lunedì 28 novembre 2016

QUOTIDIANITA', SPIRITUALITA', FILOSOFIA


Dal blog : stefano-zampieri.blogspot.it del 28.11.2016

Il quotidiano: filosofia e spiritualità 


Che ruolo ha la spiritualità nella vita quotidiana? Oppure: ha senso parlare di spiritualità da una prospettiva laica e non confessionale? Le due domande si intrecciano e le possibili risposte costituiscono un passaggio ineludibile per chi voglia ripensare il quotidiano. Ci aiuta nella riflessione Augusto Cavadi con questo suo massiccio volume: oltre 300 pagine di grande formato, quasi un migliaio di note, una ventina di pagine di biliografia, a testimonianza non solo di una ricerca di vasta portata ma anche della complessità della problematica.
Dal mio punto di vista Cavadi coglie perfettamente la prospettiva più feconda, quella che mette al centro dell'analisi proprio la filosofia, intesa non tanto come una "ginnastica mentale", o un ricerca storica, ma come "amore per la sapienza, e insieme sapienza dell'amore", cioè come quella attitudine interrogativa che nasce oltre la spiegazione scientifica, proprio perchè risponde a domande che scaturiscono non dalla ricerca dello scienziato, ma dalla quotidianità dell'esistenza. Laddove ha senso anche porre domande irrazionali o ingenue, o istintive. Ma che pur tuttavia costituiscono un doveroso passaggio, una percorso di formazione per tutti noi.
In questo senso il termine stesso "spiritualità" deve essere riletto, nella sua costitutiva vaghezza, come un termine non necessariamente confessionale, anche se il suo significato religioso non può essere escluso, ma al contempo anche non necessariamente idealistico o soggettivistico, il termine deve essere inteso piuttosto come un "patrimonio di tutti, monopolio di nessuno". Spiritualità, dunque prima di tutto come apertura verso l'infinito da parte di esseri finiti, apertura e dunque non chiusura nel foro interiore, nell'isolamento, ma anzi  squadernamento di un mondo attraverso tutte le forme della creazione umana, non escluse quelle dell'arte, della letteratura, della musica. Ma Cavadi non esita a mettere inaspetattamente nel discorso anche la dimensione spirituale delle scienze, o della gastronomia o dello sport.
E' dunque nella filosofia che la spiritualità riprende vita al di là dei recinti nei quali oggi si trova spesso confinata. Una filosofia che non si trastulla con il gioco dei concetti o l'invenzione di formule astratte, ma si concretizza come forma di vita improntata alla saggezza.
Così tutta la seconda parte del libro diviene proprio un ampio e articolato manuale di "spiritualità filosofica", nel quale assumono dignità di riflessione la presenza di sè, l'accettazione della propria finitudine, il superamento del complesso di colpa, ma anche il saper pensare, o il saper rischiare,  il misurarsi con il lavoro, il saper mangiare quanto il saper digiunare, il saper invecchiare, il saper ascoltare il silenzio, il saper conversare, il saper darsi tempo, ecc... insomma tutte le virtù della vita vissuta al suo meglio. Come la filosofia ci insegna. 
                               
                                                                                           Stefano Zampieri

Augusto Cavadi
Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità
Diogene Multimedia, 2016
pp. 357  € 25

venerdì 25 novembre 2016

IL TEMPO DELLA CONSAPEVOLEZZA (COMMENTO A MT. 24, 37 - 44)


“Adista”
29 ottobre 2016

“Fuoritempio.
Commenti al Vangelo di chi è ‘svestito’:
senza parametri, dottrina e gerarchie, ma non per questo ‘senza Dio’ ”

Commento al vangelo della I domenica di Avvento
(27 novembre 2016)


Mt 24, 37 – 44

  Una pericope sofferta, quasi antinomica, quella da cui è tratto il vangelo odierno. Si incontrano, e in qualche misura si scontrano tensivamente, due flussi. Il primo, più antico, sembra risalire a Gesù stesso: egli riteneva prossima la fine del mondo, o per lo meno del suo mondo, e l’avvento del regno di Dio sulla terra (“Io vi dico in verità che questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute”, v. 34). Il secondo, successivo, si direbbe opera di Matteo (o meglio del redattore di tradizione matteana) : constatato che, nonostante la morte di Gesù, la storia continua con gli alti e i bassi, le luci e le ombre di sempre, si trasforma la previsione originaria in imminenza indeterminata (“Vegliate, dunque, perché non sapete in qual giorno il vostro Signore sia per venire”, v. 42).  L’incertezza, imbarazzata e imbarazzante, ci ricorda quel che il teologo Sergio Quinzio ha sottolineato nel suo La sconfitta di Dio: i cristiani sono figli di un clamoroso insuccesso, di una colossale smentita storica. A loro non si addice alcun trionfalismo: il Maestro in nome del quale si sono radunati in movimento, e poi organizzati in strutture comunitarie, aveva promesso una rivoluzione anche fisica, anche sociale, anche economica che non si è realizzata. E, potremmo aggiungere esplicitando la stessa linea interpretativa, che resta tutta da realizzare.
  E’ dunque con umiltà  - o come meglio si voglia denominare il senso dei propri limiti al cospetto della propria responsabilità – che chi osa dirsi discepolo di Gesù deve non soltanto annunziare la possibilità sempre incombente di un’irruzione di Dio nella storia (rischiando con simili annunzi di impelagarsi in categorie mitiche incompatibili con quanto è lecito prevedere sulla base delle scienze contemporanee), ma anche – e soprattutto – sbracciarsi affinché la sovranità divina entri, effettivamente, nel tessuto delle vicende umane. Affinché quello che si suppone essere il progetto del Creatore si vada, lentamente ma continuamente, realizzando.
   Se è così, l’esortazione con cui si conclude la lettura prevista dalla liturgia di oggi (“Perciò, anche voi siate pronti, perché nell’ora che non pensate, il Figliuolo dell’uomo verrà”, v. 44) non va accolto, moralisticamente, come ingiunzione a non farsi trovare in “peccato mortale” dall’evento che suggella la nostra fragilità costitutiva; bensì   - mi pare – come invito a non sprecare il tempo, individuale e collettivo, a nostra disposizione. Non si tratta neppure di abbandonarsi a previsioni, o a farneticazioni, escatologiche, quanto di prendere coscienza della precarietà dell’avventura umana sulla Terra (come sosteneva Michel Foucault, l’uomo è un’invenzione recente con una data di scadenza prossima) e della irreversibilità di molte sue scelte: sia quando avvengono nel segno della costruttività promozionale sia, soprattutto, quando avvengono nel segno della distruttività.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 22 novembre 2016

