domenica 12 gennaio 2025

"BUEN VIVIR": CHE POTREBBE SIGNIFICARE? COME SI POTREBBE PERSEGUIRE ?

 

L’esortazione a “vivere bene” (il buen vivir dei latino- americani) ci raggiunge da molte fonti. Ma come possiamo interpretarla?

Certamente si vive bene quando la nostra dimensione corporea non è incrinata da malanni gravi e persistenti. La salute fisica è, in misura considerevole, un dato genetico ereditario e, per quanto riguarda le menomazioni conseguenti a incidenti, un privilegio della sorte. Tuttavia, in misura meno rilevante ma non per questo irrilevante, dipende da molte scelte personali di cui siamo in esclusiva responsabili: il luogo in cui fissiamo la nostra dimora abituale, il cibo di cui ci alimentiamo, le sostanze che assumiamo per esempio fumando, la cura che riserviamo alla prevenzione delle malattie (con modesti esercizi fisici e regolari controlli medici). In una parola, si potrebbe dire: vivere in armonia con la natura dentro e intorno a noi.

Ma, per quanto si possa essere attenti alla propria sfera individuale, la nostra relazione con l’universo è condizionata da scelte collettive che trascendono le nostre possibilità: l’inquinamento dell’aria, dei mari e delle acque potabili; i mutamenti climatici; le epidemie; lo spreco delle risorse agricole, anche per finanziare allevamenti intensivi di animali che vengono macellati dopo una vita di torture (per poi cucinarne la carne in quantità eccessive e smaltirla tra i rifiuti)…sono tutti fattori di degrado della qualità media della vita provocati da vaste aree della società con la complicità – almeno passiva – dei governi.  I quali spesso aggiungono, ai malesseri dovuti a squilibri nel rapporto con il mondo fisico, i disastri dovuti a conflitti interpersonali e interstatali.

Si può vivere bene in una piccola cabina dotata di molti conforti se il transatlantico sta lentamente, ma inesorabilmente, naufragando?

Molti di noi ci provano tappandosi occhi e orecchie, per non percepire i segnali di sofferenza della natura, degli altri esseri senzienti e di gran parte dell’umanità, nella previsione che il decesso individuale precederà il naufragio complessivo. Ma questa auto-limitazione non è senza costi: bisogna innaffiare pazientemente le nostre tendenze egoistiche, potare continuamente le nostre attitudini all’empatia e alla compassione, inventarci complicate scusanti ideologiche. Nessuno di noi nasce arido e insensibile come un legno secco: deve faticare per castrare le pulsioni alla solidarietà che – secondo le scienze umane – non sono meno reali ed esigenti delle pulsioni all’aggressività e al dominio.

Un’alternativa a ciò che Italo Calvino chiamava la rassegnazione all’inferno in cui viviamo sulla Terra e l’adeguamento progressivo ad esso (sino a non avvertirlo più come inferno, sino a considerarlo l’unico habitat concepibile e desiderabile) è cercare, in noi e nella cerchia delle persone che frequentiamo, qualche ragione per resistere. E’ individuare, nella fase dell’inabissamento del transatlantico, qualche zattera a cui aggrapparsi; in cui radunarsi con i compagni di viaggio che non hanno rinunziato a sperare; da cui ripartire quando tutto sarà visibilmente perduto. Possiamo dare molti nomi a questa scialuppa di salvataggio (etica elementare, umanesimo basico, spiritualità laica…), ma l’essenziale è intuibile: si tratta di far fiorire il nucleo intimo, la radice generativa, della nostra persona.

Che significa coltivare la nostra persona? Assumere seriamente l’invito greco: “Divieni ciò che sei!”. Diventa, in atto, ciò che sei in potenza. Realizza le tue possibilità più gratificanti per te e per chi ti circonda, direttamente o mediatamente.

Soddisfa i tuoi cinque e più sensi, la tua vista, il tuo odorato, il tuo gusto, il tuo udito, il tuo tatto: ma con rispetto, e anche con sobrietà.  Misura l’impronta ecologica che lascerai dopo il tuo breve soggiorno terreno.

