mercoledì 5 febbraio 2025

IL VIDEO DELLA PRESENTAZIONE DEI TRE VOLUMI DI "TEOLOGIA POPOLARE" DI J. M. CASTILLO

Finalmente anche in lingua italiana i 3 agili volumetti in cui Castillo presenta per un pubblico 'popolare' (anche giovani che si preparano ai sacramenti dell'iniziazione cristiana) la sua "teologia popolare".

Cliccando qui sotto è possibile rivedere la registrazione-video della presentazione dei tre volumetti, editi da Il pozzo di Giacobbe (Trapani), da parte di Dario Culot e Augusto Cavadi (introduce e interviene Stefano Olcese, presidente dell'associazione "Liberare l'uomo" di Treviso che ha organizzato l'evento):

https://www.youtube.com/watch?v=WdCmdNk3gac 

sabato 1 febbraio 2025

SULLA PROPOSTA DEL MINISTRO VALDITARA RIGUARDANTE LO STUDIO DELLA BIBBIA NELLE SCUOLE

BIBBIA A SCUOLA ? DIPENDE DA COME STUDIARLA

Di certo non c’è ancora nulla, ma sono bastate delle anticipazioni per cenni su alcune proposte del ministro dell’istruzione del merito Valditara per scatenare dibattiti e polemiche. Ad esempio sulla proposta di inserire lo studio della Bibbia nei programmi curriculari obbligatori, dunque anche fuori dalle ore facoltative di “religione cattolica” dove è già previsto (anche se quasi mai attuato). La Destra (in Parlamento e nella società) plaude, la Sinistra (politica e sociale) protesta, il Centro (cattolico e non) nicchia. Ma chi si esprime in questi giorni sa di cosa parla?

Il presupposto (condiviso dalla quasi totalità degli interventi) è che studiare la Bibbia accrescerebbe il numero dei credenti praticanti delle varie Chiese cristiane (a cominciare dalla cattolica). Ma se fosse così, come si spiegherebbe che per quattro secoli (dal Concilio di Trento del Cinquecento al Concilio Vaticano II del Novecento) la Chiesa cattolica ha vietato lo studio della Bibbia, al punto da inserirla nell’elenco del “libri proibiti” accanto al marchese De Sade e a Marx ?

La risposta è semplice e se chi mette becco in queste tematiche avesse letto una sola volta la Bibbia la conoscerebbe: la Bibbia è una biblioteca scandalosa. Almeno da due punti di vista.

Come in ogni biblioteca ci sono libri di genere e di valore diversi.

Alcuni sono o noiosi (elencano precetti e divieti su come lavarsi, vestirsi, cibarsi, pregare…che vengono ritenuti ormai impraticabili) o francamente diseducativi (presentano come atti meritori fecondare la schiava al posto della moglie sterile, sacrificare mediante sgozzamento il figlio unico,  sterminare sino al più piccolo neonato le popolazioni vinte in guerra…). Quanti studenti si avvicinerebbero alle Chiese cristiane perché attratti dalla concezione di Dio, dell’essere umano, della storia veicolata da queste pagine terribili?

Ma nella Bibbia ci sono anche libri bellissimi, soprattutto nel Secondo Testamento, in cui la religione viene presentata non come militanza obbediente in un’organizzazione burocratica verticistica, bensì come avventura comunitaria condivisa da  fratelli e sorelle che s’impegnano pariteticamente per una società più creativa, solidale, compassionevole. Ebbene, anche questi testi sarebbero motivo di scandalo per tanti  studenti che constaterebbero la distanza inaccettabile fra  il messaggio dei profeti (e di Gesù in particolare) e il catechismo insegnato nelle parrocchie.

