giovedì 18 dicembre 2025

"LETTERE A UN BAMBINO POI NATO": MARIA D'ASARO A CINQUANT'ANNI DAL VOLUME DI ORIANA FALLACI

 

Esattamente mezzo secolo fa, nel 1975, Oriana Fallaci pubblicava uno dei suoi libri più noti e apprezzati: Lettere a un bambino mai nato. La giornalista e scrittrice è ancora lontana dalle opere polemiche in cui – come in Inshallah del 1990 – proverà a dare risposte sbagliate a questioni vere come le immigrazioni di persone provenienti da aree islamiche. Nelle Lettere, come rivelato nel 2015 dal nipote, erede dell'autrice, la Fallaci – dolorosamente memore di alcuni aborti spontanei che non le consentiranno di diventare mai madre – si interroga sul senso del mettere al mondo un figlio: in generale e, in particolare, in un mondo tanto ingiusto come l’attuale.

I grandi libri ne inspirano – più o meno esplicitamente – altri: Lettere a un bambino poi nato (Diogene Multimedia, Bologna 2025) di Maria D’Asaro ne è un esempio luminoso. Tanto più apprezzabile in quanto non è certo un’esercitazione letteraria, ma una vera e propria ricreazione: è un’opera che, pur se intesa dall’autrice come omaggio alla Fallaci, se e distacca nei toni e nei contenuti. Nei toni perché ci sono pagine leggere (come quelle dedicate alle “diciotto tipologie dei Pokemon” e ad altri giochi infantili) che spezzano la tensione narrativa drammatica delle pagine fallaciane; nei contenuti perché si rivolgono a un bambino che alla fine viene alla luce. Uno dei motivi di interesse per me – lettore due volte differente da Maria D’Asaro perché maschio e perché non genitore biologico – è che l’happy end (se così vogliamo considerare la nascita del neonato) non cancella né la memoria dei dubbi pre-natali né le preoccupazioni per l’avvenire del figlio in un contesto storico che, rispetto a dieci lustri fa, è peggiorato disastrosamente. Davvero, come scrive la Szymborska in una lirica che viene qui riportata a mo’ di lunga epigrafe, “alla nascita d’un bimbo/il mondo non è mai pronto”: troppo affollato di liti, tradimenti, guerre, vendette…

Alla luce della nascita del bimbo si ricava  che l’autrice-madre  non concorda con la corrente filosofica degli anti-natalisti che ai nostri giorni sviluppano con argomenti aggiornati la tesi di antichi saggi come il Sileno che (anche secondo Nietzsche), alla domanda del re Mida su cosa sia la cosa migliore per l’umanità, avrebbe risposto: “Non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore, per te, è morire presto”.

Se questa conclusione anti-natalista non è necessaria, ed è anzi opinabile, i dubbi e le preoccupazioni di Maria D’Asaro (che pure, a un certo punto del racconto, “incappata nella tagliola del dolore”, si chiede: “Ma perché soffrire così tanto? Non era meglio non nascere?”) conducono però a una conclusione necessaria e, a mio avviso, per nulla opinabile: che la procreazione di una nuova vita dev’essere davvero responsabile. A un figlio che chieda – verbalmente o silenziosamente –perché sia stato messo al mondo e così esposto a fatiche e angosce mai minori rispetto alle gioie, i genitori devono essere in grado di “rispondere” (verbo da cui deriva, appunto,  l’aggettivo “responsabile”): non solo teoreticamente, se hanno delle motivazioni chiare già a sé stessi, ma anche e soprattutto praticamente. Devono essere in grado, cioè, di tenerlo per mano sino a quando non sarà in grado di camminare da solo e di accoglierlo ogni qual volta, anche dopo che ha intrapreso i sentieri più rischiosi e meno raccomandabili, tornerà a casa bisognoso di protezione dalle intemperie della storia. Insomma: chi non è disposto a riprodurre la folle magnanimità del padre del figliol prodigo del vangelo è bene che si astenga dal generare.

Il libro si chiude con una poetica, suggestiva citazione dalla Fallaci: “A cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne generano altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro? A cosa serve giocare come bambini se on si generano altri bambini che ne genereranno altri ancora per giocare e divertirsi?”. D’Asaro sembra, non senza esitazione, condividere. A qualcun altro, come me, sia pur con altrettanta esitazione, non riesce invece di condividere. Il senso della riproduzione della vita, da una generazione all’altra, non può essere la riproduzione stessa, così come la replica della stessa domanda per infinite volte non costituisce una risposta convincente. Anche se nel dibattito pubblico tendiamo a dimenticarcene, la Terra è troppo piccola per sopportare una moltiplicazione continua di abitanti: è evidente che la crescita quantitativa illimitata di esseri umani (approvata da alcune grandi religioni come il cattolicesimo o l’islam) non può essere considerata di per sé un valore. Forse una qualche forma di moratoria (se non totale, almeno parziale) s’impone. Tanto più se è vero, come ha scritto André Malraux, che siamo la prima generazione arrivata sulla Luna, ma anche la prima a non trovare più una ragione per vivere sulla Terra.

Augusto Cavadi

Versione originaria qui:

https://www.girodivite.it/Lettere-a-un-bambino-poi-nato.html


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