REFERENDUM COSTITUZIONALE : ORA E' IL MOMENTO DELLA RIFLESSIONE

Care e cari interlettori di questo blog,
   dopo mesi di polemiche incrociate e di informazioni di ogni genere mi pare che ognuno di noi abbia abbastanza materiale per riflettere e decidere in vista dell'ormai vicino referendum confermativo della riforma costituzionale approvata dal'attuale Parlamento. Il materiale c'è e abbondante: vogliamo dire stop a nuovi stimoli informativi e dedicare, questi ultimi giorni, a un esame critico di quanto abbiamo raccolto mediante i canali più disparati?
  Poiché ogni giorno mi si chiede come voterò lo scrivo qui, adesso, e taccio (spero) sino al 4 dicembre 2017:

a) poiché è un referendum confermativo (non, come molti altri, abrogativo) non c'è una minima soglia di votanti per renderlo valido: anche se vanno a votare solo tre italiani, vincerà il parere di due. Perciò non rinuncerò neppure questa volta al diritto-dovere di esprimermi;
b) poiché (tranne alcuni esponenti dei due fronti a cui non frega nulla delle regole costituzionali e strumentalizzano il referendum per scopi estranei) ci sono persone per bene che votano "sì" e persone per bene che votano "no", non augurerò mai ai concittadini dello schieramento opposto al mio nessuna disgrazia (come la Sla augurata al mio amico Francesco Palazzo, che voterà in senso diverso da me, da parte di stupidi delinquenti che voteranno invece come me);
c) il cuore della questione è il rapporto (necessariamente inverso) fra "rappresentantività" e "governabilità": in regime democratico non si può rinunziare né all'una né all'altra, si tratta di trovare un giusto equilibrio. Infatti più è forte il Parlamento (specie se rappresenta in proporzione più fasce sociali), più si esercita la sovranità popolare, ma col rischio che il Governo abbia le mani legate e si arrivi con lentezza a una decisione; viceversa, più è forte il Governo (anche se rappresenta una minoranza del 25 - 30 % dei cittadini), più velocemente e efficacemente può assumere decisioni, ma col rischio che nessuna rappresentanza del popolo può obiettare, contestare, correggere;
d) la Costituzione entrata in vigore  il 1 gennaio del 1948, secondo me, assicurava un saggio equilibrio fra il potere legislativo e di controllo del Parlamento e il potere esecutivo e amministrativo del Governo: non c'era bisogno di modificare questo equilibrio che il mondo civile per decenni  ci ha invidiato;
e) ammesso, invece, che fosse necessaria (o anche solo opportuna) una riforma della Costituzione, andava negoziata consensualmente da tutte (o per lo meno dalla stragrande maggioranza) delle forze politiche (come appunto fra le forza antifasciste nel Secondo dopoguerra) : perché farla con neppure il 75% dell'assenso dei parlamentari?
f) se si è proceduto a colpi di maggioranza perchè c'era fretta, perché c'era tutta questa gran fretta (sì da darle la priorità rispetto ai gravissimi problemi del Paese) ?
g) e, se non si poteva aspettare un consenso più ampio (nel Paese e nel Parlamento) perché c'era fretta, perché almeno non si è proceduto a elezioni regolari (cioè con un nuovo metodo elettorale differente dal "Porcellum" dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale e dallo stesso "Italicum") in modo che a decidere in fretta, e senza una maggioranza "qualificata", fosse almeno un Parlamento eletto con metodo davvero costituzionale?
h) non sono un giurista, ma un filosofo. Come tale ho vivo il senso dei miei limiti. Devo ragionare con la mia testa ma è essa stessa che mi suggerisce quando, raggiunto il confine delle mie competenze, devo affidarmi a chi ne sa di più. Tra le autorità intellettuali e morali che si sono espresse in proposito, vedo da una parte (a favore del "sì") la J. P. Morgan (che in una lettera che chiunque può leggere in internet con i propri occhi raccomanda di ridurre costituzionalmente nei Paesi mediterranei il tasso di democrazia e di "socialismo"), l'istituto finanziario che ha provocato l'ultima crisi mondiale dell'economia; dall'altra parte (a favore del "no") la stragrande maggioranza dei costituzionalisti, dei filosofi del diritto, dei magistrati, degli avvocati, dei politici che ho da sempre stimato;
i) ecco perché voterò, senza la minima esitazione, per il "no";
l) spero che la vittoria del "no" non comporti la caduta del governo Renzi perché merita di cadere ma alle elezioni politiche, svolte con legge elettorale costituzionale, e solo se ci sarà uno schieramento alternativo più credibile;
m) a chi mi dirà se non sono imbarazzato di votare come Berlusconi, Brunetta, Salvini...risponderò che lo sono; ma aggiungerò che non mi sentirei meno imbarazzato di votare come Verdini, Casini, la Mussolini...

