martedì 28 febbraio 2023

QUANDO LA BIBBIA PARLA DI EROS, AI TRADUTTORI S'INCEPPA LA PENNA....

by Augusto Cavadi

Nel suo Amori biblici censurati. Sessualità, genere e traduzioni erronee (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2023, pp. 302, euro 28,00) K. Renato Lings si propone di evidenziare il “legame tra le attuali versioni della Bibbia da un lato e gli atteggiamenti negativi verso l’omoaffettività dall’altro” (p. 11). Non si tratta dunque di un’opera filologica ed esegetica soltanto, ma anche teologico-morale e direi politica: infatti la Bibbia, “grande codice” (N. Frye) della cultura occidentale, almeno sino ai nostri giorni, ha influenzato – nel bene e nel male – i giudizi e i comportamenti di tante popolazioni, indipendentemente dalle opzioni di fede individuali. 

Alla radice di tante incomprensioni un dato di fatto storicamente incontrovertibile: i teologi cristiani, sino alla Riforma protestante e in molti casi anche oltre, hanno letto (e talora tradotto) la Bibbia senza conoscere la lingua del Primo dei due Testamenti, l’ebraico. E’ stata ritenuta sufficiente la padronanza del greco (la lingua della Bibbia dei Settanta in epoca ellenistica) e del latino (la lingua della Vulgata).

Un caso esemplare è costituito dai capitoli 14,18 e 19 del libro della Genesi:  la (falsa) interpretazione medievale, secondo cui le città di Sodoma e Gomorra sarebbero state “distrutte a causa dell’eccessiva propensione degli abitanti alle relazioni sessuali tra uomini e uomini” , ha comportato “conseguenze fatali per decine di migliaia di persone con relazioni omoaffettive” (p. 63). Come spiega Lings, nel Testamento ebraico “più e più volte i profeti usano il nome di Sodoma come metafora dell’arroganza, dell’abuso (di potere) e dell’oppressione dei deboli, in particolare delle vedove, degli orfani e degli stranieri” (pp. 98 – 99). 

Un’intera sezione del volume (la terza) esamina, puntualmente, le forzature sessuofobiche – anzi, per la precisione, spesso omofobiche – delle traduzioni tradizionali (in lingua inglese, ma non solo) di passi cruciali quali:

·      Levitico 18,22 (“una frase ebraica ermetica e imbarazzante”, con almeno 17 interpretazioni,  nella traduzione viene semplificata per renderla “perfettamente appetibile al pubblico moderno” ) (p. 119);

·      Giudici 19-20 (due capitoli vengono che, impropriamente, letti come “immagine speculare” di Genesi 18 -19) (p. 122)

·      Prima Corinzi, 6, 9 – 10 (termini insoliti vengono sbrigativamente tradotti con vocaboli – quale “omosessuali” – coniati solo nel XIX secolo) (p. 146)

·      Romani 1, 26 – 27 (le frasi greche vengono “riferite a relazioni omosessuali anche quando descrivono semplicemente comportamenti non convenzionali”) (p. 163)

Una quarta sezione del libro è dedicata a degli “amori biblici” che, secondo l’autore, sono stati “censurati” dalle tradizioni ecclesiastiche: tra Naomi e la nuora Rut, tra Davide e l’amico Gionata, il centurione romano e il suo ragazzo, Gesù e il discepolo prediletto...E’ senz’altro la parte più problematica dell’opera, ma mi pare che l’autore abbia individuato la traiettoria più felice fra due possibili estremismi: da una parte negare che questi personaggi siano stati rappresentati come legati da vincoli affettivi particolari (non riducibili alle ‘normali’ relazioni di parentela o di amicizia), dall’altra applicare a tali vincoli straordinari le categorie odierne di “omosessualità” (e simili). Ciò che si può affermare con certezza è che la Bibbia conosce varie declinazioni dell’amore e che solo il bigottismo moderno ha tentato (e tenta) di separare nettamente le versioni ‘legittime’ dalle ‘illegali’ e ‘peccaminose’.