Non aver paura di sentire a trecentosessanta gradi, dunque neppure dei tuoi sentimenti: non rinunziare a sperimentare le emozioni di cui sei capace (siano essi la gioia, l’allegria, la letizia, ma anche il dolore, la tristezza, la mestizia). L’insensibilità è inversamente proporzionale alla vitalità.

Sei anche intelligenza, animale desideroso di intus-legere : di leggere dentro le cose, dentro gli avvenimenti. Di penetrare oltre il velo, oltre le apparenze: per capire, sia pur parzialmente, sia pur senza mai riuscire a comprendere (= conoscere totalmente e sino in fondo). E di contemplare quei frammenti di verità, quei bagliori di bellezza, che riesci a rintracciare nella trama per molti versi ingarbugliata della natura e della storia.

Sei volontà, appetito di ciò che vale (che è ‘bene’ per te): dunque desiderio di possedere e consumare, ma anche di comunicare e di fruire. Sei erotico perché eros è bisogno di ciò che ci manca, ma anche agapico perché agape è gratuità che dona ciò che manca all’altro. Poiché la forma più alta d’amore è l’amore per la polis, la patria/matria, è mediante le svariate azioni ‘politiche’ che alimenti  la tua fioritura. “Sii tu per primo il cambiamento che vorresti nel mondo!” suggeriva Gandhi. Ma egli stesso non si è limitato alla testimonianza personale, per quanto necessaria e preziosa: ha cercato di contagiare, di coinvolgere, quanta più gente possibile. Ha elaborato progetti, ideato strategie, cercato alleanze: è stato un soggetto politicamente instancabile.

Soddisfare, sia pur  con temperanza, le proprie esigenze fisiologiche; esplicitare la sensibilità, esercitare l’intelligenza, praticare la volontà-di-bene: forse sono queste alcune linee portanti del “ben-vivere” , di una vita sensata perennemente in bilico sull’abisso del non-senso. Se è con l’etica che ci liberiamo dai condizionamenti individuali, è con le varie forme della politica che possiamo contribuire a liberarci dai condizionamenti collettivi.

 

Augusto Cavadi

https://www.zerozeronews.it/vivere-bene-si-con-volonta-cultura-e-intelligenza/

venerdì 10 gennaio 2025

LA NONVIOLENZA E' UN'ALTERNATIVA IMPRATICABILE? UN DIALOGO FRA PATERNI E COZZO

Il numero di "Dialoghi mediterranei" da oggi on line (scaricabile gratuitamente) contiene, fra molti scritti interessanti, anche un dialogo - sulla praticabilità della nonviolenza come alternativa alle pratiche violente -  fra due miei cari amici: Massimo Paterni e Andrea Cozzo. Questo il link per regalarsi la lettura di questo scambio denso e intenso: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-nonviolenza-oltre-i-pregiudizi-in-dialogo-con-andrea-cozzo/


martedì 7 gennaio 2025

LA MISTICA NON ESONERA DALL’ETICA ELEMENTARE

 (La rivista "Adista" chiede periodicamente ad alcuni laici di commentare, liberamente, un brano evangelico della liturgia domenicale. Questa volta mi è stato chiesto di chiosare Luca  3, 15 – 16. 21 -22, la pagina sul battesimo di Gesù ad opera di Giovanni che verrà letta domenica12 gennaio 2025 nelle chiese cattoliche).


L’autore di questo brano scrive a decenni di distanza (più o meno, mezzo secolo) da quando si sarebbero svolti gli eventi narrati. Questo lasso di tempo è già da solo un motivo sufficiente per suscitare l’interrogativo di molti biblisti: si tratta davvero, come sembrerebbe a prima vista,  di una “narrazione” di “eventi” ? O non piuttosto di una fiction, di una invenzione letteraria a scopo didattico?

