lunedì 31 dicembre 2012

Maria, madre di Gesù, e la sapienza dei pastori


Secondo il calendario liturgico della Chiesa cattolica romana, domani 1 gennaio si farà memoria della Madonna. “Adista” mi ha chiesto un commento al brano di vangelo che sarà letto nelle chiese (Luca 2, 16 - 21) per la sua rubrica “Fuoritempio” (”Commenti al Vangelo di chi è ’svestito’: senza paramenti, dotrina e gerarchie, ma non per questo ’senza Dio’ “).
Ve lo riproduco con i miei auguri… urbi et orbi.

“Adista”, 15. 12. 2012
FUORITEMPIO

La sapienza dei pastori

Celebrare Maria in quanto “madre di Dio” non è per nulla agevole. Se il cristiano ha attinto dal messaggio di Gesù stesso la passione per la verità, non può fare finta che le formulazioni dogmatiche tradizionali non sono entrate in crisi e non allontanano, anziché avvicinare, la gente all’esperienza di fede. Che significa, infatti, questo titolo mariano? Che una donna ha ospitato nelle viscere un essere unico e ineffabile. Gesù Cristo, infatti, sarebbe la seconda Persona della Trinità che, “non cessando di essere ciò che era, ha iniziato ad essere ciò che non era”: continuando a sussistere nella originaria natura divina, avrebbe acquisito anche la natura umana. Il suo “io” sarebbe esclusivamente divino: per miracolo, poi, avrebbe acquistato anche un’intelligenza, una volontà e un corpo umani. Una Persona divina, appunto, con due nature: una divina ed una umana.
Approfitto del privilegio di parlare da laico, senza pulpiti e senza cattedre: se le chiese non sono ancora più spopolate è grazie al fatto che ormai i cattolici non sanno che cosa comporterebbe davvero l’adesione a questo genere di definizioni dogmatiche. Se lo sapessero e fossero messi davanti all’aut-aut (o accettare il koan del Dio-uomo o restare esclusi dalla comunione ecclesiale), la maggior parte resterebbe tagliata fuori. Li salva l’ottavo sacramento: l’ignoranza del catechismo ufficiale. Infatti, anche grazie al silenzio strategico della catechesi ordinaria su questi temi, si può essere ariani senza saperlo e senza vederselo rinfacciare come una colpa. Intendo – pensando al prete egiziano Ario del IV secolo - che si può credere in Gesù come Dio in senso figurato, metaforico, ma dal punto di vista ontologico veramente ed esclusivamente una persona umana, sia pur illuminata e animata dal Soffio dell’Eterno. E che dunque Maria sia stata una donna coinvolta, storicamente e faticosamente, nell’avventura di un figlio - tale nel senso ordinario della parola - che ha identificato la sua causa con il Progetto del Dio d’Israele.
Una simile prospettiva – bollata come eretica, ma statisticamente maggioritaria nella consapevolezza media del popolo di Dio – non attenua in nulla la gratitudine e la devozione verso la madre del Liberatore. Se mai, l’accresce. E’ più facile – infatti – seguire passo passo un figlio che, in ipotesi, si sa concepito miracolosamente e dotato di poteri soprannaturali o un figlio di cui si conosce l’intrinseca fragilità umana? Se Maria ci viene proposta come modello di fede, ciò è molto più plausibile se ella stessa ha esercitato la fiducia contro ogni evidenza: se non ha maledetto un figlio testardamente proiettato verso il Regno di Dio ma, meritoriamente, gli è stato accanto in vita e in morte.
Il brano evangelico ci svela uno dei segreti di questa fedeltà di Maria : sin dai primi giorni della sua esperienza materna, ha saputo osservare ciò che accadeva al figliuolo e “conservare tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Badiamo bene: Luca asserisce questo a proposito di ciò che, “pieni di stupore”, avrebbero detto del bambino in fasce dei “pastori”. Maria è dunque donna di ascolto nel senso più ampio: non si limita ad un ascolto selettivo (ciò che possono dire sapienti stranieri o dottori della Legge locali), ma apre le orecchie della testa, della mente e del cuore anche a categorie sociali considerate marginali (e, sappiamo, anche tendenzialmente peccatrici perché aduse a eccessiva familiarità con animali).
Forse - oggi come ieri - per capire l’identità di Gesù e il suo messaggio salvifico dobbiamo farci attenti alla voce dei “pastori”: di chi sperimenta la durezza del lavoro diurno e notturno, lontano dai propri affetti, gratificato da pochi guadagni e molti pregiudizi sociali. Gli impoveriti del pianeta non sono l’unico “luogo teologico” dove imparare a credere: ma certo costituiscono un luogo imprescindibile. Una relazione con l’Assoluto che voli al di sopra della carne dei fratelli più sfortunati è senza alcun dubbio una relazione illusoria, alienante.

Augusto Cavadi

domenica 30 dicembre 2012

Se la chiesa siciliana rifiutasse i regali di Lombardo...


“Repubblica – Palermo”
27.12.2012

SE LA CHIESA SICILIANA RIFIUTASSE I REGALI DELLA GIUNTA LOMBARDO

Secondo la Gazzetta ufficiale della Regione siciliana, la giunta precedente all’attuale ha stanziato - tra la fine di maggio e la fine di settembre del 2011 - otto milioni di euro da distribuire a parrocchie e oratori per la manutenzione delle chiese, per i seminari, per le attività degli istituti cattolici. Non ho la competenza per valutare caso per caso l’opportunità di questi finanziamenti, ma si sa abbastanza su alcune tendenze generali degli ultimi decenni per nutrire più di un interrogativo. Per esempio il calo di vocazioni religiose e il conseguente svuotamento dei seminari rendono difficilmente intelligibile lo stanziamento di 435 mila euro per il seminario vescovile di Piazza Armerina; così come la frequenza con cui gli istituti religiosi vengono adibiti a usi secolari (alberghi, centri per convegni, scuole private, ricoveri per anziani…) rende perplessi quando si legge che sono stati stanziati 350 mila euro per la “costruzione di un fabbricato a servizio dell’Istituto Servi del Cuore Immacolato di Maria” a Marsala.
E’ nota l’obiezione più immediata: nello stesso periodo, la stessa giunta capitanata da Lombardo, non ha distribuito altrettanto denaro per “indennità di presenza” e “indennità di risultato” a funzionari e impiegati regionali dagli stipendi più che sufficienti, per consulenti esterni e per convenzioni varie? E’ chiaro che gli sprechi sono tutti odiosi, mascherati o meno di legalità formale. Ed è chiaro che su questo sarà giudicata la nuova amministrazione Crocetta. Ma proprio dalle comunità cristiane, che si identificano come discepoli di un Predicatore senza potere e senza ricchezze, ci si aspetta un supplemento di trasparenza e di correttezza sostanziale. L’ex vescovo di Trapani mons. Giuseppe Micciché, qualche anno fa, invitò i suoi preti a rifiutare le sovvenzioni regionali perché, a suo parere, miravano a condizionarne la libertà (e in uno scritto, reso pubblico senza il suo volere, lamentava la scelta di altri suoi colleghi vescovi di opinare diversamente sì da “vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie”).
Ammettiamo però che questi finanziamenti siano non solo legali, ma anche equi; e ammettiamo che Lombardo e i suoi assessori, benché dimissionari, abbiano agito non per clientelismo elettorale, ma per puro senso di solidarietà sociale. Ebbene, anche in questa ipotesi, un gesto clamoroso di restituzione dei finanziamenti pubblici - per devolverli a favore degli strati più colpiti dalla crisi attuale – avrebbe un significato immenso. Sarebbe un messaggio molto più eloquente di tante prediche rituali, di tanti appelli cartacei che nessuno legge né tanto meno interiorizza. Forse, paradossalmente, sarebbe offrendo gli appartamenti destinati ai seminaristi e ai novizi (per ora vuoti) a chi non ha casa, che man mano arriverebbero nuove “vocazioni”: magari ragazzi e ragazze un po’ meno affezionati alla recita quotidiana del rosario, ma sicuramente più desiderosi di vivere le beatitudini evangeliche come occasione di promozione umana e cristiana della società. Una idea balzana, irrealistica? Forse non tanto. In questi mesi la Chiesa ortodossa greca ha compiuto un gesto profetico del genere a favore del bilancio statale della nazione a noi geograficamente – e non solo – vicina. E nella storia di Palermo, sia pure dopo decenni, è ancora viva la memoria di preti, come il salesiano don Rocco Rindone, che mise a disposizione dei senza-tetto i locali dell’oratorio Santa Chiara a Ballarò.

Augusto Cavadi

giovedì 27 dicembre 2012

Qualche considerazione sul parroco di Lerici e il femminicidio


Invitato, cortesemente, dalla redazione del quotidiano on line www.mezzocielo.it (la stessa che cura il trimestrale cartaceo “Mezzocielo”) ad esprimere un parere sulla recente polemica, ho inviato l’intervento che riproduco.

“Mezzocielo.it”
Quotidiano di cultura, politica e ambiente pensato e realizzato da donne.
27.12.2012

Il parroco, le donne e il cattolicesimo sessuofobico

Lo dico subito, anche a costo di impopolarità: don Piero Corsi, il parroco di San Terenzo a Lerici (La Spezia) autore del volantino su “Le donne e il femminicidio”, è una vittima e solo conseguentemente un colpevole. Vittima di una cultura maschilista, sessuofobica, castrante che domina in Europa dal XVII secolo ad oggi. A me fa molta più pena che rabbia. Quanto deve essere infelice, represso, un uomo per dire che le donne devono fare “autocritica” davanti al “fenomeno che i soliti tromboni di giornali e tv chiamano appunto femminicidio” ? Chi ha frequentato ambienti clericali avrà sentito, almeno una volta, raccomandarsi di non guardare direttamente una donna negli occhi “per evitare che Satana possa entrare nell’anima”. E infatti un prozio prete di Niscemi non ha mai più fissato nel volto mia madre - sua nipote – una volta compiuti i 14 anni. Ciò premesso, la gravità oggettiva dell’evento non muta di un centigrado. Monsignor Palletti, vescovo della diocesi interessata, ha fatto bene a ordinare con fermezza la rimozione del tatzebao (“In nessun modo può essere messo in diretta correlazione qualunque deprecabile fenomeno di violenza sulle donne con qualsivoglia altra motivazione, né tantomeno tentare di darne una inconsistente giustificazione”), ma sopprimere un sintomo non significa curare una condizione patologica. In quanto credente nel vangelo e teologo laico sarei del parere di fare attenzione a ciò di cui il manifesto è solo una spia: a quell’iceberg di cui certe stronzate sono solo la punta emergente.
Più che una scheggia impazzita, mi preoccupa quel vasto mondo sommerso del cattolicesimo italiano che – esattamente come don Corsi, ma senza la sua sfacciataggine – ritiene che “le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni”. E’ un mondo di pacifici nonni, di giovani che studiano o lavorano. E di donne, di tante donne di ogni età e condizione sociale che sono - nei confronti delle sorelle ferite o uccise - più crudeli degli stessi maschi.
Che fare? La strategia più radicale sarebbe tornare a leggere il Nuovo Testamento con occhi critici, informati. Riscoprire la figura autentica di Gesù di Nazareth, quel profeta ambulante che non solo parlava in pubblico con le donne (come la Samaritana presso il pozzo d’acqua), ma si attorniava di discepole che l’accompagnavano nelle sue peregrinazioni. E non nascondeva il suo lato femminile, la sua “anima” in senso junghiano, senza vergognarsi di piangere constatando il fallimento del suo tentativo di raccogliere i figli perduti di Israele “come una chioccia prova a radunare i pulcini sotto le ali”. La psicanalista Hanna Wolf potè scrivere il suo splendido saggio su “Gesù, la maschilità esemplare” . Ma riscoprire il Gesù delle origini è pericoloso: si rischia di scoprire che cosa pensava davvero dell’accumulazione del denaro, dell’esercizio del potere, della corsa al successo, della corresponsabilità nei confronti dei soggetti deboli e degli strati sociali sfruttati. Per questo temo che, alla fine, si preferirà seppellire nell’oblio l’episodio del parroco di San Terenzo, ridotto a mero incidente di percorso.