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sabato 25 febbraio 2023

LA 'SANTA' INQUISIZIONE E LE SUE VITTIME

 

(Foto di una composizione in metallo di Adriana Saieva)

“Il Gattopardo”

Dicembre 2022

LA ‘SANTA’ INQUISIZIONE E LE SUE VITTIME

 

Tra i molti luoghi intriganti che un turista può visitare a Palermo vanno annoverate le carceri dell'Inquisizione a palazzo Steri (sede attuale del 'governo' di un'istituzione un po' meno chiacchierata: l'Università degli Studi). Come notano gli storici, se il Sant'Uffizio romano non scherzava, ancor più efferatamente agiva l'Inquisizione spagnola nelle sedi di Madrid e di Palermo. E i documenti sopravvissuti al rogo liberatorio, voluto dal viceré 'illuminato' Domenico Caracciolo, ci parlano non solo di giudici e accusati, ma della società siciliana dal XVI al XVIII secolo.

Tra le considerazioni che emergono dalla lettura di quei testi è che, tra i condannati al rogo per eresia, vi erano intelligenze evolute che anticipavano, genialmente, tesi teologiche che nel XX e nel XXI secolo sarebbero state recepite dalla Chiesa cattolica come ovvie. Il frate eremitano David Chenic (sassone, ma residente nell'Isola) veniva condannato perché sosteneva che un buon cattolico dovesse pregare per i defunti non solo della propria religione, ma anche del popolo ebreo e di altre confessioni. Stessa sorte per il prete don Corrado De Ribera, reo di sostenere – esattamente come farà il Concilio ecumenico Vaticano II nel 1965 – che tutte le religioni possono condurre alla salvezza eterna. Come nota Maria Sofia Messana, nel suo Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500- 1782), riedito da Sellerio, “la composizione multirazziale della società siciliana, la vicinanza con le culture del Nord-Africa e del vicino Oriente, l'esistenza di una legislazione laica ed ecclesiastica di relativa tutela per i fedeli di religioni diverse rendono la Sicilia una terra in cui la comprensione per le altre culture forse ha più ragioni che altrove” (p. 167). 

Allora ci pensarono papi e inquisitori a soffocare queste tendenze alla tolleranza e all'ospitalità. Oggi sono altre le organizzazioni politiche e culturali che si assumono lo stesso compito educativo criminogeno. 

 

Augusto Cavadi

 

 

giovedì 23 febbraio 2023

PERCHE' LE GUERRE? INDICAZIONI DALLE NEUROSCIENZE (SECONDO MARIO MULE')


 Mario Mulè

Perché le guerre? Alcune risposte possibili

 

A metà degli anni Trenta del Novecento Walter Hess, studiando il funzionamento cerebrale di un gatto, osservò che la stimolazione con un elettrodo di un’area specifica del cervello provocava una intensa reazione di collera. Molte discussioni vennero provocate da questa ricerca, a partire dal dibattito tra due diverse “posizioni”: si trattava di “vera” rabbia o, come sostenevano i comportamentisti dominanti nel panorama scientifico di quel periodo, di  “finta” rabbia ?

Oggi quasi nessuno dubita che gli animali sentano emozioni che li guidano nell’apprendimento e nel comportamento. Ma già allora era abbastanza conosciuta la somiglianza, sia anatomica che funzionale, tra tutti i cervelli dei mammiferi: sembrava quindi che si potesse cominciare a capire l’origine dell’aggressività, negli animali e nell’uomo. Per questa ragione la scoperta, nel 1949, valse ad Hess il premio Nobel.

Oggi viene dato un valore limitato a tale scoperta: anzitutto perché si è capito che strutture, circuiti e meccanismi cerebrali coinvolti nell’emozione chiamata ‘collera’ sono molto più complesse; poi perché non sembra che possa fornire un’adeguata comprensione dell’aggressività nell’uomo e meno ancora della guerra. E’ lo stesso Panksepp, fondatore  delle neuroscienze affettive, che ci ammonisce: “poco di quello che possiamo dire ( della collera) può illuminare le cause della guerra nella specie umana”[1].

Altri studiosi, ispirati dalla teoria dell’evoluzione, hanno rivolto la loro attenzione agli scimpanzè con i quali condividiamo quasi tutto il nostro patrimonio genetico. Hanno argomentato che obbligatoriamente troviamo nell’uomo aggressività e violenza, vista la nostra discendenza da tali animali, notoriamente rissosi e violenti. Tuttavia un’analisi più attenta mette in dubbio questa convinzione, perché non è dimostrata la nostra discendenza dagli scimpanzè. I nostri antenati potrebbero essere stati i bonobo, molto più pacifici, e forse non conosciamo ancora quale specie ci ha preceduto ( il famoso “anello mancante” di cui siamo ancora alla ricerca).

