venerdì 15 luglio 2016

LA ZAHIRA DI ENRICO CILLARI




“Centonove” 7.7.2016

ZAHIRA

Non sono un critico letterario. Come lettore medio sono arrivato alla conclusione che i grandi capolavori sono tali perché sintesi di ispirazione sincera, contenuti profondi e modi espressivi adeguati. Gli altri libri  - quelli che scriviamo noi autori dignitosi ma non certo geniali – si salvano quando presentano almeno una di queste tre caratteristiche che, nei capolavori, si ritrovano felicemente intrecciate.
 In Zahira. Un amore per tornare a vivere (Albatros, Roma 2016) si cercherebbe invano la perfezione stilistica: il linguaggio è spontaneo, ordinario; evoca, più che gli oli tecnicamente accurati del Cinquecento, le pennellate della  pittura naif  . Chi gradisce questo registro linguistico, però, apprezzerà di sicuro gli altri due ingredienti. Innanzitutto l’autenticità dell’ispirazione: non è un libro montato su commissione né per far soldi o cercare fama. Si avverte subito che è scritto perché l’autore – Enrico Cillari – aveva l’esigenza interiore di scriverlo. Scaturisce, come si diceva un tempo aulicamente, ex abundantia cordis.
   In secondo luogo la serietà dei contenuti. L’autore infatti affronta tematiche di rilievo e le affronta con la volontà di fare chiarezza attraverso le opinioni, in parte discordanti, dei protagonisti. Con questo metodo, che si potrebbe definire dialettico in senso socratico, Cillari vuole rispondere soprattutto a due domande.
   La prima, di carattere più esistenziale, riguarda la problematicità delle relazioni coniugali: che, attivate dall’attrazione sessuale, sembrano destinate a esaurirsi via via che questa si affievolisce con gli anni. Si crea dunque una sorta di pericoloso parallelismo che, in molti casi, diventa vera e propria doppia vita: su un binario scorre l’amore affettuoso per moglie e figli, su un altro l’amore impetuoso per un’amante passionale.
  La seconda domanda, di carattere sociale più ampio, riguarda la condizione dei lavoratori immigrati in Italia e, più specificamente, delle lavoratrici che badano ad anziani e infermi nella città di Palermo. Qui l’autore esplora un mondo di fatica, di incomprensioni, di pregiudizi; ma anche di felici intese fra chi viene da lontano e chi può fruire di assistenza talora non solo motivata monetariamente.
  Sullo sfondo la città di Palermo: con la sua sporcizia, con l’inaffidabilità dei suoi mezzi pubblici, ma anche con la bellezza di certi scorci naturali e urbanistici: “Palermo la trovo incantevole. Mi piacciono i suoi silenzi  notturni e il suo caos di giorno. Amo i suoni del mercato, specialmente il Capo. Mi ricorda un po’ i quartieri popolari di Teheran o il Bazar di Instanbul, anche se in proporzioni ridotte. La cosa triste è vederla spesso piena d’immondizia. Comunque mi piace la sua stratificazione storica, come si apprezza muovendosi lungo Corso Vittorio Emanuele e via Maqueda. Chiese e palazzi raccontano il loro passato. Invece la città moderna
è meno affascinante. Via Ruggero Settimo e via Libertà lasciano pensare a un lontano splendore, ma oggi sembrano senza anima, deturpate da palazzi in cemento più o meno brutti, come lo sono in media le costruzioni moderne” (p. 60).
Ed è anche la Palermo dove non c’è solo “borghesia mafiosa”, ma anche una   borghesia “riflessiva” che si sforza di  leggere correttamente la contemporaneità e di cercare una coerenza personale fra analisi teoriche e pratiche quotidiane.
   Il filo rosso del romanzo è il volto di una donna il cui fascino viene più e più volte sottolineato sino al punto da imprimere questa figura nella memoria del lettore. Che per uno scrittore non è certo un merito da poco.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

1 commento:

Enrico Cillari ha detto...

Caro Augusto, grazie ancora. Ho comprato il settimanale e la tua recensione mi è piaciuta molto. un caro saluto. Enrico