Insomma, in considerazione di ciò che la Bibbia afferma di molto sbagliato e di molto affascinante, quanti sedicenti cattolici resterebbero tali se veramente la leggessero con l’attrezzatura scientifica (storico-letteraria) con cui si legge l’Iliade o la Divina Commedia? Non è certo un caso che tra i grandi esponenti degli studi biblici moderni (da Spinoza a Bultmann, passando per i Modernisti francesi, inglesi e italiani della prima metà del XX secolo) i condannati per eresia siano stati più numerosi dei riconosciuti come benemeriti.

La vera questione è dunque con quale prospettiva e con quali metodologie insegnare la Bibbia nelle scuole. Se la si vuole usare come una clava per colpire alunni provenienti da famiglie o ‘laicamente’ agnostiche o di altre religioni (a cominciare dagli islamici) per incrementare le fila dei bravi praticanti cristiani, si sperimenterà un tragicomico effetto boomerang. Se invece si vorrà studiare la Bibbia con l’attrezzatura esegetica oggi disponibile – e fare altrettanto almeno con il Corano – si renderà un servizio prezioso per la formazione spirituale delle nuove generazioni (a prescindere dalle opzioni di fede confessionale di ciascun giovane) e per la convivenza democratica di etnie e comunità di matrici teologico-culturali differenti. Ovviamente questo insegnamento dovrebbe essere affidato a docenti qualificati dipendenti dallo Stato, non da questa o quell’altra organizzazione ecclesiale. Solo così la scuola repubblicana contribuirebbe a sradicare le radici insidiose del fondamentalismo, del tradizionalismo, del conformismo.

 

Augusto Cavadi

Centro di ricerca esperienziale di teologia laica

(Palermo)


“Adista/ Segni nuovi”, 5, 8 . 2. 2025 

giovedì 30 gennaio 2025

INTELLETTUALI RADICAL CHIC: LA FESTA E' FINITA !


LE LISTE DI PROSCRIZIONE DEGLI INTELLETTUALI CHIC

Come è noto la fantascienza non è solo anticipazione del futuro, ma anche disvelamento di trame celate nel presente. Ad esempio Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi (che la Feltrinelli ha pubblicato in prima edizione nel 2019, ma che ho avuto fra le mani solo in questi giorni) è un agevole romanzo di fantastoria in cui, col pretesto letterario di narrare vicende di tempi a venire, si mette a nudo un aspetto rilevante della condizione sociale attuale: la divaricazione fra un numero sempre più esiguo di “intellettuali” e una massa sempre più imponente di persone orgogliose della propria ignoranza.

Se il registro comunicativo prescelto fosse morale, o addirittura moralistico, il libro resterebbe utile, ma si sommerebbe a una lunga serie di pamphlet che negli ultimi anni denunciano il fenomeno. Invece l’autore - adottato un codice umoristico, a tratti ironico – integra le critiche agli incolti con almeno due elementi originali: le frecciatine agli “intellettuali” stessi (che così non risultano del tutto esenti da ogni colpa) e le accuse a quei politici che incentivano la tendenza popolare per strumentalizzarla intenzionalmente.

Della maggioranza allergica alla lettura, alla riflessione, alla dialettica fra idee si smaschera una dimensione abitualmente nascosta: la violenza. Chi non ha armi intellettuali ricorre, spontaneamente, all’offesa verbale (specie anonima, ad esempio sui social: “Miserabili intellettuali, mi fate schifo! @ Lindackty”, p. 11) ) e, se non basta, alle armi fisiche (“Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”, p. 9). C’è un legame, sotterraneo ma forte, tra ripudio diffuso dell’istruzione, della memoria storica, della curiosità antropologica verso altri popoli e accettazione della “guerra” come possibilità lecita, anzi inevitabile, per gestire i conflitti. Per rendere più accessibile il linguaggio si vanno elidendo le parole più difficili, ma “a forza di semplificare la guerra è diventata l’unica soluzione” (p. 139).

