mercoledì 30 dicembre 2020

2021: COME POSSIAMO TENERCI IN CONTATTO NEI MESI DI RITIRO FORZATO CHE ANCORA RESTANO



Care e cari,

   la sospensione degli incontri  in presenza (sia periodici a Palermo sia occasionali nel resto d'Italia) sembrava limitata nel tempo, ma così non si sta rivelando. La pandemia ci terrà isolati nelle nostre case ancora per mesi (se tutto va per il meglio...). 

L'emergenza ci ha indotto - direi costretto - a valorizzare alcuni strumenti telematici di collegamento a distanza che hanno confermato i limiti che temevamo, ma hanno rivelato anche aspetti positivi insospettati: così molte assemblee, conferenze, serie di lezioni, presentazioni di libri etc., altrimenti destinate a poche persone, hanno visto la partecipazione via web di interlocutori molto più numerosi rispetto a prima perché residenti in varie città del Paese

Da qui il senso di questo 'post' che vuole essere un invito a "fare di necessità virtù": a non scoraggiarsi più del ragionevole, a reagire creativamente a questa prova epocale (per altro non più grave  rispetto alle sofferenze che l'umanità ha provato - e continua a provare - a causa del sistema ingiusto che contribuiamo a mantenere in piedi, se non altro con la nostra indifferenza e la nostra inerzia). 

Per una strana dialettica, se ogni crisi ha i suoi aspetti positivi, a loro volta - però - anche gli aspetti positivi sono inseparabili da nuovi rischi. Nel nostro caso: il moltiplicarsi di appuntamenti in rete è certo un rimedio alla solitudine intellettuale e affettiva, ma - a sua volta - comporta il pericolo della dispersione: davanti a mille proposte di collegamenti più o meno interattivi è facile scivolare nello zapping e privarsi di concentrarsi su alcune tematiche oggettivamente (o  - in relazione alle nostre capacità e ai nostri interessi - soggettivamente) interessanti. Diventa ancora più urgente ciò che qualcuno ha chiamato "il diritto all'ignorare" e che forse (dal momento che quel diritto è stato esercitato nei secoli in abbondanza...) sarebbe meglio definire "l'arte di ignorare". E se lo affermo io che sono stato sempre tentato dal cedere al richiamo di troppe sirene...

Tutto ciò premesso, può darsi che - nella scala delle priorità - alcuni/e di voi inseriscano anche quelle occasioni di crescita umana di cui negli anni ho dato notizia in questo blog: e mi dispiacerebbe se il dialogo con queste persone dovesse interrompersi solo per disattenzione o insufficienza di indicazioni tecniche.

Perciò mi permetto di suggerire alcune modalità per essere sicuri di apprendere le iniziative possibili, sì da decidere consapevolmente se parteciparvi o meno da qualsiasi parte del mondo in cui vi troviate : sarebbe davvero triste se l'unica ragione di non farlo fosse un difetto di comunicazione.  

* Intanto,  chi di voi NON ricevesse l'avviso via e-mail di ogni nuovo post in questo blog, potrebbe iscriversi cliccando sul tasto "SEGUI VIA E-MAIL" nella Home page (e, quando trova nella sua posta una e-mail da "Feedburner", confermare con un semplice click la volontà di iscriversi);

* chi fosse interessato alle attività che si svolgono nella "Casa dell'equità e della bellezza" potrebbe iscriversi al servizio analogo di avviso di nuovi post dal blog https://casadellaequitaebellezza.blogspot.com  (utilizzando il tasto "Iscriviti" che si trova in neretto, sulla Home page, proprio sotto la dicitura del blog)

* chi fosse interessato alle iniziative dell'associazione di volontariato culturale "Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone" potrebbe chiedere l'avviso di nuovi post dal sito http://www.scuoladiformazionegiovannifalcone.it/

* chi fosse interessato alle "cenette filosofiche per non...filosofi" ('ridotte' alla sola discussione di gruppo, senza...cenetta) può chiedere di essere informato sui testi che si scelgono e sulle modalità di partecipazione 'a distanza' scrivendo a Pietro Spalla: spalla.pietro@gmail.com

                                                    Insomma, se ci perderemo di vista, la responsabilità sarà solo vostra 😊😊😊: noi abbiamo attivato molti canali per tenerci in contatto ✋

                                                    Augusto & Adriana

                                                              😘

sabato 26 dicembre 2020

SALVATORE CUSIMANO INTERVISTA AUGUSTO CAVADI SU "DIO VISTO DA SUD"

 

Sono molto grato a Salvatore Cusimano per la sua intervista radiofonica su Rai Radio Uno a proposito del mio ultimo libro Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (Studio cultura, Palermo 2020, pp. 172, euro 10,00).

La registrazione della trasmissione "Mediterraneo" si scarica dal link che riporto qui e si apre usando il programma Quicktime Player (chi vuole ascoltare solo l'intervista può andare direttamente ai minuti 7.02 - 10.13):

https://wetransfer.com/downloads/adf750568f15e322fcc5e0e90108a47e20201226174326/1fbad5e621cdb242851892ccd1b9451d20201226174326/ea791e


PERCHE' DON PAOLO FARINELLA, MIO AMICO PRESBITERO A GENOVA, NON CELEBRA LA LITURGIA NATALIZIA

NON-NATALE A SAN TORPETE

Per il terzo anno consecutivonon celebriamo il Natale a San Torpete in Genova. Non solo teniamo la

chiesa chiusa, ma non ci mancano proprio i riti e le nenie, specialmente dopo avere assistito alle neuropsichiatriche diatribe su «Messa a Mezzanotte – rubare il Natale ai Bambini – Giù le mani dal Natale» e mascalzonate simili di chi non è mai andato a Messa nemmeno la sera Natale, ma ora è buono per fare cagnara, tanto a qualsiasi ora sia la Messa, non gliele importa un fico secco. O da parte di cattolicanti, ignoranti della loro stessa religione.

Di fronte a queste oscenità, figlie primogenite di ignoranza, mi sarei aspettato che i vescovi, a una sola voce, avessero obbligato i preti a chiudere tutte le chiese e chiesuole e avessero messo il bavaglio di ferro a chi avrebbe avuto il coraggio di cantare in gregoriano ninne-nanne e canti rincitrulliti, come se la Chiesa avesse il mandato di fare divertire gli adulti con la scusa che si divertono i bambini. Matilde di sei anni ha detto alla mamma: e non pensare che io venga a messa, non ci vado io perché i preti poi mi obbligano a sposarmi e io non voglio sposarmi. Poiché ero presente, le ho detto che faceva bene e che lei aveva diritto di non andare perché non ci vado pure io.

È ora di finirla con queste favolette da strapazzo che ci ninnanannano, sapendo che è un modo per esorcizzare, vanificandolo il pugno nello stomaco del messaggio del Vangelo, obbligandoci a deciderci dove stare: «o di qua o di là». Presepiare il Cristianesimo con statuine di bambini Gesù acqua e sapone, riccioli d’oro e occhi celesti, alla svedese, è un insulto verso quel bambino «nato da donna, nato sotto la Toràh» (Gal 4,4), olivastro di pelle, bassotto di statura, occhi scurissimi e capelli castani crespati, tipico palestinese di un tipico anno comune, il 4 o 6 a.C. Sappiamo che è nato, ma non sappiamo quando, dove e come.

Betlèmme è «luogo teologico», non storico, come anche la fuga in Egitto e la strage degli innocenti. Quando i vangeli sono messi per iscritto (fine secolo I d.C. dal 70 in poi), circolavano già da decenni gli «apocrifi», forme di agiografie inventate, storielle piene di miracoli allo scopo di suscitare la fantasia, come oggi le nostre fiabe per bambini. Questa sovrabbondanza di «soprannaturale miracolistico» fu il solo motivo della loro esclusione dal canone dei Libri Sacri, nei quali rimasero solamente quattro narrazioni, semplici, austere e senza eccessi divini.

I cristiani «una tantum» non sanno nulla, ma si basano su ricordi infantili da catechismo fatto da pie donne, buone mamme o donne di buona volontà, ma senza alcuna formazione. Qui sta il dramma: esse hanno timbrato a fuoco secoli di ignoranza abissale. I vescovi non vogliono capire e non si rendono conto che lo svuotamento delle chiese, il cui risultato finale sarà la chiusura ermetica delle chiese, è un potente «segno dei tempi» che deve costringere a buttare tutto all’aria per salvare l’anelito di spiritualità, che la Chiesa non è più in grado di capire e d’intercettare. Siamo fermi al rito, ai luoghi, agli orari. Siamo morti. Siamo per di più morti inutili.

Questo Natale doveva essere una sontuosa celebrazione in silenzio, un silenzio mostrato «urbi et orbi», buttando tra gli orpelli idolatrici ogni rituale insensato, le vesti dei vescovi, anacronistici satrapi persiani del sec. VI a.C., ridicoli attaccapanni col berretto a punta, come un missile che romba per schizzare in orbita. Per dire al mondo: Silenzio, passa Gesù il perturbatore dellordine costituito. Il messaggio del Vangelo urlato nel più assoluto silenzio con simili parole:

Tutto quello che facciamo a Natale è invenzione della religione per accarezzare il consenso delle plebi ignoranti che non vogliono pensare né crescere. Gesù non è nato a mezzanotte e nemmeno in altre ore; non lo sappiamo. Se fosse nato a dicembre, non ci sarebbe stata neve, perché in Palestina, la temperatura sfiora i 25 gradi. Abbiamo costruito la nostra favoletta, utile alla religiosità di comodo. I vangeli che parlano di Gesù bambino sono un anticipo di quello che quel bambino sarà: un rivoluzionario, un disobbediente, un disturbatore dell’ordine sociale, un contestatore della religione, la sua religione, un raccatta fallimenti, amico di prostitute, donne, derelitti, lebbrosi, briganti, malati mentali e bambini, lo scarto ignominioso della società dell’epoca che lui dichiarò «Beati e prediletti da Dio». Per essere visto e ascoltato da tutti, dice Matteo, «salì sul monte», esattamente come Mosè «salì sul monte di Dio» per ricevere le tavole della Toràh.

È la «teo-drammatica» (Urs von Balthasar). I vangeli non sono scritti di Gesù, ma scritti di innamorati di Gesù che invitano altri ad innamorarsi di lui e per questo, pescando nel ricordo della vita vissuta di Gesù stesso, raccolgono il suo messaggio e lo divulgano, racchiuso in una espressione semitica concentrata, cioè «il regno di Dio», che non è l’aldilà o la vita eterna o il paradiso, altre favole che ci siamo regalati per aggiustare il mondo secondo la nostra giustizia di vendetta. In bocca a Gesù «Regno di Dio» significa: «nuovo modo di relazionarsi tra le persone e tra i popoli». Perché tutto è centrato sulla relazione? Perché se lasciamo fare la natura e l’istinto noi saremmo violenti, sopraffattori, rapinatori, uccisori seriali, egoisti satanici. Solo la relazione «umana» ci salva perché essa ha bisogno della mediazione del pensiero che, a sua volta, si forgia nella consapevolezza della responsabilità della coscienza. Non a caso «conversione» nei vangeli è detta «metà-noia», cioè andare oltre fino al pensiero (gr. noûs) per modificare i criteri di pensare, le valutazioni delle scelte, in una parola discernimento.

Tu, preso in te stesso, sei il mio limite (Jean Paul Sarte, Essere e il Nulla) e io «devo» distruggerti per affermare la mia libertà. «Il regno di Dio» (Vangelo), mi spiega che il tuo limite demarca la mia conoscenza e la mia identità perché non saprei di esserci se non ci fossi tu a dirmi che sono altro da te. Dunque, noi esistiamo «reciprocamente». Non è tolleranza, parola obbrobriosa per il Vangelo, ma accettazione, accoglienza dell’altro come parte migliore di me perché rivelatore della mia piena e profonda identità.

Questo è il Natale, questo è il Vangelo: andare per le strade e riconoscere in ognuno un pezzo di sé, offrendo se stessi come specchio di identità: «Fratelli tutti», ovvero «Fraternité Égalité Liberté». Vangelo puro.

 PAOLO FARINELLA PRETE

 paolo@paolofarinella.eu


venerdì 25 dicembre 2020

L'ALTRO NATALE, FUORI DALLE SDOLCINATURE


 Gianfranco D'Anna, direttore del sito www.zerzeronews.it, mi ha chiesto una riflessione natalizia per i suoi lettori. La estendo volentieri alle amiche e agli amici di questo blog (con la gratitudine per i 750.000 accessi registrati dalla sua apertura ad oggi):

Gesù di Nazareth è nato certamente circa duemila anni fa, ma non sappiamo né il luogo né la data né tanto meno l’ora. Questo velo di ignoranza non costituiva problema per le prime generazioni cristiane alle quali i simboli interessavano molto più dei fatti di cronaca: da qui la decisione di scegliere il 25 dicembre, Natalis Solis Invicti (giorno natale del Sole invitto) come data convenzionale di nascita del loro Maestro. Una data, per altro, con illustri precedenti in tante culture: dall’egiziana (che vi festeggiava la nascita di Osiride e di suo figlio Oro) alla babilonese (che celebrava la nascita del dio Tammuz dalla dea Istar, rappresentata con il bimbo in braccio e un’aureola a 12 stelle). Queste elementari informazioni di storia delle religioni – oggi note a tutti, tranne che ad alcuni politici ferocemente attaccati a tradizioni di cui non sanno nulla -  comportano, fra tante altre conseguenze, l’invito a respirare a pieni polmoni: ad ampliare gli orizzonti mentali dalla nostra cerchia tribale sino ai confini del pianeta. Non perché Cristo sia il centro della storia universale (questo qualcuno lo può credere per fede, non constatare nei fatti né tanto meno augurarsi di imporlo forzatamente a chi crede diversamente), ma perché egli volle essere monopolio di nessuna cultura e  profeta di un annunzio universale. Infatti, come documentano gli studi biblici più attenti e più onesti degli ultimi cento anni, il Predicatore errante palestinese non intese rivelare segreti sovrannaturali per spiriti eletti, ma ricordare – con l’efficacia eloquente della testimonianza sino alla morte – il progetto di Dio sull’intera umanità: un sistema sociale intessuto di relazioni libere, giuste, anzi solidali, fraterne, compassionevoli. Nel linguaggio dell’epoca e del contesto culturale in cui egli visse, tale progetto – per moltissimi versi il capovolgimento della tavola dei valori su cui si basavano e si basano i regni umani – veniva denominato anche “regno di Dio”. 


PER CONCLUDERE LA LETTURA DEL POST, BASTA UN CLICK QUI:

https://www.zerozeronews.it/il-natale-di-tutti-fra-storia-fede-e-teologia/

mercoledì 23 dicembre 2020

GIUDICE LIVATINO 'BEATO': TRE CONSIDERAZIONI ISTRUTTIVE E UN RISCHIO

 

"Adista" 23.12.2020

La notizia che il giudice Rosario Livatino - assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, all'età di 37 anni, dai mafiosi della "'Stidda", sarà proclamato “beato” dalla Chiesa cattolica -  comporta numerose implicazioni che possono sfuggire al lettore-medio. Ne esplicito alcune più rilevanti.

Una prima considerazione riguarda il motivo fondamentale della decisione papale: Livatino è stato assassinato “in odium fidei”. In questa motivazione non c’è nulla di scontato perché, sino all’analoga proclamazione di don Pino Puglisi, prevaleva nella  teologia ufficiale l’opinione che chi cade nella lotta per la legalità democratica non vada considerato un ‘martire’ cristiano. Sarebbe, se mai, un martire ‘civile’ e , come tale, non meritevole degli altari. Indubbiamente se la fede è accettazione di una serie di dogmi e di riti, non si può dire che i mafiosi (ufficialmente credenti e praticanti) lo abbiano assassinato “per odio della fede”. Ma se la fede, invece, è accettazione del progetto evangelico del “regno di Dio”  - cioè dell’instaurazione di un nuovo modo di vivere in questo  mondo : in giustizia e libertà, in fraternità e compassione, in solidarietà con tutti i viventi – allora chi cade nella battaglia a favore di questi ‘valori’, lo sappia o non lo sappia, è un martire della (vera) fede. 

Una seconda considerazione: il “beato” Livatino non era un integralista cattolico, ma un tenace e rigoroso difensore dell’autonomia della sfera civile e politica rispetto alla sfera ecclesiale. Come è messo bene in luce anche in una delle più recenti e approfondite monografie del suo pensiero (“Rosario Livatino. Identità, martirio e magistero” di don Pio Sirna, edito da Il pozzo di Giacobbe), in più di un’occasione egli “smentisce l’opportunistica opposizione tra Fede e Diritto/Ragione e ne dimostra la proficua connessione/collaborazione”, convinto che “alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credentima credibili”. 

Una terza considerazione è suggerita dalla lettura dei suoi diari intimi. Questo giovane magistrato, trucidato a neppure quarant’anni, non ha avuto una relazione con Dio ‘esemplare’ nel senso di lineare e progressiva, pacifica e consolatoria. Quando le minacce mafiose si fanno sempre più pressanti e l’ambiente borghese che lo circonda sempre più ostile, egli non reagisce da superuomo né da supersanto. “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni” scrive nel giugno del 1984. E per due anni si astiene dalla comunione eucaristica in preda allo sconforto, anzi all’angoscia. Ha paura per sé e, ancor di più, del dolore che la sua morte possa arrecare ai due anziani genitori che non hanno altri figli. 

Come in altre simili occasioni, è inevitabile l’interrogativo: elevare un personaggio agli onori degli altari è opportuno? Tutto dipende dalla lettura che ciascuna comunità cattolica, anzi ciascun cattolico, fa dell’evento. Per alcuni sarà l’occasione di un alibi provvidenziale: Livatino era un santo, dunque io – che sono un poveruomo come tanti – non sono obbligato a esercitare il mestiere di magistrato o di avvocato, di politico o di prete, in maniera eroica. Sarà abbastanza che mi barcameno tra il bianco e il nero, senza esagerare nei compromessi quotidiani con i princìpi della mia coscienza. Ma per altri potrebbe essere un monito illuminante: impegnarsi nella professione con trasparenza e dedizione per il cristiano non è un optional lecito, ma addirittura un imperativo morale. La sequela spirituale di Gesù di Nazareth non esime dalla correttezza deontologica cui è obbligato ogni altro cittadino; anzi costituisce una ragione in più per coltivarla. Il bigottismo, da sempre ridicolo agli occhi dei ‘laici’, si rivela adesso anche come ‘peccato’ agli occhi della Chiesa.

 Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

lunedì 21 dicembre 2020

MELANIA FEDERICO LEGGE "COS'E' LA MAFIA? TRE GIOVANI IN CERCA DI RISPOSTE" DI ADRIANA SAIEVA


 CENTRO STUDI "PIO LA TORRE"
PALERMO.  15.12.2020

 Ci sono domande su tematiche complesse che cercano risposte e studenti che frequentano la scuola dell’obbligo che se le pongono. Talvolta a spianare la strada ai loro interrogativi tra i banchi di scuola sono i docenti attraverso dei percorsi didattici appositamente strutturati sull’educazione alla cittadinanza e alla legalità.

Cos’è la mafia? Perché è un pericolo grave per lItalia? Cosa possono fare i cittadini per contrastarla? A dare una risposta a questi interrogativi è Adriana Saieva, con il suo ultimo libro “Cos’è la mafia? Tre giovani in cerca di risposte”, edito da Buk Buk. In 112 pagine, il volume, rivolto ai ragazzini dai 10 anni, chiamando in causa tre giovani in cerca di risposte, spiega che cos’è la mafia, parla delle sue vittime, ma anche della lotta alla mafia. Per strane circostanze, una ragazza torinese e una coetanea palermitana iniziano una corrispondenza telematica. Emma ed Elena così tra un’e-mail e un’altra imparano a conoscersi e a confrontarsi sulle loro quotidianità: dalle prime cotte ai problemi della loro età. Ma si pongono anche tanti interrogativi sulla mafia, su come si presenta questo fenomeno e su come poterla contrastare. Come espediente narrativo per dare una risposta a tutti questi interrogativi, entra così in gioco il fratello maggiore di una delle due giovani, Dino che ha il chiodo fisso per la legalità e da grande vuole fare il magistrato. In quanto impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, è lui che sgombra il campo da ogni ombra. Volendo essere esaustivo, ma anche esemplificativo nella condivisione di concetti complessi, spiega ad esempio che la mafia attecchisce dove c’è la possibilità di fare soldi. Lorganizzazione mafiosa è fatta da persone che hanno gli obiettivi di arricchirsi ed esercitare potere e per raggiungere questi scopi sono disposti a tutto: commettere reati, corrompere, usare la violenza e cercare complicità. Il loro scopo non è sparare come si vede nei film… Loro uccidono quando altri modi non hanno funzionato. L’uso della violenza è uno dei mezzi attraverso cui ottengono ciò che vogliono. E ancora se il mafioso procura un lavoro a qualcuno è perché “i mafiosi hanno una rete di relazioni con individui corrotti e complici che, a loro volta, sono in debito con lorganizzazione criminale e devono restituire qualche favore ricevuto. Una macchina ingegnosa e subdola. Tutte le volte che viene dato un lavoro a qualcuno, attraverso strade illecite, lo si sta togliendo a qualche altra persona altrettanto bisognosa, altrettanto meritevole (se non di più), ma talmente onesta da non scendere a compromessi, anche a costo di patire la fame”. L’amicizia tra i giovani protagonisti del racconto, nata da una corrispondenza telematica si consolida, infine, con un incontro fisico nel capoluogo siciliano dove, insieme, ripercorrono i luoghi storicamente, artisticamente e culturalmente più significativi, nonché quelli simbolo della lotta alla mafia.

Tra le trame che sciolgono tutti i nodi dei temi nevralgici trovano spazio, oltre alla destrutturazione di falsi miti e stereotipi sulla mafia, alcuni concetti chiave come onore, criminalità, corruzione, estorsione, pizzo, complicità e violenza mafiosa. Ma anche storie di uomini e di donne vittime di mafia: Giuseppe Letizia, Placido Rizzotto, Claudio Domino, Giuseppe Di Matteo, Libero Grassi, Paolo Giaccone, Peppino Impastato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Padre Pino Puglisi e Giuseppa Di Sano.

Completano tuttavia il puzzle del racconto l’impegno profuso dalle associazioni antimafia quali Addiopizzo, il “Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato”, e il “No mafia Memorial” fino ai campi scuola di “Libera” e al progetto educativo Se vuoi” della Polizia di Stato. Il testo, scritto con chiarezza espositiva, propone altresì spunti di metacognizione su quelle azioni che ogni cittadino, senza compiere grandi gesta può mettere in atto quotidianamente: dal consumo critico alle scelte legali e consapevoli. Nel racconto c’è anche un invito al superamento degli stereotipi di genere: la torinese Emma è, infatti, una calciatrice in erba che incoraggia a combattere la prepotenza e gli atti di bullismo. Invita altresì ciascuno a sentirsi protagonista e unico responsabile delle proprie azioni: “Ciascuno di noi è protagonista- si legge nel testo- anche quando decide di non fare niente perché, qualunque cosa si scelga di fare, avrà una conseguenza”. Il libro della nostra vita è, infatti, pieno di pagine bianche. E “le storie andranno come noi decideremo di scriverle”. 

Adriana Saieva, che è sempre stata in prima linea nella lotta alla mafia, è un’insegnante della scuola primaria a Palermo. Gestisce con il marito la “Casa dell’equità e della bellezza”; è socia della “Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone” e del “Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato”. Nell’ambito del “No mafia Memorial” si occupa di progetti didattici per la scuola dell’infanzia e primaria. 

Il testo è stato sapientemente illustrato da Roberta Santi, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Venezia e alla Scuola internazionale di Comics, collabora con case editrici italiane e straniere.

               MELANIA FEDERICO


http://www.piolatorre.it/public/art/cos-la-mafia-come-si-sconfigge-tre-giovani-in-cerca-di-risposte-3187/

sabato 19 dicembre 2020

ALTERNATIVE AL CAPITALISMO ? UNA QUESTIONE APERTA

 

Nella recensione al bel libro di Giuseppe Sapienza sui danni sistemici del capitalismo (https://www.zerozeronews.it/il-capitale-e-larte-di-fregare-la-gente/ ) ho avanzato delle riserve sull'atteggiamento, diffuso, di criticare il capitalismo senza proporre alternative credibili (teoricamente) e praticabili (storicamente). Queste riserve hanno, a loro volta, suscitato obiezioni a voce e per iscritto. Un collega e amico di Pisa, Fabio Bentivoglio, mi ha gentilmente inviato delle considerazioni che - se non proprio critiche nei miei confronti - sono almeno integrative. Le pubblico molto volentieri per tenere aperto un dibattito che - a mio sommesso avviso - dovrebbe essere centrale nell'arena politica:

Caro Augusto,

nella tua recensione a “L’arte del capitale” di Giuseppe Sapienza, sollevi una questione più generale, che va al di là del libro in oggetto. Fai riferimento a un sentimento ambivalente: da un lato la fascinazione e, direi, la spontanea adesione alla denuncia dei mali indotti dal capitale (la diagnosi), dall’altra il disagio per la mancanza di plausibili proposte alternative (la terapia). Condivido il tuo disagio: il filone delle diagnosi è saturo, ma, in genere, quando si passa alla terapia si entra nelle nebbie o nella dimensione onirica, il linguaggio perde incisività e diventa allusivo. Forse questa mancanza di chiarezza –da parte di chi denuncia- su come liberarsi da una sottomissione a un capitale così “brutto”, ha la sua ragion d’essere anche nella radicale mutazione antropologica indotta dal capitale stesso. L’attuale forma di capitalismo, infatti, da un lato è forte come non mai, ma, nello stesso tempo, è debole e vulnerabile come non mai. E’ forte, perché pur essendo ben visibili i danni sociali e ambientali che produce, è come se avesse sterilizzato la possibilità che sorga al suo interno una qualsiasi forma di reale antagonismo, perché la formazione mentale degli individui è stata plasmata nel profondo dai paradigmi propri del capitale, condivisi a livello di massa. E’ però un capitalismo debole e vulnerabile, perché, per sua logica sistemica, si mantiene in virtù di un incessante (e non più sostenibile) incremento del consumo di beni superflui, di un’adesione di massa a un’innovazione tecnologica in perenne trasformazione, dell’uso pressoché esclusivo di mezzi di trasporto privati, di una devastante industria del turismo (che definirei meglio come deportazioni di massa a pagamento) ecc… . Per liberarsi da tutti questi mali così spesso denunciati e messi in conto solo al capitale “brutto”, non è necessario progettare la presa del Palazzo d’Inverno (alternativa onirica), o riconoscersi in profili ideologici rivoluzionari. Detto in due parole: sarebbe sufficiente uno stile più sobrio di consumo, una percezione del tempo e di ciò che ha valore non dettata dall’apparato tecnico e dall'ossessiva pressione pubblicitaria, un recupero della propria autentica soggettività per riconoscere gli obiettivi di vita da perseguire nelle relazioni con gli altri, svincolati dalle priorità dell’utile monetario, della carriera, dell’immagine, cessando di essere imprenditori di se stessi. Trattasi certamente di un processo graduale che esige un'evoluzione etica collettiva, comunque praticabile, perché comporta atti e gesti alla portata di tutti e di cui ciascuno è responsabile. Perché, allora, non ci si incammina su questa strada? Una possibile risposta è che per quanto detto sopra – la compiuta incorporazione della società, a tutti i livelli, nella logica del capitale- cultura, scienza, politica e il popolo tutto, pur con nobili eccezioni, non hanno intenzione di “liberarsi” dal capitale, che ha tracciato i binari su cui ciascuno, ormai, anche protestando, fa scorrere la propria esistenza. 

Fabio Bentivoglio

***

PS: Nella foto Serge Latouche, economista e pensatore ugualmente caro a Fabio e a me, durante un "Festival della filosofia d'a-mare" a Favignana (Trapani).

giovedì 17 dicembre 2020

UOMINI, COLTIVIAMO IL FEMMINILE CHE C'E' IN NOI (PER NON DEMONIZZARLO QUANDO L'INCONTRIAMO)

Su gentile richiesta della direttrice, Elena Ciccarello, ho inviato al bimestrale "La via libera" (Torino) questo editoriale che è stato pubblicato sul numero 5 (settembre/ottobre 2020):

UOMINI, COLTIVIAMO IL FEMMINILE CHE E' IN NOI

 A 25 anni dalla conferenza mondiale di Pechino sulla condizione delle donne qualcosa in meglio è cambiato; ma troppo poco. Femminicidi e varie modalità di violenza ai danni delle donne (fisica, psicologica, socio-economica, verbale…) sono la punta dell’iceberg: il sintomo di un assetto culturale e istituzionale che, da alcuni millenni, implica come ‘normale’ lo squilibrio di opportunità, di fatiche, di rischi fra maschi e femmine. Questo sistema sbilenco – virilista, maschilista, fallocentrico o come altrimenti si qualifichi – è certamente svantaggioso per le donne: che infatti, grazie al movimento femminista (il più esteso ed efficace movimento rivoluzionario del XX secolo), si sono mobilitate – e continuano a mobilitarsi – per scardinarlo. Ma è, invece, vantaggioso per gli uomini? Da una trentina d’anni, anche in Italia, alcuni maschi si sono convinti che la gabbia del patriarcato imprigiona e mortifica gli uomini almeno quanto le donne, proprio come i mafiosi sono condannati dal sistema criminale all’infelicità non meno delle loro vittime. Solo maschi incompleti, scarsi di risorse psicologiche, insicuri, sentimentalmente analfabeti, emotivamente imbranati possono ricorrere al linguaggio (parole e gesti) violento per esprimere ciò che provano: solo chi non ha accettato e coltivato il femminile in sé può aver paura, e conseguentemente demonizzare, il femminile che incontra fuori di sé. Alcuni uomini consapevoli che ogni forma di sopraffazione ai danni delle donne è, prima di tutto e radicalmente, un problema del ‘genere’ cui appartengono hanno dato dunque vita al movimento nazionale “Maschile plurale”: per aiutarsi (con sessioni di autocoscienza e di autoformazione) e aiutare altri maschi (con interventi e testimonianze nelle scuole, nelle università, nell’associazionismo) a inventare e sperimentare modi alternativi di essere uomini. Non più solo il mono-tipo dell’uomo determinato, impositivo, efficiente, produttivo, immune da ogni commozione, alieno da ogni tenerezza, “l’uomo che non deve chiedere mai”; ma anche altri tipi di uomo: dialogici, autocritici, collaborativi, empatici, sensibili, inclini alla cura dei malati o all’educazione dei bambini… Un percorso di conversione antropologica in questa direzione consentirebbe lo sradicamento di un sistema, come l’attuale, in cui la sottomissione (per fortuna sempre meno agevole) delle donne costituisce una sorta di palestra per addestrarsi ad altre forme di violenza (contro gli altri animali, l’ambiente, i ‘diversi’, gli stranieri, i ‘nemici’…) e impoverisce l’umanità intera, privandola delle ricchezze che - in un regime di sinergia delle differenze – potrebbero equamente sperimentare uomini e donne. 

Augusto Cavadi
 www.augustocavadi.com

martedì 15 dicembre 2020

LE FREGATURE INFLITTE DAL "CAPITALE" SECONDO GIUSEPPE SAPIENZA

 


12.12.2020
 
IL CAPITALE E L’ARTE DI FREGARE LA GENTE
 

Sarà capitato anche a voi di vedere entrare in un caffè una bella donna o un bell’uomo che, a prima vista, vi son sembrati affascinanti. E in effetti il sorriso di lei, il suo passo elegante, o lo sguardo di lui – intenso, ma non freddo - giustificavano quella prima impressione. Poi però noti anche qualcosa che stona: forse la voce un po’ stridula di lei o i modi bruschi, sbrigativi, di lui. E allora sospendi il giudizio, lo differisci a quando sarà – se mai lo sarà – necessario. Qualcosa del genere mi è successo leggendo L’arte del capitale (Algra, Valverde 2020, pp. 207, euro 15,00) di Giuseppe Sapienza: ne sono rimasto conquistato sin dalle prime pagine ma avvertendo, qua e là, un retrogusto amarognolo di disagio. Come mai? Non è stato facile chiarirmi le idee. Poi, piano piano, ho provato a distinguere l’effetto letterario dal messaggio concettuale e ho capito che, nonostante la degustazione estetica, inciampavo su alcuni contenuti. Già, perché dal punto di vista della scrittura, questa raccolta di composizioni liriche (‘liriche’ in senso direi etimologico: viene spontaneo leggerle come testi di canzoni di Guccini o di Bertoli o di De André) ti afferra dalla prima all’ultima, ti sorprende, ti diverte, ti inquieta salutarmente. Se, poi, analizzi freccia dopo freccia – perché quasi ogni verso è una frecciata - ti si può parare innanzi il punto interrogativo che si materializza quando si legge un testo anarchico. Infatti, anche se mi pare di non aver trovato neppure una volta il sostantivo ‘anarchia’ né alcuno dei suoi derivati, questo mix di fascinazione e di dissenso è simile a quel che avverto leggendo autori (alcuni dei quali miei amici assai cari) di tale orientamento ideologico. So da dove mi proviene il fascino: dalla denunzia, dalla diagnosi. E so anche da dove il disagio, il disaccordo: dalla contro-proposta, dalla terapia (che o mancano o risuonano impraticabili. Il “capitale” è brutto, ma ogni tentativo di abolirlo tout à coup per legge, non gradualmente e per evoluzione etica collettiva, sinora non ha portato a conseguenze meno brutte). Provo a spiegarmi, in concreto, con qualche passaggio.

“Caro concittadino, / col presente contratto, / che non hai scritto, non hai letto, non conosci, e non puoi rifiutare, / ti impegni a pagare un debito pubblico che non hai contratto, / ti impegni ad avere una posizione sociale in linea con la tua istruzione / e un’istruzione in linea con la tua posizione sociale. / Ti impegni a rispettare leggi che non voti, / a pagare tasse per sevizi che non ricevi, / a sognare di diventare quello che vuoi / e accettare di rimanere quello che sei. / Ti impegni a credere che il diritto è uguale / per te che lo leggi e per noi che lo scriviamo, / e ti impegni a rispettare noi, / che facciamo del diritto/ la legge del più forte / con altri mezzi” (L’arte del contratto sociale di non essere un contratto e di non essere sociale, p.149): come non restare sedotti da tanta arguzia dai tratti geniali?

O ancora: “Preferisco essere il vento che la palma / la marea che lo scoglio / il cancro che lo stomaco. / Preferisco essere me che guadagno su una fabbrica di disperati / che il disperato della baracca che protesta / ma se fosse me farebbe come me, / ma non essendo che se stesso, / torna a casa ed è violento con la moglie. / Preferisco essere me che non ho pietà per la donna delle pulizie / che la donna delle pulizie, che nutre ammirazione per me. / Preferisco essere me che faccio approvare un farmaco nocivo / che quello che muore per quel farmaco / perché invece di studiare la mia guerra contro di lui / ha studiato la vita delle celebrità. / Preferisco essere me che seduto sulla mia scrivania sento le urla di quelli dietro al cancello, / che essere tra quelli dietro al cancello che mi maledicono, / ma mandano i loro figli a scuola per farli diventare come me” (L’arte di essere migliore degli uomini che disprezzi, p. 193).