In questa seconda prospettiva (sempre più accreditata dagli studiosi) la comunità credente evangelizzata da Paolo e dalla sua cerchia di discepoli - fra cui Luca cui è attribuito il terzo vangelo canonico – sarebbe alle prese con una domanda: perché seguiamo la “via” di Gesù e non di altri “inviati” che, nella stessa fascia temporale, hanno speso la vita per rinnovare la migliore tradizione profetica e liberare il popolo da un regime di ingiustizie e corruzioni, di cui la dominazione romana appare conseguenza, sigillo e concausa? In particolare: che cosa ci distingue dai movimenti socio-religiosi che si rifanno alla intensa, efficace, predicazione di Giovanni l’eremita?

Suppongo che, sul piano esclusivamente storico, non sarebbe stato facile rispondere. Infatti sia Giovanni che Gesù hanno invitato entrambi alla conversione, all’equanimità, al rispetto della dignità di chiunque altro, al servizio generoso della comunità: ad appianare i picchi dell’orgoglio e a colmare i vuoti dell’indigenza (Lc 3, 3 – 6).

 Ma tra la vicenda storica di Gesù e questo testo evangelico si è inserito, con potenza di genio e di afflato mistico, Paolo di Tarso: un fariseo colto a cui non interessava il Gesù “secondo la carne” (che per altro non aveva mai incontrato de visu) (2 Cor 5,16)  quanto il Cristo della sua interpretazione teologica. E’ da questo angolo di visuale che Luca – o chi per lui – costruisce retrospettivamente il racconto del battesimo di Gesù: non per riferire un episodio storico, quanto per annunziare la convinzione di fede che il Maestro fosse stato non uno dei tanti (pur benemeriti) “messia”, ma “il Figlio” per eccellenza, inondato dallo Spirito santo divino. Siamo ancora lontani dalla dottrina trinitaria (così come sarà sistematizzata dal IV secolo in poi), ma ci si avvia in quella direzione: un processo di enfatizzazione che, al suo apice, ha addirittura imposto come dogma che l’Unto fosse una “persona” divina, non umana, e dunque ontologicamente incomparabile con qualsiasi altro mortale.

Oggi gli sviluppi teologici sulla persona di Gesù intrigano poco, specie perché troppo spesso in questi due millenni hanno distratto dal nucleo originario del suo annunzio: che alla Fonte della vita (= Papà) sta a cuore la convivenza armoniosa degli esseri umani su questa Terra segnata già da troppe ferite laceranti. Come scriveva Kierkegaard in una sua preghiera, Cristo non vuole essere “ammirato” o “adorato” da noi, bensì “imitato”. Possiamo aggiungere dunque che, se una persona riesce ad avere visioni soprannaturali e ascensioni al terzo cielo grazie al suo rapporto spirituale con Gesù Cristo, ben per lei (cfr. 2 Cor 12, 1-7). Ma a patto che simili esperienze straordinarie non scavalchino, bypassandoli, i modesti doveri ‘laici’ quotidiani raccomandati dal Battista e dal Gesù storico: condividere le proprie tuniche e il proprio cibo; non abusare del potere nell’esercizio del proprio ufficio; non perseguire l’arricchimento a costo di disonestà e prepotenze (cfr. Lc 3, 10 – 14). Di santi, mistici, carismatici, fondatori di congregazioni e simili, incapaci di rispettare la grammatica elementare dell’etica naturale, ne abbiamo avuto abbastanza: adesso avvertiamo il desiderio di sana ‘normalità’.

