sabato 19 luglio 2025

L’ABBRACCIO DI ARMONIA E DISARMONIA

 Tradizionalmente l’armonia è stata un ideale desiderabile e realizzabile. Non oggi, mi pare, in cui tendiamo a ritenerla mistificante e, comunque, impossibile da sperimentare. Infatti, là dove c’è simmetria fra gli elementi, proporzione fra le parti, equilibrio fra le componenti, scatta il sospetto. Se non addirittura il dileggio e il rigetto. Ogni rappresentazione armonica ci sa di finto e spesso d’ingannevole: le famiglie consumano la colazione mattutina in assetto pacifico, del tutto privo di frizioni, solo negli spot pubblicitari delle fette biscottate.

Anche quando ammiriamo un’opera d’arte classica ci viene spontaneo misurarne la distanza cronologica dal nostro presente.  Il neo-classico, poi, l’avvertiamo come una sorta di infiltrazione abusiva nella stagione del disordine, dell’eccesso, del perturbante. Temiamo la normalità - il rispetto del canone, il conseguente rischio dell’assuefazione e della noia - più di ogni imprevisto. Questa condizione d’inquietudine esistenziale, che si riverbera in tutti gli altri ambiti (dall’estetica alla politica, dalla liturgia alla finanza) non è un merito e neppure un demerito: piuttosto un dato, un fatto. Possiamo tentare solo di misurarne possibili pregi e inconvenienti.

Pregi e rischi della propensione per la disarmonia

Tra i pregi di questa tendenza spirituale spicca il desiderio di verità e di autenticità. La vita, la natura, la storia non sono armoniche e non vogliamo che alcun occhiale ce le renda diverse, edulcorandole. C’è una “potenza del negativo” avvertiva Hegel che non va eufemizzata, ma conosciuta e accettata. La dimensione tragica del reale – insisteva Nietzsche - è ineliminabile e ogni tentativo di anestetizzarci per non soffrirne è destinato a fallire, peggiorando la nostra schiavitù. Ci sono molte ragioni per cui “grandi narrazioni” come il cristianesimo e il marxismo sono in crisi di consenso, ma tra queste – probabilmente – va annoverata la loro promessa di una méta finale dove la morte, l’ingiustizia, il male saranno definitivamente aboliti: una promessa troppo allettante, troppo confortante, per essere attendibile.

Se la diffidenza verso ogni ideale di armonia esprime volontà di verità (oggettiva) e di autenticità (soggettiva), non si può negare che comporti i suoi rischi. Primo fra tutti il cinismo (nell’accezione comune, e impropria, del termine). Ci sono soggetti, gruppi, movimenti culturali e/o politici che, per non scadere nell’ingenuità, finiscono col non vedere i frammenti di armonia, di equilibrio, in fondo di bellezza, neppure nei rari casi in cui essi rilucono effettivamente. C’è una retorica buonista, ma anche un riduzionismo che qualificherei ‘cattivista’ che si compiace di accentuare – sino all’assolutizzazione – gli aspetti dissonanti e conflittuali della natura e della storia.

“Dai discordi bellissima armonia”

Che sia possibile conciliare la schietta constatazione del contrasto con una prospettiva altrettanto realistica di rasserenamento mi pare testimoniato da alcuni frammenti del più antico teorico della dialettica occidentale. Senza la pretesa di interpretare correttamente un pensiero che non ci è pervenuto in forma organica, potremmo forse affermare che Eraclito non nega l’evidenza empirica della disarmonia, della  “guerra” (a suo avviso “madre di tutte le cose”, DK 53), ma non si  ferma alla fenomenologia: la nostra mente, infatti, è in grado di leggere anche la filigrana dell’essere e riconoscervi una “armonia nascosta” (DK 54). Il disordine apparente avrebbe ormai distrutto se stesso se non fosse sostenuto, governato, preservato da un ordine, da una logica, più profonda: “un’unica legge divina (…) domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza per di più” (DK 114). Il caos dei contrasti è reale, ma non è la realtà ultima, costituita da quel Logos che li “lega” (legei)  evitandone l’autodissoluzione.  La verità, dunque, è accessibile solo quando si accettano le due metà dell’unica sfera: essa è “armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira” (DK 51). Lo stolto – sembra si possa concludere – vede il mondo come un paese dei balocchi, privo di travagli, avversità, delusioni. Il semi-saggio, con occhi ben aperti, si accorge degli ostacoli incessanti e ne tiene conto con accorta prudenza, anche a costo di perdere fiducia verso persone e avvenimenti. Il saggio, grazie al logos (pensiero) di cui è dotato  - una sorta di terzo occhio – perviene a intuire il Logos (pensiero) che regge e pervade l’universo. Senza illusioni, ma neanche caparbia resistenza, si mette in ascolto obbediente di questo Assoluto che “non vuole e vuole anche essere chiamato Zeus” (DK 32): che non è solo luce, ma neppure solo buio, perché è “giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame” (DK 67). Infatti, in generale, “l'opposto concorde e dai discordi bellissima armonia” (DK 8).

