sabato 25 marzo 2023

IL RACCONTO DEL CIECO NATO: COMMENTO AL VANGELO DI DOMENICA 19 MARZO 2023.


Il commento 'laico' richiestomi dalla redazione di "Adista-Notizie" (n. 6 del 18.2.23) per il vangelo della quarta domenica di Quaresima (secondo la Chiesa cattolica):Gv 9, 1-41. 
Il commento al vangelo della quinta domenica di Quaresima, 26 marzo 2023, è stato già anticipato in questo blog:
https://www.augustocavadi.com/2023/03/lazzaro-e-la-vera-morte-nel-vangelodi.html 

 

 ***

Il vangelo attribuito all'apostolo Giovanni è davvero una miniera di registri comunicativi. Vi si trova – e nella stessa pagina - un po' di tutto, dai toni solenni del linguaggio di rivelazione alle osservazioni umoristiche sulla meschinità quotidiana. 

Nel brano odierno, ad esempio, gli esegeti ci spiegano che dal punto di vista dell'analisi strutturale il 'cuore' è nella dialettica “luce” e cecità dovuta a rifiuto della luce: “Finché sono nel mondo, sono luce nel mondo” (9, 5), da una parte; ma, dall'altra, “affinché coloro che vedono diventino ciechi” (9, 39). Non stiamo parlando di quisquilie: l'autore del testo si sta interrogando sulle possibili ragioni per cui un Maestro saggio e benevolo sia stato rifiutato dalla sua gente, anzi addirittura condannato a morte. E' il mistero della libertà umana che può vedere il  vero e il giusto eppure misconoscerlo. C'è anche, mi pare, un tentativo di scavare nella dinamica di questo enigma antropologico: quando misconosciamo l'evidenza non è per cattiveria, quanto per presunzione. Il malvagio può convertirsi, ma chi è convinto di aver capito tutto della vita - e di essere per questo migliore degli altri - non ha nulla da imparare. Non sospetta neppure di essere un cieco bisognoso di guarigione. 

La presunzione di sapere è già per Socrate la trappola che ci impedisce di iniziare – almeno iniziare – la ricerca: è dunque un handicap psicologico e intellettuale, una prigione esistenziale. Già grave come fenomeno caratteriale, diventa ancor più micidiale quando si appesantisce di motivazioni teologico-religiose. Perché, secondo il racconto,  i Giudei presenti all'evento non ammettono di essere davanti a un uomo con qualità straordinarie? “Tu sei discepolo di quello là” - dicono apostrofando con disprezzo il cieco sanato - “ma noi siamo discepoli di Mosé. Noi sappiamo che a Mosé Dio ha parlato” (9, 28). Dunque, si potrebbe essere una persona mite e consapevole dei propri limiti, ma se si è convinti di aver ascoltato la parola di Dio stesso mediante un profeta assolutamente attendibile...è la fine. Il dogmatismo, la chiusura rispetto al nuovo, l'intolleranza per chi la pensa o la fa diversamente da noi, toccano l'apice.

Non è difficile intravedere dunque fra queste righe la tragedia del cristianesimo, anche attuale. Sino al Medioevo la rivelazione divina, per i credenti, non era concentrata in maniera esclusivista nella Bibbia (il cui canone, d'altronde, è stato fissato solo nel IV secolo), ma si riconoscevano “semi del Verbo” in tutta la cultura precedente, sino a considerare Platone un “Mosé greco”. Dal concilio di Trento in poi, invece, si ebbe un'interpretazione molto rigida dell'inspirazione delle Scritture e della loro inerranza assoluta: sappiamo quanti Giordano Bruno e quanti Galileo Galilei ne pagarono le dure conseguenze. 

Oggi le Chiese cristiane, in particolare la cattolica, sono lacerate al loro interno fra chi si è reso conto che la Bibbia è un testo né più sacro né meno sacro di tutti i testi fondativi di altre tradizioni religiose (e dunque va indagato scientificamente e interpretato alla luce della ragionevolezza umana) e chi è arroccato su posizioni fondamentaliste e letteraliste, pronto a usare le citazioni bibliche come martellate sulla testa di chi vuole usarla liberamente. Ai fautori di questa schiera conservatrice a oltranza il Cristo di Giovanni continua a ripetere: “Se foste ciechi, non avreste peccato. Ora invece dite: «Noi vediamo». Il vostro peccato rimane” (9, 41). 

