venerdì 27 aprile 2007

LA RELIGIONE DEL LAICO


Repubblica – Palermo 27.4.2007

Augusto Cavadi

LAICI DI TUTTO IL MONDO UNITI NEL NOME DI DIO

Edward Herbert di Cherbury è stato un poliedrico lord inglese del XVII secolo che - tra la moglie, i numerosi figli, le amanti occasionali, i viaggi in giro per l’Europa, le imprese belliche, i componimenti poetici, gli incarichi diplomatici, i trattati di botanica e medicina, i conflitti con avversari politici di ogni colore, gli acciacchi di salute e le cure termali, la stesura dell’autobiografia, la progettazione del suo monumento funebre con epitaffio incluso  - ha trovato il tempo di scrivere un trattatello di filosofia che viene considerato un manifesto programmatico del deismo moderno: La religione del laico. Un gesuita l’ha tradotto per la prima volta in italiano per i tipi della casa editrice palermitana L’Epos pubblicandolo in abbinamento con una severa, polemica Lettera aperta ai sacerdoti: col risultato di offrire ai lettori una duplice chicca della storia culturale ma anche un frizzante contributo al dibattito attuale. Infatti  - come scrive p. Saturnino Muratore S.J., attento curatore dell’edizione - in questi due testi  “il laico si fa presente come istanza critica di fondo, a difesa di una soggettività personale e di un accesso diretto della coscienza a ciò che è ultimo e definitivo. Non viene affermata una contrapposizione tra universo religioso e universo laico, ma la sufficienza della coscienza e dell’esperienza ‘laica’ nei confronti di qualsiasi, pur legittima, organizzazione e tradizione religiosa”.

Che cosa sostiene, in buona sostanza, il versatile e pungente autore inglese del Seicento?

“In mezzo al terrore e alle tensioni delle diverse Chiese, che si combattono su tutta la faccia della terra” perché convinte di vantare i pregi maggiori (”l’Asia offre filosofi esimi”, “l’Africa ingegni acutissimi e teologi sommi”, “l’India gimnosofisti, bramani, bamiani  e bonzi”), il cercatore “laico” farà bene ad attenersi ad un pugno di “verità che sono valide ovunque e per sempre”, non “costrette entro i limiti di una qualche religione particolare”. Per Herbert di Cherbury questo zoccolo duro di verità - “delineate nella stessa mente (dell’uomo) come dall’alto”,  “indipendenti da ogni tradizione, tanto scritta quanto non scritta” e nelle quali consiste appunto “la religione del laico” - comprende l’esistenza di un Dio universale, la necessità di onorarlo prima di tutto con l’onestà dei comportamenti quotidiani, la prospettiva di un premio e di una pena oltremondani: a noi sembra anche troppo, ma ai suoi tempi ciò risultò tanto riduttivo da meritargli l’inclusione nell’Indice dei libri proibiti.  Anche perché, nella Lettera, annessa al trattatello, l’autore aggiunge, senza molti peli sulla lingua, che sarebbe stato meglio fermarsi a quei pochi princìpi essenziali: “i popoli sono stati resi più litigiosi dalle norme che sono state imposte da Sacerdoti e da interpreti di oracoli, venali e imbroglioni”. Ciò vale anche per i cristiani, convinti di poter salvarsi a buon mercato, o - come i protestanti - “per  mezzo della sola fede” (senza “valutazione delle proprie  opere”) o - come  i cattolici - “per mezzo dell’assoluzione dei Sacerdoti” (”trascurando del tutto quello che spetta loro”).

Sono queste le idee di un antesignano dell’ateismo o piuttosto di un credente illuminato che vuole prevenire l’auto-affondamento delle chiese strangolate dal proprio fanatismo? Ai lettori l’ardua sentenza.

La religione del laico e La lettera aperta ai sacerdoti di Edward Herbert di Cherbury (1583 - 1648) vengono pubblicati in unico volumetto (L’Epos, Palermo 2006, pp. 110, euro 12,80) della Collana “Il pellicano” diretta da Sergio Tanzarella. I due testi sono in prima traduzione italiana in modo da renderli fruibili ad un pubblico sinora ostacolato dalle “non poche difficoltà di un latino costruito in gran parte a tavolino”. L’unica altra opera tradotta in italiano è  la recente (2003) Autobiografia, a cura di F. Bellocci, di una piccola editrice (Tiziano Cornegliani) di Peschiera Borromeo.