Augusto Cavadi

“Adista/Notizie”, n. 44 del 21.12.2024

lunedì 6 gennaio 2025

VERSO UN INFINITO AL DI LA’ DELLE MOLTE RAPPRESENTAZIONI DI “DIO”

Quando ho avuto fra le mani il volume di José Arregi, L’infinito prima di Dio. In transizione: liberare il mistero divino dalle immagini umane (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) mi è affiorata alla memoria la risposta che un musicista di fama internazionale (purtroppo non ne ricordo più il nome) diede all’intervistatore che gli chiedeva se credesse in Dio: “No, non in Dio. Ma in qualcosa di più grande”. In quella risposta di anni fa, come in questo libro appena pubblicato, si staglia ineludibile una questione: se una persona afferma l’esistenza di Dio, una seconda la nega e una terza si dichiara in dubbio, intendono tutte e tre la stessa ‘cosa’ con la parola “Dio”? E’ molto probabile che non solo l’ebreo ortodosso avrà una sua idea di “Dio” differente dall’induista devoto, ma così avverrà tra due cattolici o tra due luterani: forse ognuno di noi è ateo rispetto al Dio degli altri sette miliardi di abitanti del pianeta.

Se “tutte le credenze, le immagini e le forme riferite a Dio non sono altro che (…) una costruzione collettiva e culturale” (p. 63), la prima operazione da compiere è una sorta di ascetica intellettuale: distaccarsi dalla propria idea di Dio, accettare che sia una delle molteplici possibili, senza pretendere nessuna esclusività. Questo movimento – che l’autore come altri chiama “post-teismo” o preferibilmente “trans-teismo” – invita tanto il teista quanto l’ateo a spostarsi su un piano differente: che è l’al-di-là, o meglio l’al-di-qua, di ciò che abitualmente pensiamo quando pronunziamo il nome di Dio. Invita a lasciarsi alle spalle, soprattutto, l’immagine divina del monoteismo biblico, irrimediabilmente segnata dall’antropomorfismo: un Super-man, o un Super-Ente, che segue in diretta i comportamenti di miliardi di umani, prende nota di meriti e demeriti di ognuno/a in vista del giudizio finale, interviene miracolosamente ogni tanto per dare qualche segnale della sua onnipresenza solitamente invisibile. (Nel tratteggiare questo identikit divino Arregi cede alquanto al gusto della caricatura, ma non si allontana molto dalla rappresentazione mediamente più diffusa tra sedicenti credenti e sedicenti atei).

Questo trascendimento delle teologie umane, troppo umane, è ciò che hanno operato nei millenni i mistici inseriti nella varie tradizioni religiose: Arregi ricorda, a titolo esemplificativo, il Brahman-Atman degli induisti (pp. 110 – 115), l’En Sof della Cabala ebraica (pp. 116 – 122), la Deità di Maestro Eckhart (pp. 127 – 133), ma anche i teologi della “morte di Dio” (Hamilton, Altizer) e/o della “secolarizzazione” (Cox, Robinson) del Novecento (pp. 133 – 134) , in particolare  Dietrich Bonhoeffer con la sua ferma convinzione che “Dio stesso” ci chiede di “vivere nel mondo etsi deus non daretur” (pp. 134 – 135).

In questa prospettiva apofatica, di silenzio estatico, si può ancora distinguere chi ha fede (o crede di credere) e chi non ha fede (o crede di non credere)? Se avere fede o credere significa accettare per fiducia in un testimone (Mosé, Gesù, Paolo, Maometto…) delle informazioni sopra-razionali sull’identità del Divino e sui suoi progetti, allora aderire al trans-teismo significa abbandonare la fede dell’ortodossia tradizionale cattolica (e più in generale cristiana). Non così, invece, se per fede  s’intende  la “fiducia profonda che sostiene la vita o l’essere nel suo costante movimento, nelle sue gioie e nelle sue delusioni, nelle sue luci e nei suoi smarrimenti”; come “dono del nostro essere profondo al referente ultimo, al Mistero a cui tutte le nostre parole si riferiscono, al di là delle parole” (p. 63).

