martedì 16 dicembre 2025

ECOLOGIA FRA SCIENZE, FILOSOFIA E TEOLOGIA: IL CONTRIBUTO INTERDISCIPLINARE DI CLAUDIA FANTI

 

A casa nel cosmo. Per una nuova alleanza tra spiritualità e scienza (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2025) di Claudia Fanti è un libro ingannevole. Infatti la scrittura scorrevole, elegante ma non pretenziosa, con passaggi narrativi e poetici, illude sulla fruibilità immediata dei contenuti. Che, invece, sono molto impegnativi ed esigono - insieme a una conoscenza almeno sommaria dello status quaestionis di diverse discipline (dalla fisica alla biologia, dalla filosofia alla teologia…) - estrema, continua, attenzione. Insomma, sotto le apparenze di un testo gradevolmente leggero, si nasconde un tentativo ambizioso di cui la nostra civiltà ha necessità ma al quale pochissimi hanno il coraggio di dedicarsi: proporre un qualche sguardo sinottico sul mondo, una qualche sintesi (per quanto provvisoria) delle acquisizioni (per quanto parziali) offerte dalle indagini specialistiche settoriali. E perché ci voglia molto coraggio nel gettarsi in quest’impresa è intuitivo: se resto nel mio campo di studio, per altro sempre più limitato, riduco il numero dei competenti che possano contestare le mie micro-analisi; ma se, facendo tesoro di informazioni provenienti da varie aree del sapere, provo ad abbozzare un quadro d’insieme, mi espongo alle critiche più disparate. Eppure, senza questi tentativi di volare alto, di guadagnare prospettive che in altre epoche si chiamavano “sapienziali”, a che ci serve la marea straripante crescente e di dati, tesi e ipotesi di cui pullula il web? Lo so: c’è il rischio di accontentarsi di sapere poco, pochissimo, quasi niente sul Tutto. Ma non meno pernicioso il rischio opposto di sapere molto, moltissimo, quasi tutto su un dettaglio che rasenta il niente. Trovare un equilibrio fra i due pericoli non è facile, ma resta necessario.

Claudia Fanti non si è sottratta alla difficile sfida e qualsiasi osservazione si possa avanzare, su questo o quel passaggio delle sue pagine, va preceduta dall’onore delle armi (intellettuali!): senza essere professionalmente né una scienziata né una filosofa si è avventurata in un’ardua impresa, quasi a voler indicare agli scienziati e ai filosofi un percorso che sarebbe loro compito intraprendere (e che pochi – come Edgar Morin o Vito Mancuso – hanno l’ardire di tentare). E lo ha fatto senza trascurarne la valenza esistenziale, etica e politica (con un solo termine, da intendere però nell’accezione più ampia e meno confessionale possibile, “spirituale”[1]): perché per lei conoscere è già un valore in sé, ma è anche il presupposto indispensabile per assumere la postura più adatta in relazione agli altri esseri viventi, gravemente feriti dalla follia dell’homo demens che arriva a minacciarne la stessa sopravvivenza. E non a caso cita l’Associazione ecumenica dei teologi e delle teologhe del Terzo Mondo: “solo con una visione nuova si potrà porre rimedio, se riusciremo ad arrivare in tempo, all’ecocidio” (p. 18).

 

La trama del volume

Vediamo, innanzitutto, di ricostruire la mappa del volume, restituendone le articolazioni principali (anche al prezzo, inevitabile, di trascurarne contenuti in sé rilevanti).

 

a)     L’ottica cosmologica

Il punto di vista basilare è cosmologico: qual è il posto della Terra nell’universo? E cosa sappiamo attualmente dell’universo in cui il nostro pianetino è situato? Essa è comparsa più di 4 miliardi e mezzo di anni fa (p.27) in una zona abitabile perché “né troppo vicina né troppo lontana dalla sua stella” - il sole -, la quale è “situata alla periferia di una galassia di media grandezza” (la Via Lattea) “composta da più di cento miliardi di stelle, che a sua volta è solo una tra più di 100 miliardi di galassie dell’universo osservabile” (p. 28).