sabato 14 aprile 2007

NONVIOLENZA E MAFIA


Repubblica – Palermo 14.4. 2007

Augusto Cavadi
CODICI  ETICI   E  FIACCOLATE  NON  BASTANO ALL’ANTIMAFIA 

Se le associazioni mafiose fossero bande di delinquenti, come ce ne sono in ogni zona del globo, costituirebbero solo un problema di ordine pubblico. Purtroppo sono sotto-sistemi di potere illegale all’interno del più ampio sistema sociale nazionale: per questo costituiscono una tragedia epocale.  Proprio in quanto sistemi di potere, le associazioni mafiose non possono perpetuarsi se non organizzandosi gerarchicamente al proprio interno e relazionandosi fare stabilmente con il mondo esterno. Da quali fasce sociali esse attingono il ricambio dei dirigenti e dei militanti? In quali fasce sociali cercano complicità, appoggi, sinergie? Ancora recentemente, su queste pagine, si è tornati sull’argomento per ricordare che la mafia non è schifiltosa: pesca  (come hanno sostenuto, in successive esplicitazioni, studiosi come Franchetti, Mineo e Santino) tra la borghesia, ma non sottovaluta il consenso sociale degli strati popolari marginalizzati.

Analisi e confronti su questi temi non hanno una valenza puramente teoretica: servono a calibrare meglio le strategie di contrasto. Perché se la criminalità organizzata va facendo capolino nel territorio sotto forma di chiazze, possiamo illuderci che si tratti di bubboni su un tessuto sano; ma possiamo anche convincerci che siano effetti e sintomi di un contesto malato. In una parola: che le mafie non potranno sparire davvero sino a che la nostra società manterrà caratteristiche mafiogene. Che significa, in concreto, questo? Quali sono le idee, le credenze, i complessi simbolici, i comportamenti pratici, ma anche i meccanismi istituzionali e le dinamiche economiche che producono  - e riproducono -  aggregazioni mafiose? Su questi temi ha riflettuto da anni il sociologo Enzo Sanfilippo che giovedì 12 ha tenuto, presso il Liceo Scientifico B. Croce, un incontro pubblico di riflessione a partire dal volume da lui curato Nonviolenza e mafia: idee ed esperienze per un superamento del sistema mafioso (Di Girolamo editore).L’idea centrale è che, come tutte le situazioni di prepotere violento di alcuni su molti (i bianchi sui neri in Sudafrica, gli inglesi sui nativi in India e così via), anche la mafia persiste sin quando la rassegnazione delle vittime consente la spavalderia dei prevaricatori. Cinquemila affiliati alle cosche mafiose siciliane potranno condizionare pesantemente la quotidianità di cinque milioni di cittadini sino a quando ciò apparirà inevitabile ad alcuni, conveniente ad altri, tutto sommato accettabile a molti. E’ illusorio  - se non  ipocrita -  delegare il ribaltamento della situazione ad alcuni organi istituzionali (magistratura, forze dell’ordine) o, peggio ancora, a singoli ‘eroi’. Se non si riesce ad attivare (anche perché, nell’intimo, non si è sicuri di volerlo) un processo  complessivo e duraturo  - all’interno dei partiti, dei sindacati, delle imprese, degli istituti universitari e scolastici, delle amministrazioni pubbliche -  di scardinamento dei privilegi, di rifiuto delle subalternità illegittime, di ripristino delle regole condivise, di trasparenza delle informazioni, ogni scorciatoia risulta deludente. La resistenza contro i mafiosi e i loro fiancheggiatori disseminati nei gangli istituzionali non può correre il rischio della retorica, ma non per questo può rinunziare ad alimentarsi di idealità e di motivazioni di ampio respiro. Chi non si accontenta dei codici etici pre-elettorali o delle fiaccolate da anniversario; chi è davvero convinto che - catturati i Riina e i Provenzano - restano decine di capi e capetti pronti ad ereditarne i ruoli, deve alzare un po’ lo sguardo e misurare le reali dimensioni di ciò con cui intende confrontarsi. Le vicende storiche dei movimenti collettivi suscitati da Gandhi, da Martin Luther King, da Nelson Mandela lo attestano con chiarezza: se ne farebbe volentieri a meno, ma in certi casi non ci si può accontentare di qualcosa di meno di una ‘rivoluzione’.