La convinzione di una nostra discendenza da animali violenti è stata sostenuta da autorevoli pensatori, tra i quali Freud cui si deve l’idea di “un’orda primitiva” precedente la civilizzazione umana. Tale ipotesi finora non ha trovato nessuna conferma dalle ricerche archeologiche, anzi mancano del tutto prove che confermino l’esistenza delle guerre prima di dodicimila anni fa, epoca della rivoluzione agricola. E c’è anche chi sostiene che nella preistoria umana sia stata presente una società matriarcale, più amorevole e prosociale.

C’è anche un’altra ipotesi, anch’essa di derivazione darwiniana, che prende in esame l’istinto predatorio, presente in molti animali, che avremmo ereditato. Gli studi scientifici, in realtà, ci dicono che l’istinto predatorio è molto diverso dalla violenza e dall’aggressività. Un esempio può chiarire queste differenze: un gatto arrabbiato avrà il corpo inarcato, il pelo irto, per apparire più grande, le unghie fuori dalle zampe, emetterà messaggi minacciosi; al contrario, un gatto che caccia una preda sarà cauto, silenzioso, attento, si acquatterà per rendersi meno visibile dalla preda.

C’è un altro “istinto primitivo” da esaminare come fattore importante del comportamento violento, l’istinto di potenza. Esso ha ricevuto molti consensi, provenienti da ambiti diversi. Dall’ottica della psicologia comparativa è stato detto, senza mezzi termini: “E’ inutile nascondere questa realtà: siamo una specie gerarchica”[2].  Kissinger (vissuto per molti anni vicino ai potenti) affermava che      “ per i maschi il potere è il sommo afrodisiaco”. Anche in ambito psicologico e clinico si ipotizza un sistema motivazionale finalizzato a definire il rango, cioè la posizione gerarchica nel gruppo di appartenenza [3].

La condizione gerarchica, ( che implica l’esistenza di capi) merita uno studio attento, ma ha visto finora prevalere le riflessioni in ambito filosofico ( Hobbes, Nietzsche, Macchiavelli). Seneca ha detto: “ I potenti della Terra esercitano l’ira come una specie di regale insegna”. Pochi sono gli studi sui capi. In ambito biologico è stato trovato che negli animali in posizione alfa si trovano alti livelli di cortisolo, che favorisce una iperattivazione dei sistemi di allarme, dannosa per la salute del corpo e della mente.

In ambito psicologico pochi hanno provato a riflettere sulla personalità dei capi. Uno di questi è stato Fromm, che ha dedicato in un suo libro un intero capitolo allo studio della personalità di Hitler[4]. Visto che sono i capi che decidono di muovere gli eserciti e le armi, potrebbe essere molto utile saperne di più su di loro.

C’è ancora almeno un altro aspetto emotivo da considerare ed è l’odio per il nemico, quasi necessario nelle guerre. Cosa possiamo dire dell’odio? Si pensa che sia un modo di sentire specificamente umano, frutto avvelenato di alcune funzioni evolute, come la capacità di immaginare, di pianificare progetti, compresi quelli di aggressione e di vendetta.

Proviamo adesso a sintetizzare le annotazioni fatte finora: esserci rivolti all’archeologia della mente ci ha consentito di acquisire alcune nozioni utili, ma non di capire l’origine della guerra. Per questa via, simile a quella seguita da Freud nella risposta ad Einstein che si interrogava sul perché della guerra, non si arriva molto lontano.  Nella sua risposta Freud, alla fine delle sue riflessioni (non certo banali),  diceva: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa”[5].


 

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[1] Panksepp J.- Biven L., Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina Editore, Milano  2014   .

 

[2] Frans de Waal, L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali,                                                                                      Raffaello Cortina Editore, Milano 2020 .

[3] Liotti G. -  Monticelli F. , I sistemi motivazionali nel dialogo clinico,    Raffaello Cortina Editore, Milano  2008.

[4] Si tratta del cap. XIII di Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1978.