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domenica 13 dicembre 2020

NUCCIO VARA SU "DIO VISTO DA SUD" DI Augusto Cavadi



“Grandangolo Agrigento”

12. 12. 2020

DIO VISTO DA SUD. LA SICILIA CROCEVIA DI RELIGIONI E AGNOSTICISMI

Quando nelle mie letture mi imbatto in testi di contenuto teologico ( e non mi riferisco ai classici di questa disciplina, bensì alla produzione corrente, cioè quella rinvenibile negli scaffali delle librerie religiose delle Paoline) quasi sempre, e tranne qualche rara eccezione, mi trovo al cospetto di una saggistica nella quale i temi affrontati appaiono avulsi dalla contemporaneità, dalla vita reale, dai bisogni spirituali che continuano sotterraneamente a sorgere nella coscienza delle persone, nonostante tutto, malgrado la liquidità del tempo secolarizzato che stiamo vivendo. Sono libri di riflessione su Dio, di esegesi biblica, di ermeneutica neo-testamentaria, o di commenti sulle esortazioni e le encicliche papali, scritti, per lo più, da docenti delle Facoltà teologiche della Chiesa cattolica (purtroppo in Italia, a differenza che in altri paesi europei, la teologia è stata espunta dall’università pubblica) secondo uno stile accademico, convenzionale e perciò stesso ostico per un pubblico non specialistico o estraneo alle problematiche ecclesiali. Una saggistica pertanto auto-referenziale, cioè destinata agli addetti ai lavori o, in forma divulgativa, agli ambienti di stretta osservanza clericale, che già da anni ha lasciato largo spazio ad approfondimenti sul religioso e sullo spirituale sviluppati da autori laici, non credenti o scettici quali- tra i più noti- Corrado Augias (i suoi libri-inchiesta sul cristianesimo, su Gesù, su Maria) e Vito Mancuso (L’anima e il suo destino, Io e Dio, e il recente I Quattro Maestri). Per non dire poi dello scrittore Sandro Veronesi che con “Non dirlo ”, edito da Bompiani nel 2015, ha offerto ai suoi lettori una delle più intense e suggestive interpretazioni del Vangelo di Marco. Questi scritti , alla loro uscita, non soltanto hanno incontrato un vasto interesse e suscitato confronti e dibattiti, ma, soprattutto, hanno evidenziato il fatto che, ben oltre i confini angusti del chiesastico e del parrocchiale, esiste in Italia un’area di credenti non praticanti ( e più in generale di opinione pubblica) ancora interessata e disponibile a fare i conti con il tema cruciale della fede; vuoi per negarne, agnosticamente, i presupposti e l’utilità, vuoi per esplorarne i misteri e poter, grazie a ciò, proseguire a interrogarsi su Dio e sulle << cose ultime>>. Credo che il successo ottenuto dalle opere degli autori sopra citati sia scaturito in gran parte dal loro approccio libero, aperto, privo di pre-giudizi nella trattazione delle tematiche al centro delle loro ricerche ; e di questo identico spirito è pervaso uno stimolante pamphlet di Augusto Cavadi, Dio visto da Sud, la Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi, Spazio cultura edizioni, che raccoglie in ordine diacronico una serie di articoli da lui pubblicati negli ultimi decenni sulle pagine regionali del quotidiano La Repubblica. Cavadi, filosofo pratico, fondatore a Palermo della Casa dell’equità e della bellezza, cristiano con alle spalle significative esperienze comunitarie, analista del fenomeno della mafia, ha offerto con il suo lavoro di opinionista una disamina dei vissuti religiosi in Sicilia osservandoli non in astratto bensì prendendo spunto da concreti episodi suggeriti dalla cronaca e, vieppiù, registrandoli mediante l’utilizzo di categorie concettuali mutuate dalle elaborazioni sul<< pensiero meridiano>> del sociologo Franco Cassano. Ed è proprio ciò ad averlo spinto a  situarsi in una postura analitica geograficamente determinata (il Sud e la Sicilia), indispensabile per riuscire a contestualizzare in senso storico-antropologico il problema di Dio, con l’intento di poterlo a sua volta riformulare  – come ha osservato don Cosimo Scordato nella sua postfazione al volume- anche adoperando gli spartiti propri di altre religioni ( l’ebraismo, l’islamismo e il  buddismo), nel meridione di fatto marginalizzate a motivo della perdurante e pervasiva egemonia in esso della tradizione cattolico-clericale. Scrive Scordato a tal proposito: “[la Sicilia oggi] ha maturato le condizioni che rendono non solo possibile, ma auspicabile, nell’ambito della tematica religiosa, che si dia una convivenza pacifica e creativamente interattiva, comprendente le diverse configurazioni religiose e la scelta anche di chi non crede”. In definitiva Cavadi, nei suoi interventi giornalistici, non ha fatto altro che ribaltare il celebre adagio secondo il quale Extra Ecclesiam nulla salus, scorgendo in quei credenti che il moralismo ecclesiastico ha estromesso dalle pratiche sacramentali (omosessuali, coppie di fatto, separati e divorziati) una modalità altra, forse più autentica, dell’essere cristiani, sino a Papa Francesco incompresa o negletta dalla Chiesa cattolica. Nessun brano biblico, sia del primo sia del secondo Testamento, può infatti avallare nella Chiesa- per dirla con Scordato- “espressioni della sessuofobia” o tendenze che ancora si ostinano a non voler “superare ogni omofobia”. Sul versante dei rapporti con il potere politico la Chiesa siciliana, pur avendo rotto con le complicità e le contaminazioni del passato, dovrebbe - secondo Cavadi-  sviluppare ulteriormente processi di netta separazione tra lo spirituale e il temporale poiché solo “ l’adozione di un’autentica laicità civica (secondo i dettami della costituzione repubblicana) e religiosa (secondo i dettami dei vangeli) potrà restituire alla sfera politica e alla sfera ecclesiale l’autonomia di giudizio e di azione di cui esse hanno bisogno…”. Anche nella lotta contro la mafia, passi in avanti, anzi vere e proprie azioni di rottura con il milieu criminale sono state compiute già da tempo dall’episcopato dell’isola (condanne nette degli inchini nel corso delle processioni davanti le abitazioni dei boss, riforma degli statuti delle confraternite, messa al bando della massoneria); Cavadi non può non prender atto delle svolte irreversibili già realizzate, ma chiede alla Chiesa, per “prevenire le infiltrazioni al suo interno”, di rendersi poco attraente ai mafiosi riscoprendo e, soprattutto, “mettendo in atto i valori del Vangelo”. Sobrietà cristiana, “solidarietà con i deboli della storia”, laicità sono dunque le chiavi di volta per riaccostarsi finalmente, al vero volto, tollerante e misericordioso, del Dio Unico. Osservabile da ogni latitudine, ma certo ancor meglio se dal Sud, da tutti i Sud del mondo. 

 Nuccio Vara


venerdì 11 dicembre 2020

IL PD MI HA OFFERTO TRE MINUTI DI CELEBRITA' E ME LI SONO LASCIATI SFUGGIRE...CHE STUPIDO CHE SONO...

www.girodivite.it 

9. 12. 2020

 

IL PD VI OFFRE I TRE MINUTI DI CELEBRITA’ ALLA  ANDY WAHROL ?  NON MONTATEVI LA TESTA

 

Mi è capitato col PD provinciale di Palermo, ma – dopo mezzo secolo di impegno nel sociale - non mi faccio illusioni: sarebbe potuto capitare in qualsiasi altra provincia e in qualsiasi altro partito politico. Ricevo un invito – in quanto membro del “Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne” – per una sorta di assemblea telematica sul tema della condizione femminile in Italia, prevista per le 16,30 del 27 novembre. Ovviamente informo dell’invito gli amici del gruppo e più di uno mi avverte: “Guarda che ai politici interessano meno di un fico secco la nostra esperienza, le nostre elaborazioni, i nostri libri. Serve qualche fiore all’occhiello per dire che il partito ascolta la società civile”. Tante volte nel passato è andata così, ma so che adesso ci sono volti nuovi, tra cui anche di amici e di amiche che stimo e a cui voglio bene: perché rifiutarmi pregiudizialmente? Perché non riprovare per l’ennesima volta? E così lo sventurato rispose. 

L’esordio è stato incoraggiante: invece della solita ora di ritardo, si inizia con puntualità asburgica. Ovviamente prende la parola l’organizzatrice dell’iniziativa. La passa al segretario regionale, poi al capogruppo al consiglio regionale, poi a due donne segretarie di sezione, poi a tre donne della segreteria nazionale…Già, nell’ascoltare gli stessi temi, ridetti con le stesse parole e conditi dalle stesse citazioni del manifesto del partito sul New Deal delle Donne, l’entusiasmo scema. Vorrei chiudere, ma sarebbe scortese: sono tra gli sciocchi che ritengono etico rispettare gli impegni. Passa la prima ora, poi la seconda: qualcuno ringrazia in chat, saluta e va via. Alla coordinatrice dell’incontro si accende qualche lucina e comunica che, da quel momento in poi, sarebbe stato giusto alternare un intervento ‘politico’ con un intervento da parte di qualche ‘invitato’ esterno al partito.  La regola viene rispettata per due o tre interventi, poi la stessa signora che l’ha comunicata si smentisce: “Poiché M.M. ” – un ex consigliere regionale di un ex partito, approdato non so quando al PD, ma di cui non è nota la competenza in questioni femminili – “ha da fare, gli diamo la parola: per questa volta a due ‘politici’ di seguito”. Così mi s’illumina la mente: sono tra i tanti, e le tante, in collegamento perché – a ben pensarci – non ho nulla da fare. Se ho atteso due ore e mezza, perché non dovrei attendere ancora chi sa quanto che mi si concedano i “tre minuti” concordati al momento dell’invito (limite che al solito sarei l’unico a rispettare, secondo il mio vizio moralistico di rispettare i patti)? Mi ricordo di un simpaticissimo cartello esposto nella bottega del calzolaio di famiglia: “Chi non ha niente da fare, è pregato di andare a farlo altrove”. Tutto sommato un buon consiglio. Scrivo anch’io in chat il mio messaggio di ringraziamento e di saluti e torno a correggere le bozze del mio prossimo libro. La rivoluzione – magari sotto forma di ossequio delle regole – può attendere. Dal Sessantotto a ora sono cambiati i certificati anagrafici, ma a quanto pare anche per i ‘nuovi’ dirigenti politici resta valido il parere ascoltato allora: “Molti vogliono cambiare il mondo, pochi sono disposti a rendersi degni di tale cambiamento”.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

martedì 8 dicembre 2020

CHE SIGNIFICA DAVVERO ESSERE "CREDENTE" ?

 




CHI E’ DAVVERO CREDENTE NELLA FORESTA DELLE FAKE-NEWS ?

 

Quando mi si chiede se sono un credente – chi conosce la mia formazione cattolica specifica: “ancoraun credente” – cado in un silenzio imbarazzato. Che risponda affermativamente o negativamente, mi ritrovo in scomode compagnie: variegata la folla dei ‘credenti’ (per molti dei quali vale la battuta di Woody Allen: “Non ho niente contro Dio. E’ il suo fan club che mi atterrisce”); variegata la folla dei ‘non-credenti’ (molti dei quali sono certi di non avere ‘fede’, ma non hanno la minima informazione su cosa significherebbe averla). Insomma: alle mie orecchie è una domanda-trabocchetto perché mi condanno all’incomprensione sia se mi rifiuto di rispondere (sono un agnostico) sia se rispondo (sono un bigotto o un presuntuoso).

Le rare volte in cui l’interlocutore ha il tempo, e soprattutto la voglia, di ascoltarmi cerco di percorrere un sentiero tanto semplice da risultare, soprattutto ai colleghi filosofi e teologi, banale.

Come già osservava sant’Agostino, credere significa accettare per vero qualcosa che non conosci direttamente ma ti viene comunicato da qualcun altro su cui hai motivo di nutrire fiducia (fides). Se mia moglie arriva in ritardo clamoroso a un appuntamento e mi comunica che ciò è avvenuto a causa di un blocco stradale imprevisto, mi trovo davanti a un bivio: crederle (se è una persona che reputo lucida mentalmente e sincera) o non crederle (nell’ipotesi che abbia dei motivi per dubitare di ciò che mi dichiara). Nella storia dell’umanità vi sono tante religioni, ma sono soprattutto le grandi religioni ‘profetiche’ (ebraismo, cristianesimo, islamismo) a comportare una dinamica di ‘fede’ del genere. Nella versione corrente (condivisa equanimemente da sedicenti credenti e da sedicenti non-credenti) le cose sarebbero andate grosso modo così:   Mosé afferma di aver ricevuto direttamente da Dio le tavole della Legge; Gesù afferma di essere non solo il Mosé della nuova Legge, ma addirittura l’incarnazione di Dio stesso; Maometto precisa che Mosé e Gesù sono sì dei grandissimi profeti che non hanno mai mentito (la pretesa che Gesù sia Dio in terra non l’avrebbe avanzata egli stesso: gliela avrebbero attribuita i discepoli dopo la morte), ma Dio avrebbe chiarito e completato la rivelazione della propria identità e del proprio progetto sulla storia attraverso il messaggio dello stesso Maometto (nel Corano). 

Confesso di aver condiviso per i primi tre decenni della vita questa impostazione che, tra l’altro, mi ha dato molto conforto e molte motivazioni all’impegno per un mondo un po’ meno ingiusto. Negli stessi trent’anni, però, ho anche studiato filosofia e teologia; ho incontrato persone di ogni età e orientamento culturale; ho viaggiato e partecipato a convegni, ritiri, assemblee, seminari, raduni… organizzati da istituzioni delle più svariate tendenze. E ho capito che la mia prospettiva fosse radicalmente errata.


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domenica 6 dicembre 2020

MA DAVVERO LA POLITICA NAZIONALE DISCRIMINA IL MERIDIONE ITALIANO ?

 

“Il Gattopardo”

                                                           Novembre 2020


MA DAVVERO IL SUD E’ DISCRIMINATO DALLE POLITICHE NAZIONALI ?

Non sono in grado di esprimere giudizi tecnici, ma ritengo che se un ex-direttore del “Sole 24 Ore” pubblica un libro di politica economica qualche attenzione la meriti. Mi riferisco a  La grande balla di Roberto Napoletano, sottotitolo: Non è vero che il Sud vive sulle spalle del Nord, è l’esatto contrario. L’autore cita dati impressionanti: “Quanti cittadini sanno che sessantun miliardi dovuti al Sud vengono ogni anno regalati al Nord? Si tratta del più grande furto di Stato mai conosciuto nella storia recente della Repubblica italiana. Sapete a quanto ammonta la spesa per infrastrutture nel Mezzogiorno? Lo 0,15% del Pil, praticamente è stata azzerata. Intanto al Nord c’è un insegnante ogni dieci studenti, al Sud gli studenti sono venti per ogni professore. Questo Paese aspetta da almeno dieci anni la sua operazione verità sulla ripartizione territoriale della spesa pubblica e una manovra di bilancio che metta al centro gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno. O si fa questa manovra o si continuerà a galleggiare in acque sempre più agitate e, prima o poi, l’Italia imbarcherà tanta di quell’acqua da mandare alla deriva il Sud e consegnare il Nord su un piatto d’argento a francesi, tedeschi, cinesi e russi”.

     E’ importante che questi dati siano ripresi e sottoposti al dibattito pubblico. Lo ha fatto di recente il presidente dello SVIMEZ, Adriano Giannola, ribadendo che “"il Nord ha sottratto al Sud 60 miliardi all'anno", quasi a conferma di quanto sosteneva già mezzo secolo fa Piersanti Mattarella, tra i meno ‘provinciali’ dei presidenti della Regione siciliana: “Indipendentemente dal fatto di esserci o non esserci un problema del Mezzogiorno, c’è un problema di «antimezzogiorno», che crea la necessità di una politica meridionalistica”. 

    Va preso atto delle obiezioni che a queste tesi vengono rivolte da studiosi non meno accreditati, come Giampaolo Galli e Giulio Gottardo dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani: a loro parere, se non si tiene conto di quanto lo Stato spende al Nord attraverso le imprese a partecipazione statale (come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo) che operano con criteri di mercato né delle pensioni più alte perché relative a stipendi più alti riscossi nei decenni di servizio attivo, il Meridione non risulta discriminato. Anzi, se si considera che per il costo della vita un euro al Sud ‘vale’ più che al Nord,  il Meridione può considerarsi favorito.  

     Al di là delle differenze di analisi, tutti gli esperti concordano comunque su una certezza: la quantità di denaro è meno decisiva del modo in cui lo si investe. Se ci sono sperequazioni nella spesa pubblica, vengano corrette; ma resta a noi cittadini del Sud - imprenditori, sindacalisti, intellettuali e soprattutto amministratori  -  la responsabilità di impegnarci a migliorare la qualità dei servizi essenziali.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

sabato 5 dicembre 2020

VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE: BARBARA SAPORITI INTERVISTA AUGUSTO CAVADI

 

In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne (25 novembre 2020) ho risposto volentieri ad alcune domande postemi da Barbara Saporiti (Ufficio stampa del Gruppo Abele, Torino).

Qui il link alla breve conversazione:

https://www.gruppoabele.org/diversamente-uomini/

mercoledì 2 dicembre 2020

LA CARITA' E' SINTESI DI EROS E AGAPE ? UNA CRITICA ALL'IDEA 'CATTOLICA' DELL'AMORE (ELABORATA DA ELIO RINDONE)

 

 


Nel corso della conversazione on line tra Giuseppe Savagnone e me (con la partecipazione di Vera Chiavetta) sul mio recente volume Dio visto da Sud.  La Sicilia come crocevia di religioni e di agnosticismi, Spazio Cultura, Palermo 2020 (chi volesse rivedere la registrazione può cliccare qui: https://www.facebook.com/spazioculturalibri/videos/815518495677973/?notif_id=1606757458957142&notif_t=live_video_explicit&ref=notif                      ),  Savagnone ha affermato en passant di non condividere quelle righe del mio libro in cui si avanzavano serie riserve sulla nozione cattolica di 'carità'. 

In effetti si tratta di un tema che esige ben più di poche battute (scritte, come le mie, o orali, come quelle del mio gentile interlocutore). Tutto ciò che so sull'argomento a mia volta l'ho appreso da un saggio - che ritengo rivoluzionario - del mio amico Elio Rindone: saggio di cui ho io stesso pubblicato un ampio stralcio volume Quando ha problemi chi è sano di mente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Nelle sue pagine, Rindone ha sostenuto che con la parola carità si designa il tentativo generoso – ma sostanzialmente fallimentare – del pensiero medievale cristiano di sintetizzare le due principali interpretazioni dell’amore in Occidente: la greca (l’eros) e la biblica (l’agape). Come ha messo in evidenza il teologo luterano A. Nygren[1], si tratta di due prospettive ugualmente interessanti, ugualmente fondate sull’analisi realistica dell’essere umano, ma essenzialmente differenti: l’eros come desiderio di unione con ciò che attira perché ha valore, l’agape come donazione gratuita a favore di chi è indigente.