Augusto Cavadi

mercoledì 26 dicembre 2012

La festa della “Sacra famiglia” di Nazareth: qualche perplessità


Su “Adista” del 15.12.2012, per la rubrica “Omelie fuori dal tempio”, è stato ospitato un mio commento al brano evangelico della “Sacra famiglia”.

LA SANTA FAMIGLIA E L’EDUCAZIONE ALLA LIBERTA’ 
COMMENTO ALLA LITURGIA DEL 30 DICEMBRE 2012

A prima vista, la festività odierna presenta qualche aspetto paradossale: viene offerto, a modello delle famiglie, una famiglia in cui – secondo la dogmatica cattolica - il padre (Giuseppe) non è vero padre; la moglie (Maria) non è vera moglie e il figlio (Gesù), in quanto persona divina, pre-esiste da sempre ai genitori. Per fortuna - direi meglio: per grazia di Dio – i vangeli non chiedono di accettare queste acrobazie teologiche, o per lo meno non di accettarle letteralmente come informazioni ‘oggettive’. La pericope odierna, poi, scorre su un registro estremamente realistico: vi si respira un’aria molto terrena, non priva di particolari imbarazzanti.
Imbarazzante, infatti, risulta – agli occhi di una certa retorica familistica che vede in Gesù adolescente il prototipo del ragazzino docile come una marionetta al volere dei genitori – la sua decisione di eclissarsi senza permesso dalla comitiva per sedersi nel tempio, “in mezzo ai maestri della Legge”, ad ascoltarli e a interrogarli. Non meno spiazzante la giustificazione, che Luca mette sulle sue labbra, alle rimostranze della madre angosciata: “Non sapevate che io mi devo occupare di ciò che appartiene al Padre mio?”. Catechesi e omelie sono zeppe di esortazioni ad obbedire, a rispettare le regole, ad attenersi ai propri ruoli: ma questa “legalità”, alla luce del messaggio evangelico, è un valore ultimo? O non è piuttosto subordinato alla qualità dei comandi e dei divieti, alla sensatezza delle norme positive? Brani come quello odierno ci delineano una teologia della contestazione non meno che dell’obbedienza; del dissenso critico non meno che del consenso abitudinario. Sono - come dire ? – il fondamento biblico di battaglie, quali l’obiezione di coscienza al servizio militare (ricordiamo don Milani ed il suo L’obbedienza non è più una virtù), che la chiesa istituzionale troppo spesso trascura. Quando addirittura non le contrasta.
Se la “sacra” famiglia non rientra negli stereotipi del “Mulino bianco”, ma vive - come tutte le famiglie vere, effettive – relazioni complicate, tensioni dialettiche, momenti di intesa e di incomprensione, tutto ciò non toglie meriti a nessuno. Anzi, rende ancor più ammirevoli i suoi componenti. Provo a spiegarmi prendendo a prestito le fila argomentative di una maestra, personalmente agnostica, che mi è molto cara. Gesù - sin da ragazzo e ancor più nettamente da adulto – si dimostra un soggetto autonomo, capace di opinioni anticonvenzionali, determinato ad incarnare nella quotidianità i suoi ideali: una simile personalità emerge come un fiore nel deserto? O non è piuttosto il frutto e il sintomo di un’educazione sapiente? Uomini e donne oscillanti fra passività e ribellismo sono il prodotto di quella che Alice Miller denomina “pedagogia nera”: una pedagogia repressiva, autoritaria senza autorevolezza, umiliante. Il Nazareno, né remissivo (segue ciò che gli sembra la volontà divina su di lui) né sterilmente arrogante (a missione compiuta, riprende docilmente il suo posto all’interno della struttura familiare), è la prova più eloquente di essere stato educato con tatto, con intelligenza, con amorevole delicatezza. Il carattere di Gesù è il motivo più serio della nostra ammirazione verso i suoi genitori. Giuseppe e Maria, di cui così poco sappiamo dal punto di vista biografico, meritano apprezzamento non per improbabili astinenze sessuali, bensì perché hanno generato e allevato e educato un figlio la cui intelligenza e la cui costruttiva intraprendenza sono state oggetto di stupore da parte dei dottori del tempo. Imitarli significa interrogarsi ogni giorno se, verso i nostri figli ed alunni, riusciamo a testimoniare lo stesso mix di fermezza e di comprensione, di propositività e di libertà. Solo così le nostre famiglie - biologiche o di elezione – saranno davvero “sacre” (o, più pertinentemente, “sante”): secondo il progetto originario divino e, perciò, imperfette ma in cammino verso la maturità umana realisticamente accessibile su questa terra.

Augusto Cavadi

lunedì 24 dicembre 2012

Attenti non solo ad uccidere, ma anche a rubare...

“Repubblica – Palermo”
23.12.2012

RECENSIONE DEL VOLUME:

Massimo Vinci
IL PIU’ GRANDE DJANGO DELLA STORIA
Villaggio Maori Edizioni
Pagine 29
euro 3

Dell’io narrante di questo racconto (Il più grande Django della storia), a firma del giovane scrittore catanese Massimo Vinci, non conosciamo il nome autentico, ma solo lo psedudonimo - Antonio Luis De Teffé Von Hoonholtz – a cui intesta le automobili prima di portare a termine le sue missioni professionali di killer mercenario. Un killer lucido e freddo (“ Le mie azioni sono sempre state pulite e puntuali. Un berasglio da colpire, un bersaglio colpito. Due bersagli da colpire, due bersagli colpiti. Mai una sbavatura, mai un errore”) che, però, questa volta si trova davanti un’impresa inedita: assassinare, a spese della vittima stessa, un aspirante suicida. Superate (per la verità senza eccessivi travagli) le pur comprensibili remore morali, il professionista della morte porta a termine il compito ma l’incontro casuale con un’inglesina, a cui decide di sottrarre la valigia, gli rovina il seguito. La breve, intrigante, narrazione procede a ritroso, come per flashback : il lettore scopre che l’esito era stato anticipato nel primo capitolo, ma ovviamente può gustarselo solo quando arriva all’ultima riga dell’ultimo capitolo. Morale (morale ?) della favola: se mettete cura nell’assassinare la gente, non siate superficiali nel derubarla. Potreste evitare la galera per omicidio e scivolare su una buccia di banana per furto…avventato.

Augusto Cavadi

domenica 23 dicembre 2012

Basta un “concorsone” per avere bravi insegnanti?


“Repubblica – Palermo” 23.12.2012

NON SOLO CONCORSI PER AVERE BRAVI PROF

Anche in Sicilia è scattato il “concorsone” per offrire a tanti laureati una possibilità di realizzare la propria aspirazione professionale (almeno in quei casi in cui l’insegnamento è scelto per vocazione, non per ripiego). Anche i non-addetti ai lavori hanno appreso che si arriverà in cattedra dopo aver superato tre filtri: un test al computer, uno scritto e un orale. Se tutto funzionerà a meraviglia, arriveranno in cattedra i candidati più preparati dal punto di vista disciplinare. Sarà abbastanza? Se si trattasse di assegnare posti di “ricercatori”, la risposta sarebbe affermativa. Ma gli insegnanti, che certamente devono essere attrezzati culturalmente e svegli intellettualmente, hanno un compito che travalica - e di molto – l’ambito cognitivo. Devono essere anche didatti e persino educatori. Che significa, in concreto?
In quanto didatti, devono non solo conoscere i contenuti disciplinari, ma anche saperli trasmettere (o, più precisamente, comunicare). E le due qualità non sono per nulla identificabili. Abbiamo conosciuto tutti, nelle nostre carriere scolastiche, docenti preparati nelle proprie materie ma del tutto incapaci di esporle in maniera chiara, graduale, accattivante, coinvolgente. E’ come ricorrere ad un cattedratico universitario, celebre per le sue pubblicazioni scientifiche sull’odontoiatria, che non sappia cavare un dente senza fare sconvolgere il paziente.
Ma la scuola non è solo un presidio contro l’ignoranza: è anche un’agenzia educativa. In quanto educatori, sugli insegnanti pesano delle responsabilità enormi. Che lo vogliano o meno, rappresentano - come i genitori – dei modelli di comportamento che incidono sulla formazione del carattere degli alunni a livello conscio e, ancor più, subliminare. Che disastri può provocare un insegnante instabile psicologicamente, umorale, oscillante secondo le giornate fra permissivismo e legalismo, incapace di assicurare alla classe un clima di serietà e di serenità ? Ancora di più: iniquo nei giudizi perché condizionato da antipatie e simpatie, da pressioni esterne al rapporto con l’allievo, da buonismi inopportuni o da ventate di giustizialismo? Che influenza morale e civica può esercitare un docente abitualmente ritardatario, facile all’assenteismo, che svolge con aria annoiata le lezioni , corregge i compiti in maniera approssimativa? Peggio: che non accetta nessuna forma di confronto né di critica, che non favorisce il dialogo degli alunni fra di loro, che si rifiuta di “rubare tempo” alla matematica o al greco per parlare di un avvenimento, vicino o lontano nello spazio, che ha interrogato le coscienze dei suoi giovani interlocutori? Kant si vantava di non insegnare pensieri, ma a pensare; Einstein di non insegnare nulla, ma di mettere gli altri in condizione di imparare da sé.
Se questo schizzo ha un qualche fondamento, i metodi di selezione e di reclutamento del personale docente dovrebbero essere profondamente rivisti. I vincitori di concorso dovrebbero entrare nei ruoli a tempo indeterminato solo dopo tre anni di effettivo tirocinio, assistito da docenti anziani e passibile di un giudizio anche severo. Certo così entrare nella scuola sarebbe impegnativo come oggi lo è entrare in magistratura o in aereonautica civile: salterebbe il patto perverso che, dalla prima Repubblica a oggi, con la imperdonabile complicità dei sindacati, ha legato Stato e professori (l’uno ha aperto le porte senza troppi filtri iniziali e senza nessun controllo in itinere, gli altri si sono accontentati di stipendi ridicoli e di una professionalità senza prospettive di carriera nel proprio ruolo). Avremmo in cattedra professionisti preparati, bravi a insegnare, non manifestamente inadatti a educare: ma forse sarebbe una rivoluzione che nessuna società, e nessun ceto politico, si può permettere senza rischiare degli assetti ormai incancreniti.

Augusto Cavadi

giovedì 20 dicembre 2012

“Diogene”, trimestrale di “filosofia per tutti”…


…dal numero di Dicembre 2012 è COMPLETAMENTE rinnovato.
Volete sapere di che si tratta? Andate sul sito www.diogenemagazine.eu
Volete riceverne una copia cartacea, gratuita, a casa per visionarlo? Segnalatemi il vostro indirizzo postale.
La direzione è stata assunta da Mario Trombino.
La redazione è stata completamente rinnovata (fra gli altri, ci siamo dentro Serena Passarello, Francesco Dipalo ed io).
L’abbonamento è di soli 25 euro per un anno intero (4 numeri): se poi si acquista un certo numero dei volumi dalla libreria Libreria filosofica on line (www.libreriafilosofica.it) è addirittura gratuito.

martedì 18 dicembre 2012

La violenza dello Stato, la politica e la nonviolenza


“Madrugada”, n. 88, dicembre 2012

La quarta “puntata” della mia rubrica “La politica”

POLITICA E NONVIOLENZA

La gestione dello Stato

Come abbiamo osservato nelle riflessioni precedenti, la politica è nata e vive prima ed oltre lo Stato moderno; ma, di fatto, dal XV secolo ad oggi - almeno in Occidente – essa è anche, e soprattutto, gestione dello Stato. E’ l’arte di manovrare - per il bene comune o per gli interessi privati di individui e/o di ceti sociali – le istituzioni (parlamento, governo e magistratura in primis).