Quanto agli intellettuali, Papi rileva che appaiono “radical chic” agli occhi degli ignoranti, ma ammette che tale rappresentazione caricaturale abbia in essi – nel loro stile di vita, nel loro linguaggio, nel loro disimpegno –  dei fondamenti oggettivi.  Tra di loro ci sono studiosi seri e riservati, ma incapaci di coalizzarsi e di organizzare una qualche forma di resistenza alla marea montante delle persecuzioni; senza contare le signore chiacchierone (come le cugine Clelia e Anna) o i giovani (come Cosma) che, inseguendo il sogno di una rivoluzione sempre più improbabile, finiscono con l’esercitare una violenza uguale e contraria rispetto agli avversari.

E’ comunque ai politici di professione che l’autore riserva gli strali più acuminati: alcuni sono davvero ignoranti, ma altri fingono di esserlo per poter accrescere i consensi elettorali. Come il “Primo ministro dell’Interno”, sono convinti che “il popolo non si deve elevare al livello delle élite, sono le élite che devono abbassarsi al livello del popolo”(p. 87). Se non proprio ad abbassarsi davvero, a fare finta:  “bisogna che gli intelligenti imparino a dire le cose in modo che gli stupidi credano di averle pensate da soli” (ivi).

Cosa c’entra, in questo contesto, “il censimento dei radicali chic” che dà il titolo al romanzo? E’ una delle tante liste di proscrizione che periodicamente si riproducono nella storia dell’umanità. Solo che, nell’epoca post-moderna (o iper-moderna), le dittature evitano il cattivo gusto di presentarsi come tali: preferiscono apparire come apparati di soccorso e di protezione agli occhi delle stesse vittime designate. Da qui l’idea geniale del governo di invitare chiunque si interpreti come “intellettuale” a iscriversi spontaneamente a un elenco di nominativi di cittadini da far sorvegliare giorno e notte: ufficialmente per difenderli dagli ignoranti scalmanati, in realtà per tenerli strettamente sotto controllo.  Con questa strategia si evita di creare nuovi martiri e, dunque, il rischio di una indignata sollevazione popolare. Certo, qualcuno potrebbe subodorare l’imbroglio istituzionale ma, ormai, non c’è ingiustizia (specie se sistemica) abbastanza eclatante da suscitare rivolte.

Augusto Cavadi

* Per la versione illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/le-liste-di-proscrizione-di-intellettuali-e-radical-chic/


martedì 28 gennaio 2025

IL CUORE COME CENTRO VITALE, NON COME ORGANO ISOLABILE

 Il volume della cardiologa Silvia Di Luzio, Il cuore è una porta. Dalla scienza, un’ipotesi di evoluzione (Amrita, Torino 2019), non può non evocare la celebre, fulminante,  asserzione di Blaise Pascal: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Ella infatti sostiene che il nostro cervello non è l’unico organo dotato di neuroni e che proprio il muscolo cardiaco ne contiene di moltissimi e attivissimi. Quando dunque asseriamo, in certe circostanze, di aver seguito la voce del nostro cuore, non ci stiamo esprimendo in un senso solo poetico, metaforico, ma letterale, anatomico. Potremmo dire lo stesso per il “terzo cervello” di cui siamo dotati: la pancia. 

   Dunque affrontiamo la vita – le sue relazioni, le sue sfide, i suoi imprevisti – con l’interezza del nostro essere: non averne consapevolezza, e limitarci ad approcci settoriali, ci condanna a una sorta di mutilazione. Chesterton ha una volta osservato, a proposito di Hegel, che esiste un genere particolare di follia consistente nel perdere tutto tranne la ragione. Quando ci mettiamo in gioco con la testa, lo facciamo anche sempre con il cuore e con la pancia.

   Se le cose stanno così – e la Di Luzio, che ha studiato anche negli Stati Uniti d’America la questione, lo argomenta con varie considerazioni empiricamente confermate – possiamo esaminare criticamente delle espressioni diffuse nei discorsi quotidiani.