Poiché i vocaboli hanno una storia, che non si può tralasciare o modificare a piacimento,  mi pare istruttiva la tendenza a sostituire i termini “fede” e “credere” con “spiritualità”:  almeno se questa parola viene interpretata a-confessionalmente, come una postura che “non richiede la negazione di dio e delle sue immagini, o di credo e preghiere, ma neppure ha a che fare con il credere o il pensare che esista un Ente supremo e offrirgli un culto”. E’ piuttosto la convinzione esperienziale che un “Soffio” “percorre e muove l’universo in direzione della sua realizzazione autentica, dell’autenticamente reale, della bontà felice universale che è in tutto come presente eterno in divenire”; “consiste nell’attingere a questo Soffio e offrirlo, inspirarlo ed espirarlo” (p. 69).

L’adozione del termine “spiritualità” in questa accezione può suscitare legittime perplessità: potrebbe suggerire che in essa non siano comprese quelle persone che, pur  vivendo con sincerità la ricerca del vero e con passione la pratica del giusto, non sono tuttavia convinte che l’universo sia animato da qualche Soffio e in cammino verso qualche meta. Ma probabilmente non è questo il pensiero autentico di Arregi dal momento che in altre pagine del medesimo volume cita – condividendone la tesi centrale -  il libro di A. Comte-Sponville su Lo spirito dell’ateismo nel quale il filosofo francese limita la sua “esperienza mistica” a “un sentimento di unione indissolubile con il grande Tutto, o di appartenenza all’universale” (pp. 158- 159), senza nessun presentimento di evoluzionismo più o meno teleologico.

Ciò che apprezzo senza riserve è invece la preoccupazione dell’autore di non schiacciare  il trans-teismo su alcune posizioni, antiche e contemporanee, ‘spiritualistiche’ che legittimano, o addirittura impongono, la fuga dall’impegno storico-sociale e il rifugio in zone interiori confortevoli. A suo parere, infatti, la “spiritualità”  - di cui si sono fatti promotori vari movimenti di riforma nel passato e di cui c’è urgentissimo bisogno nel presente – dev’essere certamente “mistica oltre le credenze e le divinità”, ma anche “etica di fronte al culto e  alla dottrina”, “critica rispetto al dogma e al tempio”, “profetico-politica libera dinanzi a ogni immagine e a ogni alleanza fra trono e altare” (pp. 103 – 104).  

Augusto Cavadi

* Per la versione originaria illustrata, basta un click:

https://www.zerozeronews.it/lenigma-esistenziale-dellinfinita-di-dio/

venerdì 3 gennaio 2025

ELOGIO, CON QUALCHE CAUTELA, DELLA CREATIVITA’

 

Parole come “creatività” occupano, semanticamente, il filo sottile fra due vuoti: la banale genericità dell’ovvio, da una parte; l’elitaria eccezionalità, dall’altra. Infatti ci ripetiamo ora che creativi lo saremmo tutti ora che lo sarebbero alcuni geni canonizzati.  Questa polarizzazione non mi convince. Per evitare di dire, con il medesimo vocabolo, troppo o troppo poco può riuscire istruttiva la chiave ermeneutica (di origine aristotelico-medievale) dell’analogia : creativi lo siamo tutti i viventi, ma ognuno a modo suo, in parte simile e in parte (ancora maggiore) dissimile da ogni altro vivente.  Le formiche della villa comunale manifestano, indubbiamente, creatività nel costruire il formicaio; ma una creatività che somiglia soltanto, senza uguagliarla, alla creatività degli architetti della Firenze rinascimentale. In entrambi i casi dei soggetti trasformano una materia donando emergenza a qualcosa di novum, di inedito; ma il grado di questa novità non è il medesimo. Il ruolo della soggettività autrice, infatti, può andare da livelli minimi – per cui si riproduce nei secoli un prodotto pressoché uguale – a livelli massimi di originalità, sino alla vera e propria unicità irripetibile, inimitabile.

Se adottiamo questa griglia interpretativa non è difficile riconoscere nella categoria “creatività” una costellazione di qualificazioni positive, al punto che spesso usiamo l’aggettivo “creativo” in un’accezione immediatamente laudativa. La vita dei singoli e le vicende dei popoli scorrono di solito con monotona ripetitività, per cui risulta spontaneo salutare con compiacimento ogni gesto che introduca qualcosa di “nuovo sotto il sole”: il combinato disposto di tradizionalismo e di conformismo costituisce una cappa di grigiore omologante insopportabilmente soffocante.