Lo Stato è violento

Gestire, manovrare lo Stato e le sue articolazioni istituzionali: ma se lo Stato è la macchina che possiede in un determinato territorio “il monopolio della violenza” (Max Weber), non è forse la politica l’arte di esercitare “violenza”? La questione si sposta di poco, stemperandosi senza dissolversi, se si traduce la formula tedesca di Weber con “forza legittima”. Lo Stato - anche il più democratico, il più razionale, il meglio governato – funziona solo se è in grado di imporre delle norme, di condizionare i comportamenti dei cittadini, di difendere i confini dai nemici esterni, di imprigionare/processare/condannare/punire i trasgressori delle leggi: e di fare tutto ciò in esclusiva, dunque impedendo che altri soggetti lo facciano in vece sua o in concorrenza con esso (come avviene nel Meridione italiano con le cosche mafiose o in America Latina con gli squadroni della morte). Nel dna della politica, in quanto “affare di Stato”, è inscritta una logica di tensione e di conflitto che solo una soluzione anarchica sembrerebbe in grado di sradicare realmente.
Dico subito che l’utopia anarchica, nella misura in cui è l’altra faccia dell’autogestione sociale, è un’utopia irrinunciabile: sono convinto che qualsiasi statista, se minimamente onesto con sé stesso, sa “di che lacrime grondi e di che sangue” l’esercizio del potere politico statuale e lavori per rendere il Mostro progressivamente più leggero, meno invadente. Meno mostruoso. Tuttavia, nella storia collettiva come nella vita individuale, i tempi sono decisivi. Una condizione ottimale domani potrebbe rivelarsi, nell’oggi, disatsrosa. E viceversa. L’anarchico è un figlio della Rivoluzione francese che non vuole, meritoriamente, spezzare il trinomio libertà-uguaglianza-fraternità (come l’hanno spezzato i regimi liberali senza uguaglianza, i regimi socialisti senza libertà, i regimi cristiani senza né libertà né uguaglianza): ma è un figlio impaziente. Si illude, o vuole illudersi, che siano maturi i tempi in cui la maggioranza - o addirittura la totalità – dei cittadini sappiano autogestirsi senza né violenza né forza legittima.

Per una riduzione della violenza
Che cosa resta da fare, in concreto, al discepolo convinto della nonviolenza (nel senso attivo e combattivo di Gandhi, Capitini, Martin Luther King, Mandela, Tutu)? Innanzitutto impegnarsi, qui ed ora, per la riduzione della violenza. Le cronache registrano ogni giorno esibizioni di violenza da parte delle istituzioni statali (non mi riferisco solo alle forze dell’ordine, ma anche ai mandarini della burocrazia che favoriscono i propri protetti a danno degli ultimi) che sono del tutto superflue. Eccessive. Ingiustificabili.
Ma non basta. Occorre esercitare una critica - teorica e pratica – della violenza che un esame frettoloso giudica irrinunciabile, ineliminabile dalla sfera della politica. La violenza di chi ha i soldi per campagne elettorali spregiudicate, ai danni di candidati limpidi ma sprovvisti di altrettanti mezzi finanziari. La violenza di chi ha i soldi per comprare il voto dei rappresentanti nelle assemblee legislative e deliberative ad ogni livello della piramide statale (nazionale, regionale, provinciale, comunale). La violenza di chi ha in mano tali ricchezze, tali fonti di informazione, tali imprese industriali e commerciali, tali strumenti di corruzione, da potersi permettere il lusso di non ottemperare platealmente a quelle norme che non è riuscito a stravolgere già in sede deliberativa. Senza contare la violenza delle associaioni segrete, delle organizzazioni clandestine, delle cosche criminali che possono condizionare la vita sociale sia “a monte” (quando si tratta di produrre decisioni) che “a valle” (quando si tratta di obbedirvi nella quotidianità). So bene che questi criteri hanno il difetto di essere tanto più validi quanto meno dettagliati esemplificativamente (e libri come Conflittualità nonviolenta del mio amico Andrea Cozzo, edito da Mimesis, aiutano a calarsi dal generico al concreto, raccontandoci episodi storici anche recenti di mediazioni postbelliche, di azioni dirette nonviolente, di esperimenti di difesa popolare nonviolenta). In effetti la nonviolenza in politica - o, in altri termini, la “forza della verità” – entra ed incide solo quando la fantasia dei militanti si scatena e la routine di gesti logori cede il passo a sperimentazioni innovative e coraggiose.

Augusto Cavadi

lunedì 17 dicembre 2012

La Villa romana del Casale a Piazza Armerina


“Repubblica – Palermo”
13.12.2012

VILLA ROMANA DEL CASALE: POCHI CUSTODI, MOLTI UCCELLI

Alla prima occasione utile son voluto ritornare alla Villa del Casale a Piazza Armerina. L’emozione non è stata inferiore alla prima volta, se mai più forte. In poche decine di metri è possibile un viaggio nel tempo di più di venti secoli e, per giunta, paracadutandosi in un’oasi di benessere e di eleganza dell’Impero romano. Non ci sono molti turisti, ma parlano diverse lingue del mondo. Potrebbe essere un’esperienza gratificante come poche. Potrebbe. E invece – come l’anno scorso alla Scala dei Turchi, magico angolo sfregiato da locali – ci sono sempre ragioni per guastarti la festa.
Non sono ancora arrivato alla cassa e un signore chiede alla giovane moglie con bambino di ringraziare un addetto perché li ha esonerati dal pagamento del biglietto. “Non c’è di che” risponde il benefattore: “Davvero generoso con i soldi pubblici” non posso fare a meno di osservare rivolgendomi a chi mi accompagna. Anche noi, muniti di biglietto, entriamo e notiamo che non c’è un percorso per carrozzelle: né per bambini né per disabili. Poi, man mano che esploriamo la meraviglia archeologica, andiamo notando sempre più frequenti mozziconi di sigarette, sacchetti di plastica e di carta, angoli di mosaici dove ristagna acqua piovana. E – soprattutto – cacche di uccelli. Quasi dappertutto. Sono più le stanze sfregiate da deiezioni organiche di quelle esenti. Non sono un esperto, ma ho il sospetto che, marcendo sui pavimenti, questi escrementi non contribuiscano a preservare i mosaici dal deterioramento. Comunque, è già tanto che i visitatori si astengano dagli sfregi (anche le comitive di ragazzini non sempre eccessivamente rispettosi dei monumenti): infatti non vedo in giro neppure un custode che vigili né una videocamera che registri .
Come non chiedersi quanti sono i dipendenti regionali che vengono pagati per accudire alla Villa romana? Come non chiedersi – nel caso fossero insufficienti – quanti sono i ragazzi che hanno studiato restauro e che rientrano nel 40% dei disoccupati intellettuali attuali? Come non chiedersi quali plastici, quali filmati, quali ricostruzioni virtuali in tre dimensioni non si sarebbero approntati in Francia o in Gran Bretagna, in Germania o in Austria, se avessero qualcosa di simile a disposizione? Qui invece – in tutto il percorso – c’è solo una ricostruzione in legno dell’intera area, ma semirovinata e senza indicazioni chiare. A proposito di indicazioni: alcuni leggii predisposti per illustrare le tappe sono vuoti e qualche cartellino – regolarmente predisposto in italiano e in inglese – è talmente al buio che non si riesce a leggerlo. Un cartello avverte del divieto di ingresso in certe zone dove ci sono lavori in corso: forse ne manca uno per avvertire gli operai di non lasciare abbandonati in giro strumenti di lavoro, pezzi di scala in metallo, contenitori di plastica. Un altro cartello invita a non gettare rifiuti per terra: forse sarebbe più convincente se, nelle vicinanze, ci fosse qualche cestino per raccoglierli civilmente.
Quando ci si allontana, si avverte una piccola stretta al petto. Si lascia quel posto incantato con la stessa apprensione con cui si lascerebbero dei bambini in mano a una baby-sitter di cui non ci si fida. Verrebbe quasi voglia di tornarci, silenziosamente, la notte e controllare se questo tesoro a cielo aperto è custodito adeguatamente o se è lasciato in balìa di bighelloni e di tombaroli. Per misurare sino in fondo la madre di tutti gli spread: quell’irresponsabilità abituale che, prima di lasciarsi leggere nei tabelloni elettronici delle Borse, è inscritta nella mentalità di troppi fra noi siciliani.

Augusto Cavadi

lunedì 10 dicembre 2012

Ci vediamo a Bergamo da giovedì 13 a domenica 16 dicembre?

Care e cari amici lombardi,

grazie a Mario, Stefano e Vanni sarò di nuovo a Bergamo per alcuni giorni.
L’occasione è nata da un invito a incontrare, nella mattinata di venerdì 14, degli studenti bergamaschi sulla figura di Peppino Impastato e don Giuseppe Diana.
Oltre a questo incontro ‘riservato’, avrò due momenti pubblici:
* la sera di giovedì 13 , alle ore 21, terrò una conversazione sul tema “Dio, politica e mafia” presso la Fondazione Serughetti La Porta (via papa Giovanni XXIII, 30 - Bergamo)
* la sera di sabato 15, alle ore 21, terrò una conversazione sul tema “La bellezza della politica (specie se laica)” presso la Libreria Terzo Mondo (via Italia 73 - Seriate)
Mi farà piacere sia incontrarvi in una di queste due occasioni sia durante le ore libere delle tre giornate.

sabato 8 dicembre 2012

Meditazione sul senso del natale

Nel numero odierno di “Adista - notizie” (Roma) è stata ospitata una traccia di omelia che mi è stata richiesta per il vangelo di natale (25 dicembre).
La pubblico insieme all’augurio, per ciascuno e ciascuna dei miei “venticinque lettori”, di un natale sereno - soprattutto per quanti hanno bisogno di eliminare le ragioni oggettive di non viverlo lietamente.

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“Adista” 8.12.2012

MEDITAZIONE SUL VANGELO DEL NATALE

Sin dagli inizi il cristianesimo è segnato da un paradosso. Il seme è la parola di un profeta ambulante nella periferia dell’Impero romano: se fosse rimasto tale, non avrebbe perduto la sua semplicità adamantina originaria; ma non avrebbe portato, neppure, frutti nella storia. Così da venti secoli – e chi sa per quanto tempo ancora – il cristiano è felicemente condannato alla dialettica fra fedeltà e creatività: fedeltà ad una purissima testimonianza sorgiva, creatività che traduca quel vulnerabile germoglio in categorie culturali sempre nuove, senza tradirne la sostanza.
L’autore del vangelo secondo Giovanni è tra i primi credenti ad imbarcarsi nell’impresa pressocché disperata: raccontare la novità messianica a un pubblico molto più ampio, e raffinato, degli abitanti del fazzoletto palestinese. Ed eccolo allora abbandonare l’universo simbolico della tradizione midrashica, popolato di angeli e pecorelle, di sovrani orientali e di asini mediterranei, per provare ad assumere le forme di pensiero e di linguaggio dei Greci ( e dei loro ammiratori): “In principio la Parola era; la Parola era alla presenza di Dio, e la Parola era Dio. Essa era presente con Dio in principio. […] E la Parola si fece carne e abitò fra noi. E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria d’Unigenito che viene dal Padre, pieno di amore fedele” (1, 1-2;14).
E’ forse il prodotto di questa inculturazione meno poetico, meno toccante, dei racconti della nascita secodno altri evangelisti? Non saprei. A me riesce commovente questa mossa d’inserire il fatto cristiano in una storia molto più antica e molto più ampia: la storia della ricerca di un Senso delle cose da parte dell’umanità. Nel lontano oriente il Tao; nel vicino oriente la Torah; presso i Greci il Logos: nomi diversi per indicare quel Principio radicale, e luminoso, che – con un sinonimo ormai logoro – potremmo anche chiamare Verità. Una Verità che - specificherà il medesimo testo evangelico – non è una costellazione di idee più o meno organicamente concatenate, ma Via da percorrere e Vita da sperimentare. Che cosa sarebbe l’esistenza, individuale e collettiva, se questa Parola costitutiva dell’universo e della storia non esistesse (fosse solo la proiezione chimerica di un desiderio) o restasse del tutto e per sempre, irrimediabilmente, inattingibile? Ce lo ha spiegato Nietzsche, un pensatore col quale la Modernità cede il passo alla Contemporaneità: “In principio era l’Assurdo; l’Assurdo era presso Dio, anzi era Dio. Questa la parodia più seria che io abbia mai udito”. Se un Senso originario, prima della fondazione di ogni mondo, non fosse, l’universo sarebbe solo un grande deserto senza luna e senza stelle.
Ma l’angoscia davanti allo scenario nichilistico è un motivo sufficiente per asserire, al contrario, che tutto viene dalla Luce e tutto va verso la Luce? In sede di ricerca razionale non basta. Una tesi non può essere preferita ad altre solo perché più confortante. Ma il vangelo, appunto, non è una filosofia (anche se può ispirarne, e ne ha ispirato, tante): è un’intuizione fiduciosa. Esso attesta che degli uomini e delle donne, in cerca come noi del Senso, hanno intravisto nelle parole e nei gesti - soprattutto nel modo di donare lo spirito vitale – di Gesù di Nazareth uno spiraglio nel grande buio che ci circonda. Non perché questo Maestro avesse segreti metafisici da rivelare, ma perché - attraversando come noi e prima di noi l’angoscia del Nulla – si è intestardito a servire. Senza condizioni e senza riserve. Nella sua vita e nella sua morte una Luce rifulse nelle tenebre (e nessuna pagina del vangelo ci obbliga ad escludere che abbia avuto modo di risplendere anche prima, dopo e in altri luoghi): la luce dell’agape, l’agape che è luce. Natale è tante cose, ma non sarebbe tutte queste cose se non fosse – prima di tutto ed essenzialmente – l’interiorizzazione di un’intuizione (e la decisione conseguente di tradurle operativamente): che l’amore gratuito è il senso dell’esistere. Che il vero amore della sapienza è la sapienza dell’amore.

giovedì 6 dicembre 2012

Ci vediamo giovedì 6 a Palermo?