   E’ vero – per prendere in prestito il titolo del più fortunato romanzo di Susanna Tamaro – che in alcuni bivi della vita dobbiamo andare “dove ci porta il cuore” (Baldini & Castoldi, Milano 1994)?

    Se per “cuore” intendiamo il potenziale emotivo, il sentimento, o addirittura la nostra sfera inconscia e pre-conscia, confesso – contro molte ortodossie oggi maggioritarie di impronta new age– che il cuore non ha ragioni e deve lasciarsi orientare dalla ragione. Dissento fermamente dalla contrapposizione – tutta giocata a favore del ‘cuore’ – fra cuore e ‘mente’. No: con buona pace della Tamaro non  voglio andare dove mi porta il cuore perché non voglio andare a sbattere il muso contro i muri della illusione e della delusione. Se inteso in questo significato – qualcosa come la “parte” passionale dell’anima che Platone paragonava a uno scalpitante  cavallo bianco che un bravo auriga deve saper controllare saldamente con le redini in mano – a mio parere vale per il cuore ciò che Gibran ha sostenuto per il complesso di passioni di cui siamo capaci: “La vostra ragione e la vostra passione sono/ il timone e le vele della vostra anima navigante./ Se si spezzano le vele, o si spezza il timone,/ o andrete, sbandati, alla deriva,/ oppure resterete a ristagnare in mezzo al mare./ Infatti la ragione, quando domina da sola,/ è una forza imprigionante;/ e la passione, quando non è custodita, è una fiamma che brucia a propria distruzione./ (…) Vorrei consideraste il vostro giudizio ed il vostro impulso/ sempre come fareste con due ospiti amati in casa vostra./ Sicuramente non onorereste un ospite più che l’altro:/ poiché chi ha più attenzione verso uno solo/ perde l’affetto e la fiducia di entrambi” (G. Kahlil Gibran, Il profeta, Guanda, Milano 1983, traduzione da me leggermente modificata). 

   Ma c’è una seconda accezione del termine “cuore” che rende perfettamente accettabile l’invito a seguirlo, non limitandosi alla ragione né conferendo ad essa il primato. In questa accezione di origine biblica, ma anche omerica, “<<cuore>> non va inteso tanto nel senso psicologico del sentimento quanto nel senso del centro profondo nel quale l'uomo si determina alla conoscenza e alla decisione>> (Cosimo Scordato). In questa prospettiva   “il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita umana nella sua totalità” (Enzo Bianchi) e, ne Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry può  scrivere: «Non si vede bene che col cuore». Andiamo pure, dunque, dove ci porta il cuore, ma solo se non lo intendiamo – riduttivamente -  come una parte dell’essere umano distinto, e tendenzialmente opposto, alla ragione; bensì, piuttosto, come il nucleo generativo   dell’essenza umana di cui la ragione è una parte, un’articolazione, una manifestazione.

Augusto Cavadi

* Per vedere l'edizione originale corredata iconograficamente:

https://www.zerozeronews.it/cuore-o-ragione-dibattito-infinito-fra-medici-filosofi-e-scrittori/


sabato 25 gennaio 2025

DOPO L'IMPLOSIONE DEL SISTEMA CATTOLICO: UN NUOVO LIBRO DI BRUNO MORI

Che bei tempi, per le Chiese cristiane, sino alla seconda metà del Novecento! Le assemblee domenicali erano affollate dalla maggioranza della popolazione e, sul fronte opposto, atei militanti alimentavano con attacchi a tutto campo la polemica anti-religiosa.

 “S’ode a destra uno squillo di tromba;/

a sinistra risponde uno squillo:/

d’ambo i lati calpesto rimbomba/

da cavalli e da fanti il terren”: alla proclamazione di nuovi, inverosimili, dogmi da parte del papa (come nel 1950 l’Assunzione in cielo di Maria nell’interezza della sua persona, anima e corpo) si contrapponevano le patetiche dichiarazioni degli astronauti russi come Yuri Gagarin (“Sono stato in cielo e non ho incontrato né Dio né angeli”). Di quelle ingenue diatribe, a meno di un secolo di distanza, neppure l’eco. La dottrina teologica ortodossa e le pratiche liturgiche “obbligatorie” sono semplicemente scomparse nell’irrilevanza.

