Ma per non più di dieci secondi. All’undicesimo dovete comunque procedere, anche a costo di tagliare la strada a un autocarro con rimorchio che avanza sicuro della sua precedenza stradale: altrimenti prima sentirete il clacson infastidito dell’automobilista alle vostre spalle, poi sarete da lui superati e sbeffeggiati. Siete alla guida di una moto e vi fermate davanti alle strisce pedonali perché una madre con bambino in carrozzella sta attraversando la strada? Potete farlo, ma a patto che lo specchietto retrovisore vi rassicuri di non essere seguiti da altri veicoli: altrimenti è molto probabile che siate tamponati perché nessuno prevede che vi possiate fermare solo per non rischiare di investire un pedone. Siete entrati in un locale pubblico – ufficio postale o farmacia – e vi fermate un metro prima del cliente che vi precede, per mantenere la distanza di cortesia a salvaguardia della sua riservatezza? Potete farlo, ma aspettatevi che entri un terzo cliente e s’infili davanti a voi in quel metro di spazio. Se gli fate notare che vi sta scavalcando, vi chiederà scusa: sinceramente convinto che voi – non essendo ‘appiccicati’ col fiato sul collo del primo cliente – non eravate davvero a turno, ma vi trovavate a sostare in quell’area tanto per ‘ammazzare’ il tempo ... Assistete alla scena di un vigile urbano che multa un’auto  posteggiata in doppia fila? Se nessuno se ne accorge, tutto bene. Ma se il proprietario dell’auto - o il gestore del bar in cui l’automobilista sta consumando la colazione - accorre per bloccare il vigile urbano senza riuscirci, la solidarietà dei passanti si manifesterà a favore del cittadino strafottente, non dell’agente di polizia municipale (stigmatizzato come legalista senza cuore). Non per nulla nel linguaggio comune  il termine dialettale che designa il poliziotto (sbirro) è comunemente adoperato come epiteto offensivo. Anzi, per evitare dubbi, si ricorre a una sorta di endiadi: cornuto e sbirro.
   Se il turista è italiano capirà al volo cosa significhi cornuto. Se straniero, avrà più di una difficoltà a farne l’esegesi: infatti solo nel nostro vocabolario le ramificazioni ossee di alcuni animali rimandano semanticamente alla condizione di quei mariti che avrebbero ragione di dubitare della fedeltà delle proprie signore.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 25 marzo 2016

"FILOSOFARE IN CARCERE" (DIOGENE MULTIMEDIA, BOLOGNA 2016, pp. 71, euro 5,00)


Sì, con la collaborazione di Maria Antonietta Spinosa e di Franco Chinnici, è in commercio (librerie on line e librerie fisiche) il mio ultimo libretto: Filosofare in carcere. Un'esperienza di filosofia-in-pratica all'Ucciardone di Palermo (Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 71, euro 5,00).

Dalla quarta di copertina:
Per diversi mesi, con cadenza quindicinale, tre filosofi incontrano un gruppo di detenuti del carcere “Ucciardone” di Palermo per conversare sul senso della vita, le vicissitudini dell’amore, la sete di ritorno alla libertà. In questo agile libretto una traccia, ora toccante ora divertente, di quegli incontri sempre significativi.

“Possiamo registrare i nostri dialoghi?”
“Sì” – risponde T., appena trentacinquenne . “Purché mia moglie non venga mai a sapere che, mentre lei s’affanna a mantenere sei figli, me la spasso qua dentro a fare filosofia con voi. Non me lo perdonerebbe…”.

 