PER UNA CHIESA ANTIPATICA AI MAFIOSI


“ADISTA”, 23.10.2010

Come è possibile che Chiesa e mafia vadano a braccetto? Come si spiega che i mafiosi si considerino persone religiose e soprattutto che la Chiesa tolleri questo connubio? È a partire da questi interrogativi che il filosofo e teologo Augusto Cavadi, autore, fra l’altro, del Dio dei mafiosi (San Paolo, pp. 240, euro 18), ha affrontato - insieme a don Luigi Ciotti e alla sociologa palermitana Alessandra Dino - il tema delle relazioni fra Chiesa cattolica e mafie, al centro dell’incontro organizzato a Roma lo scorso 17 settembre dalla nostra agenzia insieme ad alcune realtà ecclesiali di base (“Sotto le due Cupole. Chiesa, religione mafia”, v. Adista n. 73/10). Se la Chiesa fosse eco del Vangelo di Gesù, è l’idea del teologo palermitano, l’incompatibilità con la mafia sarebbe così evidente da rendere impossibile il connubio; ma la Chiesa cattolica “che cosa ha veramente a che fare con il Vangelo di Gesù?”: è “ancora la comunita’ che rende presenti, efficaci, operanti la sua parola e i suoi gesti?”. Rivedere la stessa idea dominante di Chiesa, di Dio, di Cristo è, secondo Cavadi, imperativo improrogabile se si vuole spezzare questo legame, affinché la Chiesa sia davvero al servizio del Regno di Dio.

PER UNA CHIESA ANTIPATICA AI MAFIOSI
Augusto Cavadi

C’è sicuramente qualcosa che non va se la Chiesa cattolica sponsorizza certi personaggi. Non parliamo neppure dell’atteggiamento di fronte al colpo di Stato in Argentina o, prima ancora, sotto il nazismo. Ma pensiamo a personaggi come Cuffaro, il quale, da presidente della Regione, una mattina ha detto: “Io consacro la Sicilia alla Madonna delle lacrime di Siracusa”. E nessuno dei vescovi ha reagito. Cuffaro viene condannato in primo grado e il papa lo riceve insieme a Casini, e ai due dice: “Affido a voi la difesa dei valori cattolici”. Ho scritto allora sulla Repubblica di Palermo: “Forse sono io che non ho capito quali sono questi valori cattolici, dal momento che vengono affidati a Casini e a Cuffaro!”. Dopo questo articolo Cuffaro mi ha denunciato, chiedendo 20mila euro di risarcimento per il danno da me inferto alla sua immagine di cattolico. Essendo io un professore di liceo, ciò vuol dire che devo regalare a Cuffaro un anno di stipendi. La causa va avanti e nel frattempo lui è stato condannato anche in appello, a 7 anni, 2 in più del primo grado: se la progressione è questa, speriamo che chieda di andare in Cassazione! Se fosse una patologia, si tratterebbe di un episodio, ma, se gli episodi sono ricorrenti, non si può più parlare di un fatto patologico, bensì fisiologico. Non può essere che la presenza di elementi mafiogeni non si trovi solo nei Ruffini, nei Pappalardo, nei preti di cui ci parlava Alessandra Dino, ma nella stessa struttura culturale, nella stessa teologia cattolica?
In una recensione al mio libro, è stato scritto: Cavadi dice che la teologia cattolica produce mafia. Non ho detto questo. Ma produce una visione del mondo che non è assolutamente incompatibile con la mafia, tant’è vero che la mafia riprende da essa simboli, dogmi, riti, pratiche, li fa propri, riconoscendovi un’inquietante somiglianza.

Che i mafiosi scomunichino i cristiani
Allora occorre riflettere su come sia possibile questa conciliazione tra Chiesa e Mafia. Se dovessi terminare qui il mio intervento, rispondendo alla domanda di Alessandra Dino su come Chiesa e mafia possano essere compatibili, direi che, nella misura in cui la Chiesa fosse un’eco del Vangelo di Gesù, l’incompatibilità sarebbe evidente. Ma la Chiesa cattolica che cosa ha a che fare con il Vangelo di Gesù? In questi venti secoli, la Chiesa cattolica è ancora la comunita’ che rende presenti, efficaci, operanti la parola e i gesti di Gesù? I miei amici giornalisti mi chiedono sempre: “Ma tu che ne pensi del fatto che i vescovi non scomunicano i mafiosi?”. Vi confesso che questo problema della scomunica ai mafiosi non mi appassiona. Io, piuttosto, mi chiedo: perché i mafiosi vogliono andare in Chiesa? Ad esempio: a me piace mangiare, quindi non mi verrebbe mai in mente di diventare socio dell’associazione dei  digiunatori; e, se andassi da loro a mangiare, mi butterebbero fuori. La Chiesa cattolica dovrebbe convertirsi al Vangelo e diventare una comunita’ così antipatica ai mafiosi, così alternativa, così altra rispetto al denaro e al potere, da indurre i mafiosi a dire: “Con questi non vogliamo avere nulla a che fare”. Devono essere i mafiosi a scomunicare i cristiani, non il contrario. Se la cultura della Chiesa, è individualista, gerarchica, omofoba, se è un capovolgimento della fraternità e della solidarieta’ evangelica, è ovvio che qualunque forma di organizzazione - prima sono stati il fascismo e il nazismo, oggi la mafia, domani potrebbe essere il leghismo - potrebbe mutuare dal cattolicesimo, non dal Vangelo, alcuni valori come la tradizione, il culto della mediazione, il falso rispetto della donna, l’antropocentrismo violento nei confronti degli animali. L’anno scorso un amico ha pubblicato le lettere di Matteo Messina Denaro (Lettere a Svetonio, Stampa Alternativa), e sono stato invitato alla presentazione del libro, nei pressi di Marsala, dove vive il latitante. “Peccato che non ci sia l’autore - ho detto in quell’occasione - perché vorrei ringraziarlo: finalmente in queste lettere c’è un mafioso che dice ‘io sono ateo e non voglio avere nulla a che fare con i preti’. Sono 150 anni che si attende che i cristiani dicano che non vogliono avere nulla a che fare con la mafia! E non lo dicono”. Questo è il futuro che vorrei, quello di una Chiesa che sia oggettivamente antipatica. Per fare questo bisognerebbe ovviamente rileggere tutta la Teologia cattolica.

Una necessaria revisione
Il concetto di Dio che troviamo nella Bibbia è totalmente diverso da quello che hanno i mafiosi? Il Dio della Bibbia è sempre un Dio padre o è a volte un Dio padrino, violento, vendicatore? Spesso si dice che questa è la visione dell’Antico Testamento. Giuseppe Barbaglio ha scritto interi volumi per dire che l’immagine di Dio nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è quella di un Giano bifronte: vi sono elementi del Dio tenero e paterno nell’Antico come nel Nuovo Testamento, ma vi sono pure elementi del Dio crudele, che condanna all’inferno in maniera irreversibile, anche nel Nuovo Testamento. Analogamente, Luigi Lombardi Vallauri ha scritto un libro in cui dice: “Io sono professore di diritto, ho studiato la dottrina dell’inferno e l’ho trovata anticostituzionale”, perché, per quanto il peccato possa essere grande, la pena deve essere rieducativa, e l’inferno non rieduca; deve essere proporzionale al peccato, e che peccato si deve compiere per essere condannati per l’eternità? Nelle intercettazioni di Bagarella si sente dire: “Ma cosa ti ha fatto?”. “Nulla, deve capire che io sono come Dio, che dà e toglie la vita a chi vuole”. Io mi domando: queste parole Bagarella le dice in quanto mafioso o le ha sentite come le sento io quasi ad ogni funerale, “dobbiamo accettare il fatto che Dio dà la vita e la toglie”? Un Dio che toglie la vita? Non un Dio che soffre perché è morto quel bambino o quella madre di famiglia? Ciò accade quando partiamo da una teologia (cioè da un concetto di Dio) ambigua e non facciamo un lavoro di demitizzazione, di ripensamento critico, anche alla luce di tutte le altre sapienze del mondo. Il cristianesimo non deve solo tornare alle sue fonti, ma deve anche avere il coraggio di accettare le sfide culturali di altre filosofie e teologie che su questi punti pongono domande serie. Io non credo personalmente alla metempsicosi, ma neanche alla possibilità che si sia dannati per sempre dopo una vita così breve sulla terra: deve esserci la possibilita’ di un miglioramento, di una crescita. Ciò per quanto riguarda il Dio Padre, che troppo spesso è un Dio Padrino. E, ripeto, si tratta di fisiologia, non di patologia, non di casi isolati di preti stupidi, suore ignoranti o catechisti impreparati, altrimenti non staremmo qui a discuterne.
Quanto a Cristo, qual è l’immagine che di lui diffonde la Chiesa? Quella bellissima del Pantocrator di Monreale, il Cristo signore e padrone di tutto; quello della Cappella Sistina che respinge i dannati? Che rapporto c’è tra questo Cristo onnipotente e il Gesù di Nazareth che annunciava il Regno di Dio? Il Cristo onnipotente, nella migliore delle ipotesi, dobbiamo adorarlo, ma senza il compito di seguirlo, di imitarlo, di viverne nell’oggi il messaggio. Il Gesù di Nazareth, invece, ci annuncia una beatitudine che non è qualcosa che riguarda l’altro mondo, come talvolta ha interpretato la Chiesa cattolica, o un fatto puramente intimistico. Beati i poveri, quelli che piangono… ma “beati” solo nell’altro mondo e solo spiritualmente. I grandi biblisti ce l’hanno detto chiaro e tondo: Gesù annuncia la beatitudine per i poveri di questa terra, perché ritiene di essere il portatore del regno di Dio che qui e ora, in maniera pubblica, sociale e tangibile, sconvolge la gerarchia dei valori, cosicché, dove c’è violenza, lui porta solidarietà, dove c’è indifferenza, la cura per l’altro, dove c’è dominio, la difesa del povero. Un ultimo accenno alla Chiesa e all’ecclesiologia. Cos’è diventata la Chiesa di Gesù? Ammesso che Gesù volesse una Chiesa… La prima generazione di cristiani ha vissuto la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di tipo democratico, in cui veniva esercitato il senso critico, in cui veniva stimolata la partecipazione. Non una Chiesa verticale fotocopia dell’Impero romano. Da questo punto di vista, rivedere l’idea di Dio, di Cristo, di Regno di Dio, di Chiesa è improrogabile e indispensabile. Perché altrimenti il prete ideale, il martire ideale, diventa quello che muore perché non gli hanno fatto celebrare la messa, perché non gli hanno fatto esercitare le sue funzioni prettamente ministeriali. E il cattolico che abbraccia la lotta per la giustizia, per la libertà, per la dignità degli ultimi, non come un optional o come un qualcosa in più rispetto alla sua missione, ma come qualcosa di intrinseco ad essa? È ad esempio il caso di don Puglisi. Questo è il Regno di Dio e, se la Chiesa non è al servizio di questo Regno, non serve a niente, come aveva già affermato San Tommaso nel Medioevo: chi muore per la libertà e per la giustizia muore per Dio, perché il vero Dio o è libertà e giustizia o non è niente.

lunedì 3 dicembre 2012

Bene comune e Mezzogiorno d’Italia


“Repubblica – Palermo”
Domenica 2 dicembre 2012

Sergio Bastianel (ed.)