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domenica 20 novembre 2016

LA TENEREZZA DIVINA SECONDO HANNA WOLF

E' con particolare gioia che vi informo dell'uscita nelle librerie (fisiche e online) del mio libriccino Tenerezza. Hanna Wolff e la rivoluzione (incompresa) di Gesù, Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 94, euro 5,00.
Nella quarta di copertina ho scritto soltanto: "Gesù di Nazareth ha contestato il Dio-patriarca della tradizione per annunziare, con linguaggio non solo verbale, la Tenerezza incondizionata. Ma i cristiani lo hanno presto dimenticato e Hanna Wolff ha provato a ricordarlo".
Perché l'ho scritto? Perché ci terrei tanto che lo leggeste? Lo spiego nelle prime pagine del libretto: 
Una maestra  troppo poco nota

    Quel poco che ha capito della vita  ognuno di noi lo deve a una miriade di persone. Alcune conosciute direttamente, molte altre attraverso i libri. Anche nel mio caso è lunghissima  la lista di quanti mi hanno aperto gli occhi, consentendomi di penetrare la nebbia del conformismo intellettuale e del tradizionalismo comportamentale: della maggior parte non ho neppure memoria precisa.  Tra quelli di cui ricordo i nomi, alcuni sono così grandi e così celebri che nessuna attestazione di gratitudine potrebbe accrescerne la fama; alcuni altri, invece, pur essendo noti a un pubblico internazionale, non hanno raggiunto – se non erro – tutti i lettori che avrebbero bisogno della loro luce. Tra questi fari nella notte del nostro tempo considero senz’altro la psicologa e teologa Hanna Wolff ( 1910 – 2001 ). Ed è con l’intento di riuscire utile agli uomini e alle donne che non ne hanno mai sentito parlare, né letto una sua pagina, che mi sono deciso a sintetizzare, in questo libretto, le sue idee principali. Se, grazie a esso,  anche poche centinaia di persone  - una piccolissima percentuale di quante potrebbero trarre luce e alimento dalla pensatrice tedesca – dovessero venire a conoscerla, e forse anche a desiderare di attingere direttamente ai suoi testi, la mia piacevole fatica avrebbe raggiunto il suo scopo principale.

   Ma quali persone ho in mente ? Trattandosi di una donna teologa e psicoterapeuta certamente penso ai teologi e agli psicoterapeuti. E poiché nei suoi testi ella spazia dalla storia alla filosofia, dalla sociologia alla medicina, dall’antropologia culturale alla pedagogia (senza contare che i suoi primi titoli accademici riguardavano il diritto e le scienze politiche), ovviamente penso ai cultori di tutte queste discipline. Ma a una condizione: che si tratti di studiosi non intrappolati nella propria specializzazione professionale. Che non cerchino un titolo in più da aggiungere all’elenco dei libri letti. Che non abbiano cancellato la propria identità originaria di  esseri umani alla ricerca della verità – qualsiasi cosa essi intendano per ‘verità’. Hanna Wolff mi ha conquistato perché dai suoi scritti mi è arrivato, chiaro e forte, il segnale che – prima di tutto e fondamentalmente -  ci fosse una persona umana che si rivolgeva a persone umane.  E che la percezione di  questo segnale non sia stata una percezione del tutto soggettiva è confermato dai miei tanti amici che l’hanno apprezzata pur non essendo specialisti in nessuna disciplina umanistica; anzi in nessuna disciplina. Uomini e donne di media istruzione, ma davvero desiderosi di vedere con spietata lucidità per vivere con maggiore autenticità, hanno confidato la medesima impressione: di ascoltare una voce che, senza nessuno scopo propagandistico o utilitaristico (anzi, rischiando l’impopolarità di chi osa sfidare autorità vetuste e gregarismi dogmatici),  partiva dal cuore di una donna per raggiungere il cuore dei lettori (almeno se, per ‘cuore’, intendiamo non la nostra mera emotività sentimentale ma il centro vitale di ciascuno di noi da dove solo successivamente si diramano passioni, intuitività, capacità analitica e discorsiva, volontà deliberante….). Hanna Wolff ha messo, radicalmente, in discussione tutto ciò che sin da ragazza aveva recepito, interiorizzato, creduto, pensato, proclamato: e solo chi di noi è davvero disposto a fare altrettanto - mettendosi in gioco senza riserve mentali né attaccamenti spasmodici, per quanto comprensibili, ai totem della propria formazione – può accostarvisi con frutto. Chi è già sicuro di tutto (come capita a gente che crede di credere), persino dei propri dubbi e delle proprie negazioni (come capita a gente che crede di non credere), non farebbe che perdere tempo (pp. 9 - 12).


mercoledì 16 novembre 2016

IL TEMPO SECONDO ALBERTO G. BIUSO

Sul numero appena uscito della rivista online  "Comunicazione filosofica" (scaricabile gratuitamente dal sito della SFI, Società filosofica Italiana) ho recensito l'ultimo libro di Albertro Giovanni Biuso. Vi ricordo che, domenica 20 novembre 2016 alle ore 11, l'autore sarà ospite a Palermo della "Casa dell'equità e della bellezza" per un incontro pubblico (a ingresso libero e gratuito) sul tema di questo stesso libro.


“Comunicazione filosofica”

n. 37 (Novembre 2016)



Per scrivere Aiòn. Teoria generale del tempo (Villaggio Maori, Valverde - Ct 2016, pp. 130, euro 14.00) ci voleva coraggio. L’esigenza, anche da parte del lettore ‘comune’ (se l’espressione ha ancora senso: oggi un lettore non è, in quanto tale, eccezionale?) , di uno sguardo complessivo, interdisciplinare  e transdisciplinare, sul “tempo” è diffusa; ma chi ha – appunto – il coraggio di affacciarsi al di fuori della propria stanzetta disciplinare per raccogliere e confrontare le acquisizioni (o almeno le ipotesi) maturate in aree disciplinari  limitrofe? Alberto Giovanni Biuso, filosofo, l’ha dimostrato affrontando il “tempo” dal punto di vista teoretico-metafisico, fisico, epistemologico, antropologico ed estetico.

Sin dalle prime righe si coglie la ragione per cui all’autore l’impresa, per quanto ardua, risulta possibile: “il tempo è la realtà stessa che rende l’universo da noi conosciuto un’indissolubile unità dentro la quale tutto è legato a tutto” (p. 30). Heideggerianamente, per Biuso indagare il Sein equivale indagare lo Zeit. Ma procediamo un po’ analiticamente.