giovedì 24 marzo 2016

LIVIO GHERSI SULLE STRAGI DI BRUXELLES


Normalità e guerra

Di fronte a fatti come quelli accaduti a Bruxelles il 22 marzo scorso, tutti proviamo disorientamento e smarrimento: chiunque di noi poteva trovarsi in quel dato aeroporto, o in quella data stazione della metropolitana; e se non direttamente noi, potevano esserci nostri figli, nostri cari amici, nostri conoscenti.
Noi fragili umani, tuttavia, abbiamo anche un punto di forza: siamo esseri razionali. Comprendiamo quindi che abbandonarsi all'angoscia e alla paura serva soltanto a farci stare peggio. E' proprio nelle difficoltà che bisogna fare affidamento sulle nostre capacità razionali, cercando di farne l'uso migliore.
Per quanto mi riguarda, gli sforzi rivolti a trovare il giusto orientamento includono naturalmente l'ascolto delle persone abituate a ragionare in pubblico muovendo da una formazione culturale affine alla mia e, quindi, avvezze ad utilizzare un linguaggio che posso immediatamente comprendere, perché è il mio stesso linguaggio.
Mi riferisco a persone (purtroppo, non ne sono rimaste molte in circolazione) che hanno un orientamento ideale liberale, hanno studiato lungamente il pensiero di Benedetto Croce traendone proficui insegnamenti, hanno un approccio al mondo umano di tipo storicista, pur difendendo il meglio dell'eredità dell'illuminismo.
Ha scritto il professor Paolo Bonetti: «Siamo in guerra, piaccia o non piaccia questa parola, e, come accade in tutte le guerre, bisogna realisticamente adottare misure che limitano necessariamente le nostre piccole libertà quotidiane» (si veda l'articolo di Bonetti "La demagogia della libertà e della privacy", in "Legno Storto Blog" del 23 marzo 2016). Il mio giudizio è che Bonetti abbia ragione nell'invitare l'opinione pubblica a meditare sul fatto che qualcosa è successo e sta ancora succedendo; e, dunque, anche il nostro abituale tenore di vita, quella che consideravamo la nostra normalità quotidiana, devono necessariamente subìre degli adattamenti, in relazione alle misure stabilite dalle competenti Autorità per garantire la sicurezza collettiva. Dissento, invece, da Bonetti circa la parola "guerra". Ogni parola ha un suo significato proprio e non va utilizzata impropriamente. C'è poi una precisa lezione della Storia, che non si può ignorare: la dichiarazione formale dello stato di guerra si traduce, sul piano interno, in uno stato d'eccezione. Questo comporta non soltanto che per un periodo si mettano tra parentesi le garanzie costituzionali, ma legittima, in concreto, misure restrittive della libertà personale come: perquisizioni personali e domiciliari; intercettazioni ed altre forme di controllo della corrispondenza e degli altri mezzi di comunicazione interpersonale; aumento dei casi in cui si può procedere al fermo di polizia e della sua durata, prima che si possa avere assistenza legale.
Per andare alla sostanza della questione: la dichiarazione formale dello stato di guerra produce automaticamente esiti illiberali.
Ci sono forze interne "non innocenti" che enfatizzano apposta la circostanza che saremmo in guerra, per arrivare ai provvedimenti dello stato d'eccezione. Sono le eterne, classiche, forze illiberali, che tanti nomi hanno assunto in passato, ma che vogliono sempre la medesima cosa: fare fuori i dissenzienti, i rompiscatole, i critici del potere. Vogliono un bel blocco d'ordine, in cui chi governa abbia carta bianca e chi si è arricchito possa godersi in pace la sua ricchezza.
