martedì 26 settembre 2023

DOMENICO CARACCIOLO, L'ILLUMINISTA CHE CHIUSE IL TRIBUNALE DELL'INQUISIZIONE IN SICILIA


“Il Gattopardo”

Giugno 2023

ASPETTANDO UN GOVERNANTE ILLUMINATO

Dal 1781 al 1785 la Sicilia è stata retta, come viceré dei Borbone, da Domenico Caracciolo. E' un illuminista, in contatto con i circoli progressisti di Napoli e di Parigi, e quando arriva nell'isola reagisce con il senso critico di ogni visitatore intelligente. Con amara ironia nota, fra gli impiegati statali e la gente comune, “tanta rilasciatezza di disciplina e tanto disprezzo delle leggi” che “farebbero cadere le braccia al Cristo del Carmine”. Questa disaffezione civica è trasversale, soprattutto fra “gran signori” e “miserabili”: infatti la Sicilia è “abitata da oppressori e oppressi”, senza “classe intermedia”.

Caracciolo non si limita alla denunzia, ma s'impegna con decisione nel tentativo – solo parzialmente riuscito – di cambiare le cose: indice un censimento per ripartire più equamente le tasse, colpisce l'arroganza e l'impunità dei baroni, riesce perfino ad abolire la giurisdizione del Santo Uffizio e le conseguenti condanne al rogo per eresia (vera o presunta). Con una lungimiranza non sempre condivisa dagli amministratori dei secoli successivi, si preoccupa di “costruire un bel teatro per li vivi ed un campo santo per i morti”. E' mentalmente così aperto da auspicare “una storia saracena”, “utile per sapere quale incremento e quale progresso ebbero le scienze nelle mani degli Arabi, li quali le sostennero nel X secolo, mentre esisteva fra noi la massima oscurità”. Ciò che lo amareggia maggiormente è “la resistenza di quei medesimi li quali si vorrebbero sollevare e liberare dalla tirannia dei potenti; tanto la lunga servitù degrade l'âme, onde più non risente il peso delle catene”.

A 250 anni di distanza sarebbe splendido che un re lontano inviasse nell’isola un amministratore così saggio. Ma siamo in democrazia e solo un corpo elettorale più informato, e meno servile, può scegliere – tra la folla di candidati variamente qualificati – i più adatti a coltivare il “bene comune”.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 23 settembre 2023

QUALCHE RIFLESSIONE SULLO SCRIVERE E DINTORNI

 














Prefazione

UNA PISTA DI LETTURA (FRA MOLTE POSSIBILI)

 

 

Se fossi un bibliotecario avrei qualche difficoltà a collocare nello scaffale opportuno Il paradiso e la scrittura di Guglielmo Peralta. Antropologia, metafisica, critica letteraria, epistemologia, etica, teologia? O più semplicemente, e più radicalmente, esercizio di scrittura poetica?

Questa trasversalità di generi, che infastidisce i funzionari dell’accademia, costituisce per me – invece – una ragione di fascino. È come surfare su una distesa marina con venti incostanti e talora contrastanti: tutto un gioco di tirare e lasciare, governare e abbandonarsi.

Si comincia da dove non si può non cominciare se si vuole essere rigorosi, pur nella elasticità del nomadismo intellettuale: dall’Inizio (o, come dicevano i più anziani tra i miei professori universitari, dal Cominciamento). Cioè dal Nulla inteso non come negazione, bensì come possibilità, di ogni esistente: quel Caos originario, secondo molti scienziati, o quel Grembo originario, secondo molti pensatori, da cui è scaturito – anzi, scaturisce momento per momento – tutto ciò che, sia pur precariamente, resiste alla voragine del niente. Allora attenzione alle trappole linguistiche dei catechismi e delle catechesi: “Dio ha creato dal nulla” significa che ha tratto solo da sé stesso, e da null’altro, ciò che esiste. Questa lettura eradica da ogni monoteismo qualsiasi traccia di nichilismo: l’essente, lungi dall’essere intrinsecamente nihil, è sprazzo che sprizza dal Nulla/Tutto. E se, con i Greci, chiamiamo Physis (Natura) la matrice da cui si genera (nasce) ogni ente - anche gli dei e i valori - possiamo intercambiare le parole Nulla e Natura per indicare quel Fondo/Fondamento che si dà a vedere e a toccare nei suoi raggi, nei suoi effetti, mai in sé stesso.