Intessuti con questi ammonimenti solenni, la pagina evangelica inserisce passaggi umoristici (la celebre “ironia giovannea”): dai genitori che, in perfetta omertà, si rifiutano di testimoniare ciò cui pure hanno assistito (“Come poi ora veda non lo sappiamo né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi. Interrogate lui! Ha la sua età; egli stesso parlerà di sé”, 9, 21) alla domanda sfottente dell'ex-cieco ai suoi interlocutori (“Ve l'ho già detto e non mi avete dato ascolto. Perché volete sentirlo ancora? Volete forse anche voi diventare suoi discepoli?”, 9, 27). Già, così è la vita reale: nei dibattiti sui massimi sistemi interferiscono le nostre resistenze umane, troppo umane. E qualche sorriso divertito  può servire per smorzare i toni e ricordarci della nostra effettiva, irrimediabile, piccolezza rispetto alle grandi questioni.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

lunedì 20 marzo 2023

LA FINITUDINE UMANA SECONDO TELMO PIEVANI

SIAMO ESSERI FINITI. PER QUESTO ANCHE PRIGIONIERI DELL’ASSURDO ?

 

Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (Raffaello Cortina Editore, Milano 2020), di Telmo Pievani, costituisce un tentativo, sostanzialmente riuscito, di rilanciare le idee di due grandi intellettuali del Novecento: il biologo Jacques Monod e il filosofo Albert Camus.  Con almeno due meriti: di rilanciarle su un registro comunicativo accessibile anche ai non-specialisti e, soprattutto,  d’intrecciarle reciprocamente, a riprova della necessità di abbattere i muri che separano la ricerca scientifica dalla riflessione umanistica.

L'adozione del genere letterario “romanzo filosofico”, però,  non è esente da inconvenienti: infatti le pagine sono punteggiate da affermazioni filosofiche che l'autore, in quanto romanziere, non si ritiene in dovere di argomentare. Si affida, come ogni poeta, all'intuizione del lettore: che può scattare o meno.

Esemplifico con la tesi fondamentale su cui si basa l'intero svolgimento del testo: “Che cosa può esserci, dunque, di più assurdo e straziante, ma anche commovente, di un cercatore nato di senso, il quale capisce che non c'è alcun senso? Che prova e prova ancora a trovare quel senso, che tuttavia gli sfugge?” (p. 54). Qui viene radiografata la struttura intima della “finitudine” umana: che è certamente di ordine spaziale e cronologico (la nostra specie occupa un posto marginale nell'universo sinora conosciuto e lo occupa da pochissimo tempo per pochissimo tempo ancora), ma soprattutto di ordine intellettuale ed esistenziale (“sentiamo un desiderio di felicità e di ragione”, ma  destinato a restare frustrato dal “silenzio disarmante del mondo”, ivi). La finitudine umana, come in ogni altro ente dell'universo, è sancita dalla morte: ma, nel nostro caso, la morte fisica è per così dire anticipata e amplificata dalla consapevolezza che la nostra esistenza non ha alcun altro senso se non quello che le avremo saputo attribuire.

Ebbene: che la vita umana sia priva di senso, di significato intrinseco, perché inserita in un universo altrettanto privo di senso, di significato intrinseco, Pievani lo ribadisce quasi a ogni pagina. Ma lo 'dimostra' anche?    

Personalmente risponderei di no.

Da una parte, infatti, egli rimanda, almeno implicitamente, alle opere di Camus il quale descrive, in maniera efficacissima, l'assurdità della vita umana (individuale e collettiva), ma non dimostra che ciò che egli descrive (fenomenologia) coincida totalmente con l'interezza del reale (ontologia). La sua visione filosofica si basa sul presupposto che ciò che appare nel mondo sia non solo reale (come è), ma tutto il reale: si tratta di un presupposto abbastanza solido, anzi indiscutibile perché evidente? Oppure resta aperta un’altra ipotesi: che questa vita umana sia assurda se la realtà si esaurisce nell’esperienza sensibile e che acquisti senso se la realtà è più grande, più alta, più profonda dell’esperienza sensibile? Sulla infondatezza di questa seconda ipotesi Pievani non spende una riga. Ma questo significa non degnare di una smentita le centinaia di filosofi – da Parmenide e Platone sino a Wittgenstein e Ricoeur – che hanno indicato nella possibilità dell’Invisibile la chiave per decifrare l’oscuro enigma del visibile.

