martedì 24 gennaio 2017

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA: IL PARERE DI DON SUDATI


“Centonove”
19.1.2017

LA CONFESSIONE CATTOLICA: UN SACRAMENTO DA RIFORMARE

Solitamente si recensiscono libri editi da poco tempo in modo da informare i potenziali lettori delle novità. Ma se un libro di valore intrinseco  – e di interesse ampio – non ha incontrato, al momento della pubblicazione,  una ricezione adeguata, e se il recensore ne ha avuto notizia con dieci anni di ritardo, deve restare sottotraccia o è il caso di segnalarlo?  Convinto dell’opportunità della seconda ipotesi, do volentieri conto de “Le chiavi del paradiso e dell’inferno. Materiale per una riforma della confessione” (Marna, Barzago 2007, pp. 327, euro 15,00) a firma di don Ferdinando Sudati.
    Innanzitutto: perché un libro sulla necessità di riformare il sacramento della confessione dovrebbe interessare non solo i cattolici ma anche una sfera più ampia di lettori ‘laici’ ? Perché ciò che accade nella Chiesa cattolica, nel bene e nel male, condiziona fortemente l’ethos di popolazioni, come l’italiana, che – per fortuna o per sfortuna, a seconda dei punti di vista – è ancora a maggioranza (sia pur nominale) cattolica. Una Chiesa autoritaria, repressiva, invadente non favorisce certo la maturazione critica e la responsabilizzazione di una società, laddove esperienze religiose comunitarie di segno differente favoriscono la crescita culturale e civile dei contesti in cui operano. E il sacramento della confessione (detto anche della penitenza o della riconciliazione), per quanto statisticamente in clamoroso ribasso, ha costituito e costituisce uno degli strumenti più penetranti della pedagogia ecclesiale (detta anche, con un vocabolo che richiama l’antipatica analogia fra il popolo credente e un gregge di pecore, “pastorale”).
     Ebbene, con coraggio pari all’erudizione, don Ferdinando Sudati presenta innanzitutto una breve storia di questo sacramento  che, a differenza di altri (come il battesimo e l’eucarestia), non si può fare risalire al progetto originario di Gesù di Nazareth. Di biblico, infatti, c’è solo il detto giovanneo “Ricevete lo Spirito santo. Coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati (Gv 20, 22 b – 23).  I primi cristiani hanno inteso questa parola come invito al perdono reciproco, senza differenze di ruolo fra vescovi, presbiteri e laici (ruoli che per altro si sono configurati nel tempo e con estrema elasticità da una comunità all’altra). Per i peccati gravissimi (tradimento, assassinio, “maltrattare gli schiavi, opprimere i poveri, calunniare” etc.) si ritenne, abbastanza presto, che il perdono dei fratelli dovesse seguire una confessione pubblica e un congruo periodo di penitenza allo scopo soprattutto di compensare con opere benefiche il male inferto: ma ciò non più di una volta nella vita. Dal VI secolo in poi i monaci irlandesi (preti o solo monaci che fossero) introdussero la prassi di assolvere dai peccati quanti si rivolgevano loro in forma privata; ma la nuova prassi non cancellava la convinzione che nelle celebrazioni liturgiche più importanti il celebrante potesse invocare l’assoluzione generale di tutti i presenti, anche di chi non avesse manifestato individualmente le proprie colpe.
    Fu con il Concilio di Trento (XVI secolo) che la Chiesa cattolica ridusse il canale della conversione alla sola confessione individuale e segreta di tutti i propri peccati, gravi e meno gravi, a un sacerdote: insomma secondo il modulo rimasto sostanzialmente inalterato sino ai nostri giorni. Questa dogmatizzazione restrittiva provocò sin da subito la reazione delle nascenti chiese protestanti che contestarono sia l’origine biblica di questo modo di intendere il sacramento sia la pretesa che esso agisca per così dire automaticamente, come se il perdono divino potesse dipendere – quasi “magicamente” -  dai rituali umani.
    Oggi i limiti del sacramento della riconciliazione sono avvertiti ampiamente: la Chiesa cattolica ha previsto di ritornare a formule più comunitarie, ma solo in casi di emergenza (per esempio di un gruppo di persone che venga a trovarsi in pericolo di morte) e comunque a condizione che, cessata l’emergenza, ci si sottoponga a una confessione individuale. Troppo poco per teologi come don Sudati (e come le decine di studiosi, italiani e soprattutto stranieri,  di cui egli riporta l’opinione nel corso dell’esposizione): una vera riforma esigerebbe almeno lo scioglimento di due nodi. Il primo: il clerico-centrismo. Dio perdona attraverso i fratelli in quanto tali, senza legarsi le mani a un’istituzione ecclesiastica che si è andata costituendo e irrigidendo nei secoli: giusto, dunque, chiedere perdono alla comunità che abbiamo ferito, ma senza affidare a nessun altro singolo uomo il monopolio sulla nostra coscienza. Il secondo nodo è più radicale: il teismo giudiziario. Il Dio che è stato annunziato da Gesù come Padre comune non è un giudice supremo: quindi ognuno di noi può e deve chiedere la forza di migliorare, ma senza passare per le forche caudine di un mini-processo giudiziario. Dio dona la grazia, appunto, gratuitamente: al di là, e al di sopra, di una contabilità ragionieristica. Dopo molti secoli, un papa prova adesso a ricordarcelo, ma le resistenze all’interno stesso delle gerarchie vaticane dimostrano quanto lontano sia ormai l’eco della rivoluzione (incompresa) di Gesù di Nazareth.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

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