Questo scenario metafisico – nel senso di ontologico/teologico – non è senza ricadute antropologiche: anche la mia morte, come ogni dissoluzione fenomenica, è un ritorno al Nulla che non deve atterrirmi: in realtà è ritorno al Tutto da cui anch’io derivo. Ci aveva già avvertito Bernhard Welte nel suo La luce del nullaSulla possibilità di una nuova esperienza religiosa. In ogni sua opera lo ha ribadito, in termini più monistici, Emanuele Severino. Che riprende – mi pare senza dichiararlo – il Nulla buddhista (o, per lo meno, di certo buddhismo) cui, invece, si appella esplicitamente Francesco Dipalo nel suo Nulla e dintorni. Aforismi per un anno.

Questo percorso di pensiero nega il principio di non-contraddizione aristotelico? Peralta lo afferma (p. 6), io ne dubito: infatti, Aristotele non è Hegel e si occupa, modestamente, dell’ente, non dell’Essere. Comunque avrebbe, forse, obiettato che se muta “il punto di vista” (o se muta “il tempo”), non si dà contraddizione. Il Nulla, che da un certo angolo di visuale (in quanto origine originante), è Nulla, da un altro punto di vista (in quanto totalità degli originati) non è Nulla, ma Essere. Con Giordano Bruno si potrebbe dire che nell’unica Divinitas si possa distinguere il Deus supra omnia dal Deus in omnibus. In ogni caso, il lettore avrà anche qui materia di meditazione speculativa per arrivare a una sua propria convinzione.

Ma, se torniamo al Nulla, esso ha molto in comune con la Poesia: entrambi sono Sorgente invisibile del visibile, Suono inudibile da cui deriva l’udibile. Se consideriamo la morte come la porta d’ingresso nel Nulla, essa mostra la sua affinità con la Poesia: “di entrambe non abbiamo esperienza ma solo una rappresentazione (il cadavere, il funerale, per quanto riguarda la morte; le opere, le produzioni dell'arte, le belle forme della natura, per la Poesia)” (p. 6).

In questo scenario, la scrittura – e in generale l’opera – è “l’apertura verso l'Infinito, il modo di essere in questo spazio: artisticamente e spiritualmente, umanamente aperti infiniti incompiuti ” (p. 7). Incompiuti noi, incompiute le nostre opere: “Tracce del cammino verso il Dire originario sono le parole, in quanto segni mentali, illuminazioni, istanti di grazia che rischiarano l'oscurità e ci mettono_in ‘contatto’ con_quella sorgente che è_la Poesia” (p. 8).

Precisiamo subito: qui “poesia” non è, riduttivamente, la produzione letteraria in versi ma, più ampiamente (secondo la lezione di Benedetto Croce), ogni attività spirituale: “la Poesia è il Principio creativo, la Weltanschauung universale, l’infinito campo semantico, la Poiesis; pertanto, essa è, e in-veste tutte le espressioni dello spirito; è, ed incarna tutti i saperi, le esperienze, le discipline. I grandi sistemi filosofici, le scoperte della fisica e dell’astronomia, i teoremi della matematica, i fondamenti e gli sviluppi della geometria, le conquiste della medicina, il progresso tecnologico, sono il frutto del fare, del progettare poeticamente. Nessuna conoscenza è possibile senza l’immaginazione creatrice, e là dove c’è creazione c’è stupore, meraviglia. E, dunque, c’è Poesia!” (p. 21).