Le cause sono molteplici e i sociologi della religione non hanno finito di indagarle, ma i preti che abusano sessualmente di minori o le suore sfruttate come manodopera alberghiera a basso costo non rientrano nel novero delle più rilevanti. Come spiega il presbitero e teologo Bruno Mori nel recente L’implosione di una religione. Verso la crisi dei dogmi, dei sacramenti e del sacerdozio (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2024) è tutto l’impianto teologico ed etico del cristianesimo cattolico che non può più essere accettato da uomini e donne del XXI secolo in grado – quando lo desiderano – di leggere, riflettere, confrontarsi con esperti in scienze religiose e in scienze umane. Secondo l’autore (che è stato membro dell’Ordine di Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione sino alla morte, avvenuta il 27 ottobre 2023) il movimento spontaneo originario suscitato dalla testimonianza di Gesù di Nazareth è diventato un’Istituzione che ha tradito proprio quei princìpi di libertà, giustizia, fraternità, nonviolenza, solidarietà universale…per i quali il Maestro nomade è stato ucciso.

Il testo, corposo ma scorrevole e fruibile, di don Mori non può non suscitare critiche e desiderio di approfondimenti.

Una prima domanda: il Dio di Gesù è solo Misericordia materna?

La perplessità più radicale che mi ha suggerito, e che in effetti è duplice,  riguarda il messaggio di Gesù su Dio. Una prima questione è storico-esegetica: davvero dal Nuovo Testamento emerge che “il Dio di cui Gesù ci parla è un essere che sembra innamorato di ciascuno di noi”? Un Dio “così familiare, così vicino, così tenero, così benevolo” che, di fronte a Lui, “non possiamo che sentirci gioiosi e fiduciosi, perché il suo pensiero suscita in noi la certezza che da Lui non saremo mai giudicati, né ripudiati né condannati, ma sempre e solo cercati, risollevati, guariti, accolti, valorizzati, giustificati e amati” (p. 44)? Sinceramente ritengo che sarebbe unilateralmente selettiva questa “immagine” di Dio. Dai vangeli (canonici e apocrifi), ma più in generale negli scritti del Secondo Testamento, risulta che Dio è così, ma anche altro. L’elenco dei passi in cui il Padre è anche esigente, minaccioso di castighi, duro sino a sembrare ingiusto sono davvero numerosi. Il biblista Giuseppe Barbaglio ha sostenuto in varie occasioni che la contrapposizione fra un Dio severo (dell’Antico Testamento) e un Dio benevolo (del Nuovo) non è legittimata dai testi: infatti il Dio degli ebrei proprio come  il Dio dei cristiani  è un “Giano bifronte”; entrambi hanno un volto misericordioso ed un volto violento.

Un Dio tenero potrebbe sopportare il dolore dell’universo?