venerdì 13 aprile 2007

L’EUTANASIA SECONDO POHIER


“Centonove” 13 aprile 2007

Augusto Cavadi 

LA DOLCE MORTE 

Sull’eutanasia (e dintorni) si torna - periodicamente - a dibattere. Ma spesso con una serie impressionante di pregiudizi, disinformazioni, mistificazioni. L’associazione italiana che si occupa di sensibilizzare l’opinione pubblica (e il ceto politico) alla questione, Exit-Italia, ha promosso la traduzione dal francese di un libro prezioso, La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita (Avverbi, Roma 2004, pp. 283, euro 14,00). Prezioso perché chiaro nel dettato, documentato dal punto di vista informativo, pacato dal punto di vista argomentativo: ma prezioso, ancor più, perché nasce da una lunga esperienza di vita dell’autore, Jacques Pohier, che - dopo anni di docenza in teologia e di interessi psicoterapeutici - è approdato alla militanza nell’Admd (“Associazione per il diritto ad una morte dignitosa”) sino a raggiungere i vertici della Federazione mondiale delle associazioni consimili.
Con lucidità aristotelico-tomista, Pohier procede scandendo con chiarezza le tappe di un itinerario intellettuale su cui, non di rado, s’ingarbugliano tematiche diverse. Schematizzando brutalmente, si potrebbero distinguere cinque ambiti problematici: cure palliative, accanimento terapeutico, consenso informato sulle cure mediche ordinarie, eutanasia, suicidio assistito. Su ciascuna di queste problematiche si può maturare un giudizio specifico, nel senso che non costituiscono un blocco unitario da accettare o rifiutare tout court : si può avere una posizione di assenso su una questione e di dissenso su un’altra. Vediamole dunque, rapidamente, una ad una.Cure palliative (che non significa cure illusorie, ma rimedi effettivi per attenuare il dolore provocato dalle malattie o da certe terapie): sono lecite? Ormai è difficile registrare voci in contrario. Chi sostiene, per motivi teologici o filosofici o clinici, che il dolore va accettato senza reagire - perché espressione del volere divino o perché rafforza il carattere o perché aiuta a monitorare il decorso della malattia - si trova sempre più in minoranza. Purtroppo all’evoluzione culturale non corrisponde una pratica coerente: moltissimi medici di base stentano a ricorrere agli oppiacei e, per pigrizia mentale o per evitare complicazioni burocratiche, ritengono quasi un optional lussuoso preoccuparsi di lenire i dolori del paziente (se non in casi eccezionali o in prossimità della morte). Comunque, anche se dovessero trovare la diffusione capillare che meritano, restano un rimedio per brevi tratti di tempo e lasciano irrisolti tanti interrogativi: per esempio la condizione psico-fisica dell’invalido cronico o dell’anziano colpito da processi degenerativi.  Accanimento terapeutico: anche su questo punto sembrerebbe che – in teoria – non debbano persistere dissensi. Non va sottovalutata l’influenza positiva di alcune posizioni del magistero cattolico che, per esempio, nella Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede sull’eutanasia del 5 maggio 1980, riprendendo delle felici intuizioni di un Discorso di Pio XII del 22 novembre 1957, dichiara: “In mancanza di altri rimedi è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare l’esempio di generosità per il bene dell’umanità. E’ anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi” (per il prosieguo della citazione, vedi p. 258). Anche qua, però, la teoria e la prassi procedono su piani paralleli. Chi avverte davvero l’ammalato di ciò che lo attende? Senza questo ‘consenso informato’, chi decide – se non il medico – se un certo intervento chirurgico o una certa chemioterapia vanno considerati come trattamenti ordinari o non piuttosto