Se da una parte Pievani si appoggia a Camus, dall'altra rimanda a Monod il quale avrebbe rinforzato la tesi dell'assurdità del cosmo illustrando il meccanismo evoluzionistico per cui tutto ciò che osserviamo oggi è frutto dell'incrocio fra una novità casuale (una modificazione chimica o biologica) e una replica necessaria, negli eredi, di tale novità se risulta conveniente all'adattamento della specie all'ambiente. La teoria di Monod si presta a due diversi generi di obiezioni. A un primo livello si tratta di obiezioni 'scientifiche': per attribuire un evento al caso, basta che sia imprevedibile dall'intelligenza umana sulla base delle leggi naturali sinora scoperte? O un evento potrebbe essere casuale rispetto ai nostri parametri conoscitivi e perfettamente prevedibile rispetto ai parametri conoscitivi di un'intelligenza extra-terrestre più ampia della nostra?  Se punto mille euro su un numero della roulette e vinco, dal punto di vista antropologico è stato certamente un caso; ma date le varie circostanze del momento (forza impressa al disco, temperatura ambientale etc. etc.) è davvero imprevedibile in sé o soltanto per noi

Ma ammettiamo che, sul piano scientifico, la teoria di Monod sia inattaccabile. Se tutti i fenomeni biologici avvengono per caso, questo significa che l'intero universo (all'interno del quale si danno i fenomeni biologici) sia anch'esso frutto del caso? Forse sì, forse no. Ma, se propendiamo per la risposta affermativa, dobbiamo renderci conto che non siamo più nell'ambito della biologia: stiamo facendo affermazioni meta-biologiche, meta-scientifiche, meta-fisiche. Affermazioni filosofiche, in particolare ontologiche. Di questo spostamento di punti di vista mi pare che Pievani mostri poca consapevolezza. 


 Per completare la lettura, clicca qui:

https://www.zerozeronews.it/siamo-esseri-finiti-prigionieri-dellassurdo/

sabato 18 marzo 2023

LAZZARO E LA "VERA" MORTE NEL VANGELO DI DOMENICA 26 MARZO 2023


Quinta domenica di Quaresima:

Gv 11, 1-45

 

Per secoli – forse non nei primissimi dell'era cristiana, ma certamente da una quindicina di secoli a oggi – questa pagina del vangelo attribuito a Giovanni è stato letta come resoconto fedele di un evento storico. Così interpretata è servita da cavallo di battaglia per ogni argomentazione apologetica: forse, qua o là, qualche taumaturgo nella storia avrà sanato un ammalato o scacciato un demone, ma un cadavere nessuno mai l'ha richiamato alla vita biologica precedente ! A dire il vero, anche in questa prospettiva cronachistico-storiografica il racconto non era esente da dubbi e obiezioni: si sarebbe trattato davvero di un unicum? Lo studio comparato delle religioni attesta molte narrazioni di guru in grado di restituire il respiro vitale a soggetti defunti. E soprattutto: perché Lazzaro sì e tanti altri amici e amiche di Gesù no? Vale forse una sorta di gigantesco favoritismo soprannaturale per cui i fratelli delle amiche più care (Marta e Maria) meritano trattamenti privilegiati rispetto a chi è privo di raccomandazioni in alto loco?

Comunque questo genere di diatribe ha progressivamente perduto terreno man mano che gli esegeti – per una serie di ragioni che non è il luogo di richiamare – sono arrivati alla conclusione (ormai pressoché unanime) che questa pagina, in coerenza con  tutto il quarto vangelo canonico,  non è stata originariamente redatta come report di un evento, bensì come una sorta di parabola simbolica per annunziare una profonda, sincera, convinzione di fede: che il Maestro di Nazaret può diventare, per chi lo accolga nel proprio spazio esistenziale, un fiotto di vita nuova. Anzi, di vita – qualitativamente, non quantitativamente - “eterna”. Incontrarlo può davvero farci ri-nascere. 

Abitualmente chiamiamo vita – vita buona, vita sana, vita sufficiente – una vita senza malattie invalidanti, senza privazioni particolarmente umilianti, inserita in un contesto sociale tutto sommato accettabile e che ci accetta. Questo dimensione, indubbiamente reale e apprezzabile, esaurisce le potenzialità di una vita umana? O essa vale nella misura in cui consente, come una sorta di pista di decollo, l'esperienza dell'apertura ai grandi orizzonti della conoscenza scientifica, della contemplazione estetica, dell'ebbrezza erotica, dell'inventiva politica, della creatività solidale in difesa dei viventi di ogni specie, dell'unione mistica silenziosa con tutto il reale attingibile? Chi ha incontrato una persona capace di vivere così intensamente, e di innamorarsene, avverte l'insufficienza della sua mera sopravvivenza fisiologica e le si aggrappa per uscire dalla tomba della routine ordinaria (o, secondo un'altra immagine altrettanto celebre, per uscire dalla caverna semibuia dell'insipienza).

