venerdì 5 gennaio 2007

GIORNALISMO OGGI: QUALI REGOLE?


Centonove 5.1.07

Per un’etica del giornalismo

Nel panorama del cattolicesimo italiano Giuseppe Savagnone rappresenta un punto di riferimento intellettuale significativo. Alcune sue posizioni (per esempio, negli anni di Tangentopoli, la critica faziosamente garantista alla magistratura) mi son sembrate francamente inaccettabili, ma - al di là dei contenuti particolari - ho trovato il suo modo di praticare l’attività riflessiva tanto apprezzabile quanto raro: a differenza - infatti - della stragrande maggioranza dei suoi colleghi, per i quali fare filosofia significa sapersi muovere agevolmente fra i testi più o meno classici e fra le novità bibliografiche della letteratura critica, egli preferisce pensare sulle cose. Su questioni precise che emergono dall’esperienza, personale o sociale.

Questa attenzione alla concretezza ed alla quotidianità ha indotto il pensatore palermitano ad occuparsi, in un quarantennio di instancabile attività di conferenziere e di scrittore (decine di titoli, alcuni dei quali tradotti in lingue straniere, con editori di rilievo nazionale), di tematiche che angustiano - o, per lo meno, interessano - ampie fasce di opinione pubblica avvertita: dalla didattica alla mafia, dalla bioetica alla politica, dalla spiritualità all’impegno sociale. Caratteristica costante - pregio o difetto secondo i punti di vista - della sua produzione è di attraversare lo spessore ‘materiale’ dei dati di partenza con uno sguardo che tende verso un punto di vista ulteriore: letteralmente ‘meta-fisico’.
E’ l’atteggiamento intellettuale con cui ha riflettuto sulla sua attività di pubblicista (editorialista di varie testate, tra cui “Avvenire” e “Giornale di Sicilia”) sul suo recentissimo Sotto il segno di Hermes. La comunicazione giornalistica dal conflitto alla democrazia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2006). Non è (o non è soltanto) un breviario deontologico per gli operatori della televisione, della radio e della carta stampata: “in un momento in cui la figura tradizionale del ‘maestro’ sembra essere definitivamente tramontata, coloro che ne hanno preso il posto sono i giornalisti o comunque coloro che, attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano la funzione di opinion leader. Ciò ha una particolare rilevanza ai fini della elaborazione di un’etica pubblica e della maturazione di una coscienza politica diffusa”. La questione viene dunque inscritta nel contesto più ampio del senso di una convivenza democratica: quanto può resistere un regime democratico se, come attestano continuamente le statistiche per il nostro Paese, la popolazione legge poco e guarda il peggio dei programmi televisivi? E come uscire dal circolo vizioso di un’offerta che si adegua ad una domanda poco qualificata e, così facendo, abbassa ulteriormente il livello qualitativo della domanda?
Ovviamente il libro non propone ricette, nel senso moralistico o strumentale, ma invita chi lavora nel campo della comunicazione sociale e chi ne fruisce come cliente a rivedere i propri atteggiamenti: troppo spesso di estraneità o di ironico disprezzo (reciproco). Più in radice, si tratta di rivedere criticamente la dimensione di conflittualità presente nei processi comunicativi: non per demonizzarli o tentare (per altro inutilmente) di nasconderli, ma per imparare a gestirli costruttivamente. Non c’è dubbio che un rapporto biunivoco lega chi fa un giornale con chi lo legge: il primo ha dalla sua un potere culturale, il secondo un potere economico. Se chi scrive “privilegia lo scoop rispetto alla descrizione documentata dei fatti, l’insistenza morbosa su episodi di cronaca nera o rosa, la polemica aggressiva rispetto alla critica argomentata”, di fatto esercita una violenza sull’intelligenza del lettore; ma se questi continua ad acquistare i giornali peggiori e ad evitare i migliori, o ad assistere alle trasmissioni televisive più squallide, da vittima si trasforma in complice.
Traducendo le ragioni etiche in scelte economiche capillari (purtroppo questo aspetto viene solo sfiorato da Savagnone, distratto da un’ottica spiritualistica), si potrà forse attivare un circolo virtuoso: così da eliminare gradualmente dal vocabolario dell’uomo della strada la valenza dispregiativa dell’aggettivo ‘giornalistico’ (sinora inteso come sinonimo di superficiale, approssimativo e mistificante) e da indurre, dall’altro lato, i giornalisti ad adeguare i propri registri linguistici ad un pubblico ‘reale’ che non è così istruito e raffinato come lo immaginano alcuni, ma neppure così rozzo e credulone come se lo rappresentano altri.

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