Nel primo capitolo (Teoresi) l’autore esplicita il proprio punto di vista privilegiato e lo fa inspirandosi soprattutto alla fenomenologia di Husserl,      “lo sforzo più intenso che la filosofia ha compiuto dopo Agostino di comprendere il tempo, la sua struttura, la sua funzione, l’identità e la differenza che lo costituiscono” (p. 28) : “la teoresi filosofica non è ricostruzione storico/storiografica del pensato; non è espressione di visioni del mondo, strutture sociologiche, mentalità diffuse; non è neppure una sintesi unificatrice delle scienze della natura e dell’uomo, né allo scopo di porsi al di sopra di esse né per tentare maldestramente e vanamente di imitarle. La filosofia è qualcosa di primo e di ultimo. Primo perché fondata sulla finitudine costitutiva dell’ente che pensa. Ultimo perché è il luogo delle risposte più radicali ed estreme, le ultime che sia possibile tentare” (p. 15).

Nel secondo capitolo (Filosofia), ancora una volta con Husserl quale guida, Biuso prova a superare vari dualismi, tra i quali l’alternativa “realismo” o “idealismo”: “Ogni ente ed evento è impregnato di teoria e le teorie esistono sul fondamento degli enti e degli eventi. La coscienza e l’atto intenzionali non creano nulla che non sia già dato (sintesi passiva) ma costituiscono la condizione affinché un mondo possa darsi alla coscienza (sintesi attiva) ” (p. 33).

 Il terzo capitolo (Fisica) ha di mira, principalmente, il dogma (perdurante dal meccanicismo galileiano alla teoria della relatività di Einstein) della reversibilità dei fenomeni fisici: il secondo principio della termodinamica, invece, individuando “nell’entropia una delle dinamiche fondamentali delle quali la materia è composta e attraversata” (p. 45) , per ciò stesso afferma la irreversibilità di ciò che accade nell’universo. In altre parole, “ciò che è accaduto non può riavvolgersi per tornare all’inizio del proprio accadere, esattamente perché gli stati di disordine sono molto più probabili degli stati originari di ordine” (p. 48).

  Nel quarto capitolo (Antropologia) “il tempo fisico della natura” viene riconosciuto nella sua convergenza con “il tempocorpo delle percezioni e il tempomente dell’esperienza consapevole”: una convergenza che produce in ciascuno di noi “la sensazione di essere dentro il tempo” (p. 73). Tale sensazione non sarebbe possibile senza la facoltà della “memoria” che, insieme a “attenzione, emozione, slancio verso il futuro prossimo e lontano”, costituisce “la vita della mente, la cui dimensione temporale fa sì che il tempo sia una costruzione insieme psichica, biologica e sociale” (pp. 73 – 74). E’ in questa sezione del saggio che ho trovato gli spunti più originali, per esempio  - ma è solo uno dei tanti possibili -  la sottolineatura del “declino della memoria attraverso gli strumenti che la costituiscono in ogni occasione e circostanza – gli strumenti offerti dalla Rete – “ che “rischia di impoverire l’immaginazione e rendere pallido il futuro” (p. 76).

 Un penultimo capitolo è dedicato all’Estetica: vi si ritrovano indicazioni da varie fonti quali la cultura giapponese e la Recerche di Proust, opera che “fa splendere la parola nel tempo e il tempo nella parola” (p. 95).

 Il sesto e ultimo capitolo (Metafisica) riprende e suggella molti motivi delle pagine precedenti. Precisato che la metafisica “non è una sovrastruttura ma costituisce l’indagine più radicale e insieme la conformazione più profonda della infrastruttura che chiamiamo mondo” (p. 104), Biuso sostiene: “la metafisica vuol dire  un’indagine sull’essere-tempo. Il tempo è arché proprio perché è causa, principio e limite. E’ ciò da cui gli eventi nascono non nel senso estrinseco di un ‘ prima di’  ma nel senso che nel loro esistere e accadere gli eventi sono tempo in atto, nel senso che il tempo è la forma di ogni possibile ente, evento, processo” (p. 103).

 Sin qui, ridotto all’osso, il testo di Biuso. Istruttivo e suggestivo certamente; anche convincente? Personalmente risponderei : non al cento per cento. Per formulare, altrettanto e anzi ancor più sinteticamente, le mie perplessità teoretiche mi concentrerei su due punti (per altro cruciali). Il primo: hanno ragione i pensatori come Bergson, Husserl, Heidegger, Vattimo che (con sfumature differenti da un caso all’altro) identificano essere e tempo? O non sarebbe più preciso affermare che il tempo è una dimensione, un aspetto, una valenza dell’essere? Qualcosa esiste perché è temporale o è temporale perché esiste? In più punti Biuso fa valere l’equivalenza di “tempo” e “divenire”. Se l’accettiamo (almeno provvisoriamente, a scopo dialogico) la domanda diventa: hanno ragione i pensatori come Eraclito, Hegel, Marx che (con sfumature differenti da un caso all’altro)  identificano essere e divenire? O non sarebbe più preciso affermare che il divenire è una dimensione, un aspetto, una valenza dell’essere? Qualcosa esiste perché diviene o diviene perché esiste ?

 Intendiamoci: non si tratta di sfuggire all’impermanenza radicale dell’universo esperibile lasciandosi schiacciare su posizioni parmenidee (o neoparmenidee alla Severino). Il tempo-divenire è indubbiamente un volto costante dell’universo materico: ma il mio volto è la mia essenza, la mia sostanza, il ciò per cui sono e non sarei?

 La discussione può sembrare sottile, ma in realtà comporta una posta non proprio secondaria. Se l’essere fosse intrinsecamente temporale sarebbe impensabile la sola ipotesi di una sfera dell’essere a-temporale: il regno dell’immanenza gnoseologica, del fenomenico, del materico sarebbe non solo (come è) l’unico certo, ma anche (come non ritengo si possa affermare) l’unico possibile. Su questo punto Biuso non è disposto a concedere nulla: “la materia è senza un inizio e senza una fine; la materia è l’Intero” (p. 54). Se non li interpreto male, Kant, Bergson (l’ultimo), Wittgenstein (il secondo) sarebbero disposti a darmi qualche ragione: la materia è certamente reale, ma non altrettanto certamente è l’unica valenza della realtà. Senza considerare che, alla luce delle teorie fisiche contemporanee, la nozione stessa di materia esige d’essere rivista: sembrerebbe sempre meno ‘dura’, opaca, passiva e sempre più fluida, energica, zampillante. Dunque sempre più difficilmente distinguibile da ciò che abbiamo imparato a chiamare forma, atto, energia, anima, spirito.