Non mi riferisco unicamente a forze di ispirazione reazionaria; la guerra è una manna dal cielo anche per gli spiriti rivoluzionari e giacobini. I diritti dell'uomo e del cittadino dovevano essere il portato della Rivoluzione Francese; ma proprio la dichiarazione di guerra all'Austria ed alla Prussia consentì ai rivoluzionari di stabilire lo stato d'eccezione interno. Così furono messi tra parentesi gli ideali della rivoluzione del 14 luglio 1789 e si ebbe la seconda rivoluzione, del 10 agosto 1792: con lo stabilirsi del Terrore.
Del resto, la stessa Rivoluzione Russa del 1917 non si è innestata come diretta conseguenza degli sconvolgimenti determinati dalla prima guerra mondiale?
Un altro liberale italiano odierno, memore della lezione crociana, Corrado Ocone ha scritto: «Abbiamo perso il senso del tragico della vita, e quindi anche della stessa libertà» (si veda l'articolo di Ocone "Come combattono le società libere", nel giornale quotidiano "L'intraprendente", del 24 marzo 2016). Vero e ben scritto: le libertà di cui godiamo, i loro istituti, le loro garanzie giuridiche, non sono fatti scontati, acquisiti una volta per tutte. Tutto ciò che è umano è precario e si può perdere. Ci sono voluti secoli di lotte per arrivare agli odierni ordinamenti liberaldemocratici e per difenderli e consolidarli si sono combattute guerre dolorosissime e rovinose: ultima la seconda guerra mondiale, contro il nazi-fascismo.
Non sono d'accordo però con Ocone quando scrive: «L'attacco alla libertà viene questa volta dall'esterno, da una "cultura altra" che eravamo convinti di poter integrare».
Posso sbagliare, ma nell'espressione "cultura altra" mi sembra di cogliere un senso di superiorità, un guardare dall'alto in basso, una "puzza sotto il naso", per usare un'espressione colorita che un napoletano può subito intendere. Ci leggo lo stesso atteggiamento di un importante collaboratore del settimanale "Il Mondo" quando era diretto da Pannunzio, Vittorio De Caprariis (1924-1964). Nel suo saggio "L'Italia contemporanea. 1946-1953", De Caprariis difese la scelta italiana di aderire all'Alleanza Atlantica (NATO), ma con un surplus di natura politico-ideologica: «quello che sfuggiva alla sinistra della DC, dossettiana o gronchiana che fosse, era che il patto era più politico che militare: proprio perché l’Italia era un paese non-atlantico ma mediterraneo, una certa visione del suo sviluppo e destino esigeva che lo si disincagliasse moralmente, psicologicamente e politicamente dal Mediterraneo e lo si rendesse omogeneo ai paesi dell’area atlantica, e la nuova alleanza sarebbe stata strumento efficace di ciò» (si veda il terzo volume degli Scritti di De Caprariis, "Momenti di storia italiana nel '900", Messina, Edizioni P&M, 1986, p. 226).
Non c'è vergogna nell'essere un Paese del Mediterraneo. Bisogna essere consapevoli della ricchissima storia di questo piccolo mare, ed anche un po' orgogliosi di farne parte. Non esistono più tanti popoli che pure furono economicamente fiorenti e culturalmente interessanti, quali i Fenici (con i loro discendenti Cartaginesi), o gli Etruschi: ma la loro eredità è stata assorbita in noi. Il Mediterraneo fu il "Mare nostro" degli antichi Romani. Attraverso il Mediterraneo, la storia di molti popoli europei si è strettamente intrecciata a quella dei popoli adenti all'Islam. I quali tutti vantano culture ragguardevoli e meritano rispetto. Cito una fonte al di sopra di ogni sospetto: uno scrittore statunitense di origine ebraica, Noah Gordon. Nel romanzo "Medicus" (titolo originale "The Physician"), si narra di un inglese vissuto agli inizi dell'undicesimo secolo. Il quale, per imparare l'arte medica, si recò ad Ispahan, in Persia; mentre a Londra ancora non si sapeva cosa fosse un ospedale, ad Ispahan si studiava medicina nella madrassa (università) con insegnanti del livello di Ibn Sina (Avicenna) e gli studenti facevano pratica medica nell'adiacente maristan (un vero e proprio ospedale, in senso moderno).