Anche dopo Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso (a giudizio dei quali il Divino è solo Bene, Perfezione, Verità e Pienezza ontologica)  permane la perplessità di pensare il Fondamento divino della totalità come puro positivo: Schelling nell’Ottocento e Pareyson nel Novecento si sono interrogati sulla necessità di ammettere anche in Dio una dimensione di ombra con cui Egli/Ella/Esso per primo/a debba fare i conti. Vige dunque intatto, al di sopra di facili ottimismi e di altrettanto facili pessimismi, il convincimento eracliteo: “congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose” (DK  10).

Augusto Cavadi

“Frontiere della scuola”, XXII, maggio 2025

mercoledì 16 luglio 2025

NON TOGLIETE LA SCORTA AL MINISTRO URSO. NE' TANTO MENO ALLA SUA SIGNORA.

La scorta del ministro Urso ha ritenuto opportuno, per ragioni di sicurezza, scortare la moglie al check-in a Fiumicino. Mi pare giusto. Con tante Brigate Armate Anti-parafasici fonemici in circolazione, meglio essere prudenti: qualche scheggia impazzita avrebbe potuto uccidere a sangue freddo la signora per colpire il ministro (accanto a lei). 

Spero che non tolgano la scorta né a lui né a lei: non vorrei correre il rischio, in qualche coda all'aereoporto, di sfiorarli o esserne sfiorato involontariamente.


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domenica 13 luglio 2025

De-maschilizzare la Chiesa?

 Gli abusi sessuali da parte di preti cattolici ai danni di donne e minori di entrambi i sessi costituiscono solo la punta di un iceberg sempre più ingombrante e imbarazzante: l’impianto, radicalmente e compattamente, gerarchico-verticistico e patriarcale-maschilista della Chiesa cattolica. Impianto caratterizzato, sin quasi dalle origini, da una disimmetria di potere fra uomini e donne di cui il divieto di accedere al diaconato/presbiterato/episcopato è cifra e spia. Un problema, peraltro, che non investe solamente il cristianesimo ma che caratterizza purtroppo le istituzioni di diverse religioni. Ma mentre una buona parte del mondo protestante ha visto notevoli passi avanti da questo punto di vista, nel mondo cattolico prevalgono ancora le resistenze e la conservazione.

Se questa fotografia è realistica, cosa si può fare (ammesso che ci sia qualcosa da fare)? Da circa un anno la redazione del periodico Mosaico di pace ha rilanciato in Italia la tematica della maschilità nella Chiesa cattolica (www.- mosaicodipace.it/index.php/rubriche-e-iniziative/-rubriche/approfondimenti/la-parola-a-voi/4368- smaschilizzare-la-chiesa-itinerariodi-pace) e convocato due giorni di riflessioni (28-29 giugno 2025), presso la Fraternità di Bose di Ostuni. Vi hanno partecipato – insieme a tre donne della redazione promotrice (Rosa Siciliano, Nicoletta Dentico, Ilaria dell’Olio) – due monaci della comunità ospitante (Davide Varasi e Norberto Secchi), un presbitero della diocesi di Trani (Davide Abascià) e alcuni laici/che impegnati/e in vari contesti professionali ed educativi (Marcella Orsini, Vittoria Prisciandario, Nicola Cagnazzi, Dario Dalla Costa), nonché alcuni rappresentanti di gruppi storicamente impegnati nella trasformazione della maschilità e nel contrasto alla violenza di genere (come Marco Deriu e il sottoscritto).

Nelle varie sessioni (sia in plenaria che in gruppi distinti per genere) sono emerse, come erano prevedibili, posizioni differenti. Non tanto sulla diagnosi preoccupata e preoccupante, quanto sulle terapie. Per alcuni/e la malattia è così intrinseca da risultare inguaribile (e chi la pensa così ha lasciato da tempo, o è fortemente tentato/a di lasciare l’istituzione cattolica); per altri/e si può fare leva sul messaggio originario di Gesù e tentare di modificare l’assetto ecclesiale attuale, concentrandosi sulle nuove leve di seminaristi e soprattutto sulle giovani donne, ancora attive nell’associazionismo, affinché non rinunzino a rivendicare quella parità di dignità e di ruoli che stanno lentamente guadagnando fuori dai recinti confessionali.

