sabato 12 ottobre 2024

UN GESTO CONCRETO CONTRO OGNI GUERRA IMMINENTE


Dopo la Seconda guerra mondiale la mia generazione ha avuto il privilegio di essere la prima nella storia dell’umanità a non sperimentare personalmente la tragedia della guerra, ma è stato un privilegio riservato solo alla popolazione di alcune nazioni come l’Italia: fuori da queste oasi il pianeta, quasi nella sua totalità, è stato devastato da centinaia di conflitti bellici (sia interni agli Stati che tra gli Stati). Anzi lo stesso esercito italiano ha partecipato a operazioni di guerra in varie zone del mondo, compreso il Kossovo a poche centinaia di chilometri: solo che le ha travestite da operazioni di pace…

Questa onnipresenza costante della guerra nella storia è da sola un ostacolo quasi insormontabile verso la pace: infatti nella mentalità dominante prevale la convinzione che la guerra sia fisiologica, non patologica. “C’è sempre stata: dunque, ci sarà sempre” – è il ritornello più insistente.

Allora le donne di Palermo che, dal 2022, ogni mese si riuniscono in una piazza con lo striscione ”Fuori la guerra dalla storia” sono delle ingenue utopiste? Dipende se intendiamo utopia come sogno irrealizzabile o come progetto realizzabile progressivamente e forse mia del tutto compiutamente. Solo due secoli fa affermare che la schiavitù era da estromettere dalla storia suonava come utopia in senso negativo; oggi sappiamo che non lo è, anche se è vero che essa non è stato eliminata né completamente (rimane di fatto, anche se non di diritto) né definitivamente (un potere politico totalitario la potrebbe ripristinare con buone probabilità di consenso maggioritario).

Uno dei pensatori italiani più saggi del Novecento, Norberto Bobbio, ha sostenuto (nel suo più volte riedito Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 2022) che ci sono tre vie principali per la pace mondiale e che possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo se le pratichiamo convergentemente, non alternativamente.

La prima è la via militare-diplomatica basata sugli equilibri delle potenze: se ogni Stato, o comunque gli Stati-guida, posseggono su per giù gli stessi armamenti (tra cui le bombe atomiche) è probabile che a nessuno di essi convenga  scatenare la guerra.

Questa via ha due difetti: non può escludere in assoluto che l’improbabile accada (e che la quarta guerra mondiale venga combattuta, secondo l’espressione di Einstein, a colpi di clava) e, soprattutto, che la guerra venga scatenata con tutte le ai possibili tranne le atomiche.

La seconda via è giuridico-istituzionale. Questa forma di pacifismo è figlia di una lunga tradizione: lo si fa spesso cominciare col trattato di Kant  Per la pace perpetua (1795), ma in realtà affonda le sue radici nei primi autori del giusnaturalismo moderno e ne ritroviamo delle interessanti anticipazioni in Erasmo da Rotterdam. “L’idea di fondo di questa tradizione è che il modo più efficace per garantire la pace tra due o più parti confliggenti sia costruire istituzioni giuridiche capaci – cioè aventi l’autorità – di decidere sulle ragioni del conflitto stesso” (T. Greco, Bobbio e la pace necessaria,           www.rivistailmulino.it, 5.3.2022). Una soluzione di questo tipo richiede che i soggetti coinvolti rinuncino ad una parte importante della propria sovranità e siano disposti ad entrare con gli altri in una unione sovrastatuale, come è avvenuto negli Stati Uniti d’America e come avevano proposto i padri dell’Unione europea fin dal Manifesto di Ventotene. Bobbio è convinto sin da giovane che «il federalismo è il principio più profondamente innovatore dell’età contemporanea»: solo  un patto federativo tra le nazioni può autorizzare il Terzo a intervenire, allo stesso modo in cui lo Stato interviene all’interno di un territorio definito.