Che cosa è avvenuto con sant’Agostino e san Tommaso, con i padri e i dottori medievali che hanno gettato le fondamenta, tuttora indiscusse, della visione cristiana del mondo? Si è tentato di unificare le due dimensioni dell’amore, ma il risultato è stato un ibrido – la caritas – che costituisce, in linea generale, un impoverimento rispetto ai due antecedenti: l’amore come carità, infatti, è un amore de-sessualizzato (mentre l’eros platonico coinvolge, almeno come momento iniziale, la dimensione corporeo-sessuale) ma non del tutto disinteressato, finalizzato com’è alla salvezza dell’anima (mentre l’agape biblica è dono assolutamente gratuito). Da questo ibrido scaturiscono conseguenze pratiche, etico – operative numerose e rilevanti: la coscienza cattolica – e quanti nei Paesi dell’Europa Mediterranea non siamo stati condizionati da un’educazione cattolica? - resta come lacerata da istanze contraddittorie e tenta di lenire l’angoscia da una parte rimuovendo le pulsioni, i sogni, i desideri, dall’altra enfatizzando forme di amore (per esempio nei confronti dei propri familiari e dei propri concittadini) che non sono per nulla privilegiate nell’ottica evangelica. Che fare, dunque? Disambiguare la nozione medievale di 'caritas' facendo spazio nella propria vita a un eros più libero e un'agape più disinteressata, riattualizzando il meglio della tradizione greca e il meglio della tradizione biblica (al di là, o al di qua, delle 'insalate' medievali).

 


A beneficio di chi fosse davvero interessato riporto le pagine essenziali della trattazione (pp. 61-102).

                                                             ***


L’amore, anzi gli amori 

Pochi fenomeni sono noti come l’amore: tutti ne abbiamo fatto qualche esperienza, conosciamo l’appagamento che da esso deriva, le pene che comporta o il senso di vuoto che provoca la sua assenza. Ma siamo certi di sapere di cosa parliamo quando usiamo la parola ‘amore’? La questione, in realtà, è più complessa di quanto non sembri a prima vista. L’immagine che immediatamente si presenta alla mente è quella di una coppia di innamorati, giovani e felici; ma, se riflettiamo un po’, ci accorgiamo che noi usiamo la parola ‘amore’ anche in tanti altri casi, diversissimi tra loro: amo la birra, il mio gatto, i miei amici, la patria, la musica, i poveri, i nemici, Dio… E sono diversi non soltanto gli ‘oggetti’ del mio amore ma anche i modi in cui mi rapporto ad essi e le conseguenze che tali amori hanno su di me. Bevo la birra ma mi prendo cura del mio gatto, la componente genitale è coinvolta nel rapporto con la mia donna non in quello con i genitori o con i figli, la sensibilità mi aiuta a far del bene agli amici non ai nemici, godo nella contemplazione di un’opera d’arte ma mi sacrifico per i poveri… Atteggiamenti così diversi hanno qualcosa in comune? Credo che una fenomenologia tanto variegata possa, in una prima approssimazione, essere dominata riconducendo i casi in cui usiamo la parola ‘amore’ a due atteggiamenti fondamentali: chi ama la birra cerca il godimento che gli deriva da tale bevanda, e quindi il proprio bene, mentre chi ama il nemico cerca il bene dell’altro, eventualmente anche con proprio danno. Possiamo distinguere, dunque, nell’amore due movimenti ben diversi: uno ego-centrico, per cui desideriamo ciò che ci piace e ci arricchisce, e uno allo-centrico, per cui ci doniamo all’altro, il cui bene può diventare ai nostri occhi tanto importante da giustificare le più grandi rinunzie, e talora addirittura il sacrificio della vita stessa. Questi due aspetti – amore-desiderio e amore-dono – hanno forse in comune elementi sufficienti per rendere accettabile l’uso di un unico termine per designare fenomeni dalle caratteristiche tanto varie, ma ciò non si può dare per scontato, e in ogni caso non deve far dimenticare le differenze che pure ci sono e che la lingua greca, a differenza di quella italiana, permetteva di cogliere più facilmente perché disponeva di termini diversi per indicare ciò che noi chiamiamo sempre e solo ‘amore’. Amore-desiderio e amore-dono, dunque: il rapporto tra questi due atteggiamenti, problematico per ciascuno di noi, lo è stato anche per le diverse culture di cui siamo eredi: la rilettura della vicenda storico-culturale davvero intrigante, che di queste due prospettive ha conosciuto accentuazioni unilaterali e imprevedibili intrecci, ritengo che possa gettare un fascio di luce sui nostri conflitti. E per comprendere qualcosa di una società che ancora si dice cristiana, e che effettivamente, nonostante un inarrestabile processo di secolarizzazione, conserva l’impronta della visione cristiana del mondo, non basta certo interrogare i grandi movimenti culturali della modernità, quali l’illuminismo o il romanticismo, che più direttamente hanno influenzato le nostre idee: è ancora più essenziale risalire ai secoli in cui il pensiero cristiano si è strutturato, e alle fonti a cui esso ha attinto, e cioè la filosofia greca e la tradizione biblica.

 

L’amore platonico

I secoli che ci separano dalla Grecia classica fanno apparire quel mondo estraneo al nostro, eppure è proprio ad esso che, anche per la problematica dell’amore, dobbiamo rifarci se vogliamo capire qualcosa di ciò che ancora oggi ha per noi importanza vitale. Sarebbe interessante esplorare l’idea che dell’amore ha proposto la poesia epica, ciò che ne hanno detto i lirici e i tragici, il modo in cui l’amore è stato vissuto nella vita quotidiana. Per evidenti limiti di spazio dobbiamo però limitarci a ciò che ne hanno pensato i filosofi, anzi un filosofo: Platone. La scelta, certamente riduttiva di un’esperienza estremamente ricca, non è tuttavia arbitraria, se è vero, come scrive uno studioso del mondo classico, che è proprio la teoria platonica "che caratterizza meglio, agli occhi della posterità, l’ideale greco dell’amore, ad un tempo slancio di tutto l’essere e conoscenza intellettuale, compimento dell’uomo e iniziazione alla vita divina"[3]. L’idea oggi diffusa, che i filosofi abbiano ben poco da dire sull’amore, è subito contraddetta da Platone nel dialogo in cui affronta il nostro tema, il Simposio. In esso Socrate, che incarna l’ideale del filosofo, è presentato proprio come un uomo che ha esperienza dell’amore (in greco eros): anzi, egli va sempre "dicendo di non saper altro che cose d’amore"(177 d). Ma la concezione platonica dell’amore non è certo quella della cultura del tempo, esposta dai cinque interlocutori che intervengono nella prima parte del Simposio: essi ne mettono in luce caratteristiche o conseguenze che potranno magari essere riprese e valorizzate ma che non ne colgono l’essenza.Il primo di essi, il giovane Fedro, vede nell’amore una forza che eleva l’uomo perché lo spinge a compiere azioni magnanime: esso, infatti, genera "la vergogna delle bassezze e l’aspirazione per le cose nobili, senza le quali né stato né singoli possono compiere grandi e belle cose"(178 d). Il secondo, il più esperto Pausania, attribuisce però questo valore non all’amore volgare, che si rivolge prevalentemente ai corpi e che è incostante, perché la bellezza corporea sfiorisce, ma a quello celeste, che è duraturo perché la bellezza spirituale col passare del tempo si accresce: "Colui che ama l’anima, che è la parte nobile, rimane amatore per la vita, in quanto fuso con una cosa che dura"(183 e), tanto che è meglio "amare persone nobilissime ed eccellenti anche se siano più brutte di altre"(182 d). Ma l’amore, rileva il medico Eurissimaco, è un dinamismo che riguarda non solo l’uomo ma tutto l’universo. Il cosmo è un tutto vivente, unito da questa forza attrattiva: l’amore, dunque, è presente anche "nei corpi di tutti gli animali e nelle piante della terra e, per dirla in una parola, in tutti gli esseri"(186 a). Tornando all’uomo, il commediografo Aristofane narra un divertente mito: gli uomini primitivi erano uniti a due a due e furono spaccati a metà da Zeus che voleva difendersi dai loro assalti. L’amore nasce perciò dall’esperienza di solitudine e di indigenza propria dell’attuale condizione umana, ed è quindi nostalgia dell’unità perduta, brama di unione e di completamento: in ciascun uomo c’è il desiderio "di congiungersi e di fondersi con l’amato per formare, di due, un essere solo"(192 e). Infine Agatone, il poeta tragico, vede nell’amore la sensibilità per il bello, propria delle anime capaci di raffinate emozioni: esso "nei sentimenti e nelle anime degli dei e degli uomini pone la sua dimora. E non indifferentemente in tutte le anime: se capita in una che abbia sentimenti rozzi se ne va via, e invece rimane ad abitare in una dai sentimenti delicati"(195 e). E tali anime amore arricchisce di ogni qualità: "Ci vuota di ogni selvatichezza e ci colma di affabilità, […] prodigo di benevolenza, negatore di malevolenza, […] zelante con i buoni, incurante dei malvagi"(197 d).

Nella seconda parte del dialogo Socrate contesta radicalmente le idee espresse sin qui, e che pure con analisi assai penetrante hanno colto dell’amore aspetti ritenuti ancora oggi di grande rilevanza. Egli, dichiaratosi discepolo di Diotima, una sacerdotessa di Mantinea da cui ha appreso quanto sa sull’amore, critica in particolare le affermazioni di Agatone. L’uomo che ama non possiede le perfezioni attribuitegli dal tragediografo; anzi ne è del tutto privo, e proprio perciò ama. Narrando il mito di Eros che nasce da Penia (Povertà) e Poros (Ingegno), Socrate spiega che amore è appunto il desiderio di tutto ciò che l’uomo non possiede ma a cui può aspirare, per esserne arricchito e perfezionato. Per Platone l’uomo è posto al confine tra due mondi ed è caratterizzato dalla tensione verso il regno dello spirito. E’ un essere di desiderio, e oggetto del suo desiderare è tutto ciò che è bello, buono, vero. La realizzazione dell’uomo, quindi, non può consistere che nel possesso di questi valori, e anzi in un possesso che sia duraturo. Il desiderio, infatti, è non solo infinito (tutto ciò che vale ci appare desiderabile) ma anche eterno (non vorremmo essere mai privati di ciò che vale): "riassumendo, quindi, l’amore è desiderio di possedere il bene per sempre"(206 a). Ma come può l’uomo, che è un essere mortale, possedere qualcosa per sempre? Produrre qualcosa che ha valore: ecco la via per superare la propria finitezza e sopravvivere, al termine dell’esistenza individuale, in ciò che si è creato. Così effettivamente l’uomo vince la morte e diventa in qualche modo immortale: "La riproduzione è il qualcosa di sempre nascente e immortale per quanto è possibile a un essere mortale"(206 e-207 a). Perciò gli uomini che sono fecondi nel corpo cercano le donne e affidano alla procreazione dei figli la loro vittoria sulla morte. Ma qui, per Platone, non c’è vero amore ma solo rapporto fisico. Simili affermazioni risultano comprensibili se si ricorda che nella Grecia classica le donne non ricevevano un’istruzione, dovevano occuparsi della casa e dei figli e neanche a tavola stavano col marito: di conseguenza non poteva esserci un’intesa spirituale tra uomo e donna. Gli uomini che sono gravidi nell’anima, invece, cercano i giovani maschi e fecondano il loro spirito: il vero amante è attirato "dai bei corpi piuttosto che da quelli disgraziati e se mai incontri un’anima bella e nobile allora vi si attacca, affezionato dell’uno [il corpo] e dell’altra [l’anima], e subito con questa persona gli vengono facili mille ragionamenti sulla virtù, e su ciò che deve essere un uomo eccellente e su quali debbano essere le sue occupazioni, cominciando così ad educarla" (209 b-c). Espressione privilegiata dell’eros che vince la morte è dunque, in questa prospettiva, il rapporto pedagogico. In virtù di esso, infatti, l’amante e l’amato generano figli migliori di quelli corporei, e cioè creazioni artistiche e progetti politici: "essi hanno tra loro più intima comunione e più salda amicizia di quella che viene dalla procreazione dei figli, perché sono accomunati dall’avere dei figli più belli e immortali"(209 c).

Contrariamente a quanto si pensa comunemente, non è affatto vero che l’amore platonico escluda la dimensione corporeo-sessuale. Nel Fedro Platone mostra di conoscere bene i brividi della passione amorosa e le sue pene, che descrive con estremo realismo: l’amante "se scorge un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce e si sente mancare; poi, rimirando questa bellezza, la venera come divina e, se non temesse d’essere giudicato del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come all’immagine di un dio"(Fedro 251 a). Se l’amato è assente, l’anima innamorata soffre, ma appena lo rivede "torna a respirare, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, almeno per il momento, questo soavissimo piacere. E non si staccherebbe mai dalla bellezza dell’amato, che apprezza più di ogni cosa, sino a dimenticarsi della madre, dei fratelli e di tutti gli amici; se il patrimonio va in rovina perché lo ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, trascurando regole e convenienze, a cui prima teneva tanto, accetta volentieri ogni schiavitù. […] Questo patimento dell’anima […] è ciò che gli uomini chiamano amore"(Fedro251 e-252 b). E alla forza contagiosa dell’amore l’amato non può resistere: egli "desidera ed è desiderato, perché ha in sé un’immagine riflessa d’amore, un amore di risposta. […] Desidera ugualmente […] vedere, toccare, baciare l’amante e giacere con lui: e ci arriva, naturalmente, assai presto" (Fedro 255 d-e).

 L’eros ha dunque, come rileva un noto studioso della cultura greca, "una speciale importanza nel pensiero di Platone, perché è l’unico momento in cui si uniscono le due nature dell’uomo: l’io divino e la bestia incatenata. Eros infatti è chiaramente radicato nell’impulso fisiologico del sesso, che l’uomo ha in comune con gli animali […], eppure Eros fornisce anche l’impulso dinamico che spinge l’anima alla ricerca di una soddisfazione trascendente le esperienze terrene"[4]. Perché l’uomo non resti ingabbiato dalla sensualità è però necessario che l’impulso sessuale sia soddisfatto con grande moderazione, che il delirio erotico resti sotto il controllo della ragione (cfr. Fedro 256 a). E nelle Leggiil vecchio Platone mostrerà la sua innegabile diffidenza nei confronti dell’istinto sessuale, così difficile da temperare, restringendone l’ambito esclusivamente al matrimonio e finalizzandolo alla procreazione: bisognerà stabilire, infatti, per legge che "nessuno osi toccare nessun altro cittadino legittimo, nessun’altra persona libera se non la propria moglie e che nessuno semini semi illegittimi e bastardi nelle concubine e semi infecondi negli uomini, contro natura"(Leggi 841 d). L’insegnamento del Simposio è, appunto, che non bisogna fermarsi al primo stadio dell’esperienza amorosa. Procedendo nella sua formazione, l’amante si accorge infatti che non può legarsi a una sola persona. E’ bene amare ed educare, suscitando sensibilità per la bellezza estetica e l’impegno politico, anche altri giovani: l’amante comincia perciò a "diventare amoroso di tutti i bei corpi e ad allentare la passione per uno solo, spregiandolo e tenendolo di poco conto"(210 b). Un passo ulteriore è costituito dalla scoperta che la bellezza delle anime supera tanto la bellezza dei corpi che è possibile amare le anime nobili anche se racchiuse in corpi sgraziati. Quindi l’amante, e siamo alla tappa successiva di questa ascesa, è così conquistato dalle diverse attività dello spirito, dal governo degli uomini al gusto della vita intellettuale, è insomma così affascinato dal mondo spirituale che diventa indifferente di fronte alla bellezza corporea. A questo punto egli è ormai prossimo alla meta, è in grado di fare esperienza immediata della realtà in sé, della bellezza, della verità e del bene in sé. Il vertice della formazione amorosa è appunto la contemplazione dell’assoluto: "a chi sia stato educato nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e adeguata delle diverse bellezze, una volta giunto al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso si rivelerà una bellezza meravigliosa […]: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l’altro, né ora sì e ora no […], né bella per alcuni ma brutta per altri. […] Questo, o nessun altro, caro Socrate, […] è il momento degno di essere vissuto per l’uomo: quando contempli la bellezza in sé. Se un giorno tu la scorgerai, sperimenterai che il suo valore non può commisurarsi con la ricchezza o il lusso, o gli stupendi fanciulli e giovani, vedendo i quali ora rimani smarrito […]. Credi forse che sia uno sciocco l’uomo che voglia fissare lo sguardo su di essa e contemplarla con la mente e vivere in sua compagnia?"(210 e-212 a).

Nella terza parte del Simposio Platone ci svela che proprio Socrate, che ha detto "la verità su Amore"(199 b) presentandosi come un semplice discepolo di Diotima, è colui che ha portato a compimento la sua formazione amorosa. Questa volta sarà Alcibiade, incarnazione della bellezza giovanile, che "dirà la verità" (214 e) su Socrate, rivelando un episodio ignoto a tutti. Conquistato dal fascino del maestro, Alcibiade lo ha invitato a cena, e poi lo ha pregato di restare a dormire e addirittura è entrato nel suo letto: "Ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dei e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né più né meno che se avessi dormito col padre o con un fratello maggiore" (219 c). Il senso di questa scena di seduzione, che si conclude con un fallimento, è evidente: Socrate è ormai indifferente alla bellezza di Alcibiade perché abbagliato dalla bellezza assoluta. E infatti Alcibiade ricorda un altro episodio della vita del maestro: mentre si trovava nell’accampamento, nel corso di una spedizione militare, Socrate "tutto assorto in qualche idea s’era piantato ritto lì, fino dall’alba, meditando; […] e già era mezzogiorno e alcuni uomini se n’erano accorti e meravigliati dicevano l’un l’altro: "Socrate se ne sta lì impalato sin dall’alba immerso in un qualche pensiero". Alla fine, alcuni Ioni, scesa la sera, dopo aver cenato portarono fuori i giacigli, poiché era estate, e si misero a riposare all’aperto e nello stesso tempo a controllare se stesse piantato lì tutta la notte. Ed egli vi stette finché fu l’alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò, dopo aver fatto la sua preghiera al sole" (220 c-d). Col racconto di questa esperienza di concentrazione interiore, che potremmo dire mistica e che fa pendant con un episodio simile con cui si apre il dialogo (cfr. 175 a-b), Platone chiude il Simposio presentando appunto il suo maestro come modello di uomo e di filosofo in quanto ha saputo portare l’esperienza dell’amore alla sua più alta realizzazione.