La partita non si gioca solo fra l’autore e la sua opera: “l’evento impronunciabile della poesia” “alberga” nel “felice accordo tra l'orecchio dell'interprete e la voce interiore del testo” (p. 10). Difficile non ritrovarsi nella mente il circolo ermeneutico (Dilthey, Heidegger, Gadamer), ma Peralta avverte che questo circolo non avrebbe principio (nel doppio senso di inizio e di fondamento) se non fosse preceduto da ciò che egli chiama il “circolo poiesico” in cui si consuma il corpo a corpo fra il poeta e la “presenza/assenza dell'essere” chegarantisce e rende incessante il processo creativo” (p. 11).

È facile intuire che, in questo contesto, nell’esperienza poetica c’è qualcosa di sacro. Ma il sacro non è il santo, è più comprensivo: accade anche là dove non c’è consapevole accettazione da parte dell’umano. In questo senso, mi pare, Peralta può affermare che “Nell'opera, infatti, il ‘divino’ si dis-vela, è presenza_e_assenza._L’amore_che_lega_il_poeta_alla_Poesia_non_è necessariamente un_rapporto_di_fede_religiosa._Per_questo esistono poeti_‘maledetti’ e _miscredenti,_e tuttavia grandi._La Poesia non distingue tra i suoi eletti e, benché li governi, lascia loro libero arbitrio e libertà di espressione” (p. 13).

Ma arriviamo al titolo del libro: chi produce e/o fruisce della poesia è un “nuovo Adamo” che torna a_“contemplare,_ad_essere per la Bellezza”. Egli fa_del “giardino_della_scrittura”_il nuovo “paradiso_terrestre”, realizzando così “la ragione_e_il_fine_della_scrittura_medesima” (p. 19).

Perché ho accettato di scrivere queste righe?

Nell’illusione che possa indicare una possibile traccia di lettura. Ma devo avvertire che Peralta ha scritto intorno alla Poesia su un registro linguistico poetico e, dunque, un lettore meno prigioniero di me dell’armatura logico-razionale (alla quale risulta ostico concepire lo stato attuale dell’umanità come effetto di una “caduta” piuttosto che come tappa prodigiosa di un’ambigua “evoluzione”) saprà scoprirvi – se disposto a ‘ruminare’ più volte queste pagine - valenze molto più profonde. Non potrei formulare augurio migliore, suppongo anche a nome dell’autore di questo testo così ispirato e così evocatore.

 

 

lunedì 18 settembre 2023

DIFENDERE LA FAMIGLIA, LA NAZIONE, L'IDENTITA', DIO. MA DA CHI?

“Difendere le famiglie, le nazioni, le identità, Dio”: questo – secondo le dichiarazioni a Budapest della nostra presidentessa del Consiglio dei ministri - il centro dell’azione del suo governo. L’intento è lodevole, ma, per non suonare genericamente retorico,  andrebbe meglio articolato.

Che significa “difendere le famiglie”? Chi le sta attaccando? Vanno difese dall’inflazione, dai livelli salariali più bassi dell’Occidente, dal quasi totale azzeramento del sistema sanitario pubblico ? E allora è compito di tanti pezzi del ceto dirigente, in primis dei partiti che si avvicendano sia come maggioranze parlamentari (potere legislativo) che alla guida del governo (potere esecutivo). Ma da troppe voci provenienti dall’area culturale e politica oggi in cabina di comando si intende difendere la “famiglia” dalla diffusione sociologica – e tendenzialmente giuridica – di altre forme di legami sessuali e/o affettivi alternative alla famiglia monogamica eterosessuale tradizionale. In questa seconda interpretazione, la famiglia tradizionale (per intenderci, il modello da cui si tengono lontani i due maggiori leader della maggioranza attuale: Meloni e Salvini) non ha bisogno di essere difesa: è uno di modelli storicamente succedutisi nella storia occidentale, ha i suoi pregi e i suoi difetti e, pur essendo perfettibile, è tuttora imitato da quei soggetti (ad esempio persone omosessuali) che chiedono il riconoscimento legale della loro convivenza, con i diritti e i doveri conseguenti. 