Ma, a sua volta, l’universo osservabile con i nostri strumenti attuali (che secondo alcune stime costituisce solo il 5% della materia totale, di cui il 95%  - appunto – è detta “oscura” in quanto inconoscibile) (p. 103) ha un’età di poco meno di 14 miliardi di anni (ivi).

Una prima (per altro capitale) questione riguarda la sua genesi. Su questo le scienze sono consapevoli dei loro limiti strutturali: “l’inizio dell’universo è qualcosa che è al di fuori della portata della nostra mente. È un miracolo che non si può eliminare” (p. 95). La constatazione che “la realtà materiale” sia costituita al 99,9% di “vuoto” suggerisce a sempre più numerosi studiosi la tesi che “l’universo nasce dal vuoto”, ma un vuoto che “non è affatto vuoto, bensì inconcepibilmente ‘pieno’, dal momento che in esso continuamente si creano tutte le particelle possibili” (p. 96). 

Una seconda questione riguarda la storia dell’universo (e in particolare la comparsa della vita): esso segue una causalità per cui i fenomeni più semplici possono causare fenomeni più complessi oppure in esso si danno dei “comportamenti emergenti” (p. 54) e imprevedibili?

Ma non è solo il costituirsi della vita nell’universo ad aprire interrogativi filosofici: lo è anche il dato, altrettanto certo, che questo universo, che “a un certo punto è nato, a un certo punto avrà anche fine” (p. 48). 

Anche “sulla causa del decesso” esistono due principali “ipotesi”: un Big Crunch causato dalla forza gravitazionale oppure il “Grande Strappo” causato da una “energia oscura” agente in senso opposto a “tutte le forze che uniscono” (ivi). In tutti i casi l’universo è condannato, per la legge dell’“aumento inesorabile dell’entropia”, alla “morte termica” (p. 49). Ma a sua volta questo “sterminato universo” in espansione “potrebbe essere solo una piccola isola all’interno di uno spazio cosmico inimmaginabile” (p. 102): il “multiverso” (p. 101).

b)    Lo sguardo biologico

“Circa 380mila anni dopo il Big Bang” si sono formati “gli atomi di idrogeno presenti, in quantità variabili, in tutte le molecole organiche contenute nelle cellule” (p. 37) che sarebbero comparse una decina di miliardi dopo sulla Terra: qui, infatti, si registra (da circa “4 miliardi di anni”) (p. 34), un fenomeno di cui sinora non si conosce l’origine: appunto la vita biologica. Tale fenomeno impone di ampliare lo sguardo dalla fisica (sia sub-atomica che astronomica) alla biologia molecolare, da cui apprendiamo che “tutte le forme viventi che popolano i suoli, i mari e i cieli del nostro splendente pianeta azzurro e bianco devono essere discese da un antenato comune, una specie unicellulare ancestrale” (ivi). Questo “punto di partenza” unico (pp. 34 – 35) spiegherebbe come mai, in tutti gli esseri viventi, si ritrovino le “due qualità onnipresenti della vita”: la capacità di codificare, utilizzare e trasmettere “l’informazione che dirige le funzioni che sostengono la vita” e “il modo in cui le cellule sfruttano, immagazzinano e impiegano l’energia necessaria per svolgere le funzioni vitali” (Brian Greene, cit. a p. 35, sottolineature mie). La somiglianza tra tutti i viventi, dovuta ai due fattori costitutivi della vita, è rafforzata dalla comunanza dei due “obiettivi essenziali: vivere (e generare vita) e difenderci dal dolore (dai pericoli, dalla fame)” (p. 37). Dunque la vita (potenzialmente contenuta “nelle viscere di una stella”, Ernesto Cardenal cit. a p. 38) è “una sola” e “ogni specie è un punto distinto lungo un continuum, come le diverse note sulla tastiera di un violino” (Carl Safina, cit. a p. 37).