Kierkegaard ironizza su un passaggio di questa pagina giovannea: Gesù dice che questa malattia di Lazzaro non è mortale, ma Lazzaro muore. Il Profeta si è sbagliato clamorosamente? La tesi del pensatore danese è sottile: Gesù afferma che le malattie che ci portano alla tomba non sono veramente mortali perché non ci tolgono la vera vita.  Mortale davvero è un altro genere di malattia: il vivere rinchiusi nell'angoscia di “peccare”; il non intraprendere nulla per il timore di sbagliare; il rinunziare alla propria libertà seppellendosi nel conformismo, nel tradizionalismo, nella “santa” mediocrità scambiata per saggio equilibrio. Gesù ha osato rompere gli schemi ereditati e additare, percorrendoli per primi, sentieri inediti all'umanità. Spetta alla insostituibile “singolarità” di ciascuno e di ciascuna decidere se – alla sua sequela – vogliamo vivere in formato ridotto o provare a volare. 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


(L'omelia 'laica' è stata richiesta dalla redazione di "Adiste-Notizie" e ivi pubblicata nel num. 6 del 25.2.2023)

  

mercoledì 15 marzo 2023

SIAMO LIBERI O CI ILLUDIAMO DI ESSERLO? UN PUNTO DI VISTA NEUROBIOLOGICO

LA LIBERTA’ DI SCEGLIERE: SOLO UN’ ILLUSIONE ?

 

Gli esseri umani siamo dei soggetti liberi, e dunque responsabili delle nostre azioni, o punti terminali di meccanismi, a noi ignoti, infinitamente più potenti (la Natura, il Destino, Dio, gli Dei...)? La questione è ormai plurimillenaria e le risposte si distribuiscono, quasi equamente, fra i sostenitori dell’una e dell’altra tesi.

Sinora ne hanno disputato soprattutto filosofi, teologi, letterati e – da poco più di un secolo – psicologi. Da alcuni decenni sono entrati nel dibattito, attrezzati con solidi strumenti d’indagine, anche gli scienziati, in particolare i neurobiologi. Un quadro dello stato attuale della ricerca , abbastanza ricco e certamente accessibile anche ai profani, è offerto dal neurologo e neurochirurgo Arnaldo Benini nel suo Neurobiologia della volontà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022. 

L’autore, pur senza tacere riserve e obiezioni, sembra propendere decisamente per la tesi centrale del libro: l’evoluzione avrebbe consentito l’emergere, nello stesso organo (il cervello) di “due meccanismi con effetti opposti” (p. 95). Da una parte, infatti, il nostro comportamento non è davvero “nostro”, ma effetto di “diversi meccanismi genetici, inconsci, nervosi, cognitivi, emotivi, sociali e della memoria” (p. 93), e ciò è confermato dagli esperimenti attestanti che siamo “coscienti di quel che si farà o penserà solo dopo che ciò è stato avviato inconsciamente dai meccanismi elettrochimici del parenchima cerebrale” (p. 94);  dall’altra parte, però, avvertiamo l’invincibile sensazione che “ciò non sia vero”, che “fra ciò che si pensa e ciò che si fa esista un nesso causale rigoroso”  e che, dunque, siamo “la sola causa del nostro comportamento” (ivi).

Benini suggerisce anche qualche ipotesi che spieghi questa specie di scherzo dell’evoluzione. Se gli umani sapessimo per evidenza ciò che la neurobiologia sembra attestare sperimentalmente  - che cioè non facciamo ciò che vogliamo ma vogliamo ciò che “meccanismi fisico-chimici” (p. 95) ci costringono a fare – saremmo stati indotti, già da millenni, alla disperazione e al suicidio collettivo. Da qui l’azione anonima di un “meccanismo nervoso” che, in tutti “i cervelli umani”, produce l’illusione fortissima di essere dotati di una “libera volontà” (ivi), senza la quale non avrebbero potuto innescarsi “i meccanismi della fede religiosa e della certezza della sopravvivenza” (p. 96).

Quali considerazioni suggerisce, alla fine, questo saggio documentato e provocatorio?

Innanzitutto che i filosofi devono rassegnarsi a imparare dagli scienziati quali sono i dati acquisiti e quali i dati problematici offerti dall’esperienza. La scienza,  insufficiente a capire il mondo, è però necessaria. Scavalcarla sarebbe impossibile come per un aereo che volesse bypassare ogni  pista di decollo. 

PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLIC:

https://www.zerozeronews.it/la-liberta-di-scegliere-e-unillusione/


giovedì 9 marzo 2023

ORLANDO FRANCESCHELLI RILANCIA INTRIGANTI SAGGI DI KARL LOEWITH


 Il cosmo è più grande del mondo degli uomini: Karl Loewith e la lezione dei Greci

 

Secondo Jacques Maritain, con Descartes la filosofia compie una svolta fondamentale: da onto-sofia (ricerca dell’essere da parte del soggetto) diventa ideo-sofia (ricerca del pensiero del soggetto). Qualcosa del genere afferma un altro tomista del Novecento, Cornelio Fabro: il “principio di Parmenide” (se si pensa, si pensa l’essere) viene sostituito dal “principio d’immanenza” (se si pensa, si pensa se stessi pensanti). Questi rivolgimenti possono sembrare sottigliezze cerebrali, ma Sartre si è incaricato di mostrarne le estreme conseguenze: passare dal “sum, ergo cogito” al “cogito, ergo sum” significa aprire la strada a un soggettivismo antropocentrico fuori dal quale l’essere (il reale, ciò che è) risulta senza senso, assurdo. Ci si trova dunque smarriti in un mondo, muto e opaco, in cui saremmo stati “gettati” da Nessuno in vista del “Nulla” che ci attende.