come accanimento terapeutico? Cure mediche ordinarie: per logica, dunque, anche su questo il malato deve avere diritto di essere informato e di decidere liberamente. Anche perché  - in mancanza di questo diritto ‘allargato’ o ‘pieno’ – potrebbe essere sottoposto a terapie invasive o dolorose per il solo fatto che in un determinato ospedale non vengono più considerate eccezionali come può avvenire in un altro ospedale o come poteva avvenire venti anni prima nello stesso luogo. E’ in questo contesto che appare in tutto il suo rilievo l’opportunità del “testamento biologico” o comunque si voglia denominare una dichiarazione scritta (e in qualsiasi momento revocabile anche verbalmente) in cui il cittadino fissa, per quanto possibile, i paletti alle terapie cui dovesse essere sottoposto in caso di bisogno. Un simile strumento giuridico sottrae certamente potere decisionale ai medici, ma nello stesso tempo li alleggerisce di responsabilità onerose: “nell’attuale situazione, infatti, un medico che non prescrive una cura perché il malato gli ha comunicato di volerla rifiutare non ha alcuno strumento per proteggersi dai rimproveri che la famiglia del paziente, i colleghi, l’amministrazione ospedaliera e l’Ordine professionale potrebbero muovergli” (p. 101).   Con la conseguenza disastrosa che, nel dubbio, si preferisce eccedere: sfiorando o superando la barriera fra cure ordinarie ed accanimento terapeutico.Eutanasia: è la questione che scatta quando, debitamente informato, il paziente rifiuta delle cure (ordinarie o straordinarie) senza le quali la sua vita non s’interrompe, ma prosegue in maniera troppo gravosa (almeno ai suoi occhi). Non c’è dunque solo il malato di cancro che rifiuta la chemioterapia, ma anche il giovane affetto da sclerosi multipla che sa di avviarsi ad una paralisi totale o il vecchio che si accorge di perdere progressivamente la memoria: di fronte a casi simili è lecita l’eutanasia? Pohier non vuole farsi il gioco facile sfruttando analogie ed equivoci e propone, per chiarezza, di abolire l’espressione “eutanasia passiva” per “l’eccellente ragione che l’eutanasia è un atto e dunque non può essere passiva” (p. 110).  Dunque “alcuni atti medici o astensioni di atti medici” (“interrompere un trattamento, ad esempio, oppure impiegare certi farmaci, in particolare gli antalgici, più a lungo e a dosi più elevate”) , non sono “atti di eutanasia, anche se eseguiti sapendo che possono anticipare il momento della morte” : eutanasia è sempre “un atto volto a procurare una morte dolce e priva di sofferenze” (p. 110). Tanto è vero  - si potrebbe notare fra parentesi – che mentre gli atti medici che hanno la morte come effetto secondario sono ammessi dall’etica cattolica e dal diritto penale degli Stati, l’eutanasia propriamente detta (dunque né imposta da estranei né richiesta da un soggetto gravemente depresso e incapace d’intendere e di volere) è condannata dalla Chiesa cattolica e da quasi tutti i sistemi giuridici (anche se, di solito, la si fa rientrare nella fattispecie dell’omicidio del consenziente o dell’omicidio volontario). Impossibile riprendere la miniera di considerazioni (a mio sommesso avviso illuminanti) proposte su questo tema da Pohier. Mi limito dunque a qualcuna delle più pertinenti. La prima - in risposta a chi chiede “dove si andrebbe a finire se ogni medico, ogni infermiere, ogni familiare o amico potessero decidere della morte di qualcuno?” - riguarda “la linea di demarcazione molto netta fra la morte procurata a una persona dietro sua richiesta informata, cosciente e reiterata, e la morte procurata senza tale richiesta”: “nell’ipotesi che venga riconosciuta una qualche legittimità alla prima, sembra indispensabile doverla negare