  La domanda sul tempo, quindi, ne apre numerose altre: e merito non trascurabile della monografia di Alberto G. Biuso è di non aver temuto di aprirle per gettarvi uno sguardo indagatore.



    Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

lunedì 14 novembre 2016

CI VEDIAMO A PALERMO DOMENICA 20 NOVEMBRE 2016 ?

Nel prossimo week-end sarà nostro ospite Alberto G. Biuso per un duplice appuntamento.
 Il primo (sabato 19) è a Segesta, presso la "Fattoria sociale Martina e Sara", per introdurre alla conoscenza del pensiero di Nietzsche (ma le prenotazioni sono chiuse per superamento del numero dei posti disponibili). Chi vuole può comunque acquistare il testo su cui Alberto baserà le proprie conversazioni: Nomadismo e benedizione. Ciò che bisogna sapere prima di legge Nietzsche, Di Girolamo, Trapani.

Aperte, invece, ancora  le prenotazioni per la giornata di domenica 20 novembre a Palermo 
presso la "Casa dell'equità e della bellezza"  (via Nicolò Garzilli 43/a , angolo via Parisi).

Arrivo alle ore 11,00  in modo da potere iniziare,  PUNTUALMENTE,   alle 11.30
 (per favore EVITARE ASSOLUTAMENTE DI ARRIVARE DOPO LE 11,30).

Alberto Giovanni Biuso avrà a disposizione 60 minuti per il tema   'Il tempo che siamo'.

 I partecipanti all'incontro avremo 45 minuti per scambiarci le riflessioni. 
Alle 13,15 il pranzo conviviale a cui tutti potremo dare il nostro contributo alimentare.
Per chi vorrà sarà possibile acquistare, con uno sconto promozionale, copia dell'ultimo testo di Biuso:
Aiòn. Teoria generale del tempo (Villaggio Maori, Valverde - Ct 2016, pp. 130, euro 14.00).
Nota tecnica:
Ogni partecipante è cordialmente invitato a deporre  riservatamente, in un contenitore apposito, un contributo economico per il mantenimento della sede (pulizie, luce, acqua, gas, riscaldamento invernale, condominio, imposte varie).
Ovviamente nessuno dovrà sentirsi a disagio se non potrà permettersi di versare un proprio contributo. 








mercoledì 9 novembre 2016

NON SOLO DON PINO PUGLISI


“Centonove”
3.11.2016
NON SOLO DON PINO PUGLISI

   C’era bisogno di un ulteriore libro su don Pino Puglisi, il prete palermitano assassinato da mano mafiosa il 15 settembre del 1993 ? Per alcuni versi, no. Nei venti e più anni dalla sua morte è stata prodotta una letteratura monografica copiosissima, senza contare gli studi sul rapporto fra mafie e chiese cristiane che hanno richiamato a vario titolo, e con diverso spazio, la vicenda del parroco del quartiere Brancaccio. E poi lungometraggi, documentari, servizi giornalistici…Eppure le leggi del mercato editoriale, a somiglianza delle leggi della nostra psicologia, sono feroci: esce un libro o un film, se è valido trova un suo pubblico che lo apprezza, ma dopo uno o due anni il prodotto  - come fosse una confezione  alimentare – scade. E s’inabissa, insieme alle tematiche che lo hanno inspirato, nell’oceano dell’oblio. Ecco, dunque, perché ritornare ogni tanto su certe vicende, su certi personaggi e soprattutto su certe problematiche, anche col rischio di aggiungere poco al già noto.
   In questo libro (R. Cascio – S. Ognibene, Il primo martire di mafia. L’eredità di Padre Pino Puglisi, Dehoniane, Bologna 2016, pp. 235, euro 18,00) , per altro, gli autori hanno avuto qualcosa da aggiungere a quanto sinora scritto, se non altro perché vogliono fare il punto sulla situazione nel quartiere Brancaccio – e nella chiesa cattolica di Palermo – a quasi un quarto di secolo dal martirio di don Puglisi: e, con l’aiuto di interviste a testimoni autorevoli, lo fanno con piglio critico (senza astio per nessuno ma senza neppure tacere su contraddizioni vere o apparenti). A beneficio di chi, forse per l’età forse per altre ragioni, si accosta per la prima volta a questi racconti, poi, gli autori inseriscono la storia di don Puglisi all’interno della più ampia – e più lunga – storia dei rapporti ormai secolari fra organizzazioni criminali e comunità cattoliche. Una storia che ha radici teologiche e culturali su cui, con la solita sincerità e acutezza, attira l’attenzione una dichiarazione di don Cosimo Scordato: “Alla Chiesa non basta avere condannato la mafia; essa deve vigilare di fronte a tutte le forme che potrebbero farla somigliare a essa. La Chiesa, infatti, spesso agli occhi della gente appare come una società forte e potente, gerarchizzata e non sempre capace di comunicazione matura e di processi partecipativi. Per questi aspetti anche la Chiesa deve convertirsi radicalmente: ecclesia semper reformanda. La migliore risposta alla mafia è diventare una comunità di poveri, al servizio degli ultimi, dove regna la libertà, dove il principio più importante non è l’autorità o la gerarchia ma la libertà dei figli di Dio, la comunione, la condivisione, l’incremento della vita degli uomini, la partecipazione anche in senso democratico; tutte cose che al mafioso non stanno bene e, rispetto alle quali, il mafioso dovrebbe sentirsi fuori luogo” (pp. 196 – 197).
   Guardando in prospettiva al passato gli autori hanno rintracciato delle perle interessanti come una Lettera pastorale dell’episcopato calabrese del 1916 (“Un secolo fa. Peccato che sia rimasta nell’Archivio diocesano di Reggio Calabria per troppo tempo senza prendere vita”) dove, tra l’altro, ci si chiedeva: “Come chiamare ancora religiose certe processioni che si protraggono per mezze giornate e nelle quali, come se il santo fosse un burattino, lo si fa girare per tutti i vicoli e i viottoli del paese, facendolo sostare, qui davanti la casa del procuratore A o dell’offerente B; più in là, sopra un tavolo, dinanzi a una casa o a una bettola, nelle quali i portatori entrano a rifocillarsi? Ma un tale procedere, oltreché profano e ridicolo, è contrario affatto allo spirito della Chiesa la quale non intende che le statue durante le processioni si fermino a richiesta dei privati, ma seguano recto tramite il loro itinerario, breve quanto possibile e determinato” (pp. 187 – 188).
    Se, per la stima e l’affetto che mi legano ai due autori, fossi autorizzato ad avanzare anche qualche considerazione critica (in vista di una seconda, auspicabile edizione), ne formulerei due. La prima riguarda la causa della decisione dei Graviano di uccidere il mite parroco del quartiere: qui si insiste sul suo lavoro con i bambini e gli adolescenti. A me convince la tesi di altri testimoni diretti (e, a loro volta, studiosi della vicenda, come Francesco Palazzo) che sottolineano invece l’impegno ‘politico’ del presbitero con e per gli adulti, la sua distanza critica dai referenti dei Graviano nelle istituzioni e l’appoggio a movimenti di base che volevano scrollarsi d’addosso il fardello della pesante mediazione clientelare di democristiani e post-democristiani: un impegno ‘politico’, in interlocuzione continua con gli organi centrali e periferici dello Stato, ma  senza sudditanze tribali né collateralismi ‘partitici’ .
 La seconda considerazione riguarda l’enfasi, a mio parere eccessiva, sul ruolo pionieristico di don Pino come pastore di periferia. A me risulta personalmente, ad esempio, che quando fu nominato parroco a Brancaccio ebbe l’umiltà di rivolgersi a don Cosimo Scordato affinché questi, con il supporto di alcuni di noi volontari del Centro sociale San Francesco Saverio all’Albergheria, desse suggerimenti su come impostare il lavoro sociale. Insomma, il neo-parroco aveva piena e meritoria consapevolezza di essere stato preceduto, da anni,  nella strategia di liberazione dal dominio mafioso da presbiteri e da laici (non solo credenti) in pregresse esperienze a-confessionali.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 4 novembre 2016