Il rapporto fra culture diverse non può essere di tipo gerarchico, da superiore ad inferiore. Nella differenza c'è l'opportunità di un arricchimento reciproco.
In conclusione espongo, in sintesi, i punti di orientamento che personalmente intendo seguire.
1) E' profondamente sbagliato teorizzare uno scontro di civiltà, in questo caso fra Cristianità ed Islam.
2) Al contrario, il mondo islamico, sia nella sua componente maggioritaria sunnita, sia nella sua componente sciita, possiede intelligenze ed energie positive che sono indispensabili per battere, sul piano spirituale-ideale, oltre che sul piano politico e militare, i fondamentalisti ed il loro nichilismo.
3) Non è interesse dei Paesi occidentali e dell'Unione Europea soffiare sul fuoco dello scontro politico in atto all'interno dei Paesi islamici in Medio Oriente e nel Nord Africa.
4) Al contrario, attraverso una seria riforma del Consiglio di Sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), bisogna costruire un nuovo ordine internazionale, facendo in modo che i più importanti Paesi di tradizione islamica (Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita) siano valorizzati e corresponsabilizzati nella costruzione di questo nuovo ordine mondiale.
5) La cosiddetta globalizzazione non ha effetti soltanto per quanto attiene ai rapporti economici e finanziari. Ha contribuito a far sì che il pianeta sia diventato sempre più piccolo e interconnesso. Ciò determina crisi soprattutto nei Paesi più legati alle proprie tradizioni: perché tutto sembra mescolarsi ed ogni precedente certezza viene di colpo messa in discussione. Dobbiamo imparare tutti a gestire la globalizzazione. Il modo migliore per farlo è quello di consentire uno sviluppo economico quanto più diffuso possibile.
6) Al contrario, se la ricchezza mondiale si concentra in pochi Stati, è inevitabile che questi attraggano i disperati di tutto il mondo, con una miscela esplosiva di rancore e di odio.
7) Il nostro attuale livello di civiltà è una conquista molto recente. Ad esempio, la condizione delle donne vedeva una loro netta subordinazione anche nei rapporti civili, come attesta il Codice Civile napoleonico del 1804. Di conseguenza, invece di trattare dall'alto in basso altre società non europee, bisognerebbe considerare che nel loro caso si tratta di processi storici non ancora compiutamente maturati.
8) Non bisogna mai dimenticarsi che l'Occidente industrializzato non ha realizzato il paradiso in Terra. Scriviamo nelle Costituzioni che tutti hanno diritto al lavoro, ma nelle economie di mercato capita o che quantità molto rilevanti di popolazione siano in stato di disoccupazione, ovvero che tanti lavoratori siano economicamente sfruttati con salari di mera sopravvivenza. Non dimentichiamoci, inoltre, del disagio giovanile, dell'uso di massa di sostanze stupefacenti, di un fin troppo fiorente mercato del sesso che fa pensare alla degradazione della dignità umana piuttosto che alla sua esaltazione in una più compiuta libertà.
9) Anche i nostri amici islamici possono aiutarci a costruire un mondo più equilibrato, ossia migliore.
Palermo, 24 marzo 2016