Sappiamo che l’Onu, pur segnando un progresso rispetto alla Società delle Nazioni, costituisce un abbozzo di ciò che si dovrebbe realizzare per arrivare a istituzioni autenticamente efficaci. Da qui la necessità di una terza via, “etico-finalistica”, fondata sulla capacità umana di evolversi moralmente sino ad arrivare a ritenere universalmente ripugnante ciò che in ere anteriori era praticato abitualmente: ad esempio il cannibalismo. Qui la parola deve passare da Bobbio a un suo caro amico e collega, Aldo Capitini, teorico e operatore della “nonviolenza”. Il filosofo perugino – in sintonia con altri grandi esponenti della nonviolenza – chiarisce alcuni equivoci semantici: primo fra tutti l’identificazione di “conflitto” (inevitabile e talora trasformativo) e “guerra”, che è “la patologia del conflitto, la sua degenerazione violenta” (V. Bartolucci, Costruire la pace, www.rivistailmulino.it , 11.6.2022).  Inoltre

vanno distinte “forza” (che non è necessariamente violenta)  e “violenza” (che spesso non è indice di forza). “Anche l’aggressività, spesso confusa con la violenza, in realtà va distinta da essa. Come ci insegnano gli psicologi, si può essere aggressivi senza essere al contempo violenti. Se non controllata, l’aggressività può certamente sfociare in violenza, ma, se gestita può trasformarsi in determinazione. La distruttività, insomma, è solo uno degli esiti dell’aggressività che, opportunamente incanalata, può essere vitale, creativa e funzionale” (ivi).

Solo alla luce di queste delucidazioni concettuali e linguistiche si possono leggere vari episodi storici, come la resistenza nonviolenta dei danesi all’invasione nazista, che attestano come, “se è indubbiamente vero che la nonviolenza non sempre funziona (…) è altrettanto vero che riesce a conseguire la maggior parte degli obiettivi prefissati più spesso di quanto non faccia la violenza” (ivi). Essa può essere vista come “un ponte immaginario tra il passato definito dalla guerra, che non dovrebbe esserci più ma che c’è ancora, e il futuro, la nuova società che non c’è ancora ma a cui tendiamo” (ivi).

Non è facile, quando già si è immersi nella piena di una guerra, indicare strategie concrete per uscirne: ma è sicuro che non si troveranno se non si cercheranno, convinti che non ci siano alternative tra uccidere e arrendersi. Invece, “i grandi maestri della nonviolenza ci hanno insegnato che la nonviolenza non è semplice rifiuto o mera astensione dalla violenza, né resistenza passiva. Al contrario, è qualcosa di positivo, un fare”, un “trattare l’altro come un essere umano” allo scopo di “riuscire a spostare l’equilibrio morale e, con esso, l’equilibrio di potere” (ivi). Coloro che la praticano “sono spesso tacciati di essere ingenui, pericolosi o addirittura codardi”, laddove forse adottano “l’unica risposta razionale, lungimirante e possibile per una società veramente pacifica. Certo, le numerosissime pratiche di pace, portate avanti ogni giorno e necessarie anche a creare una cultura di pace, rimangono ancora ai margini, oscurate dal fracasso della chiamata alle armi. Sta a ognuno di noi dare loro una voce” (ivi).

In un’ottica preventiva, oggi gli uomini italiani tra i 18 e i 40 anni (la cui leva militare obbligatoria è stata ‘sospesa’ non ‘abolita’) possono compiere un gesto concreto: dichiararsi obiettori di coscienza in caso di chiamata alle armi. Sul sito del Movimento Nonviolento c’è già un modulo predisposto da compilare e spedire con un clic: https://www.azionenonviolenta.it/obiezione-alla-guerra-2/

 

Augusto Cavadi

Centro palermitano del Movimento Nonviolento

 

Versione originaria qui: https://www.girodivite.it/Un-piccolo-gesto-concreto-contro.html

 

martedì 8 ottobre 2024

L'INGRATITUDINE: UN PONTE DAL DONO AL PER-DONO


La cultura del sospetto non ha risparmiato neppure uno dei gesti che compensano la tristezza del vivere: il donare. Gesto che, di primo acchito, colleghiamo mentalmente con un oggetto che passa da una mano all’altra, ma che – se ci riflettiamo anche solo un po’ – implica, o può implicare, il coinvolgimento di un soggetto che si offre. L’ombra del sospetto si estende sia sull’atto del donare qualcosa che sull’atto del donare se stessi.