[5] Perché la guerra? Carteggio tra A. Einstein e S. Freud in  Freud S.,  Opere, Boringhieri, Torino 1979.


lunedì 20 febbraio 2023

SMASCHERARE LA MASCHILITA' TOSSICA


 SMASCHERARE LA MASCHILITA' TOSSICA

 

Tra maschi capita d'incontrarsi per una partita a calcetto o per una pizza tra ex-compagni di liceo. Di solito si parla un po' di sport, un po' di donne e un po' di lavoro (se c'è o se lo si cerca ancora). A molti basta, ad alcuni no. Per esempio a un gruppetto di 6 o 7 amici milanesi, che s'incontravano agli inizi degli anni Novanta a cena in qualche locale o a casa di qualcuno di loro, questa modalità di stare insieme ha finito col risultare insoddisfacente. Così hanno deciso di darsi un appuntamento mensile stabile in cui poter intrecciare il cazzeggio con il racconto serio delle cose belle e brutte che accadono nelle vite normali e, non senza auto-ironia, si sono chiamati gruppo GNAM: che sta per mangiare in allegria, ma è anche l'acronimo di Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile. 

Dopo più di trent'anni questa piccola compagine ha avvertito il desiderio di mettere per iscritto la sua esperienza nell'agile, interessante, libretto Maschilità smascherata. L'esperienza del gruppo GNAM, a cura di M. Forlani, Prospero Editore, Novate Milanese 2022, in cui hanno modo di esplicitare dettagliatamente le cinque scoperte più significative realizzate lungo il percorso: 

“1. Un senso di libertà e di liberazione. Poter parlare liberamente di sé, dei propri stati d'animo, delle proprie emozioni, di quello che di solito si fa fatica a condividere con gli altri e specialmente con altri uomini.

 2. Sfogarsi e affrontare quello che non va; disporre di uno spazio dove poter condividere le proprie fragilità e alcuni particolari momenti di crisi e di difficoltà, senza timore di essere giudicati.

3. Creare uno spazio di ascolto e di solidarietà: sapere che non c'è solo un amico, ma addirittura un gruppo che è pronto all'ascolto e se chiedi aiuto c'è sicuramente. 

4. Maggiore consapevolezza di sé e del proprio modo di vivere le relazioni e le emozioni (in particolare nei confronti delle donne, ma non solo). 

5. Potersi confrontare su temi legati alla maschilità (stereotipi maschili, modelli tradizionali, maschilismo, violenza contro le donne ecc.) in un'ottica di rielaborazione critica e di ricerca di possibili vie d'uscita dai modelli di maschilità tradizionale” (pp.  43 – 44).  

Via via il piccolo gruppetto di Milano viene ad apprendere che altri maschi, in altre città italiane, hanno avvertito esigenze simili e hanno avviato esperienze analoghe: Pinerolo, Torino, Roma, Lucca, Bari, Verona, Palermo...Molti di questi circoli, su iniziativa di Stefano Ciccone (che firma la Prefazione a questo libro), si coordinano in un movimento nazionale, luogo di scambio e di sostegno reciproco: “Maschile plurale” (www.maschileplurale.it). Perché “plurale”? Il presupposto è che, tradizionalmente, almeno in Occidente, ci sia stato un modo solo, unico, 'singolo' di essere maschio: “il vero uomo è quello che controlla le sue emozioni e non si lascia travolgere da esse; il maschio sviluppa questo controllo grazie alla propria razionalità che lo rende capace di analizzare i problemi, formulare ipotesi sulle cause, definire strategie o soluzioni per risolverli. Va dritto al punto e cerca di risolvere il problema o per lo meno cerca di gestirlo, non sta a farsi inutili menate o a perdersi nel tunnel dell'emotività, ma decide e passa all'azione” (p. 45). Ebbene, chi si riconosce nella filosofia di “Maschile plurale” ritiene giusto dare a sé stessi prima di tutto, e poi agli altri maschi soprattutto delle nuove generazioni, la possibilità di optare fra vari, 'plurali', modelli: il maschilista-patriarcale anaffettivo, se lo si vuole ereditare;  ma anche altri modelli più aperti ai sentimenti, più disposti a riconoscere le proprie fragilità, più capaci di vedere le cose dal punto di vista delle altre persone (in particolare se di genere femminile), più inclini a prendersi cura dei piccoli, dei sofferenti, degli altri esseri viventi; più propensi a gestire i conflitti inevitabili con atteggiamento nonviolento...