Il fatto che nessuna vita, neppure elementare, sarebbe potuta apparire, se l’universo fosse stato regolato da leggi solo minimamente differenti dalle attuali, si presta a varie interpretazioni filosofiche: il “creazionismo scientifico” che afferma l’evidenza di un “Disegno intelligente” nell’evoluzione e vi vede una prova dell’esistenza di Dio (p.42) ; il “Principio antropico” in “versione debole” secondo cui “l’universo e le sue leggi non possono essere incompatibili con la nostra presenza come osservatori” (ivi); il “Principio antropico” in versione “forte” secondo cui “l’universo possiede proprio, fin dalla sua nascita, quelle proprietà che permettono alla vita, o in altri termini agli osservatori, di svilupparsi al suo interno” (pp. 42 – 43); il “Principio antropico ultimo” in base al quale “deve necessariamente svilupparsi una elaborazione intelligente dell’informazione nell’universo, e una volta apparsa, questa non si estinguerà mai” (p. 43); la teoria del “fortunato accidente, una felice, involontaria conseguenza delle leggi oggettive e impersonali della natura” (p. 44); la teoria della “infinità di universi”, “ciascuno con le proprie leggi e le proprie costanti fisiche”, tra cui il nostro “universo in cui la vita è possibile” (ivi); la teoria dell’evoluzione cosmica secondo “un processo di variazione casuale e selezione simile a quello dell’evoluzione darwiniana” (p. 45).

c)      Lo sguardo onto-teologico

Questa varietà di teorie scientifiche si presta ad altrettanto varie teorie filosofiche che, schematicamente, si possono ridurre a tre: una qualche forma di creazionismo che attribuisca all’azione divina la creatività dell’universo (p. 58); un materialismo rigoroso che “riduce l’intera realtà a particelle in movimento” (p. 55); un monismo ontologico che riconosca all’origine della creatività dell’universo o un “Dio immanente” (S. Kaufmann)[2] o, per lo meno, un “logos-physikos, rispetto al quale anche la nostra creatività e la nostra autocoscienza non costituiscono alcuna differenza assoluta o salto ontologico”(O. Franceschelli, p. 59).

 

d)    Lo sguardo antropologico

L’esame dell’universo in generale non può prescindere dal caso singolare costituito non solo dal vivente, ma più precisamente del vivente cosciente (o addirittura auto-cosciente). Il dato empirico incontrovertibile è che siamo dotati di un cervello: ma è ovvio che tale “turbinio di particelle dentro un cranio” crei “impressioni, sensazioni e sentimenti” (p. 69)? Ritroviamo anche qui gli schieramenti principali incontrati su questioni precedentemente analizzate: un orientamento riduzionista o fisicalista (maggioritario) secondo cui “la coscienza è prodotta dal cervello, a sua volta controllato dalla fisica e dalla chimica” (p. 71) e un orientamento alternativo, irriducibilista (?) o complessivista (?) (minoritario) basato sulla convinzione che “l’attività cerebrale in sé non è in grado di spiegare la coscienza” (pp. 72 – 73). All’interno di questo fronte non-riduzionista si possono individuare, a loro volta, due prospettive principali: una emergentivista (?) secondo cui “la coscienza emerge dal cervello ma non è riducibile ad esso” (p. 74), essendo frutto di “una misteriosa creatività per cui dal meno nasce il più” (p. 73), ed una “neo- idealista” (p.143) secondo cui la nostra coscienza individuale è “una scintilla o un riflesso” di una “coscienza completa e senza fine” che “è sempre dentro e attorno a noi” (p. 78), una coscienza assoluta e universale che “viene prima del cervello” e “anche prima dell’universo” (p. 79). Soprattutto in questa seconda versione del fronte non-riduzionista, le più eclatanti conseguenze sul versante antropologico sono due: ognuno/a di noi è interconnesso “al Tutto: passato, presente, futuro” (p. 85) e “morire non sarebbe altro che «risvegliarsi a un’altra coscienza più vasta»” (p. 79).

     L’interconnessione – che è un dato ontologico – dovrebbe essere assunta come “legge morale” (Fox a p. 108) dalla nostra specie che si è evoluta per “competizione” (che è “un fatto della vita”) ma ancor più per “cooperazione” (che ne rappresenta “l’essenza”, Tudge a p. 111). Ma la cultura ebraico-cristiana, con la sua lettura antropocentrica, ha spezzato la comunione dell’essere umano con il resto della natura e ha privilegiato una lettura gnosticheggiante, caratterizzata dal dualismo fra l’anima e la materia (desacralizzata e ridotta a mero materiale a disposizione della tecnica). Il “sapere per amore del sapere” cede il posto al sapere come “potere” (p. 121) in grado di renderci “signori e padroni della natura” (così Cartesio a p. 122).