 

Primo tentativo di un bilancio critico

La rapida esposizione che precede ci permette di enucleare alcune caratteristiche della concezione platonica dell’eros:

 a) esso è aspirazione dell’imperfetto (quell’essere di confine che è l’uomo) al perfetto (il mondo soprasensibile),

 b) non si appaga di nulla di finito, perché è per essenza desiderio di infinito, e supera la mortalità dell’uomo attraverso la generazione, soprattutto nel rapporto pedagogico, c) coinvolge la sensibilità e la sessualità, ma come momento indispensabile e tuttavia da superare, perché in ultima analisi tende al bene trascendente,

 d) non si rivolge alla persona in quanto tale ma alla bellezza del corpo o dell’anima o della realtà ideale,

 e) non conduce, quindi, all’incontro con l’altro ma al possesso di un valore che arricchisce l’amante.                                                                                        

Pur riconoscendo il fascino di una simile visione, in sede critica sembra, però, impossibile evitare almeno due questioni: davvero l’amore è ricerca di un valore e non di una persona? L’avere trascurato questo aspetto, che oggi appare essenziale nell’esperienza amorosa, non costituisce un grave limite della prospettiva platonica? In effetti, come è stato notato, in Platone "l’ascensione stessa dell’amore è caratterizzata da una disindividualizzazione che trascura il valore delle persone. Platone non sottolinea che l’amore – ed è senza dubbio il suo senso più profondo – fa uscire da se stessi non verso delle idee ma verso un altro, che esso è una relazione personale, che esso istaura una complementarità di persone"[5].

E inoltre, la visione platonica non resta, di conseguenza, ego-centrica? Per la verità, Platone non ignora la dimenticanza di sé e la sollecitudine per l’altro. Nell’Apologia di Socrate egli presenta il suo maestro come un uomo che si prende cura dei suoi concittadini più che di se stesso: "Non par proprio cosa umana l’aver io trascurato già da tanti anni tutti i miei interessi e quelli della mia casa per seguire sempre i vostri, come farebbe un padre o un fratello maggiore"(Apologia 31 b). E, nella Repubblica, l’uomo del mito della caverna tenta di liberare gli altri prigionieri mettendo a rischio la propria vita: "Chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?" (Repubblica 517 a). Anche se non usa il termine ‘eros’ per designarli, Platone conosce dunque gli atteggiamenti legati al riconoscimento della persona altrui e addirittura al sacrificio per l’altro. E tuttavia la sua posizione resta ambigua. Il Socrate platonico, infatti, dialoga sostanzialmente con l’aristocrazia dell’intellighenzia ateniese. Al banchetto di cui parla il Simposio, per esempio, l’ordine del padrone di casa, Agatone, è che non tutti vengano ammessi: "Se c’è qualcuno dei nostri, fatelo entrare; se no, dite che non beviamo più e stiamo già riposando"(212 d). E non solo la ‘massa’ resta esclusa dalla sollecitudine del filosofo ma persino lo stesso sacrificio per gli amici non nasce dall’amore per l’altro. La sposa che si sacrifica per lo sposo e l’amico che si sacrifica per l’amico secondo Platone ricercano in fondo il proprio bene: "Credi che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo nella tomba […] se non avessero pensato di assicurarsi con ciò una gloria immortale, così come hanno fatto effettivamente?"(208 d). In un certo senso, la motivazione dell’agire platonico è sempre l’amore di sé, la ricerca del proprio vero bene, che è quello dell’anima, infinitamente superiore a quello del corpo. Infatti nel Gorgia Platone sostiene che, certo, la cosa migliore è non commettere né subire ingiustizia; però, se si è costretti a scegliere, è meglio subire che fare ingiustizia, perché chi subisce ingiustizia è danneggiato nel corpo mentre l’ingiusto danneggia la propria anima: "Commettere ingiustizia è, dunque, peggio che patirla, perché superiore è il male che ne deriva"(Gorgia 475 c). Ed il male che ne deriva è, appunto, la corruzione dell’anima di chi commette ingiustizia: "La malvagità dell’anima […], superando ogni altro male, è di tutti il più turpe" (Gorgia 477 d). L’alternativa non è, dunque, tra il bene proprio e quello altrui ma tra il bene del proprio corpo e quello della propria anima. In primo piano per Platone resta sempre non l’interesse dell’altro ma il proprio. Sembra davvero difficile negare che l’eros platonico sia un moto fondamentalmente ego-centrico.

 

L’amore come agape                                                                                                          La cultura occidentale è stata profondamente influenzata, oltre che dalla tradizione classica, da quella ebraica. Se è vero che Atene e Gerusalemme restano ancora punti di riferimento ineliminabili per la comprensione della contemporaneità, non è possibile limitarsi all’ascolto della voce dei filosofi ma bisogna farsi attenti anche alla parola dei profeti tramandata dalla Bibbia. Se interroghiamo qualcuno dei testi più significativi di questa tradizione, anch’essa plurisecolare, a proposito dell’amore, abbiamo immediatamente la sensazione di trovarci in un mondo molto diverso da quello greco. Qui, infatti, non si parla anzitutto dell’uomo ma di Dio. Protagonista del rapporto d’amore è, appunto, Dio: l’amore non è movimento che porta l’uomo verso la perfezione divina ma iniziativa divina che si prende cura dell’uomo. Quest’ultimo non pare un essere collocato al confine tra la sfera materiale e quella spirituale e caratterizzato dalla tensione verso l’alto, ma un essere fatto per vivere, in comunione con Dio, nella giustizia e nella pace qui, in questo mondo. E se giustizia e pace qui non si trovano, Dio non si dà per vinto ma si impegna affinché esse possano germogliare sulla terra: si allea con l’uomo perché da questa collaborazione nasca un mondo nuovo. Testo fondante dell’esperienza religiosa ebraica è, non a caso, la narrazione del libro dell’Esodo, che si incentra sull’intervento di Jahve che libera il suo popolo dalla schiavitù: "Il Signore disse: Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele […]. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano"(Esodo 3, 7-9). E’, dunque, la miseria dell’uomo che Jahve non tollera; egli vuole liberarlo dall’oppressione perché lo ama con la passione con cui uno sposo ama la sposa, con la tenerezza con cui un padre ama i suoi piccoli: "Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.[…] Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano […]. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare"(Osea 11, 1.3-4). Questo Dio che ama l’uomo non chiede per prima cosa, anche se ciò può apparire sorprendente, di essere venerato, non comanda a Mosè di fermarsi in adorazione sul monte in cui gli si è manifestato, di costruirgli un tempio o di immolargli delle vittime. "Ora va’! Io ti mando dal faraone: fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo"(Esodo 3,10): ecco ciò che esige. La liberazione dell’uomo, è questo che sembra ossessionare Jahve e per questa liberazione chiede che Mosè si impegni con tutte le sue forze.

E, in effetti, la sollecitudine per gli oppressi e la lotta per la giustizia sembrano costituire il filo rosso che unisce i diversi libri delle scritture ebraiche: "Ti è stato insegnato, o uomo, ciò che è bene e ciò che richiede il Signore da te: nient’altro che compiere la giustizia, amare con tenerezza, camminare umilmente con il tuo Dio"(Michea 6, 8). E giustizia bisogna rendere anzitutto al povero, all’orfano e alla vedova che, nelle società antiche, sono i più indifesi: "Praticate fedelmente la giustizia e siate benevoli e misericordiosi l’uno verso l’altro! Non defraudate la vedova e l’orfano, lo straniero e il povero e nessuno ordisca nel suo cuore trame contro il prossimo"(Zaccaria 7, 9-10). Jahve chiede, ancora e sempre, giustizia per il povero e non sacrifici cultuali per sé che, lungi dall’essere graditi, provocherebbero solo il suo disgusto: "Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; […] i vostri noviluni e le vostre feste io li detesto, sono un peso per me, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto, perché le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova"(Isaia 1, 13-17).Passano i secoli ma non mutano le richieste di Jahve: un profeta sconosciuto, il cosiddetto Trito-Isaia, i cui scritti sono confluiti nel libro di Isaia, riecheggia l’identico messaggio. Ciò che Jahve chiede con insistenza è sempre che, senza dimenticare i propri familiari, ci si prenda cura, con appassionata sollecitudine, dei poveri: "Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: spezzare le catene inique, sciogliere i legami del giogo, liberare gli oppressi e mandare in frantumi ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i poveri senza tetto, nel coprire colui che vedi nudo, senza trascurare quelli della tua carne?"(Isaia 58, 6-7). E non si può certo dire che si tratta di problemi superati se si pensa alla miseria crescente che affligge oggi miliardi di esseri umani, come emerge, per esempio, in maniera davvero drammatica, dai bilanci annuali dell’UNICEF: il rapporto tra la ricchezza dei paesi sviluppati e quella dei paesi arretrati, che alla metà del ’900 era di 35 a 1, è alla fine del secolo di 72 a 1.Non diverso è, per l’essenziale, il messaggio delle scritture cristiane. Il vangelo di Luca attribuisce a Gesù, che inizia il suo ministero a Nazaret, parole che possono essere considerate un ‘discorso programmatico’ e che riprendono proprio il tema della liberazione degli oppressi: "Entrato, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga, si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo, trovò il passo dove era scritto: "Lo spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore". Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi"(Luca 4, 16-21).Così la nota pagina del vangelo di Matteo, che parla del giudizio operato dal Figlio dell’uomo, non pone come condizione decisiva per l’ingresso nel regno la correttezza della professione di fede o lo scrupoloso rispetto delle norme rituali ma il servizio reso ai più bisognosi: "Il re dirà loro: in verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose [dar da mangiare, da bere…] a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me"(Matteo 25,40).L’accento, potremmo dire con linguaggio attuale, è costantemente messo non sull’ortodossia ma sull’ortoprassi, sul servizio del prossimo, tanto che, in mancanza di esso, sarebbe privo di senso parlare di amore per Dio: "Se uno dicesse 'io amo Dio', e odiasse il suo fratello, è un mentitore. […] Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello"(1 Giovanni 4, 20-21). E l’amore di cui si parla non è una sollecitudine puramente spirituale e ancor meno un semplice slancio emotivo. Al contrario, esso si manifesta proprio col farsi carico delle esigenze dei poveri: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità"(1 Giovanni 3, 17-18).Sembra, dunque, che Paolo colga davvero l’essenza della predicazione di Gesù quando scrive: "Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso" (Galati 5, 14). In effetti, come osserva un noto biblista, il vangelo pone l’accento non tanto sull’amore di Dio quanto sull’amore del prossimo: "Salvo che nel grande comandamento, Gesù non parla in nessun punto esplicitamente dell’amore per Dio"[6].Bisogna, allora, concludere che il messaggio evangelico svaluta l’amore per Dio? Per nulla. Va detto, piuttosto, che esso lo intende in maniera originale: "Gli esegeti hanno fatto rilevare che i vangeli come le epistole parlano abitualmente della fede nell’amore di Dio per noi ben più che dell’amore per Dio; non che Gesù sia venuto ad abolire l’amore per Dio, ma ci ha rivelato in che cosa consiste praticamente, realmente, quest’amore per Dio: amare Dio è credere al suo amore per noi e amarci gli uni gli altri con quell’amore con cui egli ci ama"[7]. Da ciò discende che Dio non è oggetto prioritario o esclusivo dell’amore dell’uomo: non chiede egoisticamente amore per sé. La predicazione di Gesù, in effetti, non pone l’amore per Dio in alternativa all’amore per gli uomini, in essa Dio non appare mai come il rivale dell’uomo. Anzi, proprio la fede nel suo amore è la sorgente dell’amore per l’uomo: "Accogliere l’amore di Dio nella fede comporta il mettersi a disposizione di quest’amore per compiere l’opera che esso ci affida. […] Dio vuole essere a monte della creatura, non oggetto preferenziale delle scelte umane ma loro ragione prima e ultima"[8].

 

Secondo tentativo di un bilancio critico

Riassumendo, dunque, la Bibbia concepisce l’amore anzitutto come la benevolenza gratuita, la misericordia, la sollecitudine che Dio ha per il suo popolo. Solo in un secondo momento l’amore ha come soggetto l’uomo, e l’amore umano si modella su quello divino, che scende dall’alto verso il basso. Gli autori del Nuovo Testamento si sono resi conto che, per designare questo amore, non potevano utilizzare il termine ‘eros’, che aveva ben altra connotazione; hanno perciò fatto ricorso ad un termine poco comune nel greco extrabiblico: agape. Il verbo agapàn era usato per esprimere non la tensione verso ciò che attrae ma il rispetto, l’affabilità con cui ci si rivolge a chi, almeno a prima vista, non ha titoli da accampare. Ma nella Bibbia l’agape non indica un atteggiamento quasi distaccato, di generica benevolenza: essa viene caricata di una nuova intensità, acquista i colori della passione.L’agape non è l’eros, il desiderio della bellezza e della perfezione; è l’amore-dono, che si prende cura di chi di per sé non è affatto attraente: degli emarginati, degli oppressi, dei poveri, che spesso risultano davvero brutti, sporchi e cattivi. L’agape non è un moto ego-centrico, che si estende a cerchi sempre più ampi: i parenti, gli amici, i membri dello stesso partito o dello stesso gruppo religioso…; è, al contrario, un moto disinteressato, che spinge a uscire fuori di sé e a farsi carico dell’altro, sino a sacrificare il proprio tempo, le proprie risorse e, se necessario, la propria vita; è, quindi, un moto allo-centrico, in cui l’interesse dell’altro prevale sul proprio.

Se la Bibbia, per un verso, non nutre alcuna diffidenza, almeno in alcuni suoi filoni, nei confronti della passione erotica (si pensi al Cantico dei Cantici) e trova assolutamente normale che la bellezza della creatura susciti il desiderio dell’uomo, essa però, per un altro verso, dell’eros chiede "non certo l’abolizione né la condanna, ma la detronizzazione. L’eros permane […] il principio dell’autorealizzazione […]; ma l’autorealizzazione non è più il principio del soggetto"[9]. Sta qui la sua originalità: nel primato attribuito ad un amore che si rivolge all’uomo, ad ogni uomo, alla sua concreta umanità, così radicalmente indigente, senza nulla chiedere, senza nulla aspettarsi in contraccambio. E la motivazione di quest’atteggiamento è una sola. Dio ama così: il Padre, infatti, "fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti"(Matteo 5, 45). Il carattere disinteressato dell’agape emerge in tutta la sua evidenza quando sono assenti nell’altro i valori che lo rendono amabile: bellezza, bontà, comunanza di ideali… Ecco perché la novità del vangelo si riassume proprio nell’amore dei nemici: "Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori" (Matteo 5, 44). E’ questo l’atteggiamento del Samaritano, che si prende cura di un uomo rimasto vittima dei briganti, che apparteneva ad un altro gruppo religioso e che era quindi, secondo la mentalità del tempo, un suo nemico per antonomasia (cfr. Luca 10, 37). E’ questo l’atteggiamento di Gesù che, inchiodato sulla croce dopo avere speso la sua vita a servizio dei più bisognosi, invoca il perdono su coloro che lo mettono a morte: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"(Luca 23, 34).Un simile amore, occorre ammetterlo francamente, sembra impossibile, le sue esigenze appaiono eccessive rispetto a ciò che si può chiedere a un essere umano. E tuttavia è innegabile che una moralità che si accontenti di amare gli amici, i connazionali, i correligionari… crea un mondo in cui resta largo spazio per le divisioni, la solitudine e l’emarginazione: proprio mentre unisce quelli che sono dentro, li separa da quelli che restano fuori.Un mondo nuovo, in cui ogni forma di sofferenza sia eliminata e tutti gli uomini possano accedere ad una vita pienamente umana, non può realizzarsi che ad opera di un amore senza confini, capace di donare e di perdonare al di là dei limiti della pura giustizia. Si tratta di un’utopia? In effetti, è difficile già mantenersi in fase di elaborazione teorica all’altezza di una simile prospettiva, tanto che nella Bibbia stessa la troviamo mescolata a idee di qualità anche molto scadente: come osserva un teologo contemporaneo, "il buon libro non è tutto buono. La Bibbia ospita anche insensatezze, banalità e meschinità, insieme a una visione classica delle irrealizzate possibilità del genere umano"[10]. Tentare di tradurre in atto questa visione è certo ancora più difficile.Tuttavia resta vero che tanti uomini e donne nel corso dei secoli hanno trovato ispirazione nella grande utopia del vangelo, riuscendo a cambiare la loro vita e a rendere più umano il mondo che li circondava. E anche oggi questo amore è possibile. Ancora oggi, assieme ad altri che si sono formati nelle tradizioni culturali più diverse, ne hanno dato testimonianza uomini che si ispirano all’esempio di Gesù di Nazaret.

 Particolarmente toccante è, ad esempio, quanto ha scritto un membro delle Brigate Rosse, Antonio Savasta, alla moglie dell’ingegner Taliercio: "Suo marito nei giorni del sequestro [prima dell’esecuzione] è stato come lei lo descriveva, pacato, pieno di fede, incapace di odiarci e con una dignità altissima […]. Anche in quei momenti, suo marito ha dato amore, è stato un seme così potente che neanche io, che lottavo contro, sono riuscito ad annientarlo dentro di me"[11]. Questo amore è capace di cambiare realmente il cuore degli uomini, abbattendo le barriere dell’odio e schiudendo nuove possibilità di vita, come testimoniano anche le parole con cui altri 18 brigatisti si rivolgono al gesuita Adolfo Bachelet, fratello dell’uomo da loro ucciso qualche tempo prima: "Sappiamo che esiste la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere […]. Ricordiamo bene le parole di perdono di suo nipote durante i funerali del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevocabile […]. Per questo la sua presenza ci è preziosa: essa ci ricorda l’urto fra la nostra disperata disumanità e quel segno vincente di perdono e di pace, ci conforta sul significato profondo della nostra scelta di pentimento e di dissociazione e ci offre per la prima volta con tanta intensità l’immagine di un futuro che può tornare a essere nostro"[12].

In conclusione, sia Atene che Gerusalemme attribuiscono all’amore un ruolo decisivo nella vita dell’uomo, ma concepiscono quest’amore in modo profondamente diverso. Il greco cerca anzitutto la propria realizzazione, e l’amore è la forza che lo eleva all’assoluto; il discepolo di Gesù attinge alla sua comunione con Dio la capacità di amare ogni uomo come un fratello. Il diverso modo di concepire l’amore influisce, evidentemente, non solo sull’idea di uomo ma anche sull’idea di Dio che queste due culture presentano. Plotino, ultima espressione della religiosità greca, concepisce l’Uno come Causa sui, che ama la propria perfezione: egli è "hautoù éros" (amore di sé) (Enneadi VI, 8, 15); Giovanni ha dato la più compiuta formulazione della concezione biblica di Dio come amore che si dona scrivendo:"Theòs agàpe estìn" (Dio è amore) (1 Giovanni 4, 8).