EDUCARE AL BENE COMUNE
Il pozzo di Giacobbe
Pagine 134
euro 18

Educare al bene comune (sottotitolo: Una sfida per il Mezzogiorno) raccoglie, a cura di Sergio Bastianel, uno dei più noti moralisti italiani, gli Atti di un convegno svoltosi presso la Facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Convegno a cui hanno partecipato, accanto a teologi come Donatella Abignente, esperti di varie discipline: dal sociologo urbano Fabio Corbiserio al giurista Pierpaolo Forte, dal filosofo Giuseppe Cantillo al sociologo del diritto Lucio D’Alessandro. L’intento comune è riscoprire, nel bel mezzo dell’orgia individualistica e privatistica, la categoria del “bene comune”: una categoria antica che, tematizzata per la prima volta da Aristotele, è passata per l’articolo 3 della Costituzione italiana arrivando anche ai documenti del Concilio ecumenico Vaticano II (dall’apertura del quale ricorre il cinquantesimo anno). Quando intellettuali cattolici e “laici” ricentrano l’attenzione su questo insieme di condizioni sociali che favoriscono la fioritura di ogni singolo soggetto, operano certamente un’azione benemerita: ma – ricordava Blaise Pascal nel XVII secolo – non basta fissare le “buone massime”. Si tratta, poi, di “metterle in pratica”. Forse, in tante riflessioni sul ruolo della Chiesa cattolica e dell’Università nel Mezzogiorno, qualche parola in più di autocritica non sarebbe risultata superflua.

Augusto Cavadi

sabato 1 dicembre 2012

Che succede ai miei colleghi insegnanti in agitazione ?


“Centonove”
30.11.2012

I DILEMMI INFANTILI DEGLI INSEGNANTI (ES) AGITATI

Come prevedibile, la rivolta europea contro i tagli alla scuola pubblica è passata pure per la Sicilia. Via internet e per telefono le notizie corrono da una città all’altra, a Palermo ho potuto assistere a più di un’assemblea sindacale di docenti. La prima sensazione è stata di tenerezza: professori e professoresse di ogni età agitati (dopo anni di sopore) dall’indignazione, dai dubbi, dai propositi bellicosi tipici dei loro alunni. “I governi passano, ma tutti ci trattano con i piedi”; “La responsabilità è soprattutto nostra: siamo una categoria disorganizzata. I nostri sindacati proclamano tre o quattro giornate di sciopero diverse, senza riuscire ad accordarsi per una manifestazione unitaria. Così, ogni volta, ci troviamo in quattro gatti o poco più”; “Se scioperano tassisti o farmacisti, i governi si arrendono: se scioperiamo noi, non succede nulla. Anzi, i diretti destinatari del servizio - gli studenti - esultano”. Un sindacalista, tra i più accalorati, urla: “Le vecchie forme di protesta sono ormai logore. Dobbiamo inventarci qualcosa che dia davvero fastidio agli altri!”. Le proposte fioccano e, con la stessa velocità, si spappolano per aria: “Annulliamo i viaggi d’istruzione, così danneggiamo gli operatori turistici”; “Blocchiamo l’adozione dei libri, così danneggiamo l’editoria”; “Cancelliamo i ricevimenti dei genitori, così danneggiamo le famiglie”. A mezza voce, il vecchio docente alle soglie del pensionamento obietta: “Se vogliamo davvero rompere le scatole a qualcuno, continuiamo a fare lezione come ogni giorno: gli alunni non ce lo perdoneranno facilmente…”. Il più delle volte la tempesta si condensa in un bicchierino da rosolio: tuoni e saette producono un documento di protesta (sulla cui punteggiatura si discute mezz’ora) da inviare al ministero e agli organi di stampa. E che, ovviamente, non sarà letto da nessuno.
Davvero non c’è nulla da fare per incidere sulle scelte politiche di un governo? Due piccole cosette ci sarebbero. La prima: contribuire alla composizione di un parlamento decente per competenza e onestà. Ma già da questo punto di vista, gli insegnanti non si differenziano dalla media dei cittadini italiani: quasi metà non vota, più di un quarto vota per il centro-destra e meno di un quarto per il centro-sinistra e la sinistra. Il risultato è un parlamento incapace di esprimere, dal suo seno, un governo e, al massimo, disposto a sostituire l’allegra brigata Berlusconi con una squadra di tecnici seri. Dunque seriamente impegnati a costruire un Paese dai connotati conservatori, liberisti, filo-atlantici, clericali…Accettare, attivamente o astensionalmente, un progetto globale di società e protestare solo quando vengono toccati i propri interessi individuali e corporativi si chiama qualunquismo. Come avvertiva Paolo Borsellino, le proteste si fanno in piazza, ma le rivoluzioni con la matita e la scheda nel segreto dell’urna.
Come educatori, poi, gli insegnanti potrebbero sbilanciarsi anche su un secondo obiettivo: favorire la formazione di nuove generazioni di cittadini, più attenti ai dibattiti politici e meno disposti a vendere il proprio voto (o a tenerselo in tasca con sterile disprezzo verso chi andrà al potere lo stesso, senza certe fette di consenso e anzi grazie proprio a tale astensione). Facendosi scudo di un principio sacrosanto (“niente propaganda elettorale nelle aule”), la stragrande maggioranza degli insegnanti mette in pratica un principio molto meno sacro e molto meno santo: “niente cultura politica nelle aule”. L’andazzo è vecchio: l’analfabetismo politico si trasmette da una generazione all’altra con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. La Costituzione? Tutti l’esaltano, nessuno la legge. Quotidiani e telegiornali? Una perdita di tempo. Saggistica di qualità sui temi storici e contemporanei? Spreco di denaro…Così non solo i docenti, ma un po’ tutte le categorie professionali (che si formano nell scuole), tacciono quando un governo glissa sulla lotta contro l’evasione fiscale, investe cifre astronomiche in armamenti, dilapida risorse per alimentare il clientelismo e il familismo…per poi strepitare quando il medesimo governo - o la sua bella copia subentratagli – gli mette le mani in tasca.
Occuparsi di politica e suscitare nei giovani l’interesse - se non addirittura la passione – per essa: obiettivi troppo semplici per meritare d’essere perseguiti. Meglio illudersi che basta una settimana l’anno di agitazione collettiva per raddrizzare le gambe ai cani. Meglio ignorare che la dimensione politica non è un optional e che, se i cittadini non se ne occuperanno, sarà la politica ad occupare le loro vite. E talora a rovinarle.

Augusto Cavadi

giovedì 29 novembre 2012

Il Verona gioca a Palermo: trasferta in Africa?


“Repubblica – Palermo” 29.11.2012

IL TIFOSO LEGHISTA E LA TRASFERTA IN AFRICA

Secondo molti antropologi è in Africa che si è perfezionato – per la prima volta – il processo di ominizzazione: la nostra specie ha superato il livello evolutivo dei primati ed è diventata umana. Ed è in Africa - molto prima che in Grecia o a Roma, per non parlare delle aree selvagge dell’Europa continentale – che è maturata la civiltà egiziana, madre sapiente e tecnologicamente esperta di tante altre civiltà, in Oriente come in Occidente. Senza un certo Gesù di Nazareth e un certo Agostino di Tagaste, entrambi africani vissuti appena al di là del Canale di Sicilia, non ci sarebbe stato il cristianesimo. E quando la civiltà cristiana è entrata disastrosamente in crisi - come nell’Alto Medioevo, quando Roma era poco più di un villaggio tra le cui rovine pascolavano le pecore – ancora una volta è stato attraverso l’Africa che ci ha salvato l’islamismo (nato in Medio-oriente): dal VII secolo sino al XIII una delle civiltà più raffinate intellettualmente e più attrezzate scientificamente che siano mai apparse sulla faccia della terra. Senza il suo contributo, meraviglie architettoniche come l’Alhambra di Granada o il Duomo di Monreale non sarebbero state erette.
Poi, dal XVI secolo a oggi, il colonialismo europeo prima, e statunitense dopo, hanno preso di mira il Continente nero come campo di spietato sfruttamento di materie prime e persino di uomini e donne ridotte in schiavitù. L’economia di tanti villaggi perfettamente autonomi è stata stravolta: con la furbizia o con la violenza le grandi multinazionali hanno estirpato le coltivazioni tradizionali e impiantato monoculture di estensione industriale, rendendo le popolazioni indigene salariati precari. Gli italiani, brava gente, sono stati i primi nella storia del mondo a bombardare la popolazione civile in Libia nel 1911 e ad usare le armi chimiche in Etiopia durante il regime fascista. L’Africa non è dunque un’area povera che si deve vergognare della povertà, ma un’area impoverita di cui si devono vergognare i conquistatori del Nord del mondo.
Tutto questo è ben noto negli ambienti istruiti e, dunque, a maggior ragione, nelle sezioni della Lega Nord. Ecco perché sono certo che Massimo Bessone, consigliere Comunale della Lega Nord e Pdl a Bressanone e coordinatore della Lega Nord Isarco e Pusteria (Trentino-Alto Adige), quando ha scritto sul suo blog che il Verona avrebbe giocato a Palermo la sua prima trasferta africana, ha inteso fare un complimento ai siciliani. L’unico problemino che resta è confortare le famiglie di tanti immigrati africani che, da anni, lavorano nelle industrie del Nord-Est italiano: nelle ultime ore si sono moltiplicati i segnali di grave preoccupazione per i propri cari, costretti da un destino amaro a trasferirsi in zone dell’Europa dove sopravvivono ancora esemplari antropologici che la Modernità si era illusa di aver civilizzato una volta e per sempre.

Augusto Cavadi

venerdì 23 novembre 2012

Il direttore di “Famiglia cristiana” a Palermo


Nell’ambito delle iniziative per festeggiare il rinnovo dei locali della Libreria Paoline di Palermo, don Antonio Sciortino ha tenuto una conversazione pubbica sul rapporto tra fede e comunicazione sociale.
Per coincidenza, sono usciti oggi due miei pezzi complementari sull’argomento.
Il primo (dal settimanale “Centonove”) è un resoconto della serata.
Il secondo (sulla pagina siciliana di “Repubblica”) è un’intervista a don Sciortino (che qui riporto senza i tagli redazionali, quasi tutti riguardanti le mie domande più che le risposte dell’intervistato).