Tra le numerose sottolineature emerse va ricordato l’avvertimento che, nella Chiesa come in tutti gli altri ambienti civili, il patriarcato maschilista è causa di sofferenze e mutilazioni non soltanto per le donne, ma anche per gli stessi maschi che – prigionieri di modelli tradizionali ereditati passivamente – si condannano a un’esistenza performativa, produttiva, competitiva ai danni della propria sfera emozionale, relazionale, ludica. Da qui la proposta di creare, anche all’interno di ambienti ecclesiali, dei “luoghi” in cui gli uomini possano incontrarsi, raccontarsi e confidarsi, crescendo nell'autocoscienza e nella ricerca di connessione reciproca: in cui, insomma, si possano mettere in gioco proprio in quanto maschi.

Ovviamente destrutturare un impianto culturale e istituzionale bimillenario non è impresa facile, forse neppure possibile. Comunque, anche solo immaginarlo, implica un intreccio fra il piano della riflessione critica (ad esempio sul linguaggio teologico abituato a nominare Dio come un Essere maschile) e il piano della pratica quotidiana (ad esempio vigilando affinché già dai territori periferici – nelle piccole parrocchie, nei gruppi cattolici, nei conventi sparsi per il mondo – le donne rivendichino con determinazione il rispetto della propria dignità e la valorizzazione di tutti gli spazi che già da adesso sarebbero loro normativamente accessibili). 

Augusto Cavadi

Augusto Cavadi è del Centro di ricerca esperienziale di teologia laica, Palermo; co-dirige con la moglie Adriana Saieva la “Casa dell'equità e della bellezza” di Palermo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 19/07/2025

martedì 1 luglio 2025

UNA ZATTERA DOPO IL NAUFRAGIO DELLE GRANDI NARRAZIONI

PER IMPERVI SENTIERI. UNA ZATTERA DOPO IL NAUFRAGIO DELLE GRANDI NARRAZIONI *

Post-cristiani fra post-teismo e post-religione

Quando proprio mi trovo costretto a definirmi, più che “post-cristiano” preferisco dirmi “oltre-cristiano”: vorrei alludere al fatto che -  a differenza di altre persone che, avendo visto che la proposta tradizionale cristiana non regge, buttano tutto alle ortiche - mi viene spontaneo cercare di recuperare qualcosa di importante, pur lasciando cadere senza rimpianti tutte le sovrastrutture, le superfetazioni che in questi duemila anni hanno appesantito la storia della Chiesa, ma anche la storia delle coscienze. Che è stata storia di tanti sensi di colpa, di tanti dubbi atroci, senza contare le sofferenze di tanti e di tante che questi dubbi hanno esplicitato e sono finiti al rogo.

Questo tema dell’oltre-cristianesimo lo inserirei nella problematica, comune a molti di noi, che don Ferdinando Sudati e altre persone amiche ci hanno suggerito di chiamare “post-religionale” e “post-teista”. I due termini non sono esattamente identici: sono convinto che ci potrebbe essere un “teismo” post-religioso (che  mantenga l’idea tradizionale di Dio rifiutando la religione intesa come strutture, istituzioni, dogmi, codici morali, liturgie, gerarchie…) e, viceversa, ci potrebbe essere una religione non-teista, che rifiuti l’idea non di un Dio nel profondo della realtà, fondamento dell’essere, della vita, ma di un Dio posto al di sopra, nell’alto dei cieli, che da lì ci manovrerebbe come burattini.

Preciso fra parentesi che questa visione del teismo rifiutata dai post-teisti (o trans-teisti)  [1] non è l’unica possibile: è alquanto caricaturale, però vale in concreto per le molte persone che dicono di credere in Dio e lo concepiscono come una specie di super-uomo dai poteri infiniti a cui attribuire tutti i beni e tutti i mali dell’universo.

A me capita di lavorare anche negli ospedali, con dei medici e degli infermieri che si trovano spiazzati quando una mamma che sta morendo di cancro chiede :  “Perché Dio mi ha riservato questo? Cosa ho fatto di sbagliato?”. E vedo che molti operatori sanitari non hanno l’attrezzatura intellettuale e teologica per replicare:  “Ma signora, perché sta bestemmiando? Chi le dice che Dio le ha mandato questo cancro?  Perché si sta ponendo il problema di una sua colpa?”