Ma, ammesso e non concesso, che davvero “l’originalità e il cuore del suo (= di Gesù) messaggio risiedono appunto nella stupenda novità della sua parola su Dio presentato sotto l’immagine di un Padre materno che è solo Amore e Misericordia” (p. 43) – e che dunque tutti i tratti differenti da questi che Gesù stesso attribuisce al suo Dio siano irrilevanti o per lo meno secondari - , si profila una seconda questione più filosofico-teologica: come si concilia questa interpretazione (molto toccante, suggestiva) della Divinità con ciò che, negli ultimi due millenni, abbiamo appreso della storia dell’universo e, in particolare, della storia dell’umanità? Come può non impazzire un simile Padre alla vista delle sofferenze costanti, onnipervasive, che da milioni di anni stritolano animali di ogni foggia e dimensione sottoposti all’implacabile legge dell’evoluzione biologica, nonché – da circa 300.000 anni - esseri umani di ogni età, sesso, condizione sociale, insipienti o generosi che siano adulti? Come potrebbe non scoppiare il “cuore” di un Dio alla vista di tragedie immani attribuibili solo in minima parte agli errori e alle colpe degli umani? Sarebbe meraviglioso poter condividere la fede di Gesù in un Dio sapiente e provvidente, affettuoso e  premuroso: ma sarebbe anche intellettualmente onesto? La fede è certo un salto oltre l’esperienza dei sensi e le evidenze della ragione: ma andare oltre può significare anche andare contro? Forse nasce da queste domande il movimento filosofico-teologico del “Post-teismo” (o del “Trans-teismo”) dei nostri giorni: un movimento che, riprendendo intuizioni logiche e mistiche ricorrenti della storia delle religioni (anche delle confessioni cristiane), vuole andare oltre ogni antropomorfismo. Dunque non solo oltre il Dio inquisitore, giudice, carceriere eterno, ma anche oltre il Dio curvo su ogni fragile creatura vivente e senziente che – secondo un commovente detto irlandese – modera il vento come segno di attenzione verso la pecorella tosata da poco. Di un Dio, o forse di una Divinitas – priva dei tratti (benevolmente) antropomorfici propri del vangelo gesuano, ma comuni a mistici di ogni latitudine e di ogni epoca - dobbiamo confessare che ci è penitus ignota (radicalmente inconoscibile), secondo la lapidaria espressione di Tommaso d’Aquino. Se ci basiamo solo sugli effetti a noi accessibili, possiamo osare ipotizzare solo che l’Energia originaria ed essenziale che anima e sostiene l’evoluzione dell’universo ci “ami” nel senso che sospinge alcuni viventi ad un livello ontologico tale che possono fare tanto male ma anche tanto bene: ci “ami” in quanto ci rende possibile diventare “amanti”. E’ molto meno confortante dello splendido annunzio di Gesù, ma mi pare che non contraddica né l’esperienza quotidiana (dappertutto c’è, accanto ad egoismo accentratore, tensione solidale e talora comunionale: fra esseri umani, fra altri animali, perfino fra vegetali) né la coerenza logica. Su questa tematica ho l’impressione che don Bruno Mori si mostri esitante, dando motivi di propendere per posizioni ora più ‘tradizionali’ ora più ‘contemporanee’.

Solo volontà di dominio o non anche sete di concretezza?