Tra i pensatori post-nietzschiani che non si sono riconosciuti in questa autostrada affollata di nichilisti di vario stampo non ci sono solo personalità di credenti, ma anche “scettici” come Karl Loewith (1897 – 1973) che, pur essendo autore di opere consistenti, è rimasto immeritatamente in seconda fila nel dibattito pubblico. Tra gli studiosi che ne hanno valorizzato, e rilanciato, l’apporto, va annoverato Orlando Franceschelli, a partire dalla  fortunata monografia Karl Loewith. Le sfide della modernità tra Dio e il nulla del 2000. Dopo aver curato, tra l’altro,  la traduzione italiana di Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, adesso lo stesso Franceschelli offre una raccolta di cinque interventi del pensatore tedesco in un volume intitolato Il cosmo e le sfide della storia (Donzelli, Roma 2023, pp. 159, euro 19,00) e arricchito da una sua articolata Introduzione ( «La natura – intorno a noi e in noi stessi») in cui evidenzia il filo rosso dei testi loewithiani (scritti in occasioni e tempi differenti). 

Il primo saggio, Mondo e mondo umano, costituisce una decisa apologia del realismo cosmologico dei Greci che non può essere archiviato come mero documento del passato e che, anzi, va recuperato e attualizzato in funzione critica rispetto a quelle versioni del pensiero cristiano, dello storicismo e dell’esistenzialismo che tendono a ridurre tutto il “mondo” al “mondo umano”. Un’apologia davvero contro-corrente in una cultura dove, persino nel linguaggio abituale, si è persa la differenza fra il “mondo” come totalità sociale (che va incessantemente trasformato) e il “mondo” come totalità naturale (che va conosciuto, contemplato, ammirato, rispettato, senza risibili tracotanze prometeiche da parte di noi umani che ne costituiamo una particella infinitesimale). Molto intense le pagine dedicate alla filosofia come figlia di quello “stupore” che “si stupisce” che “qualcosa sia precisamente così come è, che sia così e non altrimenti” (p. 41). Wittgenstein aggiungeva che il filosofo si stupisce, ancor più radicalmente, del fatto che qualcosa – prima di essere così o altrimenti – è: ma Loewith si vieta di stupirsi sino in fondo perché  paventa in ogni postura “mistica”  - sia pur laicissima come nel caso del pensatore austriaco – un misconoscimento dell’autonomia (ontologica) dell’universo. 

lunedì 6 marzo 2023

UNA SPIRITUALITA' RAGIONEVOLE OLTRE I MITI MISCONOSCIUTI IN QUANTO MITI

 

UNA SPIRITUALITA' RAGIONEVOLE OLTRE I MITI MISCONOSCIUTI IN QUANTO MITI

L'epoca delle religioni è tramontata definitivamente ? In Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana(2016) vari autori, coordinati da Claudia Fanti e Ferdinando Sudati, hanno argomentato la loro risposta quasi del tutto affermativa (almeno per quanto riguarda l'Occidente e i Paesi che ne sono stati influenzati culturalmente) inaugurando una Collana, dei Gabrielli Editori, intitolata appunto “Oltre le religioni” . Soprattutto in un'opera successiva, Il cosmo come rivelazione. Una nuova storia sacra per l'umanità (2018), a cura di Claudia Fanti e José Maria Vigil, non ci si è limitati alla pars destruens e i co-autori hanno provato a tratteggiare degli scenari post-religionali e post-teistici attingendo alle suggestioni della fisica e della cosmologia contemporanee. Poiché a mettere in crisi i paradigmi culturali e istituzionali non sono soltanto le scienze fisiche, ma anche – almeno altrettanto – le scienze antropologiche (in particolare le neuroscienze e la cibernetica), gli stessi curatori hanno dato alle stampe un terzo volume della medesima Collana editoriale: Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza (2019).