Chiaramente la responsabilità non è di quella povera donna angosciata, ma della tradizione ormai bimillenaria che concepisce l’essere umano come un burattino nelle mani di un super-patriarca: ne Il Dio dei mafiosi ho chiamato questa figura “il Dio padrino”[1], che dispone in maniera mafiosa della vita degli esseri viventi, a cominciare dal figlio Gesù che sarebbe stato mandato nel mondo per essere sacrificato a riscatto di noi umani. In questi giorni un amico - prete di 94 anni- mi ha proposto di pubblicare un libro in cui si chiede: se sentissimo dire che un nostro amico ha sacrificato il figlio per amore dei suoi amici, non chiameremmo l’autoambulanza[2]  del manicomio? Non penseremmo che quel povero padre fosse impazzito?

 

La crisi delle “grandi narrazioni”

Il problema della crisi delle Chiese è interessante, però a mio avviso stiamo vivendo una crisi molto più radicale. A vacillare sono le fondamenta dei sistemi culturali su cui si sono basate le principali civiltà mondiali. Le persone serie si interrogano sul futuro del cristianesimo all’interno di uno scenario molto più ampio in cui tutte le grandi narrazioni - religiose, filosofiche, politiche, scientifiche - sono sotto esame.  La battuta di Ionesco - “Dio è morto, Marx è morto e, se devo essere sincero, nemmeno io mi sento tanto bene” – non è solo una battuta[3]  umoristica: dipinge in modo fulminante lo spaesamento della nostra generazione, abituata ad avere delle mappe chiare, nette (la marxista, la radicale, la cattolica, la buddhista...), tra cui optare. Si potevano anche rifiutare tutte, ma non cessavano di costituire dei riferimenti, sia pur polemici.

 

Esseri umani in ricerca

Oggi quelle mappe sono come evaporate e noi ci troviamo in mezzo al guado: le certezze di un tempo non ci sono più e al momento non se ne intravedono di nuove.

In questa transizione credo che l’atteggiamento più serio sia quello di persone in ricerca che, da una parte, non si accontentano più della minestra che passano i conventi, ma, dall’altra, non vogliono neppure piegarsi alla banalità del sistema capitalista, del ciclo produzione/commercio/consumo. Se rifletto sul dato che per molte famiglie la domenica è il centro commerciale, viene da chiedermi se veramente ci sia tutto questo guadagno a non andare più in chiesa se poi dobbiamo trascorrere la giornata festiva comprando cose inutili, ingozzandoci di cibi che vengono non si sa da dove, sprecando denaro e soprattutto rinunziando a occasioni di relazione.

Persone in ricerca, dunque. Ma, in concreto, cosa implica un atteggiamento di ricerca?

Apofatismo e spiritualità laica

Mi soffermerei su due componenti.

Innanzitutto quell’apofatismo di cui parla e scrive Luigi Lombardi Vallauri: un silenzio rispettoso, intriso della consapevolezza della nostra piccolezza a confronto dell’universo, di stupore di fronte al mistero che siamo e che ci abbraccia[2]. Quell’apofatismo che per molti mistici è il momento culminante della relazione con l’Assoluto: Tibi silentium laus, di fronte a te - che sei la fonte segreta di tutto - il silenzio è la lode più alta che posso elevare.

Ma l’apofatismo non va inteso come rinunzia a pensare né, ancor meno, a vivere. Mentre le grandi navi che ci avevano ospitato, confortevolmente, per secoli stanno  naufragando, penso che diventi automatico mettersi alla ricerca di una zattera: uno come me, ad esempio, già settantatreenne, non può rimandare chissà a quando il profilarsi all’orizzonte di nuovi bastimenti. Ha bisogno già da subito di una bussola, di alcuni punti fermi su cui contare, sia per la vita personale che per quella degli amici, della società, della Terra intera. Ma una tale zattera esiste?

L’ipotesi su cui lavoro negli ultimi anni è che siano rintracciabili alcune – poche – certezze che possano fare da punto di ripartenza, di rilancio. Se scaviamo dentro tutte le tradizioni sapienziali, più o meno in crisi, troviamo che ognuna di esse è un fiume che porta tanti detriti ma anche qualche perla preziosa. Ciò vale anche per la storia della filosofia dal momento che la filosofia è stata sempre e soprattutto una proposta di saggezza -[4]  un progetto di vita - nonostante, ordinariamente, a scuola e nelle università venga insegnata come se fosse una materia puramente teorica. È’ molto recente la figura del filosofo come professore di filosofia che può dire delle cose con la stessa nonchalance con cui tratterebbe di matematica o di biologia, ma per secoli  è stato colui che sa non tanto parlare con buona dialettica, quanto vivere bene: affrontare la vita, la morte, l’amicizia, le relazioni con consapevolezza, generosità, coraggio, delicatezza, gentilezza.