A proposito di quest'ultimo aspetto gli autori di Maschilità smascherata fanno notare che non si tratta di rinunziare alle lotte sociali con mobilitazioni collettive, quanto di affrontarle con nuove modalità non più legate “alla retorica dello scontro militarizzato contro la polizia, nelle quali si riproduceva il modello del maschio virile e guerriero” (p. 147): “gli uomini che partecipano ai movimenti hanno quindi la possibilità di partecipare all'azione conflittuale  mettendo in gioco altri elementi come la creatività, la capacità di comunicare, la capacità di lavorare in gruppo con modalità cooperative” (p. 146).


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venerdì 17 febbraio 2023

MAFIA E ANTIMAFIA: FACCIAMO IL PUNTO !

 


MAFIE (NON SOLO MERIDIONALI): A CHE PUNTO SIAMO ?

 

L'opinione pubblica – inclusi i mondi della cultura, dell'informazione e della politica – si occupano di mafia in occasione di eventi clamorosi, come l'arresto di Matteo Messina Denaro. Ma c'è anche in Italia un ristretto numero di intellettuali, magistrati, docenti e attivisti che non spegne gli interruttori cerebrali tra un evento e un altro e, con tenacia, persevera e nel monitorare il fenomeno mafioso e nell'aggiornare le possibili strategie di contrasto. Tra questi focolai di opposizione metodica al sistema di potere mafioso va annoverato il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, fondato (già nel 1977 !) da Umberto Santino e Anna Puglisi che insieme continuano a dirigerlo, non senza la collaborazione di socie e soci con cui, da alcuni anni, hanno anche aperto nel cuore del centro storico del capoluogo dell'isola il “No mafia memorial”.

Il Centro “Giuseppe Impastato” e il Dipartimento “Culture e società” dell'Università statale hanno  organizzato nel 2017 un convegno nazionale per raccogliere, dalla voce di esperti qualificati, analisi e proposte sul tema. Solo in questi mesi è arrivata in porto la pubblicazione degli atti in un bel volume, a cura di Umberto Santino, intitolato Mafie: a che punto siamo? Le ricerche e le politiche antimafia, Di Girolamo, Trapani 2022, pp. 300, euro 25,00. 

In una prima sezione del libro, dopo la presentazione - a firma del curatore – del Progetto di ricerca “Mafia e società” del Centro “Impastato” (pp. 27 - 75), il sociologo Marco Santoro si interroga sulla “ontologia” della mafia e, nel tentare di rispondere alla domanda cosa essa sia, evidenzia la necessità di riconoscerne la “complessità” in quanto “dispositivo di assemblaggio tra elementi eterogenei, soggetti e pratiche” che è stato ed è “parte integrante di complicati equilibri di potere su cui lo Stato nazionale (in Italia ma non solo in Italia) è venuto formandosi e consolidandosi nel corso del tempo” (p. 108). Di questa organizzazione criminale parte rilevante sono i capi storici, di cui la sociologa Alessandra Dino focalizza qui “modelli di comando e sistemi di leadership”, sottolineando le somiglianze e soprattutto le dissomiglianze fra lo stile stragista di un Totò Riina e lo stile affaristico-politico di un Binnu Provenzano (pp. 109- 133). Sulle conseguenze che sulla vita quotidiana della società comporta l'esercizio della violenza mafiosa si sofferma la sociologa Monica Massari, la quale mette in guardia dal rischio – a suo avviso molto reale – che le gente tenda a rimuovere i traumi provocati dai metodi intimidatori e punitivi dei mafiosi sino ad accettarli come elementi inamovibili dell'esperienza collettiva. La relazione del sociologo Rocco Sciarrone – L'area grigia delle mafie: un articolato e multiforme campo organizzativo (pp. 147 - 167 ) - in cui l'autore evidenzia come i “giochi cooperativi” tra mafiosi e soggetti esterni alla mafia costituiscano “uno dei punti di forza più rilevanti delle mafie” (p. 165) chiude la sezione dedicata alle analisi del fenomeno mafioso considerato globalmente. 

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domenica 12 febbraio 2023

ATEI, PER RISPETTO DI DIO

Su "Robinson" (supplemento di "Repubblica" di sabato 11 febbraio 2023) abbiamo pubblicato questo avviso promozionale.