Che significa difendere le “nazioni”? La globalizzazione economico-finanziaria, cui plaudono gli elettori del Centro-destra, non può non comportare una globalizzazione simbolico-culturale: essa corre certamente il rischio di essere una “americanizzazione” (statunitense) del globo, ma implica la felice possibilità di fare finalmente dell’umanità un’unica grande nazione (pacifica, solidale, cooperativa).

 

Che significa difendere le “identità”? Ogni popolo vivo è caratterizzato da una identità multipla nel tempo e nello spazio: proprio noi italiani, che siamo un esempio di mescolanza di fenici e di greci, di romani e di barbari, di arabi e di normanni, di spagnoli e di francesi…dovremmo aver paura delle contaminazioni straniere? E’ ovvio che i flussi migratori vadano regolati (prima di tutto per la sopravvivenza fisica e psichica degli stessi migranti) in un’ottica europea ed è ovvio che, una volta accolti, debbano rispettare con estremo rigore le Costituzioni democratiche (in tutti gli ambiti, a cominciare dalle relazioni di genere): ma da questo a parlare di difesa dei “confini della Patria” da poveri disperati come se si trattasse di feroci invasori c’è un abisso.

 

L’ultima vittima potenziale dei nostri giorni sarebbe “Dio”. Qui le parole davvero abortiscono in mente prima di trovare espressione verbale o scritta. I governi della Meloni e di Orban vogliono difendere Colui che – nella loro teologia – è il Creatore dell’universo e il Signore della storia? Da chi? Da coloro che invece di chiamarlo Padre lo chiamano Allah o Jahvé? Da coloro che non lo chiamano perché lo hanno cercato e non l’hanno mai trovato? Da coloro che, avendolo cercato a lungo, hanno scoperto di essere già da sempre nel suo Grembo infinito e che solo un silenzio adorante può costituire una lode adeguata? Se l’opinione pubblica fosse ancora in grado di riflettere, avrebbe non poco da preoccuparsi di un governo che – in cerca di nemici a tutti i costi – arriva a stabilire chi sia davvero Dio e quali siano i suoi avversari. Anche a Sua insaputa.

Augusto Cavadi

 

www.adista.it

17.9.2023

giovedì 14 settembre 2023

L'EREDITA' ANNACQUATA DI DON PINO PUGLISI (recensione di Antonino Cangemi)



L'EREDITA' ANNACQUATA DI DON PINO PUGLISI

by Antonino Cangemi

Un giorno fatidico, il 15 settembre, per don Pino Puglisi: ne segna la nascita nel 1937 al quartiere Brancaccio di Palermo, e la morte nel 1993 – trent’anni fa – nello stesso quartiere per mano mafiosa.

La sera del 15 settembre 1993 don Pino era appena sceso dalla sua Fiat Uno e stava per raggiungere la sua abitazione in piazzale Anita Garibaldi quando si sentì chiamare da una voce sconosciuta, fece in tempo a girarsi e un killer lo freddò alle spalle con un colpo di pistola alla nuca.

Quel killer, stando alle sue stesse dichiarazioni da collaboratore di giustizia, era Salvatore Grigoli che raccontò d’averlo visto sorridere poco prima di morire e sussurrare “me lo aspettavo”.

La morte del sacerdote e le confessioni del killer hanno ispirato il testo teatrale in versi di Mario Luzi “Il fiore del dolore” in cui l’omicida si strazia nella sofferenza conquistato dal suo sorriso: “Eccolo, è qui, è venuto, / da dove siete entrato? / Non vi ho veduto entrare / eppure siete qui. / Siete voi, padre Giuseppe, / voi / col vostro ultimo sorriso”.

A trent’anni dalla sua morte e a poco più di dieci dalla beatificazione,  Augusto Cavadi e Cosimo Scordato firmano l’interessante saggio “Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione” edito da Il pozzo di Giacobbe.

Da quel sorriso – il sorriso di un uomo mite che, nel nome dei valori evangelici, sfidò cosa nostra – prende spunto il libro di Cavadi e Scordato, filosofo e saggista il primo, da lunghi anni sacerdote di “frontiera” e teologo il secondo.