Ebbene, queste perle che si trovano in tutte le tradizioni sapienziali dell’umanità, penso che possiamo raccoglierle in una sorta di collana denominabile spiritualità laica [3]

Il filo adatto a collegare, sostenendole, le perle costitutive di una spiritualità ‘laica’ non potrebbe essere che la base antropologica, umanistica, al fondo di tante religioni, di tante filosofie, di tante teorie politiche. Qualcuno l’ha individuato nella “regola aurea”: “Non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te” o meglio, in positivo, “tratta l’altro come vorresti che l’altro trattasse te”. Adottando questa[5]  regola come criterio discriminante - come una sorta di lanterna nell’oscurità di una  miniera - possiamo individuare intuizioni, consigli, divieti, appelli presenti in tante epoche e in tante aree del pianeta. Possiamo così raccogliere, come in uno scrigno, una costellazione di principi che ci diano indicazioni per la prassi: mentre discutiamo su religione sì-religione no, su teismo sì - teismo no (tutti dibattiti interessantissimi), la storia incalza: io, oggi, qui, su cosa posso fare affidamento? Su cosa posso contare mentre sono costretto a giocarmi l’unica vita che ho a disposizione?

La zattera su cui aggrapparci nella transizione la possiamo chiamare in molti modi: “spiritualità laica” è solo una delle possibili formule con cui nominare questo nucleo etico elementare, questa grammatica del vivere, questa sintassi basica senza la quale tutte le altre opzioni filosofiche, teologiche, politiche suonano false. L’essenziale non è darle un nome quanto apprezzarne la funzione: se non hai interiorizzato questo galateo; se non hai capito qual è l’ABC delle relazioni; se misconosci il DNA della vita sociale, veramente poi tutto il resto è sovrastruttura, chiacchiera, esibizione. Anche se abbracci sinceramente grandi e nobili cause dell’umanità, la tua voce tradirà un timbro d’inautenticità se non sgorgherà da questi fondamenti etici, da queste radici onto-antropologiche.

Hans Küng ha dedicato tutta l’ultima parte della sua vita a creare, meglio a scoprire – perché c’è già, potenzialmente, ma sotto montagne di bugie, istituzioni, dogmi, codici, liturgie– un’etica universale. Il problema è andare a coglierle queste perle, scovarle e valorizzarle sperimentandole: il gusto del silenzio; la capacità di ascoltare; di sentire compassione per chi soffre (e non soltanto per gli altri esseri umani ma per tutti gli esseri viventi, animali e piante); di ‘patire’ la fascinazione della bellezza naturale e della bellezza artistica; l’attitudine a scartare cibi – materiali e simbolici – tossici e ad alimentarci di “cose” sane, che nutrono.

Credo che se affrontiamo la gioiosa fatica della ricerca non possiamo non trovarle queste pepite preziose che – insieme – concorrono a comporre il nostro piccolo patrimonio sapienziale: una lucina sufficiente per andare avanti di pochi passi, quanto basta per sapere dove metti i piedi, pur senza certezze nelle prospettive di lungo periodo. Sono solo alcuni semi, ma se riesci a coltivarli danno senso alla tua vita e contribuiscono – in misura che non ti è dato calcolare- alla vita collettiva e sociale.

Tre caratteristiche della spiritualità ‘laica’

Anche se, a questo punto, dovrebbe essere evidente, aggiungo esplicitamente che questa spiritualità è talmente ‘laica’ da non essere escludente. Non è “contro” le religioni né “contro” le opzioni politiche: non è “contro” niente, perché pretende di costituire la base senza la quale tutte le altre opzioni (teologiche, ideologiche o d’altro taglio) risultano false o quantomeno sospette.

Come non esclude ulteriori confessioni di fede né adesioni a dottrine politiche, così essa non le esige necessariamente. Pretende di essere auto-sufficiente e, dunque, di poter essere condivisa da atei, agnostici, ideologicamente perplessi. André Comte-Sponville, nel suo libro Lo spirito dell’ateismo scrive: “Il fatto di non credere in Dio non impedisce di avere uno spirito, né mi dispensa dall’usarlo. Possiamo fare a meno della religione (…) , ma non della comunione, né della fedeltà, né dell’amore. Non possiamo neppure fare a meno della spiritualità. Perché dovremmo?”[4]. Questa testimonianza dovrebbe prevenire l’accusa che la spiritualità laica, in quanto spiritualità, sia invasiva e voglia arruolare anche chi ha maturato posizioni comunemente considerate estranee a qualsiasi spiritualità. No, ci sono anche atei a sostenere che la spiritualità vale per tutti, sia per chi crede sia per chi non crede: [6] “Non è perché sono ateo che mi castrerò nell’anima! Lo spirito è una cosa troppo importante perché lo si lasci in esclusiva ai preti, ai mullah o agli spiritualisti” insiste lo stesso Comte-Sponville nelle righe immediatamente successive[5].