“Centonove”, 23. 11. 2012

SE LA CHIESA DIMENTICA IL VANGELO

Una serie di iniziative nel mese di novembre stanno festeggiando il rinnovo completo dei locali di una delle librerie storiche di Palermo: la Libreria delle Edizioni Paoline che, da ben 83 anni, opera in uno dei palazzi che fronteggiano la stupenda cattedrale arabo-normanna della capoluogo regionale. All’interno di queste manifestazioni si è tenuta, la sera di giovedì 15, una conversazione di don Antonio Sciortino, attuale direttore del settimanale “Famiglia cristiana”. Il tema annunziato era abbastanza pacifico: l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale alla luce del Concilio Vaticano II (di cui ricorre il cinquantesimo dell’apertura). Ma il relatore ha avuto il merito di non affrontare la questione attenendosi al registro celebrativo-omiletico: con gli occhi spalancati sull’attualità, ha mostrato il coraggio di parlare a cuore aperto senza infingimenti diplomatici.
Il filo rosso della conversazione si può concentrare nella domanda: la ventata rinnovatrice del Concilio Vaticano II è stata stemperata, se non addirittura tradita, dalla Chiesa? La risposta è stata, senza ‘se’ e senza ‘ma’ , affermativa. Per suffragarla, don Sciortino ha evocato due argomenti principali. Il primo: i papi successivi a Giovanni XXIII e a Paolo VI sono stati bloccati dalla preoccupazione di trasformare la struttura verticistico-monarchica in senso collegiale, sinodale. I “sinodi” dei vescovi continuano, ogni tanto, a essere convocati: ma si svolgono a porte chiuse e, anche quando si concludono, l’opinione pubblica (ecclesiale ed extra-ecclesiale) non sa cosa davvero sia stato detto dai prelati intervenuti. Solo dopo circa due anni il papa edita un documento sul tema del sinodo, documento nel quale c’è appena qualche rara e pallida traccia di ciò che davvero era stato dibattuto e proposto.
Ma – questo è un secondo argomento evocato dal direttore di “Famiglia cristiana” – i vescovi, praticamente zittiti dai papi, si rifanno nelle loro diocesi: riproducono, nei propri microcosmi, l’impianto piramidale. Più in particolare ciò comporta che essi si attorniano di preti fedeli e, quasi sempre, tengono i laici – uomini e donne – a debita distanza. Insomma, questi cinquant’anni non hanno assistito alla declericalizzazione della Chiesa cattolica: i battezzati-cresimati in serie B erano e in serie B sono rimasti.
L’atmosfera complessiva – ha ricordato il relatore – è ben resa dal titolo di un recente libro scritto a quattro mani da un prete e da un laico cattolico: Manca il respiro. Il fervore di idee, la vivacità di proposte, la ricchezza di sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta all’interno delle comunità cattoliche sono ormai un ricordo lontano: per evitare anche solo il rischio del conflitto, si preferisce un silenzio tombale. Don Sciortino non l’ha detto ma, a molti dei presenti, son tornati alla mente gli attacchi ripetuti che, negli ultimi venti anni, sono stati rivolti a “Famiglia cristiana” per il suo atteggiamento critico nei confronti di tanti aspetti della politica interna e internazionale dei governi succedutisi, soprattutto di centro-destra.
Una Chiesa che non favorisce, anzi addirittura contrasta, la comunicazione al proprio interno è una Chiesa che non sa dialogare al proprio esterno. Ci sono stati momenti nella storia recente (si pensi alla “guerra fredda” fra Stati Uniti e Urss) in cui la parola del papa, dei vescovi, dei laci impegnati (come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira) è risuonata con autorevolezza ed è stata recepita con rispetto: ma da troppo tempo, ormai o non la si ode quando la si attenderebbe (per esempio contro le leggi razziste riguardo agli immigrati) o la si ode quando non la si attenderebbe (per esempio a favore di finanziamenti statali alle scuole private).
Se questa è la diagnosi, la terapia è semplice da enunciare e ardua da applicare: ritornare allo spirito del Concilio Vaticano II e, più in radice, al vangelo di Gesù il Signore. Non si tratta di inventare nuovi contenuti: l’essenziale è stato detto una volta e per sempre. (Anche se – aggiungerei a titolo personale - troppo spesso questo “essenziale” viene incompreso e travisato, per varie ragioni tra cui l’ignoranza delle scienze bibliche). Si tratta di inventare nuove modalità di comunicazione: non si può continuare con il tono di chi ammaestra perché non ha nulla da imparare da nessuno, bisogna osservare i nuovi stili comunicativi (inseparabili dai nuovi mezzi tecnici di comunicazione) e imparare ad adottarli. La comunicazione, oggi ancor più di ieri, lungi dal ridursi a trasmissione unilaterale da un emittente a un ricevente, è scambio bilaterale e paritetico. Una Chiesa che voglia farsi ascoltare deve acquisire un atteggiamento previo di ascolto e, conseguentemente, di sintonizzazione con la lunghezza d’onda della società. Altrimenti i suoi monologhi saranno destinati ad incartarsi in sé stessi, la sua lingua si ridurrà a un dialetto specialistico per nostalgici di un tempo tramontato e di una subcultura in via d’estinzione.

Augusto Cavadi



“Repubblica – Palermo” 23. 11. 2012

CHIESA E MAFIA, IL RAPPORTO AMBIGUO
Intervista a don Antonio Sciortino

Non è proprio un ritorno a casa, ma quasi. Don Antonio Sciortino è nato infatti cinquantotto anni fa a Delia e, dopo varie tappe, è arrivato a dirigere uno dei settimanali più diffusi, più amati e più contestati del Paese: “Famiglia cristiana”. Il periodico che, durante il ventennio berlusconiano, qualcuno ha definito – con leggera esagerazione – l’unica voce di opposizione del mondo cattolico. La Sicilia l’ha lasciata subito dopo il ginnasio e ha vissuto la maggior parte della vita a Milano. Quando qualcuno si è stupito che fosse assegnato a un siciliano l’Ambrogino d’oro, ha risposto di considerarsi ormai un milanese d’adozione. “Ma le mie radici restano sempre in Sicilia” – si affretta ad aggiungere – “assieme agli affetti e ai valori di dignità e onestà che ho respirato, fin da bambino, in famiglia e nella mia terra”. Già, la Sicilia. In cosa la trova mutata in questi decenni? La sua visione delle cose non è entusiastica: “Purtroppo, faccio fatica a capire un’atavica rassegnazione dei miei compaesani, che accettano tutto come fosse un destino cui non possono farci nulla. Come i vinti di Giovanni Verga, destinati alla sconfitta. Così, per loro è normale che, soprattutto in estate, nei paesi manchi l’acqua o arrivi col contagocce. Senza reagire come si deve, perché acqua, strada e luce non si negano a nessuno. Invece, si ritengono fortunati se dai rubinetti scorre l’acqua almeno tre giorni alla settimana. Eppure, la Sicilia è ricca d’acqua. E così in tante altre situazioni, dove il diritto diventa un favore che bisogna implorare o pagare per averlo. Non è cresciuto il senso di cittadinanza attiva e di partecipazione diretta alla costruzione del proprio destino e dello sviluppo del proprio paese. In positivo, c’è qualche accenno di risveglio civile da parte dei giovani, che non si rassegnano alla dittatura della mafia. E cominciano a capire che la malavita organizzata è una schiavitù, un destino di morte e non di libertà e di vita”.
A un prete-giornalista, che per anni ha seguito Giovanni Paolo II nei suoi viaggi intorno al mondo, è difficile non chiedere un parere sull’atteggiamento della gerarchia cattolica nei confronti dei mafiosi: dall’appello di papa Wojtyla nella Valle dei Templi alle recenti scomuniche dell’arcivescovo di Agrigento che i mafiosi non li vuole in chiesa né da vivi né da morti. “Certo” – osserva don Sciortino - “dall’affermazione di tanti anni fa che la mafia in Sicilia non esisteva e che era un’invenzione del Nord, a dichiarazioni esplicite di condanna, il salto è stato netto e positivo. Bisogna far capire che non c’è nessuna accondiscendenza da parte della Chiesa alla mafia e alla mentalità mafiosa. Malavitosi che esibiscono Bibbie, Vangeli, crocifissi e icone sacre nei loro nascondigli offendono il sentimento religioso dei credenti. E fanno un torto a Dio con il quale, come tuonava Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, dovranno fare i conti un giorno. Ma” – aggiunge subito - “la denuncia pubblica, sia pure importante, non basta. Bisogna partire dalla formazione delle nuove generazioni. Sradicare la mafia è possibile, non solo con la repressione delle forze dell’ordine, ma soprattutto incidendo nella mentalità dei giovani. Con la scuola e l’educazione. I ragazzi devono capire che il rispetto della legalità e l’onestà sono valori che appartengono non ai deboli, ma ai forti”. A proposito di educazione, gli chiedo quanto possa essere efficace un’azione pedagogica non supportata dall’esempio. E per essere più esplicito, dopo avergli ricordato che , in questi ultimi anni, alcuni politici hanno costruito la propria fortuna elettorale sbandierando la propria appartenenza ecclesiale , gli chiedo come mai nessuna voce autorevole del mondo cattolico abbia preso le distanze da questi politici né quando scalavano le vette del potere né quando ne sono precipitati per acclarate responsabilità penali. Il direttore di “Famiglia cristiana” mi scruta un momento, quasi a volersi concentrare. Ma non elude la questione: “Nessuno deve strumentalizzare la Chiesa per scopi politici e di parte. Ma, al tempo stesso, neanche la Chiesa deve farsi strumentalizzare e usare, in cambio di favori e privilegi. La sua voce deve essere nitida e alta quando sono in ballo valori fondamentali. O quando vengono calpestati i diritti dei più deboli e indifesi. Deve annunciare il Vangelo nella sua interezza e scomodità, rispetto alla mentalità corrente, senza balbettare. Anche quando non è facile dire la verità. E c’è un costo da pagare. Ma la verità, come ci ricorda il Vangelo di san Giovanni, ci renderà liberi. No, quindi, ai compromessi col potere, soprattutto se iniquo”.
Don Sciortino è a Palermo per parlare, nella rinnovata sede storica della Libreria Paoline di Corso Vittorio Emanuele, del rapporto fra la fede e la comunicazione sociale. Palermo, nel maggio dell’anno venturo, sarà teatro di un evento dall’ampia risonanza mediatica: il parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, sarà proclamato “beato”. Alcuni considerano illuminante che la Chiesa proponga a modello un prete che, invece di fare finta di niente, abbia affrontato il prepotere mafioso faccia a faccia. Ma altri temono che, elevando don Puglisi agli onori degli altari, lo si releghi un po’ troppo in alto: che si possa suggerire, involontariamente, la convinzione che solo figure eccezionali di santi possano sfidare il martirio e che i preti “normali” siano legittimati a mantenersi prudentemente distanti da questo genere di problematiche. Ma don Sciortino sembra condividere solo in minima parte questa preoccupazione: “Tutti i preti dovrebbero fare quello che faceva don Puglisi. Che non faceva nulla di così straordinario, se non annunciare il Vangelo ed educare le nuove generazioni secondo i principi cristiani. Che sono quanto di più opposto ci sia nei confronti della mentalità mafiosa. Ed era proprio questo che dava fastidio. Perché così don Puglisi colpiva la mafia in profondità. Bonificava il terreno perché alla mafia venissero a mancare nuove leve. Mi auguro che la prossima beatificazione di don Puglisi sia un riconoscimento e uno sprone per tutti i preti a educare i giovani secondo il Vangelo. Con più coraggio”.
Prima di chiudere la conversazione sulla Sicilia di ieri e di oggi, gli chiedo uno sprazzo sul futuro. Non certo previsioni da veggente, piuttosto auspici da conterraneo. “Sogno finalmente” – mi confida - “una Sicilia protagonista del suo destino. Sia in campo ecclesiale che civile. Che sappia, una volta per tutte, reagire alla rassegnazione, e contrastare il fenomeno mafioso alla radice. Con più senso dello Stato e delle istituzioni. Ma ci vuole una nuova classe politica, meno gattopardesca, che badi più al bene comune e alla crescita della Sicilia, che ai propri privilegi, davvero smisurati. Che non danno una buona immagine dei siciliani nel resto del Paese. Noi siamo di più rispetto ai mafiosi e ai malavitosi: così dovrebbero dire le tutte le persone oneste in Sicilia. E, al tempo stesso, uscire allo scoperto e impegnarsi per una Sicilia davvero nuova. Questa bella isola ha immense risorse umane e civili. E grandi potenzialità di crescita e sviluppo”.