L’amore come caritas

Sarebbe ingenuo credere che queste due grandi concezioni dell’amore siano giunte sino a noi nella loro purezza. Le tradizioni culturali, anche le più divergenti, si incontrano nel corso dei secoli e si influenzano a vicenda. E ciò è accaduto, evidentemente, anche nel caso della problematica dell’amore. Nel quinto secolo la commistione di eros e agape è già avvenuta, ad opera di autori cristiani, come Agostino, e pagani, come Proclo: al punto che gli scritti, apparsi all’inizio del VI secolo, di un anonimo neoplatonico, lo Pseudo-Dionigi, che ricopia interi brani di Proclo, verranno attribuiti ad un presunto discepolo di S. Paolo e, ritenuti espressione autentica della visione evangelica dell’amore, eserciteranno un considerevole influsso sulla successiva speculazione teologica. Per valutare gli esiti di questa contaminazione è particolarmente interessante l’analisi del pensiero di Agostino, l’autore che più ha influenzato la cristianità medievale e non solo medievale.

Agostino, com’è noto, è stato un uomo appassionato: di prorompente sensualità, di viva intelligenza e di sconfinata curiosità, sensibile a tutti gli orientamenti culturali del tempo, assetato di spiritualità e costantemente alla ricerca di una verità e di un bene assoluti, che potessero porre fine alla sua inquietudine. Dopo avere aderito alla filosofia platonica, egli crede di trovare la risposta ai suoi interrogativi nella fede e si converte al cristianesimo. Ma non rinnega perciò il platonismo, che anche in tarda età continua a considerare la dottrina più in sintonia con la religione che ha abbracciato, tanto da ipotizzare che Platone, viaggiando in Egitto, sia venuto a conoscenza degli insegnamenti essenziali della Scrittura.

Conosciamo bene il suo itinerario spirituale perché lui stesso lo narrerà nelle Confessioni: si tratta sostanzialmente, a ben vedere, della formazione erotica di cui parla il Simposio. Affascinato, in un primo tempo, dalla bellezza corporea, Agostino riesce a poco a poco ad elevarsi alla bellezza spirituale, sino alla scoperta della bellezza assoluta, il Dio dei cristiani, nel quale la sua anima trova la pace a cui anelava e al quale dedicherà ormai per intero la sua vita, separandosi, tra l’altro, dalla donna che pure ama e che gli ha dato un figlio: "Ci hai fatti per te, o Signore, e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in te"(Confessioni I, 1, 1). In effetti, già all’indomani della conversione Agostino ha ormai chiaro il suo progetto di vita. Inizia, infatti, i Soliloqui scrivendo: “Dio e l’anima voglio conoscere. E null’altro? No, assolutamente null’altro”.

Agostino è dunque convinto, anche sulla base delle proprie vicende personali, che l’uomo è caratterizzato essenzialmente dal desiderio di tutto ciò che possa appagarlo. Tale desiderio si dirige comunemente ai beni creati, ma resta deluso e inappagato, perché questi sono fugaci e inconsistenti. In effetti, l’uomo non è stato creato per rinchiudersi nel finito, e quindi questo desiderio, che Agostino chiama cupiditas, non può condurre alla felicità ed è moralmente condannabile. Il desiderio umano deve orientarsi, invece, verso il bene infinito ed eterno, che solo può appagarlo. Questo desiderio, che Agostino chiama caritas, si confà alla natura umana, creata per Dio, ed è meritorio.

La caritas, l’amore di Dio, non è però attingibile con le sole forze dell’uomo immerso nel peccato, e Agostino sa per esperienza quanto vano sia il tentativo di salvarsi da sé. Quest’amore, come attestano le Confessioni, è possibile solo in virtù della grazia divina, esso è un amore di risposta all’iniziativa d’amore di Dio: ha, quindi, alcuni tratti dell’agape evangelica. Ma conserva, per altri versi, i caratteri dell’eros platonico: è l’amore-desiderio, che ha come oggetto il Bene assoluto. Agostino sembra però ispirarsi più che al Simposio, che attribuisce all’amore per i bei corpi un ruolo positivo come primo momento della formazione amorosa, al rigoroso ascetismo del Fedone, che nutre una radicale diffidenza nei confronti dei beni sensibili, capaci di affascinare l’uomo al punto da impedirgli la scoperta del mondo soprasensibile.

Anzi, allontanandosi dalla Bibbia, che non nutre alcuna diffidenza nei confronti delle gioie terrene e che identifica il peccato nell’ingiustizia e nell’oppressione del povero, Agostino sembra far coincidere il peccato proprio con l’attaccamento ai beni terreni e la ‘conversione’ con il distacco dalle creature. Se non si spezza ogni legame terreno, non si entra in comunione col Creatore e perciò ci si perde. Solo nel possesso immediato ed esclusivo di Dio, reso possibile dalla fede e dalla grazia, l’uomo trova, infatti, la sua felicità: "Lui stesso ti basta; fuori di lui niente ti basta"(Sermo 334, 3).

Ammesso che il possesso delle creature non basti per la felicità, il cristiano può tuttavia amarle? Agostino sembra rispondere di sì. Ma quest’amore ha precise modalità: "Con la stessa e identica carità amiamo Dio e il prossimo: ma Dio per se stesso, invece noi e il prossimo in vista di Dio"(De Trinitate 8, 8, 12). Ciò significa che in realtà il cristiano può compiacersi della creatura non in se stessa ma in quanto manifesta, seppur imperfettamente, la perfezione divina. La creatura infatti, se ontologicamente non è qualcosa di negativo, è tuttavia qualcosa di cui servirsi (uti) per elevarsi a Dio, nel quale soltanto è lecito riporre il proprio godimento (frui): perciò, "quando tu godrai dell’uomo in Dio, godrai piuttosto di Dio che dell’uomo: godrai infatti di colui che ti renderà felice e ti allieterai di essere giunto a colui al quale speri di pervenire"(De doctrina christiana I, 33, 37). A rigor di termini, dunque, bisogna dire che oggetto d’amore non è l’umanità dell’uomo ma l’immagine divina che è in lui: "Che cos’altro se non Dio dobbiamo amare in noi?"(Sermo 255, 7, 7).

Un simile amore valorizza i pregi della creatura umana, la sua bellezza fisica, la sua simpatia, la sua vivacità intellettuale? Credo che la risposta debba essere negativa: non c’è posto nella visione agostiniana per l’apprezzamento della bellezza terrena, ormai deturpata dal peccato. L’uomo deve essere amato in quanto immagine di Dio, cioè per la sua anima, creata per la beatitudine eterna. La salvezza dell’anima: ecco ciò che davvero conta per Agostino. L’amore platonico, di conseguenza, non può che risultare sterilizzato della sua componente di sensuale passionalità. La caritas si allontana, così, dall’eros.

Ma se il prossimo deve essere amato ‘in Dio’, cioè per il suo valore trascendente l’ordine naturale e per la sua destinazione alla comunione con Dio, la caritas rischia di allontanarsi anche dall’agapeevangelica. Infatti, se l’amore è il desiderio del Bene assoluto, diventa difficile amare gli uomini nella loro fragilità e nella loro miseria, mentre nella prospettiva evangelica è proprio dal volto sofferente del povero che il credente si sente interpellato. In effetti, la caritas agostiniana si rivolge a tutti gli uomini, compresi gli emarginati, i peccatori e i nemici, non per ciò che essi sono come creature ma perché in loro è presente, in maniera più o meno offuscata, l’immagine di Dio. Essi possono essere oggetto d’amore solo in quanto la fede consente di percepire in loro un riflesso della perfezione divina: "Colui che, in spirito, ama il suo prossimo, che cosa ama in lui se non Dio?"(In Joannis evangelium 65, 2). Resta da chiedersi come mai nella Bibbia si parli di ‘amore del prossimo’ e non si dica mai che bisogna ‘amare Dio nel prossimo’.

Un’altra questione sembra ineludibile: l’amore inteso come ricerca del Bene infinito non è un moto ego-centrico? Agostino non ha difficoltà ad ammettere che la ricerca del proprio bene è ineliminabile: per lui il problema non è se amare se stessi ma come amare ordinatamente se stessi. Chi cerca il proprio bene amando se stesso sino a dimenticare Dio pecca, perché assolutizza un bene finito; chi cerca il proprio bene amando Dio sino alla dimenticanza di sé si realizza, perché sceglie il bene infinito, dal cui possesso dipende effettivamente la felicità. Ma un simile amore di Dio non è in ultima analisi motivato dal desiderio del proprio bene? La ricerca di Dio non rischia di diventare così un mezzo per la propria realizzazione? Sebbene Agostino affermi ripetutamente che Dio va amato per se stesso, gratuitamente e non in vista di ulteriori ricompense, sembra innegabile che la visione di Dio sia concepita essa stessa come la ricompensa della fede, come il vero bene che appaga il desiderio infinito dell’uomo: da questo punto di vista la caritas agostiniana mantiene il carattere ego-centrico dell’erosplatonico.

 

Terzo tentativo di un bilancio critico

In sintesi, la rilettura del messaggio evangelico alla luce delle categorie neoplatoniche ha dato i seguenti risultati: a) l’amore, dono di Dio e non conquista umana, è il desiderio del Bene assoluto; b) esso non ammette alcuna mediazione creaturale, percepita anzi come peccaminosa, perché la grazia rende possibile una comunione immediata con Dio; c) si rivolge perciò all’uomo non come ad un essere in se stesso meritevole d’attenzione ma in quanto coglie in lui l’immagine divina.

L’esito più vistoso di tale rilettura sembra, dunque, la proposizione di un unico bene, Dio, al bisogno di felicità dell’uomo. Infatti, come abbiamo visto, per il Platone del Simposio la tensione verso la bellezza assoluta non esclude, come esperienza preliminare, l’ammirazione per la bellezza sensibile; per la tradizione biblica è proprio la comunione con Dio che proietta l’uomo verso il prossimo, per prendersi cura della sua concreta povertà, della sua umana sofferenza. Agostino, al contrario, fa discendere il servizio del prossimo, la compassione per le sue sofferenze, il dono di sé sino al sacrificio della vita da un’unica motivazione: la partecipazione, attuale o potenziale, alla vita divina di colui a cui ci si dona; similmente, come non si stanca di ribadire, vede nella bellezza della creatura solo il riflesso della bellezza del Creatore: "Così infatti devi godere di te stesso, non in te stesso, ma in colui che ti ha fatto; così anche di colui che ami come te stesso. Godiamo dunque nel Signore sia di noi che dei fratelli"(De Trinitate 9, 8, 13).

Abbagliato dallo splendore divino, Agostino crede che si debba negare il valore della creatura in quanto creatura. Questa, impastata di nulla, non ha un’autonoma consistenza ontologica: è possibile attribuirgliela solo perché si è accecati dal peccato. Ma la grazia è più forte del peccato: libera l’uomo da tale accecamento e lo rende capace di incamminarsi sui sentieri dell’unico amore che non delude. Di conseguenza, affinché possa crescere l’amore di Dio, deve scemare, sino ad annullarsi, l’attaccamento alle creature. Si capisce allora che, se la condizione per amare veramente Dio è la radicale eliminazione del desiderio dei beni terreni, la vita cristiana ideale, come ritiene una lunga tradizione, è lo stato religioso, che realizza, con i voti di castità povertà e obbedienza, il distacco necessario per vivere nel desiderio di una sola cosa, Dio. E a questa stessa radicale semplificazione dei propri desideri debbono tendere in qualche modo anche i laici che, pur rimanendo nel mondo, debbono distaccarsene interiormente, vivendo almeno lo spirito dei cosiddetti ‘consigli evangelici’.

A questo punto è lecito domandarsi se la caritas agostiniana costituisce un’originale sintesi della prospettiva platonica e di quella biblica o piuttosto un’ibrida mescolanza che sacrifica le intuizioni più pregevoli di quelle tradizioni. Quale che sia la risposta, è certo che la visione agostiniana ha segnato la spiritualità medievale: per secoli sembrerà scontato che la bontà del creato è stata compromessa dal peccato originale e che per amare Dio bisogna staccarsi dai beni terreni, sicuro ostacolo alla salvezza.

E quale legame è più forte di quello che unisce nell’amore l’uomo e la donna e che nasce dall’attrazione fra i sessi? E’ naturale, dunque, che la diffidenza più grande circondi il piacere sessuale e che la donna diventi, per la sua sensualità, il simbolo stesso della tentazione. I teologi medievali, infatti, non si stancano di mettere in guardia contro il pericolo rappresentato dalle sue arti seduttrici: la donna, scrive ad esempio uno di essi,"si attacca in mille modi alle nostre anime e il suo interesse è di perdere il più gran numero di noi"[13].

Questa diffidenza è comune alla maggior parte delle civiltà antiche, e non solo europee: l’amore è quasi sempre stato guardato con sospetto e il matrimonio è stato in genere finalizzato alla procreazione. In Cina, per esempio, il verbo ‘amare’ è usato per esprimere i rapporti tra madre e figlio, non tra coniugi, tanto che, poiché la famiglia è fondata “sull’assenza di amore, ogni manifestazione di tenerezza tra marito e moglie è giudicata sconveniente”[14]. E’ però innegabile che nel medioevo cristiano, rispetto per esempio alla civiltà classica, l’approccio al tema della sessualità e dell’amore sia stato particolarmente repressivo: "Non si può evitare di paragonare il posto riservato all’amore nella Grecia antica a quello che gli è stato dato in una società cristiana: l’opposizione, sul piano teorico, sembra sin da principio assoluta"[15].

In effetti, la sessualità, sempre condannata al di fuori del matrimonio, è ammessa all’interno di esso solo in vista della generazione dei figli. Ma non è considerata un bene, essendo piuttosto il matrimonio una soluzione di ripiego per chi non riesce a controllare la propria sensualità (remedium concupiscentiae), e, come osserva uno specialista, non è mai percepita come espressione d’amore: "Ciò che ci colpisce di più in questo studio [sul matrimonio nel medioevo], qualunque tappa si prenda in considerazione, è l’assenza di ogni riferimento all’amore coniugale nella motivazione dell’atto sessuale"[16].

Nella Commedia infatti, coerente espressione della spiritualità medievale, Dante colloca nell’Infernogli amanti Paolo e Francesca, mentre nel Paradiso non presenta alcun esempio di sposi avvinti dalla passione amorosa. Il fatto è che l’amore, come ricorda Beatrice, non deve avere come oggetto ciò che è mortale: "Mai non t’appresentò natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch’io rinchiusa fui, e sono in terra sparte; e se ‘l sommo piacer sì ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio? Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era più tale"[17].

La spiritualità medievale, e forse la spiritualità cristiana sino ai nostri giorni, ha dunque le sue radici nella concezione agostiniana, che fa dell’amore umano, specialmente a motivo della sua componente sessuale, un concorrente dell’amore di Dio: "Lo spirito vorrebbe elevarsi al mondo superiore, il peso della carne lo lega alle cose di quaggiù"[18]; quindi l’appello pressante: "Trascendi il corpo e assapora l’anima; trascendi l’anima e assapora Dio"[19].

E’ quest’idea che nel tredicesimo secolo ritroviamo, per esempio, in Tommaso quando, paragonando l’amore umano a quello angelico, afferma la superiorità di quest’ultimo, "perché le sostanze spirituali amano senza comunicazione di affetto terreno. [Gli amori angelici si possono dire divini] perché sono massimamente simili all’amore divino, poiché negli angeli esistono amori veramente puri, senza mescolanza di alcuna sconcezza [cioè senza coinvolgimento sessuale]"[20].

Così, nel diciassettesimo secolo, Pascal, secondo la testimonianza della sorella, pensava che "la carità non può avere altro fine che Dio, quindi a Lui l’attaccamento era dovuto e non ci si doveva fermare a ciò che distrae [… Principio fondamentale della sua pietà era perciò] di non sopportare di essere amato con attaccamento da chicchessia"[21].

Le stesse idee ritroviamo ancora in alcuni dei pensatori cattolici più significativi del ventesimo secolo. Per Guitton, l’amore vero non fa spazio di solito alla gioia sensibile: "Normalmente l’Agape e l’Erossono divergenti e la carità nasce dalla rinuncia mentre la gioia sensibile suppone quasi sempre un impoverimento dell’amore"[22]; e per Maritain un profondo amor di Dio non può convivere con un amore umano appassionato:"se un’anima è entrata nell’amore folle di Dio, allora deve rinunciare all’amore folle umano"[23].

Come stupirsi se una così radicale svalutazione dell’amore umano ha contribuito a provocare in tanta parte dell’umanità contemporanea un rigetto del messaggio cristiano? In effetti, qualche decennio fa alcuni credenti cominciavano a chiedersi "Se […] la diffamazione dell’eros – proclamata con tanta veemenza come la sola posizione cristiana […] – non potrebbe forse aver cagionato quella diffamazione del cristianesimo che oggi esplode abbastanza drasticamente dinanzi ai nostri occhi, appellandosi proprio a ciò che, per natura, si addice all’uomo, in modo reale o presunto, nel campo dell’eros"[24]. Peccato che negli ultimi anni questi dubbi siano stati superati con l’integrale riproposizione dell’insegnamento tradizionale.

 

 

 

La riscoperta dell’eros

Proprio nell’età medievale, che considera la terra una valle di lacrime, l’uomo una creatura segnata dal peccato e la passione amorosa un pericolo per la salvezza, nasce paradossalmente una nuova, e per certi versi rivoluzionaria, esperienza dell’amore: quella tra uomo e donna. Se è vero, infatti, che questo è un valore universale, presente a livello di vita quotidiana in tutte le civiltà, non è meno certo che in modo consapevole ed esplicito esso si è affermato solo nel dodicesimo secolo in Francia, divenendo il tema centrale della poesia provenzale.

Che tale esperienza sia il prodotto del manicheismo persiano che, grazie alle affinità con la religione celtica, è riemerso nella visione del mondo dei catari[25]  o dell’influenza della cultura poetica ispano-araba [26] o della concomitante presenza di circostanze sociologiche particolarmente favorevoli[27], fatto sta che nella Francia meridionale i giovani, nobili e celibi, che vivono come cavalieri alla corte di un feudatario, cominciano a coltivare nei confronti della moglie del loro signore un sentimento nuovo. Non si tratta del puro desiderio del piacere sessuale, che possono soddisfare facilmente con gli amori ancillari. E’ qualcosa di ben diverso: è un amore sublime. La fin’amor dei trovatori, o amore cortesecome oggi si suol chiamare, non è infatti solo ricerca dell’orgasmo, puro appagamento del desiderio sessuale: è questo desiderio trasfigurato, trasportato nell’unione indissolubile dei cuori.

