Esattamente
mezzo secolo fa, nel 1975, Oriana Fallaci pubblicava uno dei suoi libri più
noti e apprezzati: Lettere a un bambino mai nato. La giornalista e
scrittrice è ancora lontana dalle opere polemiche in cui – come in Inshallah
del 1990 – proverà a dare risposte sbagliate a questioni vere come le
immigrazioni di persone provenienti da aree islamiche. Nelle Lettere,
come rivelato nel 2015 dal nipote, erede dell'autrice, la Fallaci –
dolorosamente memore di alcuni aborti spontanei che non le consentiranno di
diventare mai madre – si interroga sul senso del mettere al mondo un figlio: in
generale e, in particolare, in un mondo tanto ingiusto come l’attuale.
I
grandi libri ne inspirano – più o meno esplicitamente – altri: Lettere a un
bambino poi nato (Diogene Multimedia, Bologna 2025) di Maria D’Asaro ne è
un esempio luminoso. Tanto più apprezzabile in quanto non è certo
un’esercitazione letteraria, ma una vera e propria ricreazione: è un’opera che,
pur se intesa dall’autrice come omaggio alla Fallaci, se e distacca nei toni e
nei contenuti. Nei toni perché ci sono pagine leggere (come quelle
dedicate alle “diciotto tipologie dei Pokemon” e ad altri giochi infantili) che
spezzano la tensione narrativa drammatica delle pagine fallaciane; nei contenuti
perché si rivolgono a un bambino che alla fine viene alla luce. Uno dei motivi
di interesse per me – lettore due volte differente da Maria D’Asaro perché
maschio e perché non genitore biologico – è che l’happy end (se così
vogliamo considerare la nascita del neonato) non cancella né la memoria dei
dubbi pre-natali né le preoccupazioni per l’avvenire del figlio in un contesto
storico che, rispetto a dieci lustri fa, è peggiorato disastrosamente. Davvero,
come scrive la Szymborska in una lirica che viene qui riportata a mo’ di lunga
epigrafe, “alla nascita d’un bimbo/il mondo non è mai pronto”: troppo affollato
di liti, tradimenti, guerre, vendette…
Alla
luce della nascita del bimbo si ricava
che l’autrice-madre non concorda
con la corrente filosofica degli anti-natalisti che ai nostri giorni sviluppano
con argomenti aggiornati la tesi di antichi saggi come il Sileno che (anche
secondo Nietzsche), alla domanda del re Mida su cosa sia la cosa
migliore per l’umanità, avrebbe risposto: “Non essere nato, non essere,
essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore, per te, è morire presto”.
Se
questa conclusione anti-natalista non è necessaria, ed è anzi opinabile, i
dubbi e le preoccupazioni di Maria D’Asaro (che pure, a un certo punto del
racconto, “incappata nella tagliola del dolore”, si chiede: “Ma perché soffrire
così tanto? Non era meglio non nascere?”) conducono però a una conclusione
necessaria e, a mio avviso, per nulla opinabile: che la procreazione di una
nuova vita dev’essere davvero responsabile. A un figlio che chieda –
verbalmente o silenziosamente –perché sia stato messo al mondo e così esposto a
fatiche e angosce mai minori rispetto alle gioie, i genitori devono essere in
grado di “rispondere” (verbo da cui deriva, appunto, l’aggettivo “responsabile”): non solo
teoreticamente, se hanno delle motivazioni chiare già a sé stessi, ma anche e
soprattutto praticamente. Devono essere in grado, cioè, di tenerlo per mano
sino a quando non sarà in grado di camminare da solo e di accoglierlo ogni qual
volta, anche dopo che ha intrapreso i sentieri più rischiosi e meno
raccomandabili, tornerà a casa bisognoso di protezione dalle intemperie della
storia. Insomma: chi non è disposto a riprodurre la folle magnanimità del padre
del figliol prodigo del vangelo è bene che si astenga dal generare.
Il libro si chiude con una poetica, suggestiva citazione dalla Fallaci: “A cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne generano altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro? A cosa serve giocare come bambini se on si generano altri bambini che ne genereranno altri ancora per giocare e divertirsi?”. D’Asaro sembra, non senza esitazione, condividere. A qualcun altro, come me, sia pur con altrettanta esitazione, non riesce invece di condividere. Il senso della riproduzione della vita, da una generazione all’altra, non può essere la riproduzione stessa, così come la replica della stessa domanda per infinite volte non costituisce una risposta convincente. Anche se nel dibattito pubblico tendiamo a dimenticarcene, la Terra è troppo piccola per sopportare una moltiplicazione continua di abitanti: è evidente che la crescita quantitativa illimitata di esseri umani (approvata da alcune grandi religioni come il cattolicesimo o l’islam) non può essere considerata di per sé un valore. Forse una qualche forma di moratoria (se non totale, almeno parziale) s’impone. Tanto più se è vero, come ha scritto André Malraux, che siamo la prima generazione arrivata sulla Luna, ma anche la prima a non trovare più una ragione per vivere sulla Terra.
Augusto
Cavadi
Versione originaria qui:
https://www.girodivite.it/Lettere-a-un-bambino-poi-nato.html
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