Quindi la spiritualità – intesa come coltivazione del nostro io profondo, impegno nel far fiorire le nostre potenzialità, cura di tutte le relazioni con la natura e con gli altri, apertura alla possibilità di sperimentare il mistero – è il terreno [7] in cui possiamo ritrovare molte convergenze con persone, gruppi, movimenti da cui ci ritenevamo distanti. E’ l’ambito in cui possiamo scoprire che ciò che ci unisce è molto più importante di ciò che ci divide.

E allora, a mo’ di conclusione, qualificherei questa spiritualità laica con tre aggettivi.

Il primo: una spiritualità critica. Non mi fido delle spiritualità fondate sulla venerazione del guru né esclusivamente sulla tradizione né ancor meno su dogmi inesaminabili. Esercitare la ragione è, prima che un diritto, un dovere antropologico. Certo la spiritualità non è solo ragione, è anche sentimento, è anche azione; ma una cosa è dire che non è solo ragione, altro è dire che prescinde dalla ragione. Essa è più della ragione di cui, però, non può fare a meno. [8] Se non è critica, finisce nel fanatismo. E purtroppo gli esempi contemporanei non mancano.

La spiritualità laica – abbiamo visto – è intessuta con fili tratti dalle varie sapienze. Con altra immagine, si potrebbe dire che richiama i pezzi di un puzzle. A me siciliano, immerso nell’arte islamico-bizantina[9] , evoca un mosaico. La spiritualità che cerco di delineare, ovviamente come bozza in continua evoluzione, è mosaicale: ogni tessera è necessaria, ma è l’insieme delle tessere che la valorizza.  Ogni elemento, ogni particolare, ogni dettaglio viene arricchito dalla complementarietà con l’altro. Un mosaico differente dai mosaici della Cappella Palatina o del Duomo di Monreale che sono ormai definiti e definitivi: un mosaico aperto perché non finiremo mai di scoprire le cose vere, belle, giuste da cui lasciarci inspirare.  Laicità è anche questa grande apertura, nella consapevolezza che il  [10] mosaico ereditato è sempre da rivedere, da integrare, da completare: è, potenzialmente, illimitato.

La spiritualità laica – critica e mosaicale – la qualificherei, infine, pulsante. Il riferimento iconico è al doppio movimento del muscolo cardiaco: la sistole e la diastole. La sistole cioè l’interiorizzazione: non può esserci spiritualità senza il coraggio di guardarci dentro, di fare silenzio, di interrogare il nostro dolore, le nostre aspirazioni, i nostri desideri profondi… Sappiamo bene che in questa direzione centripeta il mondo orientale può darci molte lezioni sul raccoglimento, sulla meditazione, sulla vigile consapevolezza della nostra interiorità.

Ma la sistole è in rapporto dialettico con la diastole: l’interiorità con l’esteriorità, il riflettere su se stessi con l’agire nella storia. E su questo versante sono fondamentali le tradizioni ebraico-cristiana e islamica. Dall’ebraismo abbiamo imparato che la vera adorazione del divino è agire per trasformare il mondo: il “regno di Dio” di cui parla l’ebreo Gesù, al di là delle mistificazioni clericali che l’hanno ridotto a metafora per indicare un paradiso nell’altra vita, è invece un altro modo di vivere in questa vita. E’ una proposta agli esseri umani[11]  di rifondare i rapporti sociali sulla giustizia, la fraternità, la libertà.

Qualche anno fa è stato tradotto in italiano il libro di un ex-gesuita, Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano[6] in cui l’autore racconta come da giovane cattolico avesse imparato la rilevanza della interiorità; come  poi il crollo del  mondo teologico cattolico avesse comportato il rischio di abbandonare ogni forma di spiritualità; e come da questo rischio l’avesse salvato il buddhismo, scuola di silenzio, di meditazione, di contemplazione. Con tutta la gratitudine verso il mondo orientale Knitter non si nasconde il pericolo che esso possa indurre in tentazioni di segno opposto: l’intimismo, la clausura sterile, la fuga dalla storia. E allora conclude affermando di voler conservare nel cuore  tutti gli insegnamenti  del buddhismo, ma recuperando l’invito ebraico-cristiano ad agire politicamente per  trasformare la società. Così, in modo molto schematico, possiamo dire che non c’è Buddha senza Gesù ma non c’è Gesù senza Buddha, perché non c’è interiorità vivida che non esploda in un’azione sociale, ma l’azione sociale senza un radicamento interiore rischia di essere una confusa agitazione che non incide veramente nel tessuto della storia.