Il volume del prete bresciano trapiantato in Canada per motivi missionari solleva altre domande (meno radicali delle precedenti, ma non per questo prive di importanza). Ad esempio egli sostiene che la Chiesa cattolica ha prodotto il suo impianto dottrinario, sacramentale ed etico con lo scopo precipuo, se non esclusivo, di affermare il proprio dominio sulla società. Poiché in un quindicennio della mia vita (tra i 18 e i 33 anni circa) ho vissuto intensamente all’interno di un movimento cattolico ‘ortodosso’, inspirato alle posizioni di Jacques Maritain (con particolare enfasi sulle sue posizioni ne Il contadino della Garonna), so per esperienza personale che la questione è complessa. Se Maritain o Gilson, Danielou o von Balthasar, Paolo VI o Giovanni Paolo II, Benedetto XVI o Francesco (che in più di un decennio di pontificato non ha modificato neppure un mattoncino del sistema ereditato dai predecessori) fossero stati animati da volontà di potenza, sarebbe tutto più facile o meno tragico. Certo, in quel quindicennio, ho conosciuto cardinali e preti, teologi e teologhe, frati e suore di cui si sarebbe potuto affermare che avessero condiviso – e a propria volta rafforzato -  “un Sistema religioso per dotarsi di strumenti e di mezzi estremamente efficaci di potere, di controllo e di sfruttamento” (p. 229). Ma queste persone, avendo coscienza della propria strategia, sono potenzialmente convertibili al vangelo. Esse, a mio sommesso avviso, costituiscono una minoranza nella galassia degli ortodossi, i quali – invece – pensano e agiscono in buona fede. Quando si macerano fra volumi in varie lingue per giustificare i dogmi più inverosimili  o lasciano i genitori per tentare di convertire popolazioni africane lontanissime o accettano l’isolamento nel proprio ambiente di lavoro dove vengono derise per ciò che pensano in campo sessuale…sono  animate da volontà di autodonazione sino al sacrificio dei beni più preziosi (l’autonomia economica, la libertà di amare e di essere amati anche carnalmente, l’indipendenza di giudizio nella conduzione della propria vita). I privilegi del potere agiscono se mai come motivazioni inconsce che diventano consce in quei soggetti che – quando capiscono di essere dentro un’Istituzione che ha tradito il vangelo – preferiscono far finta di nulla perché a trenta o cinquanta o settant’anni sarebbe faticoso rifarsi una vita fuori dalla Santa Madre Chiesa. Cosa ha spinto, dunque, un Agostino o un Tommaso d’Aquino a tradurre in termini di cose, di res, di sostanze e di accidenti, il mondo dei simboli, delle metafore, delle allegorie (per cui ogni messa diventerebbe rinnovamento del miracolo della ‘transustanziazione’ o ogni ordinazione presbiteriale implicherebbe una trasformazione indelebile e irreversibile dell’essere stesso del seminarista)? L’autore stesso – non so quanto in coerenza con alcune altre pagine in cui elenca in sequenza le “quattro fasi” attraversate dalla Chiesa per “diventare un organismo di potere”: “la creazione di una struttura gerarchica; la creazione di un’ideologia; la creazione di un corpus giuridico e liturgico (…); la creazione di un sofisticato regime di sorveglianza e di controllo basato sulla paura e sul mantenimento di una nevrosi universale di colpa” (p. 70) – afferma con chiarezza che “sarebbe ingiusto e storicamente falso attribuire alle autorità ecclesiastiche l’intenzione esplicita di avere voluto inventare il dogma della divinità di Cristo per giustificare teologicamente il loro sistema di potere” (p.58) e, qua e là nel libro, evoca una categoria che a me pare più convincente:  la “sindrome ontologica”.                 Almeno in parte richiama una “sete di concretezza” di cui parla, in qualche passaggio delle sue opere, il cardinal Martini. Se, in Giovanni,  Gesù promette di offrire la propria “carne”, i discepoli fraintendono il registro metaforico e si chiedono come farà a darla loro in pasto: gli uomini vogliamo certezze, contatti fisici. Il cattolicesimo si è  costruito come enorme Macchina per rassicurare, confortare. Il fedele che si affida ad essa viene liberato dall’angoscia del dubbio: ci possono essere pastori che strumentalizzano questa fame di materialità, di afferrabilità, a scopi di dominio, ma sospetto che la maggior parte di essi sono i primi ad esserne affetti e da volerla soddisfare.

Da questi rapidi cenni si ricava che il libro è un utile, perché organico, compendio critico dell’impianto cristiano-cattolico. Offre anche indicazioni, in positivo, sul da farsi? Forse solo l’ultimo breve capitolo (I cristiani di domani) può interpretarsi come pars costruens. Troppo poco. Purtroppo il decesso dell’autore, pochi mesi dopo la pubblicazione di quest’opera, ha precluso la possibilità di ascoltare ciò di cui abbiamo bisogno adesso: un piano di ricostruzione dopo il terremoto che ha abbattuto edifici ammirevoli, ma ormai vetusti. Si apre dunque un campo di lavoro immenso e non poco affascinante.

Augusto Cavadi

“Viottoli”

Semestrale di formazione comunitaria

Pinerolo 2/2024