Augusto Cavadi

mercoledì 21 novembre 2012

Orientación filosofica e insegnamento della filosofia


A cura di Luz Gloria Cárdenas Mejía e di Carlos Enrique Restrepo sono usciti, in Colombia, gli Atti di un convegno internazionale ivi svoltosi nel 2008.
Il libro, intitolato DIDÁCTICAS DE LA FILOSOFÍA VOL. 2, è stato edito dalle Edizioni San Pablo di Bogotà.
Riporto qui la traduzione italiana del mio testo spagnolo, edito alle pp. 57 - 69 .

Orientación filosofica e insegnamento della filosofia: affinità, differenze, sinergie operative.

1. La orientación filosofica all’interno della più ampia famiglia delle pratiche filosofiche.
Nel 1998 lo studioso italiano Alessandro Volpone ha proposto di usare la denominazione “pratiche filosofiche” per indicare un frastagliato complesso di sperimentazioni accomunate dall’idea che “la filosofia, sotto forma di con-filosofare, almeno duale, possa essere praticata in luoghi, situazioni, contesti altri rispetto a quelli tradizionalmente deputati alla produzione-riproduzione disciplinare”: come ” esercizio dialogico, paritario e democratico fondato sull’argomentazione e il contraddittorio, il dissenso, il rispetto, la tolleranza”.
Lo stesso studioso, alcuni anni dopo, ha proposto un criterio di catalogazione: “Snodi storici importanti di questa variegata tradizione d’uso, che, senza alcun progetto unitario, s’è venuta frammentariamente e indipendentemente costituendo lungo il XX secolo, sono almeno tre o quattro: la nascita del Sokratisches Gësprach di Nelson, la Philosophy for children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach (…), il Café philò e la Consultation philosophique di Sautet, ecc. Ciascuno di questi ‘eventi’ apre la strada ai diversi filoni di sviluppo della costellazione attuale delle pratiche filosofiche “.
In Italia indichiamo con “consulenza filosofica” ( o, secondo me più opportunamente, con “filosofia in pratica” o “filosofia applicata” o “filosofia da consultazione”) il movimento che si richiama alla Philosophische Praxis di Achenbach, di cui fanno parte - tra gli altri - l’argentina Roxana Kreimer; i peruviani dell’associazione Buho Rojo di Carmen Zavala e Octavio Obando; gli spagnoli José Barrientos Rastrojo, Luis Cencillo e Monica Cavallé. Come apprendo da un’introduzione molto istruttiva a queste tematiche, esistono varie formule nelle diverse lingue contemporanee: Philosophische Praxis e Philosophische Beratung in tedesco, Philosophy Practice e Philosophical counseling in inglese, Consultation philosophique in francese. Non pochi i problemi per lo spagnolo perché l’equivalente di ‘consulenza’ (la asesorìa) è stato rifiutato dalla ETOR (l’associazione dei filosofi-consulenti spagnoli) perché “troppo mercantil, cioè troppo legato terminologicamente a forme professionali che con il senso dell’esistenza ben poco hanno a che fare (consulenza fiscale, consulenza del lavoro eccetera) e inoltre perché troppo direttamente connesso con il concetto di dare consigli che non è proprio quello che un consulente dovrebbe fare”: da qui la decisione di risolvere “l’impasse con l’inedito orientación filosofica”.

2. Affinità tra orientación filosofica e pratica didattica
Mi è capitato più di una volta di sentirmi obiettare: ma, insomma, qual è la differenza fra il filosofo consulente e il docente di filosofia?
La domanda nasce dalla constatazione, inoppugnabile, che vi sono numerosi punti di contatto fra le due professioni.
a) Innanzitutto esse condividono un presupposto per così dire antropologico: entrambe sono possibili in quanto l’interlocutore (alunno o consultante) sia, almeno parzialmente, un potenziale filosofo. Prendendo spunto da un motto di spirito di Karl Popper (“Ognuno ha una filosofia, ma nella maggioranza dei casi questa non ha valore”), Achenbach illustra questa “acquisizione fondamentale”: “ognuno filosofeggia – normalmente senza esserne consapevole – in quanto non solo pensa e riflette, ma prende posizione sul proprio pensare e sui propri pensieri. Quasi chiunque giunge nella propria vita a situazioni, nelle quali si dimostra necessario un ‘secondo pensare’ (…) e cioè un prendere posizione sulle proprie prese di posizione”. Esattamente come un docente che, kantianamente, si prefigga d’insegnare non la filosofia ma a filosofare, “il consulente cerca di evocare il filosofo nascosto nel consultante”.
b) Filosofi sì, ma solo in potenza. Qui emerge una seconda affinità, rilevabile sul versante metodologico più che dal punto di vista antropologico: il consulente, come l’insegnante, sa di dedicarsi ad “una filosofia per non filosofi” e dunque di aver bisogno del “talento di traduttore” . Che significa, innanzitutto ed elementarmente, l’arte di tradurre in linguaggio accessibile le idee della tradizione filosofica senza tradirne il rigore e, per quanto possibile, la densità. Ma, secondariamente e più sottilmente, l’arte di ‘tradurre’ in linguaggio filosofico gli interrogativi, più o meno consapevoli, che si agitano nella mente degli interlocutori. Come si esprime in proposito Achenbach, il talento di chi decifra “la coscienza” dei non-filosofi e, prestandole le parole per dirsi, mette sé stesso in grado di “poter entrare filosoficamente in dialogo con essa”. Se dunque si vuole usare la metafora dell’esistenza del consultante come “testo” su cui il consulente esercita la sua “abilità ermeneutica”, lo si può fare solo a patto di precisare - subito - che non si tratta di un testo “filosofico”, bensì “narrativo”: quasi “un romanzo” da cui si debba “trarre un principio filosofico soggiacente e rilevarne la pervasività“.
c) Una terza affinità, più sostanziale delle altre, concerne il fine delle due attività. Esse, infatti, mirano entrambe a rendersi - tendenzialmente - superflue: per l’una come per l’altra sarebbe da considerare un indice d’insuccesso se si inchiodasse l’interlocutore in una qualche forma di dipendenza. Non so se si possa affermare che “quando un cliente confida i suoi problemi a uno psicoterapeuta diviene dipendente dalle sue competenze e può perdere considerevolmente autonomia rispetto alla ricostruzione del racconto della sua vita” perché “lo psicoterapeuta non gli insegna come portare avanti un’analisi psicoterapeutica”: ma è indubbio che il filosofo, sia in quanto consulente che in quanto docente, incoraggia nell’interlocutore “l’autonomia della propria azione” mediante sia il trasferimento degli “strumenti posseduti” sia l’insegnamento delle “abilità necessarie ad usarli”.

3. Differenze fra orientación filosofica e pratica didattica
Le affinità non devono nascondere le ancor più profonde differenze.
a) Comincerei da una notazione fenomenologicamente evidente: il filosofo che si rende disponibile per consulenze viene cercato, e pagato, da soggetti fermamente decisi a interloquire con lui. Da soggetti, dunque, che – in ipotesi – o amano già l’approccio filosofico o sono comunque predisposti favorevolmente nei suoi confronti.
Laddove il filosofo che insegna, soprattutto nelle scuole secondarie, non può dare per scontata nei suoi interlocutori la stessa disponibilità: in quanto didatta e pedagogo, ricade su di lui l’onere di inventare le strategie più adatte per iniziare al mondo filosofico delle persone che si trovano nella condizione di ‘dover’ studiare una disciplina senza necessariamente amarla. Va considerato, in proposito, che tale iniziazione è viziata (nel senso di ‘ostacolata’ o , in altri casi, ‘resa poco autentica’) dall’ambiente in cui si agisce: ” la scuola è ‘lavoro’, ‘obbligo’, implica sforzo (eteronomia) e, soprattutto, ‘valutazione’ ”
b) La diversa disponibilità al confronto, da parte dei consultanti e da parte degli alunni, è spia di una diversa posizione nei confronti del filosofo. Nel caso dei consultanti, infatti, si tratta di un rapporto - almeno tendenzialmente - paritetico, laddove il rapporto maestro-discepolo è, di per sé, asimmetrico. Queste affermazioni riguardano il piano dei princìpi: l’esperienza attesta abbondantemente che, di fatto, molti consultanti (pur giocando il ruolo di co-filosofanti) non riescono a stimolare filosoficamente il consulente nella stessa misura in cui ne sono stimolati, mentre certi alunni, in certe circostanze, contribuiscono alla crescita intellettuale del docente più di quanto non riesca a farlo il docente stesso. Al di là del groviglio relazionale empirico, dal punto di vista epistemico la differenza c’è. L’asimmetria istituzionale e fisiologica tra maestro e discepolo si palesa in maniera vistosa quando il tipo di insegnamento (in alcuni licei e, ancor più frequentemente, nelle università) prevede che il professore possa legittimamente avviare gli alunni, più che alla storia della filosofia (come di solito avviene in Italia), ad una determinata filosofia (come avviene più frequentemente nelle scuole francesi, tedesche e anglo-americane). Questo approccio è, invece, radicalmente inaccettabile all’interno della consulenza filosofica: il consulente deve mettersi “sempre in discussione assieme al compagno di dialogo, per quanto spesso possa essere più colto, più lucido, più esperto in materia di competenze sia formali che materiali”. Insomma: “Il consulente filosofico, per quanto possa trovarsi spesso anche a insegnare, non è un insegnante, ma un vero e proprio filosofo e deve perciò aver maturato una personale capacità di porsi filosoficamente di fronte a ogni genere di sapere e di problema. Deve, in altre parole, vivere personalmente la saggezza filosofica, basata sul socratico non sapere”. Qualora ritenesse di fare “l’educatore - etico, sapienziale, esistenziale, dottrinario – non farebbe più il filosofo e la sua consulenza non sarebbe filosofica. Egli deve viceversa sempre porre sé stesso e le proprie convinzioni filosofiche in gioco, deve avere sempre l’intenzione e la volontà di imparare dal consultante”.
c) Una terza differenza concerne le finalità che caratterizzano, rispettivamente, l’avventura filosofico-dialogica e l’impresa pedagogico-didattica. La prima, infatti, si configura come una relazione di aiuto – sia pur intellettuale – nei confronti di soggetti che intendono modificare alcune situazioni vitali o, per lo meno, la propria visione di alcune situazioni vitali: soggetti che chiedono di essere agevolati nella chiarificazione di precisi e concreti problemi che li angustiano. Nel contesto scolastico ed accademico il rispetto per gli alunni esclude simili intenti : l’insegnante ha il diritto/dovere di restare, in quanto insegnante, nell’ambito cognitivo e culturale, senza prefiggersi esplicitamente ed intenzionalmente di ‘utilizzare’ gli spazi della pratica filosofica per riassestare l’ottica dei suoi (giovani) interlocutori.
E’ ovvio che non si sta escludendo che un singolo alunno possa chiedere a un singolo docente un colloquio per misurare alcune ricadute esistenziali o etico-politiche dello studio filosofico: ma, a mio parere, in quel momento il docente non è interpellato in quanto docente, bensì appunto in quanto consulente filosofico.
E’ altrettanto ovvio che non si sta escludendo la possibilità - statisticamente frequente - che lo studio della filosofia (sia della sua storia che di alcune sue tematiche) possa comportare degli effetti - per lo più benefici - sulla dimensione esistenziale degli studenti: ma si sta escludendo che tali effetti - al di là dell’occasionalità, accidentalità ed auspicabilità - rientrino nelle finalità programmatiche ed istituzionali dell’insegnamento. Chi si sentirebbe di qualificare fallimentare un triennio di relazione didattica al termine del quale lo studente dimostrasse di aver capito le diverse teorie filosofiche ma di non volersene avvalere (per le ragioni più diverse: non escluse eventuali ragioni…filosofiche) nella pratica personale? Di contro, “la consulenza filosofica non è una lezione di filosofia su problemi astratti, bensì essa si concentra sulla filosofia per come questa è incorporata nella vita concreta. E’ perciò importante che si lasci parlare il modo di essere dei consultanti (compresi i loro problemi, i loro atteggiamenti, le loro speranze, ecc.) non meno delle loro teorie pubbliche. La preoccupazione principale è la filosofia nella vita dei consultanti, non le loro teorie sulla vita” .
d) Le differenze nell’atteggiamento degli interlocutori (a), nel genere di rapporto con loro (b) e nelle finalità professionali (c), ne implicano ulteriori sul piano dei metodi. Da questa angolazione, la più eclatante riguarda il ruolo del testo scritto. Per un insegnante il riferimento principale è costituito dai classici della storia del pensiero: sia che vengano letti, spiegati e commentati già come primo approccio sia che vi si arrivi dopo un percorso didattico propedeutico. Anche nel caso - a mio avviso preferibile - che si solleciti l’alunno ad una elaborazione sistematica personale, in ambito scolastico il confronto con la letteratura filosofica resta un aspetto ineliminabile. Del tutto differentemente, il riferimento principale per un consulente è costituito dalla filosofia che l’ospite ha maturato sino a quella fase della sua vita (da ‘profano’, grezzamente) e che, di solito, esterna in forma orale, non mediante scrittura. Qualcuno ha anche provato a dettagliare meglio i ‘capitoli’ dell’ ‘opera’ filosofica che, quasi senza averne coscienza, ciascun essere umano va costruendo in base alle esperienze di vita, alle intuizioni soggettive e ai condizionamenti ambientali: “nell’ambito della cosmologia o filosofia della natura (…) come ci si rappresenta l’origine e l’evoluzione dell’universo, l’apparire della vita, l’evoluzione eccetera”; “determinate rappresentazioni metafisiche, nel senso di una ‘ontologia’ (…) e della risposta del tutto individuale al problema della trascendenza”; “alcune questioni gnoseologiche” concernenti, ad esempio, la distinzione fra “sapere e credere”; “asserzioni sui propri valori e obiettivi (…) anche nel senso di un personale sistema etico”; “qualcosa come un’immagine dell’essere umano” e le conseguenti “rappresentazioni sul ‘male’ (negatività, distruttività) nell’essere umano in relazione alle debolezze in sé stessi e negli altri” o sulla “morte”.
Anche quando certi gesti sono identici - per esempio un consiglio bibliografico - diverso ne è il significato: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa prescrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina? Allo stesso modo, anche l’ospite nella consulenza filosofica non verrà addottrinato, non gli verranno cioè date in pasto parole intelligenti né gli verranno servite ‘teorie’ “. La “biblio-terapia” (l’espressione veniva usata anche da Sautet) può avere senso solo come suggerimento dietetico di alimenti da metabolizzare per raggiungere quella ’saggezza’ di cui il consulente dovrebbe essere testimone: almeno nella misura in cui, da parte sua, “grazie alle letture sia diventato consapevole e in grado di comprendere, se abbia acquisito in questo modo un sesto senso per ciò che normalmente rimane trascurato e se abbia imparato a sentirsi a suo agio anche nei pensieri, nelle sensazioni e nei giudizi differenti e poco comuni, in quanto solo nel momento in cui egli pensa e percepisce insieme al suo ospite, può allora liberarlo dalla sua solitudine - o dal suo senso di isolamento - riuscendo forse così a spingerlo verso altri criteri di valutazione della vita e delle sue circostanze”.