Livio Ghersi

martedì 22 marzo 2016

PEPPE SINI SULLE STRAGI DI BRUXELLES

 
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 2296 del 23 marzo 2016
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it , centropacevt@gmail.com
 
 
1. EDITORIALE. PEPPE SINI: FERMARE LE STRAGI NELL'UNICO MODO POSSIBILE
 
Le stragi che oggi hanno insanguinato Bruxelles ci colmano di orrore e di terrore, di lacrime e lutto, di un muto sgomento e di un dolore insostenibile.
Ma questo ennesimo abominevole crimine deve anche aprirci gli occhi, il cuore, la mente.
Ad esso occorre rispondere con la forza della verita', della ragione, dell'umanita'.
*
La morte di massa che i criminali terroristi portano nel cuore dell'Europa e' tragicamente la stessa morte di massa che da decenni le armate legali dei governi occidentali e dei loro sanguinari complici e sicari regionali, ed i prodotti letali dei mercanti di armi, spargono nel vicino e nel medio oriente; e le organizzazioni terroristiche che ora portano nelle nostre citta' europee un diluvio di sangue sono state allevate dai nostri governi, dalle nostre guerre, dalle nostre armi, e la politica del terrore globale dei poteri imperiali riproducono specularmente sulla scala ad esse accessibile.
*
Come ci si poteva illudere che quelle guerre non avrebbero raggiunto anche le nostre case?
Come ci si poteva illudere che i terroristi cola' finanziati, armati e addestrati dalle potenze occidentali e dai loro complici regionali non avrebbero prima o poi esteso il loro campo d'azione da quelle terre alle nostre?
Come ci si poteva illudere di essere in un'isola felice, in una campana di vetro, in una torre d'avorio, in una fortezza inespugnabile, quando le tecnologie hanno unificato il mondo e le armi di sterminio sono a disposizione di tutte le mafie cosi' come dell'uomo piu' solo, piu' stolto e piu' disperato? mentre milioni e milioni di esseri umani, gia' oggi vittime delle guerre e della fame, del terrore e delle devastazioni, delle dittature e della schiavitu', hanno perso ogni loro bene e sono costretti a fuggire attraverso deserti e mari, attraverso paesi e continenti, affrontando la morte - e sovente alla morte soccombendo quando ormai la meta agognata sembrava vicina -, perche' i governi dei paesi europei negano loro il primo di tutti i diritti: il diritto a salvare la propria vita, rifiutando ad essi l'approdo in un luogo in cui vivere in pace?
*
C'e' un solo modo per fermare le stragi: cessare di commetterle e di favoreggiarle.
C'e' un solo modo per sconfiggere il terrorismo: scegliere la nonviolenza.
Occorre una immediata politica di disarmo e di proibizione assoluta di produrre, commerciare e detenere armi.
Occorre una immediata politica di smilitarizzazione dei conflitti e di intervento umanitario non armato e nonviolento per salvare tutte le vite.
Occorre contrastare il militarismo, il razzismo e il maschilismo: che sono le reali basi ideologiche e i modelli comportamentali del terrorismo stragista e schiavista (che usa oggi strumentalmente la religione esattamente come appena ieri usava altrettanto strumentalmente le ideologie laiche otto e novecentesche - il patriottismo e il nazionalismo, ma anche il socialismo e l'anarchia).
*
L'Italia decida di contrastare le guerre e le stragi, con la drastica riduzione delle spese militari e l'avvio della Difesa popolare nonviolenta e dei Corpi civili di pace, con gli aiuti umanitari ovunque occorrano, con la cessazione immediata della produzione armiera, con la denuncia e l'impegno per lo scioglimento delle alleanze militari terroriste e stragiste (come la Nato), e convochi l'Unione Europea a fare altrettanto.
L'Italia decida di lottare davvero contro il razzismo, accogliendo tutti i profughi e garantendo loro un servizio di trasporto pubblico e gratuito che consenta a tutte le persone l'ingresso in Italia in modo legale e sicuro - e convochi l'Unione Europea a fare altrettanto.
L'Italia decida di lottare davvero contro il maschilismo, innanzitutto applicando pienamente la Convenzione di Istanbul e sostenendo i centri antiviolenza delle donne, e convochi l'Unione Europea a fare altrettanto.
*
Alla violenza occorre opporre la nonviolenza.
All'odio che uccide occorre opporre la solidarieta' che salva.
Alla barbarie che disumanizza occorre opporre la civilta' che affratella e assorella.
Al male occorre opporre il bene.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Vi e' una sola umanita'.

lunedì 21 marzo 2016

RELIGIOSITA' SENZA DIO? IN DIALOGO CON RONALD DWORKIN

www.nientedipersonale.com
UNA RELIGIONE SENZA DIO O, PIUTTOSTO, UNA RELIGIOSITA' ? 


Una  religione senza Dio o, piuttosto,  una religiosità ?

 

    
    Ronald Dworkin, scomparso a 82 anni nel 2013, è considerato uno dei più importanti filosofi del diritto contemporanei. Ma l’ultima sua pubblicazione (Religione senza Dio, Il Mulino, Bologna 2014) affronta una tematica filosofica che precede, logicamente, la riflessione sui temi politici e giuridici: la “religione”. Egli ne propone una definizione sin dalle prime righe: “una visione del mondo profonda, speciale ed esaustiva, secondo la quale un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose”. Dunque permea “l’universo” (che custodisce in sé  “un ordine”) e, in esso, “la vita umana” (che custodisce in sé “uno scopo”) (p. 17).