Qualche esempio di pratica

Non posso terminare senza aggiungere che questa ricerca la vivo in relazione con amici e amiche – la mia compagna Adriana in primis - perché convinto che la spiritualità non possa essere una ricerca soltanto  individuale. È’ indispensabile  che ci sia una ricerca personale, ma una spiritualità autentica, completa, non può fare a meno di una dimensione comunitaria. Ormai sono trascorsi più di vent’anni da quando alcune persone  amiche che mi hanno obiettato: “Tu parli di modi alternativi  di vivere la spiritualità, ma dove dovremmo sperimentarli? Non certo nelle chiese o nelle moschee o nelle sinagoghe della città, che molti di noi abbiamo da tempo cessato di frequentare”. Così, una volta al mese, abbiamo iniziato a incontrarci a casa di qualcuno di noi per celebrare quella che autoironicamente abbiamo chiamato “la domenica di chi non ha chiesa”: si inizia con una meditazione condivisa e si passa, al momento del pranzo con ciò che ognuno ha voluto portare a tavola, a una fase di convivialità, di allegria, di leggerezza [12] (abbiamo bisogno di festa, anche se non necessariamente sotto un’etichetta confessionale). Ci vediamo e ci accogliamo a vicenda alle 11 del mattino;  poi ci regaliamo una pausa di silenzio in cui a turno (sottolineo a turno, in modo che non ci sia il “guru” fisso che dirige, che tiene le redini della situazione) uno/una di noi ha un quarto d’ora per suggerire una riflessione. Lo può fare attraverso una poesia, un brano di romanzo, uno spezzone di film, un quadro... Poi, in un clima di concentrazione, i presenti, se vogliono, regalano al gruppo le risonanze suscitate in loro e spesso – non sempre, perché non tutte le ciambelle riescono con il buco! – si tratta di un momento di grande sincerità e intensità.

Qualche volta, durante l’anno, replichiamo questa esperienza anche per un intero weekend: andiamo in campagna, in qualche fattoria sociale che ci ospita (particolarmente cara la Fattoria sociale “Martina e Sara” nei pressi di Segesta) e arricchiamo l’esperimento con musica, danze, alimentazione alternativa (scoprendo che si può mangiare gustosamente anche in modo vegano). Oserei dire, se non rischiassi la retorica di basso livello, che in quei pochi giorni proviamo a vivere, in concreto, il tipo di società che sogniamo.

Dal 2016 varie vicende ci hanno consentito di disporre di un intero appartamento nel centro della città. Abbiamo potuto così offrire uno spazio – la “Casa dell’equità e della bellezza” – a chi desideri la possibilità di incontri, riunioni, seminari, concerti (oltre che ospitalità nella foresteria). Singoli artisti o formatori o scrittori hanno utilizzato questa occasione e una decina di associazioni si alternano nel corso delle settimane per i loro appuntamenti. Come abbiamo scritto nel pieghevole illustrativo, la Casa è un luogo dove studiare, meditare, fruire della bellezza artistica e impegnarsi socio-politicamente: dove, insomma, coltivare quattro dimensioni costitutive di una credibile “spiritualità laica”. Ovviamente non si richiede nessuna dichiarazione di fede religiosa o filosofica o politica: gli unici confini, all’interno dei quali il pluralismo è non solo consentito ma auspicato, sono quelli tracciati dai primi undici articoli della Costituzione italiana[7].

 

Augusto Cavadi

ww.augustocavadi.com


* Il testo è costituito dalla trascrizione, con l’aggiunta solo dei titoli dei paragrafi e dei riferimenti bibliografici in nota, della registrazione di una conferenza tenuta dall’autore a Villa d’Almè (Bergamo) il  2 febbraio 2024, su invito di Gianfranco Cortinovis.

[1] A. Cavadi, Il Do dei mafiosi, San Paolo, Milano 2009.

[2] L. Lombardi Vallauri, Nera luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, Le Lettere, Firenze 2001.

[3] A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Prefazione di O. Franceschelli, Diogene Multimedia, Bologna 2016 (seconda edizione). Il libro è adesso acquistabile anche in formato elettronico al link:  https://www.torrossa.com/it/resources/an/5969369 

[4] A. Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio, Ponte alle Grazie, Milano 2007, p. 114.

[5] Ivi.

[6] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, Introduzione di L. Mazzocchi, Fazi Editore, Roma 2011.

[7] Cfr. A. Cavadi, Che fare? Esperienze di spiritualità ‘laica’ nell’epoca delle chiese vuote, Diogene Multimedia, Bologna 2025.