 

Qualche volta il dono è gratuito

Nel dono di qualcosa, infatti, gli antropologi individuano – al di sotto di un’apparenza di gratuità -  un’intenzionalità interessata: un regalo sarebbe sempre il ricambio di un dono ricevuto nel passato o il pegno di un dono atteso nel futuro. Nella maggioranza statistica dei casi essi hanno ragione e solo un ottimismo antropologico miope può negarlo: il dono gratuito è raro, più spesso è restituzione o garanzia. Tuttavia, parafrasando un motto che si attribuisce a Freud (“In certi casi fumare un sigaro significa fumare un sigaro”), il realismo impone di essere realisti sino in fondo e di accettare che, ogni tanto, inaspettatamente, regalare qualcosa significhi…regalare qualcosa (gratuitamente). Forse, in questo caso, il mantello dell’anonimato nasconde il volto del donante agli occhi del donatario e, nel caso della più pura delle gratuità, il volto del donatario agli occhi del donante. Derrida è arrivato ad affermare,

“paradossalmente e provocatoriamente, che se il dono è possibile, lo è nella forma della sua impossibilità, ovvero il dono può esistere solo non apparendo, non presentandosi come dono, lasciandosi dimenticare, scomparendo nell’inconsapevolezza”[1] .

 Prevedere i benefici per sé non significa perseguirli come fine

Ma, perfino nel dono più disinteressato, non si cela – talora ai propri stessi occhi – il desiderio di provare una gratificazione psicologica ? Non cova il proposito – anche solo inconscio – di regalare qualcosa a qualcuno (fosse persino ignoto) per regalare un momento di gioia, o perlomeno di soddisfazione, a se stessi?

Questa obiezione si configura a maggior ragione quando il donatore offre, più che oggetti, qualcosa della sua soggettività: tempo, attenzione, ascolto, affetto, competenze, solidarietà, cura…Tipico il caso del volontariato: “Ti occupi di doposcuola nei rioni popolari o di animare i pomeriggi negli ospizi per anziani perché sei  soffocato dai sensi di colpa per i tuoi privilegi borghesi…perché muori di noia quando non sei in ufficio…per sentirti moralmente migliore di quelli che, a differenza di te, si possono godere la vita tra i lussi e gli sprechi…”.

Che si doni qualcosa o sé stessi, un vantaggio di ritorno è inevitabile. E’ per una dinamica fisiologica (direi ontologica) che chi dà, o si dà, riceve. Secondo qualcuno, addirittura, è solo dando che si riceve davvero. Ma una cosa è prevedere un effetto, un’altra cosa perseguirlo come fine. Non c’è nulla di patologico nel prevedere che un’esistenza pro-attiva significhi un’esistenza più gratificante, più serena, talora più lieta, comunque più resistente ai colpi del destino. Il donare viene stravolto, snaturato, quando viene attivato in vista dei benefici (psicologici, sociali o addirittura materiali) che possiamo trarne.  In questi casi esso viene ridotto alla misera caricatura di se stesso.

Come distinguere, se è possibile distinguerle, l’(auto)-donazione gratuita dall’ (auto)- donazione pervertita o invertita? Risponderei: per fortuna, se ne occupa la vita. E se ne occupa servendosi dei destinatari dei nostri doni. Più precisamente: servendosi della loro ingratitudine. La letteratura di tutto il mondo, e prima ancora l’esperienza quotidiana, ci attestano come sia rara la magnanimità di chi accoglie un dono senza avvertire risentimento nei confronti del donatore. Di solito è più facile che si risani la ferita infertaci da un’offesa che da un beneficio. Infatti accogliere qualcosa o qualcuno rivela che avevamo uno spazio, un vuoto, un bisogno da colmare: che, almeno per un certo aspetto e in un certo momento, eravamo indigenti.

 

Dal dono all’iper-dono

L’ingratitudine ci spiazza, ci disorienta, ma può anche fungere da test.

 Mi amareggia al punto da farmi pentire del dono offerto? Molto probabilmente la mia era una generosità pelosa.