 

 

Qualche considerazione a margine

 

a)     La rinascita della metafisica nonostante i filosofi di professione

Questo libro mostra in maniera convincente una situazione paradossale: mentre la categoria professionale dei filosofi tende, in larga maggioranza, a evitare le tematiche metafisiche (onto-teologiche) per dedicarsi alle filosofie “regionali” o “al genitivo” (filosofia della mente, del linguaggio, della storia, dell’arte, della politica, del computer…), tali tematiche vengono riproposte con sempre maggiore insistenza dal mondo degli scienziati (soprattutto cultori di scienze “dure” come fisica e biologia). Trovo incoraggiante questo fenomeno culturale, ma non privo di rischi. Infatti, se per una lunga parte della mia vita ho giocato a pingpong e a un certo momento sento il desiderio di giocare anche a tennis, avvertirò la tentazione di approcciarmi al secondo sport (per molti versi simile al primo) con la mentalità e le abilità acquisite giocando a pingpong. Fuor di metafora: non escludo certo che un buon astrofisico o un buon biologo siano – o diventino – degli ottimi metafisici, ma a patto che abbiano consapevolezza di mutare attrezzatura epistemica. Quando la Hack o Zichichi si pronunziavano sull’ipotesi di un Essere creatore ne avevano tutto il diritto in quanto esseri pensanti (specie se non del tutto ignari di filosofia e di teologia): ma non in quanto fisici.

Se è vero (come sostenuto da Leibniz o da Heidegger) che la domanda fondamentale della metafisica è “Perché c’è qualcosa anziché nulla?” abbiamo due possibilità: o liquidarla come una domanda priva di senso (un “bernoccolo” che la mente si procura quando va a sbattere contro un muro) o moltiplicare i tentativi filosofici di rispondervi. La terza possibilità - tentare e ritentare di rispondervi con i metodi delle scienze naturali - è impresa destinata per principio a fallire.

b)    Il supporto delle scienze alla riflessione filosofica

Gli scienziati possono solo riproporre (implicitamente, oggettivamente, per lo più inconsapevolmente) ai filosofi le domande tipiche della filosofia (che i filosofi tendono a tralasciare, preferendo rifugiarsi nella ricerca storiografica e filologica, ambiti abituali del loro circuito comunicativo)? Direi di no. Essi sono preziosi per almeno due altre ragioni.

La prima: non possono prescrivere ai filosofi cosa dire, ma possono informarli su cosa non dire. È vero che le scienze, come tutti i prodotti della mente umana, non sono infallibili né definitive, ma ciò non toglie che esse sono in grado di stabilire in maniera incontrovertibile l’erroneità di certe tesi. Claudia Fanti sottolinea il cambio di paradigma (inaspettato) dalla fisica ‘classica’ newtoniana alla fisica einsteiniana prima e quantistica dopo. Bene! Ciò significa che non possiamo fare affidamento assoluto su nessuna delle attuali teorie fisiche. Ma significa anche che “può andare bene tutto” o non possiamo invece affermare che alcune teorie del passato sono definitivamente, irreversibilmente, false? Dal geocentrismo (tolemaico) siamo passati all’eliocentrismo (copernicano) e poi all’attuale cosmo senza né un centro né una circonferenza: non sappiamo che cosa scopriremo domani, ma è ipotizzabile che ridiventiamo geocentrici? Penso che una filosofia costruita oggi sul presupposto che il cosmo giri come un’immensa sfera intorno al nostro pianetino microscopico (che occupa nello “sterminato universo” uno spazio “minore di quello di un atomo nel sistema solare”, così Giudice a p. 102) sia infondata, inattendibile, implausibile. Il relativismo ha dei limiti: forse non siamo certi di alcuna verità, però siamo certi di alcune falsità.

Ma la scienza deve limitarsi a fare da barriera, da argine, fissando i paletti alla creatività filosofica? Non può apportare contributi in positivo? Secondo alcuni essa produce metafore più che concetti inequivoci. Lo ribadisce anche il fisico Maurizio Busso nella sua Postfazione: “In fondo, quando anche la fisica si inoltra al di là di ciò che è noto, i ricercatori riscoprono il fascino del linguaggio mitico, quello che usavano i nostri antenati prima delle vere formulazioni scientifiche” (p. 149).