Contro la divinizzazione della creatività

Come tutti i valori, anche la creatività è esposta al rischio dell’acritica enfatizzazione retorica. Peggio: se assolutizzata, può capovolgersi in disvalore. D‘altronde, se è uno dei modi in cui si manifesta l’intelligenza, non c’è da stupirsi che ne condivida l’ambivalenza: di per sé è un bene, ma ne possiamo fare un uso spregevole (specie quando la disconnettiamo dall’insieme delle nostre potenzialità umane: come notava Chesterton, c’è una forma di pazzia che consiste nel perdere tutto tranne la ragione).

Le serie televisive ‘gialle’ statunitensi abbondano di esempi spiazzanti di creatività criminale: suppongo che non tutti siamo d’accordo nel considerare  un’abilità ammirevole inventare metodi inediti di tortura di vittime innocenti. In campi un po’ meno perniciosi, come il marketing, assistiamo nelle tecniche pubblicitarie a manifestazioni di creatività originale di cui faremmo volentieri a meno per rispetto della nostra salute fisica (quando mirano a farci ingurgitare alimenti poco dietetici) o dell’immagine pubblica della donna (quando viene rappresentata come merce apri-pista di altre merci).  

Tra intellettuali e artisti finalizzare la creatività all’originalità può diventare un’ossessione oscillante fra il patetico e il ridicolo. Già nel Settecento Rousseau stigmatizzava la tendenza di numerosi suoi colleghi a voler apparire a tutti i costi diversi dagli altri. Tutti noi abbiamo nella cerchia dei nostri conoscenti qualcuno che interviene nelle discussioni prima di tutto, o addirittura esclusivamente, per contestare un’affermazione, prenderne le distanze, proporre un’alternativa: come se riconoscere la particella di vero nelle opinioni altrui fosse indice di scarso acume critico!  E ai primi anni di università uno dei miei docenti di filosofia, Armando Plebe, diceva – e scriveva – che il filosofo dev’essere come il clown che irrompe in un contesto spiazzando gli astanti con trovate inaspettate. Un suo collega, Nunzio Incardona, non teorizzava questa strategia stupefacente, ma la praticava: le sue lezioni, come i suoi testi, erano zeppe di neologismi fantasiosi collegati da una sintassi ardita.

Bertold Wald ha riferito, a proposito di un pensatore importante nella mia formazione, Joseph Pieper (“per l’alta tiratura dei suoi scritti e l’ampio numero delle traduzioni, egli è il filosofo tedesco più letto del ventesimo secolo”), che nella cerchia dei discepoli di Martin Heidegger (dove “bizzarria speculativa e stravaganza terminologica venivano e vengono ancor oggi considerate come segno distintivo dell’argomentare filosofico”) si diceva: “Joseph Pieper? Tutti lo capiscono – questa non è filosofia”.

Spero sia chiaro che non sto tentando alcuna apologia della banalità. Sto solo denunziando alcuni metodi truffaldini per camuffarla, come appunto la creatività apparente. E’ pacifico che per dire cose nuove si debbano (e dunque si possano) creare parole nuove; ma è disonesto intellettualmente inventarsi parole nuove solo per non far notare di dire cose vecchie. Tra l’altro è un trucco superfluo perché anche le cose antiche possono essere dette creativamente se usiamo le parole antiche con autenticità, avendole incarnate e ri-create. Già: è importante sottolineare il nesso autenticità-creatività-originalità. Proverei a formularlo in questo modo:  quando si crea con autenticità (cioè con fedeltà alla propria ispirazione) si risulta comunque originali. Aggiungerei che l’originalità (che può – non: deve – risultare esotica, extra-ordinaria) è in ogni caso un effetto collaterale, non un obiettivo da perseguire in se stesso.