Aggiungo adesso alcuni brani della  Prefazione a firma di Gianfranco Cortinovis e mia:

Un uomo, un filologo, un prete, giunto al tramonto dell’esistenza, esprime con la massima chiarezza desiderabile le conclusioni cui è pervenuto in decenni di studio e di preghiera: il cristianesimo, come storicamente si è configurato nei primi venti secoli, è ormai incompatibile con gli orizzonti intellettuali della Modernità. Esso è una conchiglia segnata dal tempo, appesantita da concrezioni calcaree e quasi seppellita da alghe. Tuttavia, come tutte le conchiglie, cela in sé una perla che merita di essere scoperta, liberata dalle superfetazioni secolari, rivalorizzata. E ciò non tanto per ‘salvare’ il cristianesimo, come si può desiderare di salvare un interessante reperto archeologico; ma anche, e soprattutto, per offrire alla Modernità quel “supplemento d’anima” che la sapienza cristiana (come tante altre sapienze del pianeta) può offrire a un’umanità assetata di senso, di giustizia e di pace.

Quali - fuor di metafora - la perla preziosa e il rivestimento calcareo che, per due millenni, l’ha custodita ma anche celata? L’intuizione del predicatore errante Gesù di Nazareth che – quasi cuore dell’immenso universo vibrante di vita – pulsa un Principio creativo di cui ciascuno/a di noi, come ogni altro frammento esistente, è manifestazione. Vivere in pienezza significa abbandonarsi a questa Corrente generosa, Senza-nome, e farsene, proprio come il Maestro palestinese, in parole e azioni, immagine e dono per tutti gli esseri senzienti. 

La corazza in cui la testimonianza esistenziale di Gesù di Nazareth è stata incapsulata è, a ben vedere, duplice. Essa è stata veicolata, infatti, sia – sin dall’origine, dunque in Gesù stesso – da una concezione teologica storicamente e geograficamente condizionata: l’idea biblica, propria di alcuni filoni del Primo Testamento, di un Dio che vigila come Madre amorevole, ma anche Signore implacabile, sulle sorti dell’umanità, pronto a intervenire direttamente come un Pastore che conduce all’ovile prestabilito il suo gregge, talora riluttante e talora sfuggente. Poiché le venature antropomorfiche di questa rappresentazione del divino sono innegabili, vi sono attualmente dei pensatori che (riprendendo per altro istanze ricorrenti nella storia del cristianesimo, soprattutto nelle tradizioni mistiche) la catalogano come “teismo” e, in quanto tale, ne constatano/auspicano il superamento. Lenaers si riconosce, in buona misura, in questo filone di ricerca “post-teistico”. Come scriverà, poco dopo questa conferenza, nel contributo all’opera collettiva Oltre le religioni, curata in italiano da Claudia Fanti e don Ferdinando Sudati, 

la religione è un’espressione collettiva di una cosmovisione che vede tutte le cose come dipendenti da poteri come quelli umani ma radicati in un mondo invisibile. Questi poteri, come quelli umani, possono essere terribili, ma occasionalmente anche amabili; possono intromettersi nei nostri affari e noi possiamo entrare in contatto con essi attraverso la preghiera e l’offerta di doni. Tale cosmovisione viene definita “teismo”, il quale può essere politeismo quando si crede che queste potenti divinità siano molteplici o monoteismo quando tale molteplicità si fonde in una unità. Così è stato da quando i nostri predecessori, i primati, mossi dal misterioso impulso all’evoluzione, hanno oltrepassato la soglia dell’umanità, probabilmente un milione di anni fa. Il che significa che la cosmovisione ha goduto di un tempo più che sufficiente per penetrare profondamente nella psiche umana, al punto da diventare quasi indelebile.

Poiché il “teismo” – così delineato - è nella Modernità in crisi irreversibile, se il cristianesimo non vuole lasciarsi travolgere da questa catastrofe ha una sola uscita di sicurezza: “dovrebbe smettere di essere teistico”.

Il nucleo originario del vangelo è stato incistato non solo in una prospettiva ‘teistica’ ma anche, e più clamorosamente, in una strutturazione ‘religiosa’. Come ormai è accertato, alcuni decenni dopo la crocifissione di Gesù - almeno da Paolo di Tarso in poi – sulla memoria del Maestro hanno fatto perno delle esperienze comunitarie che, adattando usi liturgici e norme etiche ebraiche, si sono configurate come istituzioni ‘religiose’. E’ dunque nata una nuova religione: il cristianesimo. Ma, proprio se rimane tale, esso non può sottrarsi alla sorte cui – secondo non pochi osservatori – stanno per essere destinate tutte le grandi religioni storiche: il loro tramonto definitivo. Anche su questo fenomeno ci si interroga sempre più appassionatamente, al punto che si va costituendo un movimento di pensiero che si auto-definisce “post-religionale” (intrecciato con il “post-teismo”) al quale Lenaers non ha rifiutato il suo contributo intellettuale. Come leggiamo in questo stesso volumetto, 