I termini della questione sono ben evidenziati da Y. N. Harari nel suo Sapiens. Da animali a dei (Bompiani, Milano 2017):

 

 “la prossima fase storica comprenderà non solo trasformazioni tecnologiche e organizzative, ma anche trasformazioni fondamentali nella coscienza e nell'identità umane. E queste potrebbero essere così radicali da mettere in questione lo stesso concetto di «umanità»” . “Se è vero che sta per calare il sipario sulla storia di Homo sapiens, noi che apparteniamo a una delle sue generazioni finali dovremmo dedicare un po' di tempo a rispondere a un'ultima domanda: che cosa vogliamo diventare?” (p. 294, qui citato a p. 39).

 

Non è facile esagerare la gratitudine che dovremmo nutrire verso quanti, approfondendo e divulgando tali tematiche cruciali,  ci strappano alla banalità delle baruffe da cortile tra partiti e partitini per ricordarci la gravità di simili interrogativi, da cui – per riprendere un'altra citazione da Harari - “non sono spaventati” solo coloro che “non ci hanno riflettuto abbastanza” (p. 295, qui citato a p. 39). 

In realtà, siamo davanti a un bivio: o proseguire per la strada dell'era “tecnozoica” (Thomas Berry),  “della tecnoscienza al servizio del capitale, in un processo inarrestabile di biocidio e geocidio”, o virare verso l'orizzonte di un'era “ecozoica” (ancora Berry) in cui abbracceremo finalmente un'altra visione – biocentrica, cosmocentrica - , in comunione con la comunità di vita di cui siamo parte” (C. Fanti,p. 41). La scelta non è più una questione di “fede”: come recita il titolo del contributo di J. M. Vigil, Non si tratta più di “credere” ma di Attualizzare l'epistemologia (p. 47). In termini elementari: 

 

“Nella nostra epoca, pretendere che una persona colta e critica accetti un'interpretazione globale della Realtà e un significato per la propria vita sulla base di alcuni miti ancestrali, per quanto geniali fossero all'epoca, contravviene decisamente alle esigenze minime di dignità, intelligenza e onestà intellettuale in grandi settori dell'umanità colta. Molte di queste centinaia di milioni di persone che hanno abbandonato la religione, o addirittura realizzato un atto di apostasia, lo hanno fatto come un grido di dignità e di onestà, o come una richiesta di soccorso per non soffocare esistenzialmente. Con tutto il diritto. E con tutta la ragione epistemologica” (p. 63). 

 

Pur con la comprensione e il rispetto verso chi decide di gettare a mare l'intero “pacchetto” delle religioni storiche, è lecito ipotizzare un'operazione diversa, consistente in una sorta di estrazione dal guscio inaridito della “religione” il succo ancora tonico della “spiritualità”:

 

“La spiritualità è per definizione l'essenza della religione, nel senso che, al di là degli aspetti sociologici della religione stessa, dei suoi edifici e delle sue gerarchie, dei suoi codici canonici e delle sue liste di cose permesse e cose proibite, c'è pur sempre al centro di essa la ricerca di qualcosa di reale e significativo, qualcosa che dia senso alla vita. La spiritualità non è altro che la ricerca di questo 'qualcosa', che spesso chiamiamo 'spirito'. Si tratta di vivere a partire dal profondo di noi stessi e non dalla superficie delle cose, a partire dal proprio vero Sé e non dal proprio 'personaggio' (ovvero dalla 'persona interiore' invece che dalla 'persona esteriore') (M. Fox, p. 192). 

 

In questo contesto storico-culturale, nel quale non si sperimenta nulla di nuovo se non ci si spoglia delle vecchie e oppressive corazze, è comprensibile, anche se non giustificabile, che molti “reagiscano con tanto timore, addirittura con panico, e con intolleranza e atteggiamenti di condanna”; ma è incoraggiante constatare altresì che

 

“sono già molte le persone che, con l'ausilio della prospettiva laica della scienza, sono giunte a percepire che la realtà, compresa quella religiosa, come ogni cosa in questo cosmo che conosciamo, è evolutiva, viva, in movimento perpetuo, e a rendersi conto che anche l'umanità è attualmente immersa in una profonda trasformazione, in un nuovo «tempo assiale». Persone che sfruttano con gioia il privilegio di vivere in un tempo così stimolante, cogliendo l'occasione di collaborare con la sua ricerca e la sua creatività, orgogliose del coraggio che hanno avuto di liberarsi epistemologicamente e di uscire dalla gabbia per passare a guardare tutto da una prospettiva superiore” (J.M. Vigil, p. 65). 

 

E' all'interno di questo scenario che la “spiritualità”, finalmente slegata dall'identificazione con la “religione”, può trovare una nuova interpretazione:

 

“Quando ci concediamo il tempo di meditare, potenziando la nostra consapevolezza della grande rete cosmica e terrestre di cui siamo parte, quando ci consentiamo di ascoltare la saggezza dei nostri stessi corpi e la voce istintiva che ci parla dai nostri geni, possiamo entrare in contatto con energie primordiali tali da condurci a una trasformazione personale e collettiva.