Mi amareggia, ma non mi convince di aver sbagliato né mi induce alla chiusura in occasioni simili nel futuro? Molto probabilmente la mia era una generosità autentica. Al punto che il dono iniziale si è reduplicato: è diventato bis-dono. Iper-dono. Per-dono. E’ proprio nella misura in cui sappiamo sperimentare, con fatica ma senza forzature, l’esercizio del per/dono che possiamo pesare la nostra effettiva capacità di dono.

Se il dono autentico è già segno e frutto dell’agape – dell’amore davvero gratuito perché privo di qualsiasi forma di ricambio -, l’agape si esprime pienamente nel perdono. Lo nota anche un pensatore ‘laico’ come Salvatore Natoli:

“La virtù, alla fine, nonostante tutto, non può mai essere privata, ma deve essere mossa da un grande, infinito amore per l’umanità. La virtù, per essere efficace, non può non perdonare. Deve saper amare. E, forse, già in questo mondo, si possono generare sementi che possono produrre un’autenticità dei soggetti e uno spazio vero, autentico, non giuridico, di libertà”[2].

Anche qui – contro ogni retorica ‘buonista’ – bisogna ammettere che il per/dono, proprio come il dono, comporta una liberazione del perdonante pari, se non superiore, al sollievo sperimentato dal perdonato (quando questi ne venga a conoscenza e lo accetti sinceramente). Vari studi psicoterapeutici confermano che il perdono è

“lo strumento che la vittima ha per liberarsi dal passato, una risorsa per spezzare quella forma di ‘dipendenza’ che ancora la lega al torto subito e alla persona che lo ha commesso, e favorire così un atteggiamento di compassione, accettazione e armonia nelle relazioni umane”[3] .

 

Ma – contro ogni retorica ‘cattivista’ (se posso coniare un neologismo) – bisogna rassicurarsi: non si può perdonare solo per interesse proprio, principalmente per soccorrere se stessi. Il perdono libera chi lo pratica solo se lo pratica cordialmente: il finto perdono non è solo ipocrita, ma prima ancora inutile. Solo il perdono maturato con autenticità risulta efficace psicologicamente e moralmente per il perdonante.

Qui s’impone una parentesi.

“Perdonare non vuol dire dimenticare, non si tratta di rimuovere dalla propria memoria tutto quello che è accaduto. Al contrario, significa tenere bene a mente quanto è successo, comprendendone gli insegnamenti. (…) Perdonare non è, appunto, giustificare o condonare. E non è neanche una strategia di fuga superficiale motivata dalla fretta di risolvere un conflitto; non si tratta di falsa cortesia e buone maniere che nascondono accuse velate; non è sicuramente un atto di umiliazione, denigrazione di se stessi o perdita di dignità, nella vana speranza di impietosire e provocare senso di colpa”[4].

Se tutto questo è vero, se ne evince che solo chi ha subito personalmente un torto ha il diritto (se vuole, se può) di perdonare – un diritto che non può mai intendersi come dovere di dimenticare, di cancellare gli orrori perpetrati. Lo ricorda tra gli altri il filosofo ebreo Jankélévitch:

 “Come possono i sopravvissuti perdonare al posto delle vittime o in nome dei reduci, dei loro genitori, dei loro familiari? No, non spetta a noi perdonare per i bambini che i bruti si divertivano a suppliziare. Bisognerebbe che fossero i bambini stessi a perdonare”[5].

Chiusa la parentesi, riprendiamo il filo della riflessione: perdonare gli altri per i torti che ci hanno inflitto – ad esempio per la loro ingratitudine - è difficile. Ma ancora più difficile è perdonare se stessi. Anche chi ritiene di assolversi facilmente da errori e sviste, può avvertire un senso radicale di rancore: e, se scava, scopre di provare risentimento verso il proprio io. Troppe occasioni perdute, troppe energie sprecate. Non mi riferisco al “senso di colpa” che è un meccanismo inconscio da curare, di cui liberarci, in quanto riferito a “colpe” immaginarie di cui non siamo oggettivamente responsabili; ma del “senso della colpa” – meglio: “senso delle colpe” – che non ha nulla di patologico perché è consapevolezza, forse irriflessa e confusa, di “colpe” effettivamente commesse da noi.