alla seconda” (p. 113). Un’altra considerazione di Pohier potrebbe far riflettere coloro che si oppongono in nome della sacralità (religiosa o ‘laica’) della vita: “l’eutanasia volontaria non è una scelta fra la vita e la morte, né una scelta della morte contro la vita, è una scelta fra due modi di morire” (p. 118). Una terza considerazione di Pohier riguarda la necessità di de-medicalizzare questa problematica: “l’eutanasia non è un problema principalmente medico”, ma da una parte “sociale” (“la società intende o no riconoscere ai suoi membri il diritto all’eutanasia volontaria?”) e, dall’altra, “personale” (di “coloro che intendono esercitare per se stessi tale diritto, una volta riconosciuto”). Al medico resta il ruolo, importante ma circoscritto, di “consigliere nella misura in cui può fornire al paziente chiarimenti sulla durata e sulle condizioni del periodo che gli rimane da vivere” (p. 116).Suicidio assistito: è il punto di arrivo dell’escalation. Una sorta di test decisivo perché porta alla chiara esplicazione numerosi aspetti che, nelle questioni precedenti (cure palliative, accanimento terapeutico, consenso informato, eutanasia), restavano in qualche modo sepolte: ciò che si arriva a pensare in proposito può retrospettivamente rafforzare, o indebolire,  di molto le posizioni pregresse. Infatti se nell’eutanasia volontaria si assegna al medico un ruolo secondario e strumentale, che cosa la distingue – nella sostanza – da un suicidio “medicalmente assistito”? Dal punto di vista concettuale non c’è nessuna differenza: in un caso come nell’altro, si tratta di non lasciarsi intrappolare dalla suggestione dei vocaboli (eutanasia richiama le pratiche naziste che, invece, negavano la volontarietà dell’atto da parte della vittima [cfr. p. 106], suicidio evoca quei casi di “condizioni socio-economiche estremamente difficili” o di “gravi problemi psicologici” [144] che ovviamente sono esclusi da ogni possibile assistenza sanitaria) e di andare dritto al cuore della questione. Il cui “vero nucleo centrale” non è - come risulta abitualmente - “la relazione del medico con il paziente e la sua malattia”, quanto “la relazione del malato stesso con la propria malattia” (p. 104). Disporre dei modi e dei tempi della propria morte è lecito o no? Sapienti, poeti, filosofi e teologi si sono spesso schierati su fronti opposti, passando dal rifiuto radicale di un sant’Agostino a posizioni possibiliste di un san Tommaso Moro (impressionante il brano da Utopia riportato a p. 179)  sino all’esaltazione da parte di un Seneca. Solo una concezione di Dio come Padrone assoluto, più che come Padre amorevole, può stroncare il dibattito in maniera dogmatica (e, perciò, vincolante solo per cerchie sempre più ristrette di cittadini). Non si tratta di cedere al post-modernismo, all’agnosticismo rispetto al destino dell’uomo dopo la morte, al relativismo etico: ciò di cui si è alla ricerca, attraverso il confronto lucido e sereno delle argomentazioni, è una risposta che sia ‘vera’, cioè conforme alla struttura e ai limiti dell’essere umano. La risposta di Pohier è affermativa: con Jean Baechler egli è convinto che “il suicidio” ( operato nel pieno possesso delle proprie facoltà: “dove la coscienza si è dissolta, non vi è suicidio”)  possa rivelarsi, in determinate circostanze, l’estremo modo per affermare  “la libertà, la dignità  e il diritto alla felicità” del soggetto (la citazione dalla ricerca sociologica  Les Suicides del 1975 è a p. 153).  Si tratta di soppesare criticamente questa risposta e, nel caso che la si trovi convincente, rivedere sia eventuali presupposti metafisici con cui entrasse in conflitto sia quelle norme legali che, allo stato dei fatti, la contraddicessero.