4. Sinergie operative fra orientación filosofica e pratica didattica.
Abbiamo cercato di fissare, insieme alle forti affinità, i confini fra consulenza filosofica e docenza filosofica. Non per puntigliosità gratuita: la chiarezza epistemologica è condizione necessaria, anche se non sufficiente, della correttezza deontologica e dell’efficacia professionale. Tuttavia bisogna ammettere - e certo non con dispiacere - che fra le due attività sono possibili reciprocamente delle sollecitazioni, o addirittura dei supporti.
Come è stato notato da Francesco Dipalo, in Paesi come l’Italia sono state “gettate le basi, epistemologiche e sperimentali, di una sorta di ‘rivoluzione copernicana’ nella didattica della filosofia, con il contributo assai rilevante della stessa S.F.I. Dall’insegnamento della materia interpretato come trasmissione ex cathedra di nozioni manualistiche, in un’ottica quasi esclusivamente storicistica, si è passati allo studio e alla sperimentazione di specifiche pratiche incentrate sul confronto diretto con i testi della tradizione. Il recupero della centralità del testo ha comportato un nuovo assetto del rapporto docente-discente e del rapporto di quest’ultimo con la disciplina. La conoscenza dei contenuti, in chiave storica, dottrinale e concettuale, è ora concepita in funzione del progressivo sviluppo da parte dello studente di determinate abilità filosofiche, che contribuiscono in maniera decisiva – cito dal recente documento OSA elaborato dalla Commissione Didattica della S.F.I. - « all’arricchimento della formazione culturale, umana e civile delle nuove generazioni e al conseguimento delle finalità cognitive e formative generali del sistema dei licei. L’insegnamento filosofico non è qui inteso come trasmissione di un sapere compiuto, ma come promozione di un abito di riflessione, di ricerca e di ragionamento su questioni di senso, di valore e di verità, acquisito attraverso il dialogo con gli autori della tradizione filosofica» (S.F.I., OSA di Filosofia, Riflessioni, indicazioni, suggerimenti, in «Comunicazione filosofica», 15 [2005], su www.sfi.it e in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», 185 [2005], p. 67). Insieme al professore e attraverso il suo esempio, lo studente diventa un ’soggetto filosofante’ a tutti gli effetti, e la lezione un vero e proprio ‘laboratorio’ di esperienze riflessive, in cui, attraverso la reciprocità e la relazione dialogica a più livelli (intrapersonale, interpersonale docente-discente e discente-discente, comunitario, ecc.), si forma un modo di essere, un ethos, <> “. Dopo aver precisato, in nota, che “la bibliografia intorno a queste tematiche è assai ricca” ed aver citato “l’ultimo lavoro di Fulvio Cesare Manara, Comunità di ricerca e iniziazione al filosofare. Appunti per una nuova didattica della filosofia, Lampi di stampa, Milano 2004, e il manuale-laboratorio didattico (corredato di CD-ROM) realizzato da Enzo Ruffaldi e Mario Trombino, L’officina del pensiero. Insegnare e apprendere filosofia, LED, Milano 2004)”, Dipaolo così prosegue: “Come dire, la nuova frontiera dell’insegnamento della filosofia nel sistema liceale (di recente esteso anche ai nuovi licei previsti dalla riforma Moratti) non è far comprendere ai ragazzi, ad esempio, che cosa sia il dialogo socratico, bensì imparare con loro a farne esperienza concreta in classe e fuori; non è spiegare in cosa consista teoricamente un problema filosofico, bensì aiutarli ’socraticamente’ a problematizzare e a concettualizzare il vissuto autobiografico e socio-linguistico di cui sono portatori, motivando il loro stare a scuola; aiutarli ad apprendere l’ascolto attivo, il rispetto del prossimo come premessa all’arricchimento del Sé, a praticare la democrazia; in ultima istanza, fornir loro la possibilità effettiva di interrogare se stessi e di interrogare la realtà avendo di mira il ‘ben vivere’ in chiave individuale, sociale e politica”.

a) Che cosa può dare la consulenza filosofica alla pratica didattica?
Ho sostenuto che in un’aula scolastica o universitaria il docente non ha il dovere, e neppure il diritto, di misurare le ricadute esistenziali o etiche o politiche del suo insegnamento. Se un allievo capisce perfettamente l’etica kantiana e ne sa discutere con intelligenza, l’insegnante deve limitare a questo ambito cognitivo la sua valutazione: non deve certo lasciarsi condizionare dal fatto che l’alunno, nei rapporti con la fidanzata o quando va a votare per il rinnovo del Parlamento, si mostra incoerente con i princìpi kantiani. Tuttavia bisogna ammettere che questa impostazione pedagogica comporta dei rischi. Il professore - per eccesso di rispetto verso il vissuto degli studenti - può tendere a trasformarsi in una sorta di computer che sforna informazioni, dati bibliografici, teorie asettiche: così la scuola diventa una camera pressurizzata del tutto estranea alla domanda di senso che ogni studente, in quanto persona, porta in sé.
Forse la consulenza filosofica, con la sua attenzione programmatica al vissuto esistenziale degli interlocutori, può aiutare gli insegnanti a limitare questo rischio. Intendiamoci: né i consulenti né i docenti possono trasformarsi (a meno di deformare il loro ruolo) in apostoli religiosi o in propagandisti ideologici. Tuttavia non sarebbe realistico negare l’esigenza - da parte di tutte le generazioni e, in particolare, delle più giovani - di avere dei ‘maestri’ : sia sul piano ‘tecnico’ delle strumentazioni che sul piano ’sostanziale’ degli orientamenti di vita. Se non c’è questione dal primo punto di vista (nessuno può seriamente dubitare dell’opportunità che il consulente filosofico, ed ancor più l’insegnante, forniscano nozioni storiche, metodologie logiche, abilità dialettiche etc.), come risolvere invece il dilemma dal secondo punto di vista (quando, cioè, si tratta di confrontarsi sulle grandi opzioni esistenziali ed etiche)? Direi che, tra gli opposti profili del guru cui conformarsi e dell’enciclopedia vivente che non lascia trasparire nessuna convinzione soggettiva, ci sia un certo spazio per la comunicazione che Kierkegaard qualificava ‘indiretta’. Come consulente e come docente, non devo convertirti a nessuna prospettiva teoretica; ma come filosofo ho il diritto, e forse anche il dovere, di non seppellire sotto una coltre impenetrabile il mio modo di essere. Ciò che sono diventato grazie alla filosofia non ho nessun motivo per imporlo, ma neppure per nasconderlo. Una volta il papa Paolo VI ebbe a sostenere che, in campo religioso, c’è più bisogno di testimoni che di maestri: mi pare un’indicazione preziosa da trasferire in campo filosofico. Quando si va oltre l’addestramento tecnico, consulenti e docenti dovrebbero autointerpretarsi più come testimoni che come maestri. O, se si preferisce esprimersi in maniera meno provocatoria, dovrebbero autodefinirsi ‘maestri’ solo in quanto insegnano - prima di tutto ed essenzialmente – che siamo tutti condiscepoli davanti agli enigmi della vita.

b) Che cosa può dare la pratica didattica alla consulenza filosofica?
Abbiamo appena visto quali sensibilità può risvegliare la consulenza filosofica in chi insegna filosofia. Ma lo scambio è anche in senso inverso. Abbiamo affermato che il consulente non è un docente, non deve richiamare alla memoria dell’ospite tremila anni di tradizione filosofica prima di discutere con lui il lutto per la perdita di un figlio o l’opportunità di trasferirsi in un altro continente per lavoro. Ma se alcuni consulenti filosofici (come il tedesco Achenbach) insistono su questa differenza, altri (come il canadese Raabe) fanno notare che, comunque, il consulente - se vuole rendere autonomo il consultante - gli deve fornire degli strumenti filosofici che gli consentano di proseguire per conto proprio la riflessione e di affrontare, da solo, eventuali dilemmi futuri. Questo significa che il consulente, pur restando consulente, deve acquisire alcune competenze e abilità pedagogico-didattiche. Qui mi pare che gli insegnanti abbiano un patrimonio esperienziale da trasmettere ai consulenti o da cui, per lo meno, i consulenti farebbero bene a lasciarsi contagiare. Non è detto infatti che un consulente sia in grado, solo perché sa pensare filosoficamente, di comunicare ai suoi visitatori gli elementi essenziali dell’alfabetizzazione filosofica. E, soprattutto, non è detto che lo sappia fare non solo individuando gli elementi ‘oggettivamente’ essenziali ma anche graduando, di caso in caso, a seconda dei tempi di apprendimento del cliente concreto, la loro esposizione. Con una leggera forzatura sloganistica direi che, mentre l’approccio maieutico del consulente può aiutare il docente a far diventare parola ciò che nell’alunno giace inespresso, l’approccio pedagogico dell’insegnante può aiutare il consulente a saper tacere ciò che egli sa di filosofia per farne diventare parola solo una piccola parte: in questa capacità di non inondare gli alunni con la propria erudizione, di saperla centellinare senza fretta né esibizionismo, sta forse uno dei segreti dell’arte d’insegnare.

Augusto Cavadi