Tipico, in proposito, il caso dei veterani di guerre (specie se combattute con motivazioni imperialistiche e contro eserciti popolari poco armati, come nel caso delle operazioni belliche degli USA in Vietnam nella seconda metà del XX secolo): persone che, tornate alla vita precedente, non riescono a concedersi quiete, distruggono le relazioni familiari e amicali, sperimentano la depressione sino al suicidio[6].

Secondo qualcuno il vertice del perdono non si tocca quando si concede il perdono ad altri o a sé, ma quando lo si chiede a chi ha commesso il male:

“Perdonare chi ci ha fatto del male e i dolori del passato sembra una sfida estrema riservata a pochi. E se invece osassimo molto di più? Se provassimo a guardare in faccia il peggiore dei nostri nemici, un assassino, un pedofilo, un pluriomicida ergastolano e, occhi negli occhi, avessimo il coraggio di pronunciare quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>? Quattro semplici parole: <<Io ti chiedo perdono>>. Probabilmente anche solo immaginarlo scatenerebbe nella maggior parte delle persone senso di rifiuto e di rabbia. Eppure è proprio quello che faccio con i detenuti che incontro nelle carceri. Ho chiesto perdono a ognuno di loro. Sinceramente. Le lacrime che sono scese dai loro occhi e dai miei raccontano senza finzione quanto ancora lontani siamo, come società, dalla possibilità di comprendere la radice del disagio e del dolore altrui. Un’assoluta mancanza di consapevolezza che emerge ogni qualvolta qualcuno dice: <<Gettiamolo in cella e buttiamo via la chiave>>. E così facendo condanna all’ignoranza se stesso e le persone che ama”[7] .

Anch’io frequento le carceri, ma sinceramente non ho mai sperimentato (per difetto di generosità o forse per senso di opportunità) ciò che Daniel Lumera, ideatore della International School of Forgiveness e della “Giornata Internazionale del Perdono”, racconta. Accolgo con rispetto la sua testimonianza, ma ritengo che essenziale sia non tanto replicarla letteralmente quanto coglierne lo spirito. Che si potrebbe individuare almeno a quattro livelli di profondità.

Innanzitutto significa aver consapevolezza che, a livello ontologico, siamo tutti e tutte legati/e da una comune solidarietà ‘oggettiva’ che ci rende responsabili vicendevolmente. Nessuno è totalmente innocente del male della storia come nessuno ne è in esclusiva l’autore. “L’idea che il male sono gli altri impedisce all’umanità di considerare la propria barbarie interiore” [8]afferma Patrick Viveret. Il che non significa azzerare le differenze di responsabilità nei confronti degli errori storici e delle sofferenze da essi derivate, ma solo che - sino a quando i ‘buoni’ si relazioneranno ai ‘cattivi’ dall’alto di uno scranno di tribunale - non sarà possibile fare spazio alla verità delle cose né, conseguentemente, a una pace durevole.

A livello etico,  viene rivelata la compassione verso il criminale che non sarebbe diventato tale se non avesse sperimentato forti sofferenze. Tale, almeno, la convinzione di Kierkegaard, rilanciata ai nostri giorni anche da Eugen Drewermann, che non si è infelici perché si è peccatori, ma si è peccatori perché infelici: non soffriamo perché ci siamo comportati male in alcune circostanze, ma ci comportiamo male in alcune (o in molte) circostanze perché soffriamo il vuoto di senso, di gratificazione interiore.

A livello etico-politico suggerisce un atteggiamento nonviolento nei confronti dei nostri avversari, anche quando non sono nemici ‘personali’ ma delle nostre comunità civiche: dunque un atteggiamento che non coltiva l’odio come antidoto all’odio; che neppure si limita a tagliare ogni relazione con il colpevole di reato, ma che cerca – attivamente, costruttivamente - il confronto sincero alla ricerca di una evoluzione di entrambi i contendenti verso punti di vista più saggi e più equi[9].  

A livello politico-giuridico rivela la convinzione che nessuna società può pretendere l’osservanza dei doveri da quei cittadini a cui non ha garantito il rispetto dei diritti fondamentali. La legalità è sacra solo quando è giusta. Ed essa è ingiusta quando è “buona solo a imporre doveri senza costruire diritti”; quando è

 “espressione di uno Stato e di una società che non si fanno carico di certe situazioni sociali, che non le seguono per come sono, ma per affermare soltanto come devono essere”[10] .