Ne prende spunto perché Cavadi e Scordato – che 3P, come Puglisi veniva chiamato, hanno conosciuto – nel loro saggio s’interrogano sulle ragioni di quell’omicidio e riflettono sul rapporto, non sempre limpido, tra la chiesa e la mafia con lo sguardo rivolto al passato, al presente e al futuro formulando indicazioni su percorsi da intraprendere e traguardi da raggiungere per la piena affermazione della legalità in tutte le sfere cattoliche, quale antidoto alla criminalità organizzata e alla sua subcultura, e lo fanno tenendo vivo il sorriso di chi predica un vangelo veicolo dei valori di pace, fratellanza, solidarietà, perdono tra gli uomini.

Valori inconciliabili con quelli di cosa nostra – la prevaricazione, l’obbedienza al più forte, il rispetto, l’onore – e che tuttavia non hanno impedito e non impediscono tuttora a molti dei suoi affiliati di considerarsi cattolici e alla chiesa di tollerare comportamenti mafiosi.

La lucida disamina di Cavadi e Scordato parte dall’assunto che tra la chiesa e cosa nostra, il “vangelo e la lupara” (per usare un’efficace espressione che dà il titolo a un altro libro del saggista palermitano) non può che esserci una radicale contrapposizione.

Il rapporto tra chiesa e Cosa nostra – si legge nel saggio – ha conosciuto nel tempo varie fasi: “la compromissione diretta”, “la denunzia profetica”, “la presa di distanza”, e gli autori stigmatizzano, condannandola, l’indifferenza e la tacita, spesso inconsapevole (ma per ciò non meno grave) complicità di chi indossando le vesti sacre non si è opposto a Cosa nostra. Cavadi e Scordato – che trattano il tema in capitoli distinti e con un bagaglio teorico ed esperienziale diverso – sono accomunati da una medesima visione: per loro, per quanto esemplare sia stato il martirio di 3P, la sua beatificazione non giustifica nella chiesa trionfalismi ma, al contrario, deve fare insorgere sensi di colpa: se tutti i preti e i loro superiori gerarchici fossero stati intransigenti nel contrastare cosa nostra e la sua subcultura, l’azione di don Puglisi a Brancaccio – quartiere della periferia palermitana controllato dalla mafia – non sarebbe apparsa isolata.

D’altra parte Scordato ha svolto un’azione parallela a quella di Puglisi: ha fondato il Centro Sociale "San Francesco Saverio" all’Albergheria – altro rione di Palermo “a rischio” – nel 1986 per sottrarre quel territorio all’ingerenza mafiosa, operazione che tentò di realizzare 3P cinque anni dopo col Centro di Accoglienza "Padre Nostro", perdendo la vita.

Che fare dunque per liberare la Sicilia dalla mafia, o comunque tentarci seriamente e indebolirla in modo consistente sradicandola dalle istituzioni anche religiose dove ha trovato riparo? Quale la lezione di Puglisi? Come raccogliere la sua eredità?

Occorre tuttora che la Chiesa, tutta la Chiesa, compia dei passi ulteriori rispetto a quelli già fatti – suggeriti dagli autori – e che sia sempre alternativa alla mafia. Alla fase della “presa di distanza” deve seguirne un’altra, più impegnativa: “La chiesa […] deve diventare spazio di risurrezione, ovvero di un cambiamento reale, che rende improbabile, se non addirittura impossibile […] l’infiltrazione dell’associazione mafiosa o l’invadenza degli atteggiamenti e dei comportamenti mafiosi”.

                                                                         Antonino Cangemi

Per l'edizione originaria illustrata basta un click qua:


mercoledì 13 settembre 2023

LUCA KOCCI SUL "MANIFESTO" RECENSISCE "PADRE PINO PUGLISI" DI A.CAVADI E C. SCORDATO

La presentazione cui si riferisce la chiusa dell'articolo si è svolta regolarmente con un concorso di amiche e amici che mi ha sorpreso e un po' commosso: spero che questi appuntamenti rafforzino chi già si spende, quotidianamente e silenziosamente, per contrastare il dominio mafioso in Italia (e non solo).