martedì 10 aprile 2007

GLI AUGURI PER UNA PASQUA LAICA


“Repubblica - Palermo” 10 aprile 2007

Augusto Cavadi 

I cristiani in lotta per liberare la Sicilia 

Pur trovandomi in Piemonte, ho letto su Internet il dittico dedicato su Repubblica alla Pasqua da un prete (Nino Fasullo) e da un intellettuale non credente (Umberto Santino). I due commenti mi hanno colpito in maniera singolare perché - poche ore prima - avevo avuto la possibilità di partecipare alla veglia pasquale di una delle più attive fra le poche comunità cristiane di base rimaste in Italia dopo l´ondata postconciliare. In genere si tratta di gruppi di credenti che hanno esplicitato il dissenso diffuso nei confronti delle autorità ecclesiastiche cattoliche ma, andando al di là della contestazione, sono riuscite a costituirsi in maniera abbastanza stabile e continuativa come alternative concrete alle parrocchie tradizionali: soprattutto grazie a personalità di notevole spessore intellettuale e spirituale come Enzo Mazzi all´Isolotto di Firenze, Giovanni Franzoni a San Paolo fuori le Mura di Roma o - come nel caso della comunità di cui ero ospite - Franco Barbero di Pinerolo.
Per dare solo un´idea sommaria del clima che ho respirato, all´inizio dell´assemblea eucaristica (concelebrata da tutti i presenti e presieduta da una signora), Franco Barbero - prete cattolico che un provvedimento vaticano di qualche anno fa ha ridotto allo stato laicale - ha dato il benvenuto a persone provenienti da varie regioni, tra cui una coppia di ragazzi omosessuali dei quali avrebbe celebrato, qualche giorno dopo, le nozze. Che fossero omosessuali si è capito solo dal fatto che sono stati presentati con i loro nomi, entrambi maschili: in quella comunità infatti «si prova ad anticipare il tempo in cui nessuno sarà definito in base ai propri orientamenti sessuali ma esclusivamente in quanto persona umana».Ebbene, perché mi sono ricordato delle ore trascorse nella comunità di base di Pinerolo leggendo i due articoli sul nostro giornale? Perché anche sul tema della Pasqua ho percepito, dagli interventi di vari partecipanti alla liturgia, una prospettiva altra: religiosamente laica, altra rispetto alla teologia cattolica come all´angolazione atea. È una prospettiva decisamente minoritaria nel panorama culturale attuale, ma non per questo meno significativa né meno fondata. Secondo questa concezione, la vita e la morte di Gesù di Nazareth non sono evanescenti riproposizioni del «mito del dio che muore e rinasce, legato al ciclo della vegetazione e all´equinozio di primavera»: i testi del Primo e del Secondo Testamento, pur non essendo narrazioni cronachistiche ma predicazioni teologico-religiose, hanno tuttavia una base storica che pochi studiosi del settore sono disposti a negare.Proprio l´analisi scientificamente esegetica attesta però, con altrettanta probabilità, che Gesù non si è mai attribuita alcuna “natura” divina; forse ha permesso che gli si attribuisse in vita il titolo di “figlio di Dio”, locuzione che a quel tempo significa senza possibilità d´equivoci “messia”, “inviato”; ha affrontato la morte non per obbedienza al Padre (che non gliel´avrebbe potuta mai infliggere) ma per un intrigo di interessi umani; come possiamo constatare ogni giorno, non «ha abbattuto la morte e messo fine al suo dominio sui viventi».Essere suoi seguaci significa, per riprendere il titolo di uno degli ultimi libri di Sergio Quinzio, farsi carico della «sconfitta di Dio». Non però passivamente, fatalisticamente, rassegnatamente: ma levando alto il proprio urlo e, soprattutto, spendendosi a piene mani per ribaltare l´esito attuale della battaglia del regno della verità e della solidarietà contro il regno della menzogna e dell´egoismo. In questa opzione fondamentale per gli sconfitti della storia (icone viventi dell´invisibile Sconfitto), i credenti nel Vangelo si inseriscono in un alveo molto più antico della nascita del cristianesimo e molto più vasto del filone confessionale cui appartengono. Per loro si tratta non tanto di testimoniare un “fatto” (la reviviscenza miracolosa di un cadavere) quanto di esprimere una speranza: che, in maniera del tutto inconcepibile e imprevedibile, il Dio della vita accolga nella sua eternità il Servo palestinese (come tutti i suoi figli di ogni civiltà che - prima e dopo di Gesù - hanno vissuto per la giustizia, la libertà e l´amore).Se una cristologia “laica” non è un ossimoro, se si può essere cristiani ripartendo dal Vangelo senza necessariamente condividere l´enfatizzazione progressiva che del Maestro è stata operata nei secoli dalla gerarchia cattolica (con intenzioni in alcuni casi sincere, in altre meno disinteressate), non una delle conclusioni operative suggerite - pur da punti di vista opposti - da Fasullo e da Santino va rifiutata: anche in questa visione della personalità del Cristo, l´essenziale non è cosa si pensa di lui ma come si è disposti a continuare la sua opera, ad attuare il suo messaggio, nella concretezza storico-geografica in cui accade di vivere. Non l´ortodossia delle formule, ma l´ortoprassi delle scelte. E non solo come soggetti individuali alla legittima ricerca di un senso della propria esistenza, ma anche come organismi collettivi capaci - proprio grazie alla dimensione comunitaria e istituzionale - di incidere più profondamente nel corso degli eventi.Scardinare i meccanismi internazionali fondati sullo sfruttamento sistematico dei popoli più deboli; ripristinare la legalità all´interno di un sistema sociale nazionale; liberare una regione da ogni genere di inquinamento ambientale: ecco altrettanti obiettivi che trascendono le possibilità dei singoli cittadini, ma non di aggregazioni motivate ed efficienti, pur se non maggioritarie. Paolo di Tarso ha avuto la genialità di intuirlo: solo un “corpo” che si espande nello spazio e si prolunga nel tempo, animato da uno Spirito di convivialità creatrice, può rendere credibile il destino, apparentemente fallimentare, del profeta di Galilea. A patto, ovviamente, di non irrigidirsi in una struttura dogmatica e autoritaria e di restare - piuttosto - una libera aggregazione di uomini e donne che procedono insieme nella varietà del plurale: affascinati da un progetto, non uniformati dalla disciplina e dalla paura delle sanzioni. È questo sociologicamente possibile? Nella risposta, teorica ed esperienziale, si gioca il presente - e il futuro - del cristianesimo.

sabato 7 aprile 2007

ELEZIONI, CANDIDATI E LA CITTA’