Quali che siano il significato e il valore che inizialmente ha avuto nel contesto della società feudale – sentimento autentico o semplice gioco, esigenza dell’animo femminile o esercizio pedagogico condotto dal signore per intrattenere i giovani cavalieri – è certo che l’amore cortese, valorizzando il fascino esercitato dalla bellezza, riscopre l’eros per la creatura. Ma l’erotica provenzale si differenzia da quella platonica su due punti fondamentali: non vede nel desiderio della bellezza corporea un’esperienza da superare per elevarsi all’assoluto e non esalta il rapporto omosessuale ma quello eterosessuale. Ciò provoca, evidentemente, una vera rivoluzione nel modo di concepire la donna: questa non appare più come rimedio alla concupiscenza e mezzo per la propagazione della specie ma come persona da amare con un sentimento che coinvolge sia lo spirito che la dimensione corporeo-sessuale.

Di conseguenza, quanto più elaborava una nuova concezione dell’amore e della donna, tanto più l’erotica dei trovatori doveva rifiutare le idee dominanti al riguardo: "La visione del mondo proposta da questi poemi, e condivisa da tutti i nobili, si sottrasse dunque alla morale della Chiesa" [28](G. Duby, Medioevo maschio. Amore e matrimonio, Bari 1988, p 77). Quest’ultima, com’è ovvio, reagì con decisione: all’inizio del tredicesimo secolo, distruggendo la civiltà provenzale con la crociata contro gli Albigesi e, alla fine dello stesso secolo, affidando all’arcivescovo di Parigi l’esplicita condanna dell’amore cortese. Di cui, però, non si evidenziano le caratteristiche autentiche: lo si condanna come puro e semplice libertinaggio.

Eppure, almeno in teoria se non sempre in pratica, i provenzali rifiutavano la sessualità senza amore. Perché, allora, confondere l’amore cortese col libertinaggio, senza sforzarsi di riconoscere l’originalità e i meriti dell’erotica provenzale, che costituì indubbiamente un tentativo "ammirevole dell’umanità per sostituire con la comunione amicale lo sfruttamento sessuale della donna da parte dell’uomo"? Appare fondato il sospetto che la soluzione adottata dall’autorità ecclesiastica palesi una profonda resistenza persino a prendere atto dell’esistenza della passione amorosa, anche se al solo scopo di condannarla: per la chiesa è inammissibile un tipo di amore "intermedio considerato, abusivamente, come carnale e puro ad un tempo. A chi non vuol darsi al libertinaggio non resta che l’amore del prossimo in Dio"[29].

Da una parte la vita sessuale, a cui preferibilmente si rinunzia col voto di castità o che si tollera esclusivamente nel matrimonio e in vista della procreazione, dall’altra la vita spirituale, animata dalla carità, che ama Dio e il prossimo in Dio, senza alcun coinvolgimento sessuale: ecco la morale tradizionale. Misconoscere dunque l’originalità dell’amore cortese, che unificando le pulsioni istintive e gli slanci spirituali fa saltare gli schemi mentali consolidati, è il modo più comodo per sbarazzarsene evitando radicali ripensamenti. Come stupirsi se le pulsioni sessuali, insoddisfatte e rinnegate, riemergono nella cristianità medievale sotto forma di intolleranza, persecuzioni, nevrosi?

Nonostante le condanne, però, le nuove idee sopravvivono e feconderanno la cultura umanistica, che, esaltando l’uomo e rivalutando la vita terrena, si porrà in consapevole contrasto con la spiritualità medievale. Ma questo capovolgimento di prospettive non avverrà in maniera indolore: sarà frutto dei conflitti interiori di intere generazioni.

 

Le lacerazioni di Petrarca

Testimone privilegiato di questo travaglio è Francesco Petrarca, un uomo che, vivendo proprio in quest’epoca di transizione, sperimenta sulla sua pelle lo smarrimento provocato dalla percezione del nuovo che nasce e che mette in crisi un sistema di pensiero e di valori che sembrava definitivamente acquisito. Come conciliare, per esempio, con la spiritualità agostiniana, ancora dominante nell’Italia del ’300, il nuovo modo di sentire l’amore? Appena ventitreenne, alla vista di Laura egli ha sperimentato la forza sconvolgente dell’eros; ma col passare degli anni, e dopo aver preso gli ordini minori per assicurarsi un’indipendenza economica, la passione amorosa comincia ad apparirgli moralmente inaccettabile, di per se stessa e non solo perché in contrasto con il suo stato ecclesiastico. "La mia volontà ondeggia, e i desideri discordano, e discordando mi dilaniano"[30]: così scrive nel 1336 in una lettera scherzosa al vescovo Giacomo Colonna.

Ma l’instabilità degli affetti e la lacerazione interiore non costituivano per il poeta un tema letterario e giocoso: caratterizzavano, al contrario, la sua personalità e si acuirono qualche anno dopo. Alle soglie dei quarant’anni, mentre vede se stesso immerso in una vita che considera peccaminosa (una seconda figlia naturale nasce nel 1343), egli è profondamente toccato dalla decisione dell’amato fratello Gerardo di abbandonare la vita mondana e di cercare Dio solo, diventando certosino.

La crisi del Petrarca nasce dunque dal contrasto fra le sue scelte esistenziali e gli ideali religiosi a cui sinceramente aderisce: la sua vita resta sino alla fine "divisa e dilaniata fra gli stimoli insorgenti delle più varie passioni e sembra svolgersi in una contraddizione costante, in un’alternativa senza pace fra i richiami della terra e del cielo, fra l’amore delle cose mondane e l’acuto sentimento della loro vanità, fra un torbido fondo di angoscia e di perplessità e un’ansia sempre inappagata di purità e di saggezza"[31].

Il fatto è che Petrarca pensa come un medievale ma vive con una sensibilità nuova passioni la cui validità morale non è in grado di giustificare. Se non può sciogliere il groviglio dei suoi sentimenti contrastanti, riesce però, grazie ad un’eccezionale capacità di introspezione, a scandagliare il proprio animo e a trasfigurarne poeticamente le angosciose contraddizioni.

Da una parte, il poeta condivide non solo la tradizionale svalutazione della corporeità ma anche la diffidenza nei confronti della donna, ricordando con s. Ambrogio che "solo era Adamo, e non cadde perché il suo spirito era accanto a Dio: quando gli fu posta accanto la donna, non potè più attendere agli ordini divini"[32].E, come gli è stato insegnato, giudica in maniera particolarmente negativa il rapporto sessuale, condizione "in cui la vita è quanto mai spregevole ed inutile"[33].

Dall’altra, egli è attratto da Laura, la donna che lo ha conquistato per la sua bellezza fisica e spirituale: sperimenta così la passione amorosa nel senso moderno del termine. Quest’amore arricchisce la sua umanità, rinnova inesauribilmente la sua ispirazione poetica e addirittura lo eleva a Dio: "Quando fra l’altre donne ad ora ad ora Amor vien nel bel viso di costei, quanto ciascuna è men bella di lei tanto cresce ’l desio che m’innamora. I’ benedico il loco e ’l tempo e l’ora che sì alto miraron gli occhi mei, e dico: Anima, assai ringraziar dei, che fosti a tanto onor degnata allora; da lei ti ven l’amoroso pensero, che mentre ’l segui al sommo ben t’invia, poco prezando quel ch’ogni uom desia; da lei vien l’animosa leggiadria ch’al ciel ti scorge per destro sentero: sì ch’i’ vo già de la speranza altero"(F. Petrarca, Canzoniere, 13).

Come conciliare, dunque, questa esperienza con l’insegnamento di Agostino, che il poeta considera guida di autorità indiscutibile nelle vie dello spirito? L’opera agostiniana è tutta un vibrante appello ad amare e servire solo Dio in se stesso, nella vita contemplativa, o nel prossimo, nella vita attiva. Per seguire Agostino, le cui Confessioni Francesco portava sempre con sé, bisogna allora cancellare l’erosper la creatura? L’amore per Laura non è che una tentazione da cui liberarsi, pur nello strazio del cuore? E’ attorno a questo interrogativo che si sviluppa uno dei momenti di maggiore tensione drammatica dello spietato esame interiore condotto nel De secreto conflictu curarum mearum.

In quest’opera, composta proprio tra il 1342 e il 1343, negli anni cruciali della crisi, Francesco, in dialogo con Agostino e alla presenza della Verità, silenziosa testimone, analizza con estrema lucidità i più reconditi moti del suo animo. E, anzitutto, sostiene con forza che ciò che prova per Laura non è pura attrazione sessuale, non si tratta di lussuria: in tal caso la questione sarebbe già risolta, perché questa è certamente da condannare. No, è ben altro: è amore. Ma proprio l’amore è, agli occhi di Agostino, quanto di più pericoloso c’è per la salvezza dell’anima. Quest’amore è una follia che acceca l’uomo, facendogli perdere di vista ciò che davvero conta e impedendogli il controllo delle passioni: esso "ti trascinerà l’animo in tutte le follie, dove il pudore e il timore e quella che suol frenare le passioni – cioè la ragione e la conoscenza della verità – al tutto ti si smarriranno"[34].

Invano il poeta cerca di giustificarsi, affermando che in Laura egli coglie un riflesso della bellezza divina e che l’amore per lei ha potenziato la sua capacità d’amare. Agostino smonta la sua difesa con due argomenti di grande efficacia. Anzitutto, Francesco ha donato il suo cuore a un essere umano fragile e inconsistente, e perciò indegno di essere amato per se stesso: "Quando quegli occhi, che ti piacciono sino a morirne, avrà chiusi il giorno supremo; quando avrai contemplata quella immagine alterata dalla morte e quelle fattezze sbiancate, ti vergognerai di avere legato l’animo immortale ad un caduco corpicciolo, e ricorderai con rossore quei pregi, che or vai con tanta pertinacia esaltando"[35]. E poi, concentrandosi su una sola persona, ha finito col trascurare gli altri valori, e in particolare Dio: "Quanto all’averti abituato a mirare all’alto, all’averti allontanato dal volgo, che altro fu se non un averti reso suo vagheggiatore e, avvinto alla dolcezza di un solo oggetto, di tutti gli altri spregiatore e pigramente trascurato? […] Ella ti ha allontanato l’animo dall’amore celeste, ed ha deviato il tuo desiderio dal Creatore alla creatura; che è sempre stata l’unica e più spedita via verso la perdizione"[36].

Ciò non è affatto vero, ribatte ancora il poeta; al contrario, "l’amore di lei giovò, te l’accerto, a farmi amare Iddio"(ivi). Ma questa protesta viene subito spazzata via da Agostino, per il quale un cuore che si attacca a una donna, ammesso che voglia amare Dio, non può che amarlo in modo letteralmente disordinato, perché capovolge l’ordine del reale: "Mentre tutto il creato deve essere tenuto caro per amore del Creatore, tu al contrario, preso alle grazie di una creatura, hai amato il Creatore non come si conveniva, bensì ammirando in lui l’artefice di quella, quasi non avesse creato nulla di più bello, mentre la venustà corporea è l’ultima delle bellezze"(ivi, p 149).

A questo punto Francesco non può non riconoscere che il suo amore è cosa ben diversa dalla caritasagostiniana. Egli non ha amato Laura per amore di Dio ma per se stessa, ha amato la sua persona, e addirittura è rimasto affascinato dalla sua bellezza fisica. Deve perciò dichiararsi vinto:"veggo a che tu mi sforzi: a confessare con Ovidio: l’animo amai insieme al corpo"(ivi). Ormai Agostino è un fiume in piena, che travolge senza difficoltà le ultime resistenze. Nulla è più condannabile di quest’amore, perché "non c’è nulla che produca l’oblio e la trascuranza di Dio al pari dell’amore delle cose terrene; di quello specialmente che chiamano per proprio nome Amore e (ciò che trascende ogni sacrilegio) anche dio: forse per addurre una scusa celeste ai deliri umani, e perché l’immane colpa si giustifichi con l’addurre l’influsso divino"(ivi, p 155).

Se riconosce che quest’amore è colpevole, Francesco deve immediatamente porre fine ad esso. E Agostino non esita ad indicare il rimedio più sicuro per liberarsi di questo sentimento: dimenticare Laura, e soprattutto il suo corpo; infatti "non disse mai Seneca nulla di più salutare secondo natura, di quando affermò in un’epistola: chi tenta di spogliarsi dell’amore, deve evitare ogni richiamo alla memoria del corpo amato; e ne aggiunge la ragione: perché nulla ha più facile recrudescenza dell’amore"(ivi, p 169). Questa purificazione della memoria permetterà, come suggerisce la spiritualità tradizionale, di riscoprire l’innegabile vanità dei beni terreni, suscitando così il desiderio di quelli eterni: "Medita […] sulla nobiltà dell’animo […] sulla fragilità e sulla sozzura dei corpi […] sulla brevità della vita […] sulla fuga del tempo […]. Pensa alla morte"(ivi, p 187). Segno dell’avvenuta guarigione sarà l’orrore provato per il corpo della donna, che appare così desiderabile nel momento del piacere, anche se Agostino nota con rammarico che "sono ben pochi quelli che, da quando abbiano una volta gustato questo veleno della seduttrice voluttà, considerino abbastanza energicamente […] la sozzura, cui ho accennato, del corpo femminile"(ivi, p 189).

Diffidenza nei confronti dei beni creati, disprezzo della corporeità e in particolare del piacere sessuale, amore esclusivo di Dio e delle anime in Dio: ecco l’itinerario della salvezza proposto dalla spiritualità medievale. E’ l’ideale della fuga mundi e del vacare Deo, che trova piena attuazione nella vita monastica abbracciata dal fratello Gerardo. Francesco, invece, vorrebbe platonicamente elevarsi a Dio attraverso l’amore della creatura, anche se, a differenza che per Platone, quest’amore non è un’esperienza da superare e non è rivolto ad un valore, la bellezza dei corpi, ma ad una persona, la donna amata nella sua insostituibile individualità: "Chiare fresche e dolci acque ove le belle membra pose colei che sola a me par donna"[37].

Anche se nel Secretum si dice convinto dagli argomenti tradizionali, in realtà Francesco aderirà solo a parole al modello agostiniano, che non ammette l’eros per la creatura neanche come momento iniziale e transitorio: preferisce convivere per anni con l’angoscia di una coscienza che si sente in colpa pur di non rinnegare le gioie e le pene dell’amore.

 

Nuove chances per eros e agape

Per il tema che ci riguarda, dunque, la riscoperta dei classici ha avuto per gli Umanisti una portata liberatoria, dato che ha permesso loro di valorizzare, contro la spiritualità medievale, l’eros per le realtà mondane. Dal ’400 ad oggi, poi, la civiltà occidentale è stata caratterizzata dalla crescente esaltazione dell’eros, rivolto però sempre più esclusivamente alle creature, così che, come notavamo all’inizio, la parola ‘amore’ oggi fa pensare immediatamente ad una coppia di innamorati. Si può tuttavia affermare con certezza che, se è vero che nella visione contemporanea dell’amore difficilmente si possono riconoscere i tratti tanto dell’eros platonico che dell’agape evangelica e della caritas agostiniana, ciò non toglie che all’odierna nozione si è pervenuti passando attraverso quelle concezioni, magari fraintendendole o liberandosene a costo di angosciosi conflitti. La conoscenza di esse, quindi, dovrebbe ora permetterci di comprendere meglio la nostra esperienza dell’amore, mettendoci in condizione di valorizzarne gli aspetti positivi e di recuperare ciò che di valido, eventualmente, è andato perduto.

Sulle orme dei teorici dell’amore cortese, oggi l’amore è dunque concepito anzitutto come l’unione affettiva che si stabilisce tra persone. E’ chiaro, di conseguenza, che non si ama la birra o la musica: si prova piacere bevendo la prima e si gode ascoltando la seconda, ma in senso proprio esse non sono oggetto d’amore. Così, non si ama la giustizia o la patria: si amano gli uomini oppressi dall’ingiustizia economica o da una potenza straniera, e si lotta per la loro liberazione.

L’amore per le persone, poi, nasce dalla radicale indigenza del proprio essere: è anzitutto desiderio di completamento e di unione, desiderio che investe il soggetto nella sua unità psicofisica e che si rivolge all’essere, assieme corporeo e spirituale, dell’altro. Vengono oggi comunemente rigettati, quindi, la diffidenza e il disprezzo per la corporeità e per la sessualità, propri di un’antropologia dualista.

L’uomo, però, è capace non solo di provare affetto verso chi gli è vicino, per comunanza di sangue o di idee, ma anche di riconoscere la dignità e l’indigenza dell’altro in quanto altro, anche se estraneo o addirittura ostile. Sa, quindi, volere il bene non solo di chi appare immediatamente amabile ma anche di chi, almeno a prima vista, non lo è affatto; sa far prevalere l’interesse altrui sul proprio, mettendo addirittura a repentaglio il proprio benessere e persino la propria vita. E’ un dato di fatto che ci sono uomini che si battono perché nel nostro mondo libertà, giustizia, gioia e pace siano non privilegio di alcuni ma diritto di tutti.

Certo, questa capacità di donarsi non è l’atteggiamento più spontaneo: presuppone anzi un lungo processo di maturazione. Da bambini ci si occupa solo di se stessi, si desidera ciò che dà piacere e ci si attacca a chi procura il soddisfacimento dei bisogni primari. Man mano che si cresce, però, ci si comincia a fare attenti agli altri: ai figli, agli amici, agli estranei. Questa apertura agli altri non si accompagna certo alla negazione dei propri desideri, il cui appagamento resta anzi, di solito, il criterio decisivo delle scelte quotidiane.

Eppure, chi non acquista tale capacità di donarsi non riesce a vivere in maniera adulta neanche la relazione erotica. Quanti legami di coppia si spezzano perché ciascuno dei due partner cercava solol’appagamento dei propri bisogni! Forse l’uomo maturo è quello che, senza rinnegare l’eros, è capace di scegliere l’agape come criterio ultimo cui ispirare la propria vita, l’insieme dei propri sentimenti e delle proprie azioni. Non è proprio per aver saputo porre gli interessi degli altri al di sopra dei loro che sono considerati modelli di umanità uomini come Gandhi, Martin Luther King o Nelson Mandela?