La pratica spirituale, allora, non sarebbe la contemplazione di mondi eterei distanti dalle realtà terrene: sarebbe, piuttosto, l'ingresso in una profonda comunione con la dimensione corporea, pre-cosciente, pre-umana del nostro stesso essere, la quale costituisce un'espressione specifica e concreta della totalità sacra che è l'Universo.

In quest'epoca di pericoli senza precedenti, in cui l'antropocentrismo di un'umanità che ha acquisito immensi poteri tecnologici rischia di provocare la nostra estinzione come specie, la costruzione di una nuova forma di relazionarci con il pianeta e i suoi abitanti non-umani è diventata urgente e imprescindibile” (D. Molineaux, pp. 96 – 97). 

 

Il rinnovamento della vita spirituale sarebbe monco – o addirittura falso – se non fosse pensato e vissuto come motore di un cambiamento socio-politico. Mary Judith Ress attira l'attenzione su una di queste possibili piste: l'eco-femminismo. Riallanciandosi a proposte ed esperienze varie, traccia tre passaggi di un cammino effettivo verso l'epoca “ecozoica”:

 

“Il primo è la creazione di terapie, spiritualità personali e liturgie comunitarie attraverso cui nutrire e simboleggiare una nuova coscienza biofilica.

Il secondo è il ricorso alle istituzioni locali su cui esercitiamo un certo controllo – scuole, chiese, attività commerciali gestite localmente – come progetti pilota per una vita ecologica.

Il terzo è la costruzione di reti di organizzazioni che, a livello regionale, nazionale e internazionale, assumano l'impegno di cambiare le strutture di potere legate all'attuale sistema di morte” (pp. 115 – 116).

 

Come si intuisce da queste brevi citazioni, la spiritualità che si prevede – o per lo meno si auspica – in queste nuove prospettive teologico-filosofiche è insofferente di barriere limitanti e, ancor di più, di contrapposizioni polemiche. Lo ribadisce, insieme a tutti gli altri co-autori e a tutte le altre co-autrici del volume, anche l'ex-gesuita - animatore della comunità di base aragonese di Almofuentes – S. Villamajor Lloro:

 

“ Né la religione di un altro mondo, né una laicità insignificante. E' il momento di modellare lentamente e rispettosamente la nuova umanità, a partire dall'amicizia civica e dal desiderio di sapere, dall'amore incondizionato che comincia dai più deboli, dall'apertura a ciò che ci sorpassa. E di costruire così una nuova ragione (razón) e un nuovo cuore (corazón). Un nascente co-razón che ci orienti tutti nella diversità” (p. 187).

 

In tutto questo processo di radicale rinnovamento, c'è qualcosa del cristianesimo che resterebbe valido e proficuo? Come risponde, in pagine acute e anche letterariamente sapide, don Sudati, dopo l'ormai improcrastinabile de-mitizzazione (avviata nel XX secolo da Rudolf Bultmann), resterebbe un “quasi niente” che è, però, un “quasi tutto” da cui ripartire: il “cuore dell'insegnamento di Gesù” riassunto nelle beatitudini seguite, nel vangelo secondo Luca, da altrettanti “guai a voi”. Il “poco” che rimane è il “molto” e il “tutto” perché è “l'essenziale” (condivisibile da “tante comunità e singole persone che si riconoscono in questa base umanitaria e sono capaci di benevolenza e altruismo, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose o dall'assenza di esse”)   (F. Sudati, pp. 136- 137).

 

Come tutti i testi interessanti, anche questi raccolti amorevolmente dalla Fanti e da Vigil pongono interrogativi. Ne evidenzio solo tre.

Il primo riguarda proprio una formula nel titolo: “oltre il mito”. Si sa che nei titoli bisogna essere sintetici e incisivi, ma ciò comporta rischi di fraintendimento. La nuova spiritualità vuole andare davvero “oltre i miti” o non piuttosto oltre l'interpretazione letterale – dunque erronea, fuori registro, inappropriata – dei miti? Può esistere una spiritualità senza miti e, nell'ipotesi improbabile che lo possa, è anche augurabile che ci riesca? La risposta si trova nell'ultimo – e non certo meno prestigioso – contributo della raccolta, là dove Fox scrive:

 

“L'assenza di miti significherebbe l'assenza di musica, di arte, di cinema, di riti. Vivere senza miti? Ma scherziamo ? Buona fortuna davvero! I miti giocano un ruolo indispensabile nella vita dell'individuo e della comunità, sono una parte ineliminabile della nostra umanità. [] Nell'epoca postmoderna non è sufficiente demitologizzare o decostruire, abbiamo anche bisogno di rimitologizzare e ricostruire” (p. 197). 