Ritengo quindi - passo ad un secondo servizio che il mondo degli scienziati può rendere al mondo dei filosofi - che la scienza può prestare ai filosofi delle metafore, delle immagini poetiche, che possono aiutarli ad esprimere l’indefinibile. È almeno da Platone in poi che la filosofia ricorre alle metafore: il punto è che Platone era il primo ad avvertire quando proponeva ragionamenti logici dimostrativi e quando ricorreva a miti, a belle favole suggestive capaci più di alludere che di mostrare. Allora, ad esempio, mi pare molto bello ricorrere alla nozione di entanglement per indicare una connessione fra enti ed eventi nel cosmo, ma non perderei la lucidità di distinguere i campi in cui si tratta di una descrizione empirica (il mondo delle particelle microscopiche) e dove si tratta di una metafora poetica (il mondo della fisica classica).

c)      L’antropocentrismo e le sue caricature

Il termine antropocentrismo ritorna più volte nel libro in varie accezioni che non mi sembrano equivalenti e intercambiabili. Un primo significato è onto-cosmologico: l’essere umano è il fine dell’universo che solo con la sua comparsa (avvenuta dopo circa tredici miliardi di anni dall’inizio di questo universo) acquista senso, anzi addirittura prende coscienza di sé e trova per così dire un interprete/portavoce.

Chi rifiuti questa prima accezione forte (anzi forzuta) di antropocentrismo non è obbligato a ritenere l’essere umano privo di specificità rispetto agli altri esseri (viventi o minerali): soprattutto di autocoscienza. Lo slittamento concettuale è trasformare un dato peculiare in sintomo di supremazia: se ho un’autocoscienza che non ha (o non ha nella stessa misura) una gazzella, non vuol dire che le sia superiore o (per mantenere la metafora astronomica tolemaica) che essa debba girare intorno a me per ricevere luce e calore (cioè, fuor di metafora, senso e valore). L’autocoscienza mi rende tanto più potente quanto più pericoloso fra gli altri animali (per cui corro il rischio – che non corre la gazzella - di comportarmi in maniera irresponsabile). Le graduatorie sono relative all’unità di misura sulla cui base si costruiscono: se invece dell’autocoscienza scegliessimo la longevità o la forza fisica o la resilienza in volo…

C’è una seconda accezione del termine antropocentrismo: l’essere umano come osservatore che inevitabilmente modifica l’oggetto dell’osservazione o addirittura lo presentifica, gli conferisce consistenza reale. Qui siamo al di là del più ardito antropocentrismo: siamo in quell’antropo-teismo di cui l’idealismo post-kantiano tedesco (paradigmaticamente con Fichte a cavallo fra Settecento e Ottocento) ci ha dato l’esemplare insuperabile. Rileggiamo una poesiola ironica riportata da Bertrand Russell su Berkeley (il predecessore di Fichte, coniatore del principio esse est percipi = essere è essere percepito):

 

Si stupiva un dì un allocco

“Certo Dio trova assai sciocco

che quel pino ancora esista

se non c’è nessuno in vista”

 

RISPOSTA

“Molto sciocco, mio signore,

è soltanto il tuo stupore.

Tu non hai pensato che

se quel pino sempre c’è

è perché lo guardo io.

Ti saluto. Sono Dio”

 

 

Dietro la forma simpaticamente umoristica leggerei la tragica paradossalità della prospettiva idealistica: le cose esistono perché io le penso; ma ciò è vero se in me opera il pensiero di un Altro; dunque, alla fine, sono solo un canale, un medium, non un soggetto che pensa. L’antropo-teismo si risolve in irrilevanza dell’essere umano, organo che il Pensiero assoluto può sostituire senza difficoltà da un momento all’altro della storia.

Contro l’idealismo “magico” mi pare dunque essenziale tenersi fermi sulle posizioni (filosofiche!) di quella maggioranza di fisici attuali per i quali ciò che vale per il microcosmo (ad esempio il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo cui l’osservatore modifica - per il solo fatto di osservarli - i fenomeni) non vale per il macrocosmo (e con Troisi, in una scena cinematografica celebre , possiamo rivolgerci per anni all’immagine di un santo senza modificare di un millimetro il mondo esterno).