LA POLITICA A COLPI DI EFFETTI SPECIALI


“Repubblica – Palermo”
2.11.2016


LA POLITICA A COLPI DI EFFETTI SPECIALI

Un filo rosso lega una serie di notizie, apparentemente slegate,  su decisioni (effettuate o solo annunziate) a livello nazionale e regionali. Il ponte di Messina, i 400 studenti eccellenti che saranno accompagnati alla laurea da uno specifico finanziamento ministeriale, i fondi stanziati per spazi riservati alle passeggiate dei cani a Gela o ai campetti in erba sintetica ad Aidone, a Torretta e in altri comuni siciliani: sono solo alcuni dei mille esempi di una medesima tendenza politico-culturale che, settimanalmente, ci consegna la cronaca. E’ la tendenza, molto consona alla “società dello spettacolo”, di privilegiare l’iniziativa clamorosa a effetto rispetto alla paziente fatica quotidiana lontana dai riflettori.
  Intendiamoci: nessuna delle iniziative evocate (come di innumerevoli altre simili) può essere considerata biasimevole in sé. Il problema è di priorità, di gerarchie di valori: è più urgente e utile che turisti e mezzi di trasporto commerciali risparmino mezz’ora nell’attraversamento dello Stretto di Messina o che gli stessi trovino nell’isola una rete viaria decente? E’ più urgente e utile per l’Italia che alcuni studenti meritevoli ma bisognosi arrivino alla laurea o che migliaia di altri che ci sono già arrivati (e sulla cui formazione il Paese ha investito già milioni di euro) non vadano ad arricchire nazioni straniere? E’ più urgente e utile che i ragazzini dei nostri centri abitati giochino su erba sintetica anziché (come le generazioni precedenti) su terra battuta o che, alla fine della partita, trovino a casa acqua corrente e fognature funzionanti?
   La tragedia è che se una classe politica cura l’ordinario, la qualità della vita elementare, i parametri basilari dell’equità sociale, nessun elettore se ne accorge (e di conseguenza non premia con il voto); mentre, se riesce a stupire con effetti speciali, può moltiplicare il consenso e contare sul ritorno elettorale. Così nei vari microcosmi della società: gli ospedali, le scuole, gli uffici giudiziari, le redazioni dei giornali, le famiglie…Chi porta in silenzio la carretta, con fedeltà e rigore,  resta invisibile, ignorato. Chi  ama salire sul proscenio, alza la voce, compie ogni tanto un’azione eclatante attrae ammirazione e applausi. Se poi arriva in televisione è fatta: può vivere di rendita per mesi, talora per anni.
    Se vogliamo essere onesti dobbiamo riconoscere che non si tratta di destra, di sinistra o di centro. Anzi, neppure di casta o di popolo. E’ lo spirito del tempo. Forse sarà solo la resistenza quotidiana, la contestazione caparbia di questa “visione del mondo” con pensieri nuovi  - e soprattutto con gesti nuovi – che potremo sperare in un’inversione epocale di tendenza.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 1 novembre 2016

IL DIO DEI MONOTEISTI E' NECESSARIAMENTE INTOLLERANTE ?