 

La distinzione di statuto epistemologico fra i discorsi scientifici e i discorsi meta-scientifici (includo qui, senza ulteriori distinzioni interne, la filosofia e la poesia) non sempre viene rispettata. Quando, ad esempio, un autore solitamente attento come M. J. Vigil afferma che “non abbiamo bisogno di credere (né è più possibile farlo) in una creazione nata da alcuni ordini (fiat lux) o dall'alito insufflato in un fantoccio di fango”, dal momento che “ciò che in tempi antichi immaginavamo miticamente come «creazione attraverso la parola» da parte di un Ente preesistente è stato invece  un processo cosmico evolutivo di milioni di anni” (p. 56), non dà l'impressione di un confronto fra due teorie dello stesso genere, di un'alternativa (“invece” !) sullo stesso piano? E' quanto chiarisce, a mio parere molto bene, Santiago Villamayor: “il «Big Bang» e la creazione sono riferimenti che si pongono a livelli epistemologici distinti. Parlando del primo, ci collochiamo a un livello empirico, parlando del secondo ci poniamo a un livello simbolico. E così avviene con molti altri miti” (p. 174). Le scienze naturali e umane compiano, più a fondo che possano, il proprio preziosissimo e insostituibile compito di raccontare il “come” dell'universo, ma senza illudersi e illudere di risolvere la domanda sul “perché”. Per esprimerci con Javier Montserrat (citato da Villamayor nella medesima pagina) l'universo moderno e contemporaneo resta “un universo enigmatico che ci pone nell'incertezza metafisica di non sapere se il suo fondamento ultimo è Dio o un puro mondo senza Dio”. 

Se dalla “incertezza metafisica” si possa mai evadere, o se vi siamo condannati in eterno, è – appunto – una questione che rientra in quella disciplina denominata “metafisica”: una questione cioè di competenza dei filosofi che si occupano di filosofia della religione, di ontologia e di teologia 'filosofica' (o 'razionale' o 'naturale'). E questa considerazione mi suggerisce un terzo e ultimo interrogativo: come mai in questo volume, come per altro nei tre precedenti della medesima Collana editoriale, non c'è quasi nessuna traccia dei pensatori occidentali come Hegel e soprattutto Schelling che hanno, da secoli, prospettato e argomentato teorie onto-teologiche estremamente simili alle  teorie condivise dai nostri co-autori? E' solo una questione di formazione biografica o ci sono delle motivazioni più profonde (e dunque più interessanti da esaminare) che restano, però, nel non-detto?

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


“Viottoli”

2022, 2

 


venerdì 3 marzo 2023

DAVIDE GIANNO' E LA SUA VITA (INSOLITA) DA "UOMO COMUNE"

 

STORIA DI UN UOMO COMUNE

Nella prima metà del Novecento un gruppo di storici francesi, collaboratori della rivista “Annales”, ha impresso una svolta significativa al modo tradizionale di fare storiografia: non più a partire dall’alto, dai re e dagli eroi più famosi, ma dal basso, dalla vita quotidiana della gente comune. Non più (solo o principalmente) la macro-storia, ma (anche e soprattutto)  la micro-storia.

L’intervista autobiografica di Vittorio Chiparo al nonno Davide Giannò (Storia di un uomo comune, Albatros, Roma 2022, pp. 218, euro 15,90)  può essere considerata un prezioso documento per chi volesse ricostruire la storia di un cittadino palermitano a cavallo fra il XX e il XXI secolo: infatti ci sono squarci di vita, episodi, ambienti fisici e psicologici...di cui la “grande” storia non si occupa, condannandosi così a offrire una rappresentazione parziale dell’epoca.

Mi limito a un solo esempio. Quale monografia scientifica potrebbe rendere altrettanto efficacemente il regime patriarcale vigente in molte famiglie siciliane ancora mezzo secolo fa come riescono le pagine in cui si rievocano i metodi durissimi, violenti, con cui il padre di Sara, allora fidanzata e poi sposa del protagonista, vietava alla figlia qualsiasi contatto – perfino telefonico – con il corteggiatore? Ce ne dovremmo ricordare quando ci stupiamo del maschilismo patriarcale  di molte famiglie islamiche odierne...

Ma il valore di questo libro non è solo documentario. Esso ha anche un interesse letterario. Mi riferisco ad alcuni versi, seminati qua e là, tra le pagine, ma ancor più alla trama intrigante: davvero ci sono vite reali che sembrano inventate da romanzieri geniali!


PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA CLICCARE QUI:

https://www.zerozeronews.it/la-vera-storia-che-aggrega-le-tante-storie-minute/