a) Buoni contenuti in contenitore fuorviante
In questa definizione concetti del tutto condivisibili sono incorniciati in una categoria semanticamente infelice.
    Che i contenuti siano condivisibili mi pare evidente: nel senso che tutti (credenti o meno) condividono la tesi che appartiene necessariamente  a ogni atteggiamento religioso il riconoscimento di “un valore intrinseco e oggettivo” presente in ogni manifestazione del cosmo (vita umana compresa). Controprova: ritengo che si debba alla genialità di Nietzsche la formula essenziale - “In principio era l’Assurdo” - di ogni serio atteggiamento irreligioso (o a-religioso o ateo). 
     Perché questi concetti sono, a mio avviso, formulati in maniera semanticamente inadeguata? Perché Dworkin chiama religione ciò che andrebbe denominato, se mai, religiosità. Può sembrare una questione di lana caprina, ma non ritengo che lo sia. La “religiosità” può avere tutte le caratteristiche elencate da Dworkin e può prescindere – come vuole l’autore - dall’adesione a una precisa confessione religiosa, a una determinata tradizione ecclesiale, a una concreta e delimitata organizzazione istituzionale: la “religione”  - invece – no. In particolare  - ed è qui il motivo decisivo della mia obiezione alla terminologia (non alla concettualizzazione) di Dworkin – la religiosità può essere agnostica (o ‘a-tea’ nel senso di non assumere neppure come tema di indagine l’ipotesi di una qualsiasi figura divina), ma non lo può essere una religione. Quando dunque il pensatore statunitense scrive che “il filo conduttore del libro” è nella tesi secondo la quale “la religione è più profonda di Dio”  - nel senso che “credere in un dio è solo una delle manifestazioni o conseguenze possibili” della religione (p. 17) – rischia di pagare col fraintendimento l’obiettivo di essere costruttivamente provocatorio. Perché non preferire la formulazione, meno dirompente ma più comprensibile, che “la religiosità è più profonda e più estesa della fede in un Dio”?  Personalmente la troverei molto più plausibile e illuminante. Ancora di più se asserisse che “la spiritualità è più profonda e più estesa della fede in un Dio”.
     Queste modifiche (più terminologiche che concettuali, mi pare) aiuterebbero a capire che tutti gli esseri umani possono avere una “spiritualità” (nell’accezione laica, basica, naturale, che ho provato a illustrare in Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015); che una porzione di quanti vivono una “spiritualità” possono declinarla in senso “religioso” (e sono quanti accettano  - in cuor proprio e tendenzialmente nelle scelte  concrete di ogni giorno -  le leggi dell’universo e della vita, sia riconoscendo in esse una valenza divina di stampo panteistico sia ritenendo di non avere ragioni sufficienti per affermarlo); che una porzione, ancor più ristretta, di persone animate da “religiosità”, decidono di appartenere inoltre a una determinata “religione” (e dunque si riconoscono in testi sacri, in una dottrina teologica, in una liturgia canonica, in una morale ben articolata e così via).

b) Oltre l’aut-aut fra “religione” e “ateismo”: tertium non datur ?
     Se si adottasse il vocabolario che propongo, molti passaggi del libro di Dworkin diventerebbero più trasparenti e meno opinabili.
      Per esempio, là dove scrive che “diversi milioni di persone che si considerano atee hanno convinzioni ed esperienze molto simili a – e altrettanto profonde di – quelle persone che i credenti giudicano religiose. Quei milioni di persone dicono che, pur non credendo in un dio ‘personale’, credono tuttavia in una ‘forza’ nell’universo ‘più grande di noi’     (pp. 17 – 18), l’autore qualifica “atei” dei concittadini che, se credono in una “forza…più grande di noi”, non vedo perché dovrebbero considerarsi tali: sono senza “religione”, ma non senza “religiosità”. Se fossero davvero “atei” non penserebbero che “la verità morale e le meraviglie della natura suscitino, e debbano suscitare, un timore reverenziale” (p. 18). Non è un caso che Albert Einstein, dichiaratamente estraneo alla religione ebraica e a ogni altra religione istituzionale della sua epoca, abbia utilizzato proprio il sostantivo “religiosità” (e  l’aggettivo “religioso”) per autodefinirsi. E ciò proprio nella prima citazione che Ronald Dworkin riporta nel suo testo !  Leggiamo infatti questo splendido autoritratto di Einstein: “Sapere che ciò che ci è inaccessibile esiste realmente, manifestandosi come la più grande saggezza e la più grande bellezza che le nostre deboli facoltà possono comprendere solo in forma assolutamente primitiva: questa conoscenza, questa sensazione, è al centro della vera religiosità. In questo senso, e solo in questo senso, appartengo alla schiera delle persone devotamente religiose” (p. 18).  Forse la progressiva secolarizzazione della società, soprattutto occidentale, ci potrà liberare  - se avremo un po’ di accuratezza nell’uso delle parole – dall’angusto aut-aut: o credente (in senso teologico, confessionale, all’interno di una religione istituzionale) o ateo. Ho il sospetto che, fra le due sparute minoranze (pochi credenti consapevolmente aderenti a un’ortodossia e pochi atei consapevolmente negatori di qualsiasi valenza divina del cosmo fisico e morale), si estenda una vasta maggioranza di uomini e donne, lontana da ogni “religione” come da ogni “ateismo”, che coltiva una propria “religiosità” à la Einstein.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


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giovedì 17 marzo 2016

IMPEGNARSI OLTRE LO STRETTO DOVERE? UN PECCATO IMPERDONABILE !