C’è infine una terza accezione del termine antropocentrismo: l’accezione gnoseologica secondo cui io vedo della Totalità solo ciò che le mie categorie (sensoriali e concettuali) mi consentono. A me pare che si tratti di un’accezione alquanto ovvia, se non banale, ma non capisco perché non se ne muti il termine in antropo-decentrismo. Essa infatti ci dice la parzialità, la limitatezza, la perifericità conoscitiva di noi uomini, del tutto analoga alla parzialità, alla limitatezza e alla perifericità della mosca o della lince che colgono lo stesso mondo con categorie differenti dalle nostre (e da noi quasi del tutto ignote). Possiamo uscire dalla gabbia di questo pseudo-antropocentrismo (che è in realtà un antropo-morfismo o un antropo-decentrismo)? Propenderei per rispondere: no (sino a quando ci limitiamo alla conoscenza sensoriale e scientifica) e sì (nei rari casi in cui potessimo attingere a dei principi ontologici, meta-fisici e meta-scientifici). Se dico che è impossibile che uno stesso ente sia e non sia nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista sto affermando qualcosa di soggettivo (o di valido inter-soggettivamente solo per la specie umana) o di assoluto? Non entro nella questione e per questo ho usato il congiuntivo ‘potessimo’ evitando l’indicativo (affermativo) ‘possiamo’.

d)    L’ «io» fra autopercezione psicologica e situazione ontologica

Tra le esperienze più gratificanti all’interno delle nuove prospettive scientifiche e filosofiche l’Autrice indica “quella potente sensazione di connessione e unità sperimentata in maniera diretta, come realtà più reale della vita quotidiana” in vari stati d’animo, “quando si coglie tutta l’illusorietà della distinzione tra esterno e interno, tra sé e l’altro, tra l’io e il cosmo” (p. 130). Che una simile esperienza possa essere effettiva, e causa “di gioia e di indescrivibile amore” (p. 131), non c’è dubbio. Ma le “sensazioni”, per quanto intime, sono rivelatrice di uno stato di cose oggettivo? O dobbiamo avere dei criteri esterni ai nostri stati d’animo? Può darsi che se prego ogni giorno la Madonna provi una profonda sensazione di comunione con Lei: ciò mi è sufficiente per dire che la Madonna sia ancora viva come in Palestina duemila anni fa, anzi ancor più viva di allora, e sia consapevole di essere in relazione amorevole con me?

Naturalmente ci sono persone nel mondo (direi la maggioranza assoluta) che, ritenendo impossibile attingere a criteri esterni ai nostri stati d’animo, scelgono di orientare la propria vita sulla base esclusiva di ciò che li fa sentire meglio, più in pace con sé stessi e in armonia con il resto del mondo. Altre persone siamo segnati dalla maledizione filosofica di non accontentarci di ciò che ci soddisfa psicologicamente e di cercare (forse invano) di procedere al contrario: provare prima a capire come stanno le cose ‘oggettivamente’ e poi ad adeguare allo scenario ritenuto (almeno sino a prova contraria) ‘vero’ la propria postura esistenziale e psicologica. Dunque non riteniamo vero ciò che ci fa stare bene, ma tentiamo di stare bene al cospetto di ciò che riteniamo vero, pur non essendo granché entusiasmante.

 

Augusto Cavadi

 

(“Adista/Documenti”, 2025, 39, 8 novembre)



[1] Cfr. A. Cavadi, Voglio una vita spregiudicata. La filosofia come spiritualità per chi ritiene di non averne alcuna , Diogene Multimedia, Bologna 2020 e i volumi della Collana Oltre le religioni, Gabrielli Editori (San Pietro in Cariano), di cui proprio Claudia Fanti è co-curatrice con vari autori.

[2] Un po’ più su queste riflessioni di S. Kaufmann nel capitolo “Il sacro fuori dal tempio” del mio O religione o ateismo? La spiritualità ‘laica’ come fondamento comune, Algra Editore, Viagrande 2021 (pp. 59 – 66).

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