Sul trimestrale on line (gratuito) Dialoghi mediterranei, dell'istituto euroarabo di Mazzara del Vallo (Trapani), è stato ospitato una sezione monografica sui monoteismi mediterranei. Tra gli altri interventi di nostri cari e stimati amici (come Marcello Vigli ed Elio Rindone) ce n'è anche uno mio che riporto qui di seguito:

Solo l’autocritica può consentire il dialogo

 Mosaico absidale monastero chiesa s. Caterina, Sinai
Mosaico absidale monastero chiesa s. Caterina, Sinai
di Augusto Cavadi
Il monoteismo è sempre, e soltanto, matrice di violenza? La storia dei monoteismi è, anche, storia d’intolleranze, condanne capitali e stermini di massa. Il mio amico Luigi Lombardi Vallauri mi ha una volta confidato la soddisfazione per i contrasti fra gli esponenti apicali delle tre religioni abramitiche: «Te l’immagini che disastro per l’umanità se rabbini, vescovi e imam andassero a braccetto? Sarebbe una valanga insostenibile di fondamentalismo». Andrebbe meglio – è andata meglio – in regimi politeistici? Un mio amico che stimo molto lo sostiene da anni. Nel suo blog [1] così si legge dall’11 luglio 2009:
«L’ossessione di ricondurre a una monocorde identità la magnifica selva delle differenze è un crimine. Di tale ossessione i monoteismi fanatici si nutrono ogni giorno. La sofferenza e il male che ebraismo, cristianesimo e islam diffondono da millenni nel mondo sono una delle prove schiaccianti della ferocia di cui la nostra specie è capace. Un brano evangelico ne riassume perfettamente la logica abnorme e patologica, che vuole ridurre il molteplice, il politeistico, il vario, il difforme, all’uniformità più assoluta, quella di un solo principio, di un unico dio».
E qui Biuso cita, non so quanto pertinentemente, Giovanni, 17, 11-23.
Francamente, però, non mi pare che la storia dia ragione al cento per cento a Biuso: Ateniesi e Spartani, Greci e Persiani, Romani e Barbari – con tutto il loro politeismo (a sfondo panteistico) – non si fecero mancare guerre e stragi. Come attesta anche l’antecedente storico e logico del monoteismo, l’eno-teismo (non un solo Dio in assoluto, ma un Dio – il mio – più forte degli altri), la convinzione di avere dalla propria parte uno dei molti “dèi” non è servita certo a disarmare gli eserciti. Forme moderne di mistica statalistica (fondate sulla tesi hegeliana dello Stato come incarnazione di Dio nel mondo), tipiche di regimi totalitari di destra come fascismo e nazismo, non si sono allontanate dalla fanatica convinzione del Gott mit uns. Né monoteismo né enoteismo né politeismo né panteismo, dunque: andrebbe – è andata – meglio con l’ateismo? Basterebbe leggere Nietzsche, il profeta più efficace della “morte di Dio”, per rispondere negativamente: «che la forza non si manifesti come forza, che non sia volontà di sopraffare, di abbattere e di dominare, sete di nemici, di resistenza e di trionfi, è esattamente altrettanto assurdo che volere che la debolezza si manifesti come forza» (così si legge nella Genealogia della morale).
Né la storia dei socialismi reali, dall’Unione Sovietica alla Cambogia, depone a favore della risposta affermativa [2]. Sembrerebbe che, per un mondo più pacifico o per lo meno cruento in minor misura, l’ideale sarebbe l’agnosticismo teologico: non so se c’è Dio e, a essere sinceri, non m’interessa neppure (vedi il sorriso di Buddha a chi gli poneva interrogativi teologici) [3]. Indubbiamente gli scettici sono meno bellicosi dei portatori (malati) di verità (relative ma ritenute illusoriamente) assolute. Eppure il pianeta conosce casi di fondamentalismo buddhista [4] e, in misura plateale e micidiale, il fondamentalismo del laicismo borghese-capitalistico che dubita di tutto, tranne del profitto come criterio di senso; che tollera tutto, tranne gli ostacoli al proprio arricchimento continuo; che non ucciderebbe una mosca per un dissenso di ideali, ma trita milioni di esistenze umane e animali e vegetali per fornire di carburante la propria macchina tecnologica (infernale) [5].
Ma se la violenza viene praticata in nome di monoteismi, politeismi, ateismi e agnosticismi, come delegittimarla teoreticamente in modo da indebolirla nel suo radicamento sociale? Sono convinto che ogni posizione teologico-filosofica si presti a utilizzazioni ideologiche contrastanti: in nome dello stesso Dio, o dello stesso Nulla, è possibile fondare tanto l’impegno individuale e politico per il bene e la giustizia quanto strategie, soggettive e collettive, d’intimidazione e asservimento di viventi d’ogni specie [6].
Allora non vedo, attualmente, alternative: ogni intellettuale – intendo ogni persona pensante che non si adagi sul conformismo né sul tradizionalismo – deve vigilare all’interno della propria prospettiva sul mondo (che spesso si abbina a una qualche forma di appartenenza comunitaria) affinché tale weltanschauung venga declinata in senso sempre meno compatibile con l’odio e sempre più favorevole alla cooperazione nella pluralità.  
foto1Il Dio della Bibbia è interpretabile in senso nonviolento?
La mia origine anagrafica (Palermo) e la mia formazione giovanile (filosofica e, poi, teologica) mi hanno indotto – per non dire costretto – a fare i conti con il Dio della Bibbia: è esso interpretabile solo in senso violento o anche in senso nonviolento? Le risposte sono varie e non tutte – ovviamente – compatibili. Una prima risposta è una condanna netta e inappellabile:
«Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto».
Così Céline in Rigodon (Einaudi, 2007: 14). «Concordo con lui e lascio volentieri a ebrei e cristiani, agli idolatri del ‘Libro’, il culto verso una divinità inetta come Jahvé. Non gli uomini soltanto, infatti, sono imperfetti ma lo è l’universo stesso poiché frutto dell’imperfezione del demiurgo che ha preteso di essere Dio» [7].