“Repubblica – Palermo”

17.3.2016



PER PROFESSORI E GIUDICI IMPERDONABILE IL PECCATO DI “FARE”



  Davvero bella l’idea di raccontare dieci storie di insegnanti palermitani che, in vari modi e in vari contesti, ampliano il loro servizio pedagogico ben al di là delle ore e degli spazi scolastici. Talmente bella – anche perché insolita – da meritare qualche sottolineatura rafforzativa e qualche considerazione probabilmente sottintesa (ma meritevole d’essere esplicitata).

   Una prima osservazione riguarda la solitudine, non solo istituzionale ma anche sociale, a cui quei dieci docenti  - come le altre centinaia, forse migliaia, di colleghi che vivono esperienze analoghe di volontariato – sono di solito condannati. Che dirigenti e insegnanti non siano in grado (per impegni familiari, per condizioni di salute, per problemi psicologici o per altro) di lavorare  - e gratis – oltre l’orario di servizio è comprensibile e legittimo: come raccomandava don Primo Mazzolari, bisogna impegnarsi senza pretendere che altri s’impegnino come noi. Meno comprensibile – e per nulla legittimo – che quanti si limitano ai propri compiti istituzionali dedichino il tempo libero allo sport di  denigrare, con tutte le cattiverie possibili, i colleghi più volenterosi: “Lo fa per mettersi in mostra”, “Se avesse marito e figli se ne starebbe buona a casa”, “Evidentemente ha dei vuoti affettivi da compensare”, “Ognuno si sceglie il giocattolo adatto alle proprie nevrosi”, “Forse si sta preparando a candidarsi alle prossime amministrative”…Avviene in tutti gli ambiti professionali, non solo nel mondo della scuola: soprattutto nel settore pubblico. E, secondo alcuni osservatori acuti, soprattutto nel Meridione. Giovanni Falcone, conversando con il giornalista Luca Rossi, sosteneva ad esempio: “Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa. Chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire. Non si può chiedere perché. Non si può chiedere a un alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi. Invece, aveva ragione lui. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda perché una persona fa una determinata cosa, ma: cosa vuole. Il senso della collettività non esiste, c’è solo un sistema complesso e intrecciato di interessi privati”    (cfr. I disarmati, pp. 320 – 326) . Quando un collega - a scuola o in ospedale, in fabbrica o in ufficio – s’impegna più di noi scatta, per autodifesa,  una sorta di ostilità nei suoi confronti: temiamo che, senza che nessuno lo progetti, si stabiliscano delle comparazioni a noi sfavorevoli. Nella melma della mediocrità anche eventuali inadempienze rientrano nell’accettabile.

  Questo non significa che le critiche agli stakanovisti siano sempre infondate. Non lo sono almeno in un caso (non frequentissimo, ma neppure raro): quando l’impegno extra compromette, anziché integrarla, l’esecuzione corretta dell’ordinario. Un rischio della scuola dei “progetti”, in direzione della quale spingono i governi nazionali degli ultimi vent’anni, è che il professore (anche per legittimo desiderio di completare lo stipendio) si dedichi a preparare gare di atletica o di matematica, a girare l’Europa per viaggi d’istruzione o gemellaggi o  stage, ad accompagnare gli alunni a convegni di metafisica all’università o a cortei pacifisti per le strade…tralasciando la grigia fatica dell’insegnamento curriculare. Insomma: che si dedichi (anche con generosa gratuità) a tutto, tranne che a migliorare la propria prestazione professionale. Sulla base di questi criteri di valutazione, un docente, silenzioso e riservato,  che lavori sodo per essere un buon docente (soprattutto per suscitare negli alunni interessi e passioni) è molto più prezioso alla società di colleghi più creativi che dovessero inventarsi assistenti sociali o psicoterapeuti per coprire (forsanche inconsapevolmente) il deficit di vocazione.



Augusto Cavadi

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