 

                                                                        Augusto Cavadi



[1] Un’esposizione critica del pensiero di Derrida, in (relativa) contrapposizione a Marcel Mauss, nel capitolo La gratuità e il dono: può il dono essere davvero gratuito?  del volume di F. Giardina, La gratuità. Piacevole agli altri, ma senza un perché e senza uno scopo, Diogene Multimedia, Bologna s.d., pp. 23 – 40.  

[2] S. Natoli, Aver cura di sé in F. Nodari (a cura di), Vizi e virtù, La Compagnia della stampa Massetti Rodella Editori, Roccafranca 2008, p. 54, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 116 – 117.

[3] I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono e della gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza. Le 6 scelte quotidiane per Salute, Benessere e Longevità, Mondadori, Milano 2020, p.103.

[4] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 85.

[5] V.  Jankélévitch,  Perdonare?  , Giuntina, Firenze 2004,  p. 44, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., pp. 165 – 166.

[6] “Qualunque sia la causa del rimorso, è il perdono verso se stessi la chiave dei percorsi terapeutici più efficaci. Gli studi condotti spiegano che questa strada può non essere sufficiente di per sé a guarire le ferite interiori, ma si è dimostrata molto utile nell’agevolare tale processo, aiutando le persone a ritrovare una serenità sulla quale costruire una guarigione più duratura e un rapporto più sano con se stessi e con gli altri” (I. De Vivo – D. Lumera, La scienza del perdono, cit., p. 101).

[7] D. Lumera, Perdono e gratitudine in I. De Vivo – D. Lumera, Biologia della gentilezza, cit., p. 82.

[8] P. Viveret, Che cosa faremo della nostra vita? In E. Morin – P. Viveret, Come vivere in tempi di crisi?, Book Time, Milano 2011, p. 57, cit. in A. Cavadi, La filosofia come terapia, cit., p. 168.

[9] Su questa tematica sterminata vedere, per orientarsi, le pagine 39 – 47 (dedicate alla mediazione familiare, penale, scolastica e comunitaria) in A. Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, Di Girolamo, Trapani 2023 ed anche M. Pignatti Morano, La prospettiva della giustizia rigenerativa in V. Sanfilippo (ed.), Nonviolenza e mafia. Idee ed esperienze per un superamento del sistema mafioso, Di Girolamo, Trapani 2005, pp.47 – 52.

[10] S. Margara, Sul confine del deserto in “Rivista del volontariato”, 5 (2002) X, pp. 10- 11, cit. in A. Cavadi, Legalità, Di Girolamo, Trapani 2013, pp. 26 - 27.

 * Edizione originaria sulla rivista cartacea "Le frontiere della scuola" (n. 64).

domenica 29 settembre 2024

GLI ITALIANI CONTRARI A OGNI GUERRA PROVANO A RACCORDARSI

 Nel 2004 un nutrito gruppo di organizzazioni  (fra cui Arci, Acli, Mir, Movimento nonviolento…) hanno costituito la Rete Italiana per il Disarmo. La dicitura si presta ad equivoci: infatti può suggerire solo un rifiuto (no alle armi), mentre in realtà il coordinamento delle associazioni avanza molte proposte in positivo (tra cui l’istituzione di una struttura statale per la Difesa popolare nonviolenta).  Dieci anni dopo (nel 2014) alla costellazione precedente si è affiancata la Rete della Pace, anch’essa costituita da un considerevole numero di sigle (fra cui Agesci, Auser, Libera, Un ponte per…). Data l’affinità di intenti, le due reti nel 2020 hanno saggiamente deciso di confluire nella Rete Italiana Pace e Disarmo, nel cui sito web ( https://retepacedisarmo.org/) è possibile attingere tutte le informazioni, le documentazioni e i chiarimenti che si possano desiderare.