Chi sposi questo rifiuto tranciante dell’intera Bibbia si condanna a privarsi, però, non solo di contenuti inaccettabili per una coscienza etica matura, ma anche di intuizioni profetiche che hanno ispirato e potrebbero continuare a ispirare dei giganti della storia planetaria, da Francesco d’Assisi a Dante Alighieri, da Michelangelo a Thomas More, da Erasmo da Rotterdam a Johan Sebastian Bach, da Isaac Newton a Galileo Galilei, da Blaise Pascal a Martin Luther King, da Giovanni XXIII a Nelson Mandela…L’Occidente ha nella Bibbia il suo «grande codice culturale» (per riprendere Northrop Frye) verso cui è debitore di molti errori e di altrettanti meriti.
Una seconda risposta, risalente a Marcione (II secolo d. C.), distingue, all’interno della biblioteca che chiamiamo Bibbia, il Dio dell’Antico Testamento dal Dio del Nuovo: per condannare, come irredimibile, la prima figura e salvare esclusivamente la seconda. L’opinione di Marcione è stata bollata dalla Chiesa dell’epoca come eretica, ma non tutti i teologi hanno accettato la condanna. Anche in anni recenti Hanna Wolff, riprendendo opinioni autorevoli come quella di von Harnack, ha sostenuto l’opportunità di espungere dalle Sacre Scritture Torah, Salmi e Profeti [8] Basterebbe cassare l’Antico Testamento per avere una Bibbia fautrice di nonviolenza? La risposta è negativa per almeno due ragioni.  La prima è che del Nuovo Testamento fa parte il corpus paolino: e qui non mancano i toni minacciosi, le maledizioni, le condanne senza appello. Una seconda ragione è che persino la figura di Gesù, isolata dagli antecedenti veterotestamentari e dai commentari paolini, non è esente da tratti violenti: come ha sostenuto il biblista Giuseppe Barbaglio, il Dio annunziato da Gesù è un “Giano bifronte” in cui convivono tratti di rigore inflessibile e tratti di tenerezza materna [9].
Tessalonica, Santa Sofia, cupola
Tessalonica, Santa Sofia, cupola
Scartate, in quanto insostenibili o incomplete, le soluzioni prospettate (condanna in blocco della Bibbia; condanna in blocco dell’Antico Testamento e dell’epistolario attribuito a Paolo di Tarso) non resta che una direzione di ricerca e di lavoro: la rielaborazione critica degli insegnamenti biblici. Essa si basa sul presupposto che i testi biblici tramandati non abbiano un’essenza straordinaria, addirittura divina, ma siano testi redatti da uomini con pregi e difetti che – come tutti i prodotti umani – sono un impasto di grano e zizzania, di profumi e spine: per chi crede in una qualche ipotesi di Trascendenza, la Bibbia (come tutti i capolavori dello spirito umano) è il risultato mirabile della riflessione paziente degli autori e della felice ispirazione dall’Alto [10]. Si tratta dunque di affrontarla ‘laicamente’: evitando il bigottismo che induce a manipolare avvocatescamente i passaggi scomodi così come ogni forma di bigottismo capovolto incapace di riconoscere i diamanti immersi nella melma.
In due testi precedenti ho cercato di mostrare, in concreto, come il messaggio biblico possa essere piegato su posizioni tribali, identitarie [11] o, addirittura, violente e distruttrici [12], ma anche quali ripensamenti teologici potrebbero liberarlo dalle scorie e farne una proposta di cooperazione, dialogo e liberazione.
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
Note
[1] www.biuso.eu
[2] Cfr. S. Courtois et alii , Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 1999.
[3] Cfr. R. Panikkar, Il silenzio di Dio. La risposta del Buddha, Borla, Roma 1985.
[4] «Negli ultimi tempi, la complessa situazione socio-politica dello Sri Lanka si è arricchita di nuove    tensioni con l’ascesa del Bodu Bala Sena (BBS), Forza del Potere Buddista. Si tratta di una organizzazione, appunto buddista singalese, caratterizzata da posizioni di estremismo e fondamentalismo, che ha sede a Colombo, la capitale dello Stato da poco uscito da una delle guerre più crudeli e cruente degli ultimi anni, che ha contrapposto la minoranza tamil e quella singalese. Arrivati alla pace, con molte ferite da rimarginare ed un processo di integrazione tutto da inventare, dopo 25 anni di conflitto, l’apparire del BBS ha fatto riemergere i fantasmi di un nuovo conflitto. Il gruppo, infatti, si è distinto negli ultimi tempi per campagne anti-cristiane e anti-musulmane in nome dell’identità buddhista singalese. A fondare questa organizzazione sono stati due monaci – in Sri Lanka si pratica il buddhismo nella sua versione tradizionale chiamata theravada  – Kirama Wimalajothi e Galagoda Aththe Gnanasara, già da tempo impegnati in politica con posizione di difesa dell’identità singalese» (R. Chheda, Il Bodu Bala Sena e il fondamentalismo buddhista, www.cittanuova.it, 3.5.2013)
[5] Sullo scetticismo relativistico come filosofia spontanea della borghesia cfr. M. Horkheimer- W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1969, passim. Sui delitti consumati dal capitalismo di impronta liberal-borghese cfr. M. Cury et al., Il libro nero del capitalismo, Tropea, Tropea (Cz) 1999.
[6] È quanto provo a dimostrare sia nel mio Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2000 e in Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee, Cittadella, Assisi 2001.
[7] È ancora il mio amico ‘neopagano’ Alberto Giovanni Biuso a esprimersi così in un post del suo blog sopra citato del 23 agosto 2010 .
[8] Cfr. H. Wolff, Vino nuovo – otri vecchi. Il problema d’identità del cristianesimo alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1992.
[9] Cfr. G. Barbaglio, Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane, Cittadella, Assisi 1991
[10] Cfr. L. Sartori, Il problema di Dio nella teologia, oggi in AA. VV., Il problema di Dio in filosofia e in teologia oggi, Massimo, Milano 1982: 25- 40.
[11]  Cfr. A. Cavadi, Il Dio dei leghisti, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2010.
[12]  Cfr. A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008.
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 Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente  presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è attualmente presidente della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); La filosofia vi farà liberi. Un’interpretazione delle pratiche filosofiche (BBN editrice, 2012); Il Dio dei leghisti  (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015).