Repubblica – Palermo 7.4.07

Augusto Cavadi

LE CURIOSITA’ DELL’ELETTORE

La chiusura al traffico di parte del centro storico, purtroppo solo per qualche ora la domenica, è un provvedimento di cui non si dirà mai abbastanza bene. Tra gli innumerevoli vantaggi per la salute fisica e mentale dei cittadini ne ho recentemente sperimentato un ennesimo (di carattere, per così dire,  politico-culturale): ascoltare da vicino gli umori della gente. Mi ero appena seduto su una panchina del viale della Libertà accanto ad un pensionato ed ecco che  questi, evidentemente desideroso di contatti umani, mi indica col dito un poster propagandandistico per le prossime amministrative, commentando in forma retoricamente interrogativa: “Ma quanti sono a candidarsi? Allora è vero che non c’è più nessuno che la mattina vuole andare a lavorare?”.  Non sapevo se rispondergli - sulla base delle teorie sociologiche apprese e insegnate a scuola -  che candidarsi ad amministrare la città è una scelta che merita la gratitudine di quanti evitiamo di scendere in campo oppure - sulla base di esperienze empiriche locali -   che aveva azzeccato. Nel dubbio ho eluso, con un sorriso gentile, l’abboccamento.

Ma, tornato a casa, una messe crescente di buste  - inviate dai candidati al consiglio comunale ed ai consigli circoscrizionali - mi ha riproposto l’impertinente interrogativo del pensionato in panchina. Già: fare politica è, di per sé, un lodevole sacrificio delle proprie energie e del proprio tempo a vantaggio del bene comune; ma se è così faticoso, perché molti  - che di solito non si occupano né di politica né ancor meno del bene comune - ci tengono tanto? Ancor meno comprensibile è la ragione per cui altri, dopo aver generosamente speso per la collettività già quattro (o più) anni della loro esistenza, invece di ritirarsi stanchi e soddisfatti a vita privata, prendono la penna in mano per spiegare agli elettori, con dispendio cerebrale e finanziario, perché dovrebbero rivotare per loro. Senza contare che, certe volte, un silenzioso riserbo sul passato darebbe loro maggiori probabilità di consenso per il presente.

Per quanto riguarda, ad esempio, la borgata dove abito, da tempo mi chiedevo come mai le autorità competenti avessero consentito senza intervenire che la piazzetta - spazio pubblico - venisse occupata da una statua della Madonna: un abuso sgradevole per la sensibilità civica degli abitanti laici e per il gusto estetico di tutti quanti (credenti compresi). Una rassegna-stampa completa, inviatami dal presidente della VII circoscrizione insieme ad una sua lettera personale, ha pienamente soddisfatto la mia curiosità: come recita un comunicato dell’interessato, “la statua è stata realizzata diversi anni fa con fondi dei fedeli. Per mantenere vivo il simbolo religioso, di recente, la statua è stata acquisita al patrimonio comunale  e dotata di impianto d’illuminazione. Ora è stata sistemata anche una ringhiera e sono soddisfatto dell’interesse dimostrato dall’amministrazione”. 

Ovviamente, al di là dei ristretti confini della mia borgata, condivido con i palermitani altre curiosità. Per fortuna, missive di amministratori in cerca di bis hanno risposto ad alcuni di questi interrogativi. Mi chiedevo ad esempio come mai Palermo non fosse nella rosa di quelle municipalità civilmente avanzate che hanno provveduto ad un qualche riconoscimento legale dei conviventi. La lettera-aperta, acclusa ai relativi fac-simili, di un consigliere comunale (che è stato poi promosso assessore alla sanità) uscente mi ha chiarito la vicenda: “Fervente credente e sostenitore dei valori cristiani, con l’aiuto di altri consiglieri di partito UDC, ho respinto l’istituzione del registro delle coppie di fatto, presentata da un partito dell’opposizione al Consiglio, cosciente di riconoscere i diritti giuridici di tutti senza sovvertire l’ordine e la forma della famiglia che Dio stesso ha stabilito nella Sua Parola”. Dal prezioso documento ho appreso due notizie che mi erano, malauguratamente, sfuggite. Della prima ho potuto accertare, con soddisfazione, la fondatezza: effettivamente qualche rappresentante dell’opposizione in consiglio comunale ha fatto il tentativo di adeguare la normativa cittadina agli standard europei. Della seconda notizia, nonostante il corso quadriennale di teologia seguito all’università del Laterano alcuni anni fa, non ho ancora trovato riscontro: che da qualche parte la Bibbia sostiene che il tipo di famiglia configuratosi in Occidente negli ultimi venti secoli costituisca l’unico modello ammesso da Dio.