La breve premessa ‘storica’ per precisare che non tutti i cittadini procedono da emergenza a emergenza, da allarme ad allarme, ma ci sono anche delle minoranze che si intestano delle cause meritevoli di attenzione (come il contrasto alla mafia o alla violenza sulle donne o, appunto, alle guerre) e le perseguono caparbiamente, metodicamente, anche negli intervalli in cui l’opinione pubblica si occupa di altro.

Ad esempio l’appello che da pochi giorni è stato lanciato dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, pur legato alla contingenza degli attuali conflitti bellici, si configura non come  un fungo isolato bensì come una tappa di un percorso che parte da lontano. Nel manifesto si dà voce a quella che, secondo i sondaggi, sarebbe l’opinione maggioritaria nel Paese, anche se i partiti presenti in Parlamento (in qualche caso perfino all’opposizione del Governo) fanno finta di non accorgersene: “Stati e Governi europei hanno scommesso sul riarmo per mantenere la supremazia ‘occidentale’ sul mondo attraverso il rafforzamento dell’Alleanza Atlantica, anziché investire sulla diplomazia, sul dialogo, sul diritto internazionale e sulle Nazioni Unite per affermare un mondo di pace e collaborazione paritaria tra i popoli, anche di fronte a sfide globali come il riscaldamento climatico. Un percorso forzato che arriva addirittura a prospettare i bond comuni europei per l’investimento nelle armi, oppure la proposta di tenere fuori dal patto di stabilità le spese militari. Sembra proprio che l’Europa abbia smarrito la sua mission originaria (basti citare il Manifesto di Ventotene): mentre cresce l'idea di un'Europa come fortezza difensiva da un'umanità inerme che approda ai nostri confini fuggendo da guerre, fame, miseria e cambiamenti climatici, assistiamo attoniti al rafforzamento dei nazionalismi attraverso un miope e pericoloso militarismo, che storicamente nel nostro continente sono stati detonatori di guerre”.

Un riferimento specifico non poteva mancare al “grottesco doppio standard di scelte politiche rispetto alla tragedia che sta avvenendo in Palestina e che ha assunto da tempo proporzioni sconvolgenti e inaccettabili”: mentre si decidono “comprensibili sanzioni alla Federazione Russa”, si consente all’attuale governo israeliano di sterminare un popolo per colpire la banda di terroristi di cui la stragrande maggioranza di quella popolazione è la prima vittima.

L’appello del documento è rivolto, al di là degli schieramenti partitici, a quanti vogliano  

“costruire posizioni condivise, responsabili e coraggiose, a partire da preoccupazioni e domande condivise” quali, ad esempio: “Come rilanciare in Italia lo spirito e la lettera dell’art. 11 della Costituzione come barriera insormontabile contro ogni bellicismo? Come operare nei confronti dellUE per contrastare le posizioni belliciste oggi di gran lunga maggioritarie? A cosa ci porterà la scelta di proseguire il processo di allargamento della NATO, della deterrenza militare/nucleare? Come costruire un robusto pensiero pacifista e nonviolento, plurale e unitario, in grado di comprendere tutte le spinte di diversa matrice ideale, culturale e politica verso la pace, nella prospettiva di un nuovo pacifismo in grado di rappresentare e coinvolgere la grande maggioranza delle popolazioni? Siamo pronti a farlo in maniera strutturale, andando a colpire il cuore di un sistema di interessi militari-industriali-finanziari che con l'aumento delle spese militari e il rafforzamento del commercio di armi drena risorse economiche dall'ambito pubblico e sociale per favorire gli interessi di pochi, legati a doppio filo con i poteri politici globali che traggono profitto dalle guerre?”

Dopo il Sessantotto, con le sue ambiguità ma anche con le sue indubbie conquiste, l’umanità sembra aver spedito in soffitta ogni ideale ‘utopico’: ma se in ogni generazione, da millenni, non ci fosse stato qualcuno capace di pensare l’impensato, saremmo molto lontano dalle caverne e dalle clave?

 

Augusto Cavadi

 

Versione originale pubblicata il 25.9.2024 su:

https://www.girodivite.it/Gli-Italiani-contrari-a-ogni.html

giovedì 26 settembre 2024

INVECE DEI CATECHISMI PARROCCHIALI PIU’ DIFFUSI…

In un articolo di alcuni decenni fa Luigi Lombardi Vallauri – già docente di Filosofia del diritto alla Cattolica di Milano – sosteneva la necessità di vietare il catechismo  ai minori di 18 anni. La formulazione paradossale non era dettata esclusivamente da intenti ironici perché sintetizzava un articolato processo argomentativo che oggi potremmo riprendere con altri termini, ma senza tradirne l’esprit originario.