Dopo aver citato Luc de Clapiers de Vauvenargues – “Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità” – Pierre Hadot così chiosa: “Ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili a capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma precisamente, per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste <vecchie verità>” (per questa citazione, e le precedenti di questo paragrafo, rimando al mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131 – 135). Non so se ci attende un Aldilà in cui ciascuno conserverà la memoria della propria storia, ma so che – se così fosse – ci sarebbe da divertirsi lungamente nello scoprire che la creatività narcisistica ed esibizionistica di un Vittorio Sgarbi è solo la parodia della creatività di quelle migliaia di insegnanti di arte che, ogni giorno come se fosse per la prima volta, hanno parlato di bellezza artistica ai loro alunni con amore sincero e competente. E solo per questo sono stati in grado di contagiare la propria quieta passione.

 

L’humus  (nascosto) della creatività

Talora la nozione di creatività si oppone a nozioni che ne denominano invece dei presupposti irrinunciabili.

Un caso tipico è l’opposizione creatività/tradizione. Non c’è creatività senza innovazione e dunque senza tradimento di ciò che si è ricevuto in eredità. Ma è proprio il patrimonio (materiale e simbolico) tramandato che può suscitare dialetticamente l’inventiva. Chi è privo di memoria rischia di scambiare per creazione inedita ciò che è già stato visto, criticato, superato: di sbandierare come proprio merito “la scoperta dell’acqua calda”.

Abbastanza simile l’opposizione creatività/tecnica. Dal Rinascimento italiano del Cinquecento in poi abbiamo imparato a distinguere il diligente artigiano, che padroneggia tecniche faticosamente apprese, dal fantasioso artista che fa saltare il tavolo e impone nuove regole di gioco. Ma quando si ascoltano questi rivoluzionari si apprende – come si esprimeva ad esempio Picasso – che ci vuole una vita per imparare a dipingere con la spontaneità creatrice di un bambino. Solo chi ha avuto la pazienza di seguire le prescrizioni canoniche può trasgredirle efficacemente: nessun aereo decolla senza aver accettato di strisciare terra-terra su una pista per tutto il tempo necessario.

Creatività ad intra

Sinora abbiamo riflettuto sulla creatività ad extra, come attività transitiva. Essa presuppone, per certi versi, e contribuisce a realizzare, per altri, la creatività ad intra: l’auto-creatività. E’ vero infatti che l’azione è effetto e manifestazione di ciò che si è (agere sequitur esse); ma direi essere altrettanto vero che si è ciò che le nostre azioni – specie se ripetute – ci rendono (esse sequitur agere). Siamo originariamente e radicalmente “dati” – donati – a noi stessi, ma non in un assetto definito al punto da essere esonerati dal plasmarci, dal ri-formarci, dal co-crearci.

Neanche questa accezione soggettiva, personale, di creatività va mitizzata. Da una parte dobbiamo essere fieri di ciò che siamo diventati: non dobbiamo vergognarci delle nostre caratteristiche peculiari, della nostra originalità, e immergerci nella massa per mimetizzarci. Si ricorda come molto saggia la richiesta dell’attrice Anna Magnani a un suo truccatore: Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!”. Tuttavia questo sano orgoglio di essere ciò che si è – e se è il caso di pagare in termini di emarginazione la propria inventività pionieristica, catacronistica - non deve necessariamente includere tutti i propri difetti, specie se dai risvolti oggettivamente – e socialmente – sgradevoli. Da qualche parte mi è capitato di leggere: “Sei unico, sii te stesso! Ma se capisci che sei uno stupido, non insistere”. Uno stolto che, creativamente, si eserciti ad esserlo ogni giorno di meno non perde di originalità: si limita a modificarne i tratti. Da ex-insipienti si può essere unici come, e più, che da insipienti.

 

Augusto Cavadi

 

“Le nuove frontiere della scuola”, n. 65, Dicembre 2024, pp. 9 – 12.