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 Qui l'edizione originaria illustrata:

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/per-impervi-sentieri-una-zattera-dopo-il-naufragio-delle-grandi-narrazioni/


domenica 29 giugno 2025

SI DELINQUE PERCHE' SI E' MASCHI O PERCHE' LO SI VUOLE DIVENTARE ?

Maschilità, devianze, crimine (Meltemi, Milano 2018), di Cirus Rinaldi, non è un testo divulgativo, ma la sua tesi centrale merita di essere divulgata (anche dopo alcuni anni dalla pubblicazione). Non è un testo divulgativo: infatti l’autore procede in fittissimo confronto con i sociologi, i criminologi, gli antropologi elencati nella bibliografia finale, che occupa ben venti pagine (pp. 161 – 181). Tuttavia la sua tesi centrale merita di essere conosciuta ed esaminata: infatti, capovolgendo l’opinione tradizionalmente maggioritaria, consiste nell’affermare che i maschi, quando delinquono, delinquono  non perché sono maschi, ma perché vogliono diventarlo.

A prima vista la tesi può risuonare sterilmente provocatoria: maschi si nasce, non lo si diventa (né consumando reati né compiendo imprese eroiche). Ma se questo è vero (abbastanza vero, non assolutamente) dal punto di vista biologico, non lo è dal punto di vista socio-culturale: sin dai primi vagiti, ciò che siamo per natura è modellato secondo le idee e i costumi dominanti nel nostro ambiente. Dunque siamo maschi o femmine anche, ma non esclusivamente né prevalentemente, per ciò che ci troviamo fra le gambe (il “sesso”): ma almeno altrettanto rilevante il ruolo che la società ci assegna (il “genere”).  Non si tratta di questioni puramente teoretiche.

Se, come in questo denso testo di Rinaldi, ci limitiamo all’angolazione sociologico-giuridica, osserviamo che in una prima fase la criminologia di matrice materialistico-positivistica ha attribuito alla “essenza” del maschio la propensione a certi delitti e alla “essenza” della donna la propensione ad altri delitti (e ciò sino al punto, ad esempio, che per decenni la giurisprudenza ha stentato ad attribuire a donne responsabilità apicali nelle gerarchie mafiose perché ritenute prive delle qualità psico-fisiche e mentali necessarie). Ma l’evoluzione della ricerca scientifica ha indotto una graduale, sostanziale, modifica: ci sono “vari tipi di maschilità” che “si (ri)producono, insieme ad altre dimensioni identitarie, proprio attraverso il compimento di condotte devianti e criminali” (p. 151): sia “giovani maschi, razzializzati, di classe operaia o sottoproletari che vivono in contesti svantaggiati economicamente”, sia “maschi privilegiati” appartenenti alla borghesia imprenditoriale, autori di “crimini specifici – come frodi finanziarie, peculato, riciclaggio, danni ambientali, etc. –”, “non fanno ricorso a condotte devianti/criminali perché mossi da predisposizioni, indole o propensioni <naturali>” (p. 152), sono “maschi che si sentono in dovere di fare i maschi ad ogni costo o che per sembrare maschi non possono rifiutarsi di fare qualcosa” (pp. 152 – 153). Tipico il caso dei reati ai danni di donne, omosessuali e portatori di handicap che riducono le caratteristiche socialmente attribuite agli uomini: è dominando, offendendo, umiliando, picchiando questi ‘non-maschi’ che certi maschi rassicurano se stessi e gli altri di essere tali.

In queste tematiche la cautela non è mai troppa. Come l’essenzialismo naturalistico rischia di de-responsabilizzare i singoli soggetti (“E’ un maschio e si sa che il maschio è cacciatore…”), così altri approcci socio-culturalistici possono incorrere in errori simili (“Si è comportato così perché il suo ambiente sociale non gli aveva offerto altri modelli di maschilità…”). Ma la ricerca intellettuale è fertile quando, costeggiando gli estremi, ne apprende le parti di vero e le raccoglie verso sintesi nuove, se pur provvisorie. E soprattutto quando sa arrendersi agli enigmi antropologici: per quanto condizionati da tanti fattori biologici e sociali, agli esseri umani probabilmente resta un residuo, sia pur minimo, di libertà. E’ ammettendo  questa capacità irriducibile all’auto-determinazione che possiamo spiegare come mai non si possono stabilire leggi sociologiche assolute: in ogni tipologia di maschi, infatti, troviamo tanto criminali quanto soggetti proattivamente impegnati a rendere questo mondo meno invivibile.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Per la versione originaria (dal titolo redazionale un po' fuorviante) cliccare qui:

Ancestralità criminale del maschio ? no solo pulsioni individuali più o meno patologiche - Zero Zero News