mercoledì 4 aprile 2007

IL MISTERO DEL BIOLOGO

Repubblica – Palermo 4.4.07

Augusto Cavadi



SALVATORE MUGNO

Mecca maledetta

Il pozzo di Giacobbe

Pagine 106

10 euro

Niente paura: il titolo non allude a nessuna crociata antislamica. E’ solo un gioco di parole con cui s’inverte il nome (”Mecca benedetta”) del più lussuoso albergo di Mogadiscio. L’ultimo visitato dal biologo trapanese Giuseppe Salvo in una torrida notte estiva del 1990, dopo la quale il dirigente dell’Istituto superiore della sanità sarà trovato impiccato in una cella della guardia presidenziale del dittatore Siad Barre. Non è un racconto di fantasia, purtroppo; ma un tragico fatto di cronaca  su cui Salvatore Mugno riaccende i riflettori contestualizzandolo nel momento storico del declino di un regime che, perduta la credibilità internazionale, è stato difeso sino all’ultimo solo dal governo italiano a guida socialista. L’autore avanza una serie di ipotesi sui possibili motivi di questa violenza, ma senza privilegiarne qualcuna: “all’origine di ogni morte, dopo tutto, non c’è mai soltanto una ragione”. A lui il merito di provare a non far cadere nell’oblio un frammento di storia minore che consente di guardare dal di dentro vicende più ampie e complesse.

INFORMAZIONI AL TELEFONO


Repubblica – Palermo 4.4.07

Augusto Cavadi

LE AVVENTURE TELEFONICHE NEGLI UFFICI PALERMITANI

Dai telefoni fissi della rete di Palermo si può chiamare tutto il mondo. Ci sono però alcuni numeri che sono off limits. Vietati. Alcuni sono intestati a ditte private. Per esempio, qualche tempo fa, ho tentato di contattare alcuni compagnie di assicurazioni che - sui media nazionali - pubblicizzavano dei contratti, per la responsabilità civile degli automobilisti, particolarmente favorevoli. Purtroppo la risposta automatica mi ha gelato: “Lei chiama da un distretto telefonico dal quale non è possibile stipulare contratti”. Si potrebbe pensare che un privato ha diritto di scegliere i suoi interlocutori, specie se potenziali clienti. Non sarà il massimo del buon gusto, ma può servire almeno a capire che lo strapotere della mafia  - e, più ampiamente, dell’illegalità - è stomachevole moralmente e anche dannoso economicamente.

Più strano è che degli istituti pubblici rendano, di fatto, inoperanti alcune linee telefoniche. Se vi arriva, ad esempio, una cartella delle imposte, relativa ad una vostra dichiarazione dei redditi, ‘pazza’, sulla stessa lettera della “Agenzia delle entrate”  dell’Ufficio Palermo 1 potrete leggere che, invece di scomodarvi da casa, basterà telefonare al numero 091.6803671 e il funzionario responsabile del procedimento vi darà tutte le indicazioni del caso. Ho abboccato e per circa dieci giorni ho provato, nelle ore d’ufficio più disparate, a contattare il destinatario: ma invano. Quando, via internet, sono riuscito ad avere un appuntamento ‘fisico’, l’interessato mi ha candidamente confessato che, se deve lavorare alle pratiche o ricevere i contribuenti, non può assumersi l’onere di rispondere al telefono. Morale della favola: quel numero indicato è solo cartaceo, per salvare l’immagine del servizio. In effetti, fa solo perdere minuti - anzi ore - di tempo.

Un altro numero che, al contrario, è sempre occupato è lo 091.7032181: sarebbe il numero dell’USL 6 per prenotare le visite mediche senza dover recarsi di persona in via Giacomo Cusmano e sottoporsi a lunghe file defatiganti. Dalle ore 11,30 alle 13,30 l’incaricato c’è davvero e davvero risponde alle chiamate (l’ho constatato direttamente in una sorta di sopralluogo): peccato che sia uno solo per centinaia di migliaia di pazienti! Se la statistica è una scienza, la possibilità di trovare libera l’utenza telefonica è pari all’uscita di un ambo al lotto. Infatti, chi è fortunato in amore e sfortunato nel gioco, farà bene a non tentare la sorte per parecchi giorni di seguito: meglio armarsi di pazienza  - e di biglietto numerato all’ingresso - per conferire con l’addetto alle prenotazioni. Ho provato a discutere con la signora dell’ufficio che cura le relazioni col pubblico (che mi ha ricevuto dopo aver concluso qualche telefonata al cellulare per curare le sue relazioni private), ma mi ha allargato le braccia: “Come faremmo a trovare un altro possibile addetto e, soprattutto, un altro computer?”. Già, con la crisi del sistema sanitario regionale, incaricare un secondo impiegato e acquistare un secondo computer sarebbe impresa al di sopra delle possibilità umane: come avevo fatto a non capirlo da solo?