E come escludere che la dimensione religiosa possa ancora oggi essere d’aiuto per raggiungere questa pienezza umana? Recentemente un pensatore laico scriveva che "il primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’eguale dignità [di tutti gli uomini] non resti retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un Altro (inteso proprio come Dio padre)" [38]. L’amore-dono non è certo un’esclusiva dei cristiani, ma è innegabile che nel corso dei secoli, e ancora oggi, tanti uomini e donne hanno trovato proprio nel vangelo di Gesù la forza per amare gli altri sino al sacrifico di sé.

 

E la caritas?

Semmai c’è da stupirsi del fatto che l’amore non abbia caratterizzato più radicalmente una società come quella occidentale, che per secoli si è presentata come cristiana. E’ un fatto che, proprio negli ambienti più sensibili agli insegnamenti ecclesiastici, da una parte è ancora oggi diffusa l’idea che l’eros sia qualcosa di peccaminoso, mentre dall’altra i rapporti interpersonali sono troppo spesso impostati in maniera egocentrica e possessiva. E se non si è capaci di donarsi ai vicini, figuriamoci che rapporti si istaurano con i lontani: l’estraneo e il diverso sono di solito oggetto di indifferenza, quando non di sfruttamento e di ostilità. Come non chiedersi se l’interpretazione che è stata data di quella che pure viene considerata come la religione dell’amore, oltre ad ostacolare un sereno apprezzamento dell’esperienza erotica, non abbia contribuito a orientare le società che si dicono cristiane in senso non proprio evangelico?

Certo sarebbe da irresponsabili rigettare una tradizione teologica plurisecolare perché non risponde alle mode culturali del momento; ma sarebbe ugualmente sbagliato pensare che tutto è stato già compreso e definito una volta per sempre. Il messaggio cristiano è affidato ad una comunità di uomini e di donne che vivono nella dimensione storica: nel tempo si cammina, si progredisce, ci si smarrisce anche, si ritrova la strada, si correggono gli errori del passato, si viene a contatto con altre tradizioni, si riscoprono verità dimenticate, si fanno nuove scoperte… E’ questa la condizione umana, e il vangelo stesso lo ricorda: “quando verrà lo spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera”(Giovanni16, 13).

Non ci sono, quindi, motivi per supporre che questa comprensione della verità si sia realizzata solo nei primi secoli dell’era cristiana e che ormai non resti che ripetere formule magari significative in altre epoche, che appaiono però sclerotiche e alienanti fuori dal loro contesto: una simile concezione segnerebbe la fine di una comunità viva. Al contrario, ogni generazione ha la responsabilità di confrontarsi con il vangelo e di rileggerlo alla luce della propria esperienza, per viverne in maniera via via più autentica.

D’altronde è stato sempre questo l’atteggiamento dei grandi pensatori cristiani: lungi dall’essere dei ripetitori di tesi preconfezionate, dogmaticamente chiusi nella propria tradizione, essi sono stati degli innovatori, capaci non solo di assimilare i contributi delle diverse culture ma anche di accostarsi con somma libertà ai maestri del passato, e perciò regolarmente criticati dai conformisti del loro tempo. Una tale libertà trova un’espressione paradigmatica nelle parole con cui Erasmo, che pure li ammira sinceramente, prende le distanze non solo dal grande traduttore della Bibbia, Girolamo, ma anche dal più grande dei padri della chiesa, Agostino, e dal più grande dei dottori medievali, Tommaso.

Il primo “sebbene fosse devoto ed erudito, tuttavia era un uomo e ha potuto essere ingannato e ingannare. Molte cose (come credo) gli sfuggirono, molte lo ingannarono”[39]. Se la traduzione della Bibbia fatta da Girolamo, prosegue il teologo olandese, non contenesse inesattezze, come si spiegherebbe il fatto che, basandosi su di essa, “teologi di gran fama siano incorsi in tanto evidenti e vergognosi errori, ben più visibilmente di quanto possa essere negato o nascosto? Tra questi [teologi incorsi in errori] il più eminente tra gli antichi è Agostino e, tra i più recenti, quello che è a mio parere il più accurato di tutti, lo stesso Tommaso d’Aquino”(ivi).

E’ auspicabile che i credenti del nostro tempo abbiano la stessa libertà di Erasmo nei confronti della grande tradizione teologica di cui sono eredi. Se una più equilibrata comprensione della realtà umana, favorita dalle acquisizioni del pensiero filosofico e scientifico, e una migliore intelligenza del messaggio evangelico, resa possibile dai progressi delle scienze bibliche, esigono ripensamenti, anche radicali, bisogna avere il coraggio di riconoscere i possibili ‘evidenti e vergognosi errori’ del passato.

Ora, per la questione che ci riguarda, sembra innegabile che gli studi del ’900 abbiano fatto meglio comprendere il significato e l’originalità della concezione biblica dell’amore. Decisiva in tal senso è stata l’indagine condotta dal grande teologo luterano Anders Nygren[40]: sulla validità delle conclusioni di quest’opera fondamentale sussistono ormai pochi dubbi anche tra gli studiosi cattolici, come attesta un biblista dell’autorevolezza di un Grelot, secondo il quale “bisogna riconoscere che la sua [di Nygren] analisi del movimento dell’amore come Eros e come Agape è sostanzialmente esatta”([41]).

Ma se oggi è possibile riscoprire nella sua purezza la concezione evangelica dell’agape, è allora necessario prendere atto che la nozione agostiniana di caritas se ne allontana in maniera sostanziale. Essa non ha solo costituito, a livello teoretico, un’ibrida mescolanza di eros e agape ma ha probabilmente anche prodotto devastanti effetti pratici, generando una profonda diffidenza nei confronti del desiderio erotico per la bellezza umana. Ancor più: quando questa diffidenza è stata sentita come ingiustificata, si è verificata una comprensibile reazione che ha portato la cultura occidentale ad esaltare l’eros sino al rifiuto della caritas e, con questa, dell’agape con essa a torto identificata.

In effetti, non è possibile escludere che un insegnamento teologico che per secoli ha condannato l’amore-desiderio per la creatura, in particolar modo quando era implicata la sessualità, abbia segnato in profondità la psiche dei cristiani favorendo, specialmente tra i chierici, una mentalità repressiva che finiva col negare la gioia di vivere, soprattutto per i pastori ma di conseguenza anche per i fedeli affidati alla loro guida.

L’idea che i legami umani siano puri se esenti da implicazioni sessuali genera facilmente il bisogno di cercare compensi in un affetto possessivo per i propri familiari: così si scambia per amore cristiano quello che in realtà non è che attaccamento egocentrico e in alcuni casi addirittura nevrotico. Forse bisognerebbe attribuire alla mentalità borghese quell’egoismo di parentela o di gruppo sociale e/o religioso che non ha nulla a che fare col vangelo ma che la predicazione cristiana ha spesso favorito. Una predicazione che, svuotato il messaggio delle sue esigenze di radicale apertura al prossimo, lo riduce a innocui riti che ammantano di un alone religioso i sentimenti più gretti.

Non pare ingiustificata, in effetti, la sferzante ironia con cui Kierkegaard parla del cristianesimo delle parrocchie, che vuole “con l’aiuto della religione (che sfortunatamente è lì proprio per dire il contrario) tenere le famiglie sempre più unite nell’egoismo e organizzare delle feste di famiglia, delle splendide feste, per esempio battesimi e confermazioni, le quali feste, confrontate con le visite allo zoo o altri passatempi familiari, hanno una magia tutta particolare, cioè sono anche religiose”[42].

Non solo: considerare lecito un unico desiderio, quello di Dio, dato che il prossimo può essere amato solo in Dio, ha inoltre probabilmente favorito una religiosità spiritualistica, concentrata sulla salvezza dell’anima. Così l’amore del prossimo è diventato sempre più qualcosa di etereo, tanto spirituale da perdere ogni spessore autenticamente umano, sino a mascherare una sostanziale indifferenza per la concretezza esistenziale dell’altro. Quanti cristiani, secondo la penetrante intuizione di Léon Bloy, credono di amare Dio per il solo fatto che non amano veramente alcun essere umano!

Ma, anche quando ci si fa attenti ai bisogni concreti, e persino economici, degli altri, in genere ciò avviene ancora in un’ottica individualistica, dimenticando quella dimensione comunitaria che è così rilevante nella prospettiva biblica. Il credente fa l’elemosina al povero e l’ordine religioso si dedica alla cura degli emarginati senza mettere in discussione, anzi legittimando in qualche modo, l’ordine costituito. Non va certo sottovalutata l’importanza di queste scelte, che anzi possono produrre personalità esemplari come quella di madre Teresa di Calcutta. Ma forse l’impegno individuale a favore dell’altro oggi non è più sufficiente: in un mondo divenuto adulto l’amore non può non assumere una dimensione politica.

In effetti, una persona moralmente adulta è ormai in grado, di solito, di rendersi conto che non basta aiutare coloro che soffrono ma è necessario mettere in questione un sistema economico che ogni anno fa morire di fame, e l’espressione va intesa alla lettera, trenta milioni di esseri umani. Un sistema che provoca un simile olocausto evidentemente non rispetta le più elementari esigenze di giustizia: per un credente esso non rispetta la volontà di Dio.

Eppure tutto ciò non fa scandalo per milioni di cristiani. In Paesi in cui essi sono maggioranza e danno vita a partiti di governo ossequiosi nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche non è sentito, ad esempio, come un fatto inaccettabile che l’informazione televisiva dia ogni giorno notizie sull’andamento della Borsa e non sul numero dei morti a causa dell’iniqua spartizione dei beni. Assolutamente iniqua, se è vero che mentre l’80% di questi beni è appannaggio di un quinto dell’umanità, gli altri quattro quinti debbono accontentarsi del 20% di essi, e addirittura il 20% di quest’enorme massa di uomini, i più poveri tra i poveri, deve vivere con l’1,4% delle risorse disponibili!

E’ chiaro che questi problemi non si possono risolvere con l’elemosina individuale. Ci si trova di fronte a un’infinità di uomini, privati già dalla nascita della possibilità di fare una vita umana, che non sono ‘poveri’ ma - come non si stanca di ricordare una delle voci cristiane più significative del nostro tempo, Alex Zanotelli - ‘impoveriti’ da un sistema economico che continua a sfruttare le loro risorse a vantaggio dei Paesi più ricchi, la maggioranza dei quali è indubbiamente di tradizione cristiana. Interi continenti, come l’Africa e le Americhe, sono stati per secoli depredati di uomini e di materie prime, ma il problema di una qualche forma di restituzione del maltolto non è neanche preso in considerazione dai potenti del Primo mondo, che continuano invece ad esigere il pagamento, con gli interessi, dei debiti contratti dai Paesi del Terzo mondo.

La compassione, che spinge il Samaritano del vangelo di Luca a prendersi cura dell’uomo aggredito dai briganti e abbandonato malconcio sul ciglio di una strada, non può oggi non assumere dimensioni planetarie, esprimendosi nel rifiuto di un ordine, o meglio disordine, economico che priva del necessario miliardi di uomini. L’amore del prossimo va perciò testimoniato in forme nuove, per esempio denunciando come anticristiana una politica che ha tali effetti e smascherando la disumanità dei governanti che la mettono in atto, soprattutto se essi si dicono credenti.

Al contrario, una comunità cristiana che, sorda al grido dei poveri, si preoccupasse di ottenere per sé privilegi dai potenti di turno, se ne farebbe per ciò stesso complice e perderebbe la sua ragion d’essere, diventando, secondo l’espressione evangelica, sale insipido che “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”(Matteo 5, 13). Certo, una simile testimonianza d’amore non è indolore, ma la scelta è ineludibile: o conniventi col potere, anche solo col proprio silenzio, o fedeli al vangelo, e quindi disposti, come per esempio il vescovo Oscar Romero e con lui migliaia di salvadoregni, a pagare con la vita la difesa degli orfani e delle vedove di cui parla la Bibbia.

Forse oggi è proprio questa la testimonianza più efficace dell’amore cristiano: spezzare plurisecolari complicità e collaborare con tutti gli uomini di buona volontà per la costruzione di un mondo più umano. E questo non significa altro che riscoprire e adattare alle condizioni del nostro tempo quello spirito dei profeti e di Gesù che ha animato gli inizi dell’avventura cristiana. Come ricorda un teologo contemporaneo, infatti, “ancora intorno al 400 il vescovo di Cesarea, Basilio, poteva rivolgere ai ‘ricchi’, a gente, quindi, che non viveva diversamente da come viviamo tutti noi oggi, un discorso all’incirca di questo tenore: Come fai ad avere l’impudenza, tu, giovane ricco, di affermare che hai rispettato le leggi di Dio? Come puoi essere ricco in un mondo di miseria e dichiarare che fai la volontà di Dio?[43].

L’impegno per un mondo più giusto, quindi, lungi dal costituire un cedimento agli imperativi di una cultura materialistica, recupera l’essenza del messaggio biblico. Infatti, la divinità del Dio della Bibbia, la sua ‘originalità’, si manifesta proprio nel volere la felicità dell’uomo, che non esclude certo la dimensione religiosa ma che non può prescindere dai beni primari: “Non nel volere un uomo divino si manifesta la deitas Dei, ma nel volerlo compiutamente umano; non nel comunicargli un bene infinito ma nel dargli quei beni di cui come uomo abbisogna: un mondo dove vi sia pane e casa, affetto e bellezza, lavoro e cultura”[44].

Ecco perché, per il vangelo, l’uomo che ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutta la mente (cfr. Luca 10. 27) è proprio quello che fa la sua volontà, cioè che, vincendo il proprio egoismo, si prende cura degli altri come di fratelli affidati alla sua sollecitudine affinché possano disporre dei beni necessari alla vita, mentre il giovane ricco che osserva i comandamenti ma non accetta di condividere le sue ricchezze con i poveri si autoesclude per ciò stesso dal mondo di giustizia e di pace che Gesù vuole edificare (cfr. Matteo 19, 16-23).

Un’attenta riflessione sull’idea dell’amore, dunque, potrebbe costituire per i credenti una grossa occasione non per soddisfare una semplice curiosità intellettuale ma per rivedere le proprie scelte di vita. Un messaggio biblico liberato da quella lettura spiritualistica che, concentrando l’attenzione sull’amore delle anime in Dio, ha reso tanti cristiani indifferenti alle ingiustizie di questo mondo potrebbe, infatti, contribuire efficacemente al rinnovamento dell’attuale società, perché essa diventi, da una parte, più capace di un sereno godimento delle realtà mondane, superando la diffidenza per l’eros, e, dall’altra, più disposta ad impegnarsi, rivalutando le esigenze dell’agape, affinché tutti gli uomini possano vivere una vita più umana.


(Elio Rindone)                                                               



[1] Cfr. A. Nygren, Eros e Agape, Il Mulino, Bologna 1970 (ed. orig. 1930-36).

[2] Cfr. H. Wolff, Gesù. La maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1979  (ed.or. 1975).

[3] R. FLACELIÈRE, L’amour en Grèce, Paris 1960, p 259.

[4] E. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Firenze 1978, pp. 264-265.

[5] J.-M. Le Blond, Monde grec et sexualité, in Collectif, Sexualité humaine, Paris 1966, p 54.

[6] R. Schnackenburg, Messaggio morale del Nuovo Testamento, Torino 1971, p 95.

[7] J. Clemence, L’amour est de Dieu, Le Puy-Lyon 1965, p 80.

[8] A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Cinisello Balsamo 1987, pp 61-62.

[9] A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Cinisello Balsamo 1987, p 72.

[10] D. C. Maguire, Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana, Assisi 1998, p 105.

[11] Cfr. Corriere della Sera 6/7/1987.

[12] A. Bachelet, Tornate a essere uomini! Risposte di ex-terroristi, Milano 1989, p.80.

[13] S. Anselmo, Carmen de contemptu mundi, citato in R. Nelli, L’érotique des troubadours, Toulouse 1963, p 191.

[14] J. A. Rony, Les passions, Paris 1973, p 47.

[15] R. Flacelière, L’amour en Grèce, cit., p. 253.

[16] L. Vereecke, Mariage et sexualité au déclin du Moyen age, in "Supplément de la vie spirituelle", 1961, p 225.

[17]  Dante, Purgatorio XXXI, 49-57.

[18] Agostino, Enarratio in psalmum 83, 9.

[19] Agostino, In Joannis evangelium 20, 11.

[20] Tommaso d’AquinoIn librum Beati Dionysii de divinis nominibus expositio, Torino-Roma 1950, p. 152.

[21] G. Perier, Vita di Pascal, Brescia 1956, pp. 44-46.

[22] J. Guitton, L’amour humain, Paris 1948, p. 213.

[23] J. Maritain, Amore e Amicizia, Brescia 1965, p. 19.

[24] J. Pieper, Sull’amore, Brescia 1974, p. 109.

[25] Cfr. Denis de Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris 1939.

[26] Cfr. J. Paul, Histoire intellectuele de l’occident médiéval, Paris 1973.

 

[27] Cfr. E. Koehler, Sociologia della fin’amor. Saggi trobadorici, Padova 1976.

[28] R. Nelli, L’érotique des troubadours, Toulouse 1963, p 325.

[29] R. Nelli, L’amour courtois, in Collectif, Sexualité humaine. Histoire, Ethnologie, Sociologie, Psychanalyse, Philosophie, Paris 1966, p 108.

[30] F. Petrarca, Rerum familiarium libri 24, 2, 9.

[31] N. Sapegno, Francesco Petrarca, in E. Cecchi - N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, Milano 1965, vol. II, p 258.

[32]F. Petrarca, De vita solitaria, in Prose, Milano-Napoli 1955, p 433.  

[33] Ivi, p 533.

[34] F. Petrarca, De secreto conflictu curarum mearum, in Prose, Milano-Napoli 1955, p 135.

[35] Ivi, p 139.

[36] ivi, p 147.

[37] F. Petrarca, Canzoniere, 126.

 

[38] P. Flores d’Arcais, Dio esiste?, in Micromega 2/2000, p. 40.

[39] Erasmo da Rotterdam, Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram theologiam, in Erasmo da Rotterdam, Opere scelte, Milano 1993, p 76.

[40] Cfr. A. Nygren, Eros e Agape, Bologna 1970, ed. orig. 1930-36.

[41] P. Grelot, Péché originel et rédemption examinés à partir de l’ép^itre aux Romains, Tornai-Paris 1973, nota 125.

[42] S. Kierkegaard, Der Augenblick, citato in E. Drewermann, Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione, Brescia 1999, p 98, nota 5.

[43] E. Drewermann, Il vangelo di Marco, cit., p 295.

[44]A. Rizzi, Dio in cerca dell’uomo, cit.,  p 48.