Cosa succede mediamente nelle parrocchie italiane quando si preparano bambini e bambine alla Prima eucarestia e/o alla Confermazione? A mia conoscenza si danno due scenari principali.

Nelle comunità ‘tradizionali’ si trasmettono, con strumenti didattici aggiornati, i contenuti del Catechismo della Chiesa Cattolica emanato nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’adolescente, man mano che crescerà in età e istruzione, o manterrà ufficialmente ma senza lasciarsene coinvolgere esistenzialmente o rinnegherà in blocco o (molto più raramente) sottoporrà a una faticosa cernita per separare il grano dal loglio.

Per evitare esiti del genere, non privi di rischi, nelle comunità ‘progressiste’ si  bypassa la proposta del catechismo canonico e ci si concentra su alcuni messaggi umanistici o sociali o ecologici che in varia misura sono collegabili con il vangelo. Questo secondo scenario presenta indubbi vantaggi, se non altro perché esime dal compito di destrutturare prima di ricostruire un proprio cammino di ricerca religiosa, ma non si può negare che comporti un difetto grave: si privano intere generazioni della possibilità di un confronto, sia pur critico, con lo specifico cristiano. Ad essere accettate o rifiutate saranno alcune linee di un’etica potenzialmente universale, ‘laica’, di certo necessaria e urgente; ma rimangono fuori dai riflettori – nei casi più felici, appena sullo sfondo - la declinazione e le motivazioni originali che di tale etica hanno dato Gesù di Nazareth  e le prime comunità dei discepoli.

Un’alternativa alle catechesi che rischiano il dogmatismo o, al contrario, il  filantropismo generico è stata più volte ricercata anche in Italia: ancora nel 2007 è stato pubblicato, a cura del Cipax,  Chi dite che io sia? Le ragazze e i ragazzi della Comunità di San Paolo si interrogano sulla storia di Gesù di Nazareth, Icone Edizioni, Roma. In queste settimane è in distribuzione la traduzione italiana di uno strumento preparato, e sperimentato a lungo, da un noto teologo della Liberazione, José Marìa Castillo: La buona notizia di Gesù (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, a cura di D. Culot e L. Tommaselli). E’ il primo di tre volumi, o meglio quaderni, di “Teologia popolare” che l’autore, scomparso nel 2023, ha pubblicato in spagnolo nel 2012, dopo decenni di circolazione su fogli ciclostilati in tante comunità europee e soprattutto latinoamericane.

La prima parte del volume mira a due scopi: “prima di tutto è necessario renderci conto della situazione in cui ci troviamo” e, a tale scopo, “vedere cosa sta succedendo nella società nella quale viviamo” e “cosa capita con tutte queste cose della religione, che, a quanto pare, non funziona come dovrebbe funzionare”; “in secondo luogo, scopriremo quello che si deve fare per leggere e comprendere i vangeli, perché c’è molta gente che non capisce quello che dicono i vangeli” (p. 13).

A questo punto inizia la seconda parte del quaderno in cui ogni capitolo è scandito in tre momenti: si riporta un brano del vangelo, si offrono “alcuni chiarimenti che aiuteranno a capire meglio le cose raccontate” e “infine ci saranno alcune domande che servono perché ciascuno rifletta su ciò che questo vangelo vuol dire a ciascuno di noi” (p. 47).

“In definitiva” – asserisce in chiusura della sua Introduzione l’autore – “quello che questo libro sta a significare per noi è che il cristianesimo, la Chiesa, la religione devono umanizzarsi, devono essere più umani, devono essere più vicini a tutti gli esseri umani, devono essere in sintonia con tutto ciò che è veramente umano” (p. 9).

 

                                                                                              Augusto Cavadi

Per la versione originale (illustrata) cliccare qui: 

Come e perché attualizzare il cristianesimo - Zero Zero News