la religione cristiana – in particolare mi concentro sulla chiesa cattolica - dovrà segnatamente cessare, allora, di venerare un Dio nell’alto dei cieli, d’implorare il suo aiuto, di obbedire alle leggi che secondo i preti vengono da Lui; altrimenti detto, dovrà cessare di essere una religione.

Ovviamente l’alleggerimento da questo duplice carapace – “teismo” e “religione” - non avrebbe senso se restasse un movimento solo negativo e non rendesse possibile la riscoperta dell’essenziale: 

l’unica prospettiva che può salvare il cristianesimo nella Modernità è fare come il granchio: uscire dalla sua corazza religiosa, morire come religione e rinascere come fede.


Sull’autore

Prima di lasciare al lettore il piacere di addentrarsi in queste nitide, penetranti, pagine, non vogliamo privarlo di alcuni brevi lineamenti biografici dell’autore. Il quale è nato a Ostenda (nella zona fiamminga del Belgio) nel 1925 ed è morto novantaseienne, dopo una lunga vita in giro per l’Europa, a Heverlee (sobborgo della città di Lovanio) nel 2021. L’infanzia è stata segnata da una tragedia familiare: quando Roger era un bimbo di appena 8 anni, il padre pescatore e il fratellino di pochi anni in più, furono travolti da una tempesta in mare e vi perironoA 17 anni è entrato nell’Ordine dei Gesuiti; ha studiato filologia classica, filosofia e teologia ed è stato – soprattutto – un insegnante di greco e latino nelle scuole medie superiori. Appassionato di didattica delle lingue classiche ha firmato circa 30 testi, destinati ad essere adottati per gli studenti, tutti provvisti di guida per gli insegnanti. Quando gli è stato chiesto, non si è sottratto all’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole né alla formazione di aspiranti insegnanti della medesima disciplina. Ha anche tenuto corsi di etica nella Facoltà di Medicina dell’Università di Lovanio.

A settant’anni – concluso l’insegnamento – ha chiesto e ottenuto di svolgere ministero pastorale in due piccoli centri del Tirolo austriaco, Vordernhornbach e Hinterhornbach, dove è rimasto sino al 2016. L’anziano parroco è stato molto benvoluto da tutti: col suo tratto gioviale, mai però eccessivo o invadente, si rapportava con cordialità con chiunque incontrasse per strada, indipendentemente dal fatto che frequentasse o meno le celebrazioni liturgiche. La gente percepiva che egli si interessava delle vicende di ognuno con sincera partecipazione, non per mera formalità ecclesiastica. Un suo amico ci ha raccontato di aver una volta (verso il 2013) confidato a Lenaers di trovarsi in gravi condizioni psichiche, causate anche dallo spettro di un tracollo economico dell’azienda di famiglia, e di aver ricevuto dopo qualche giorno una e-mail in cui il parroco gli metteva a disposizione per intero i risparmi custoditi nel conto corrente - settemila euro in tutto – scusandosi per l’esiguità dell’offerta. 

Nei piccoli comuni austriaci Lenaers ha trovato la quiete necessaria per dedicarsi ai suoi scritti teologici definitivi. Così, nel 2000, pubblica il saggio Il sogno di Nabucodonosor o la fine di una Chiesa medievale e, nel 2003, Esodo dai miti del Cristianesimo antico5. Nel 2009 viene pubblicato, in nederlandese, una sorta di sequel tradotto in italiano col titolo Benché Dio non sia nell’alto dei cieli. L’ultima sua opera monografica, del 2015, è stata Gesù di Nazaret. Uomo come noi?

Anche se Lenaers ha cominciato a pubblicare testi teologici da ultra-settantenne, “si è rivelato subito un brillante teologo per come ha saputo farsi carico e interpretare i disagi sia intellettuali (sul piano del dogma) sia pratici (sul piano dell’etica) del cristiano di oggi. Lo si potrebbe definire un teologo della qualità, se non della quantità”. Come nota, inoltre, don Ferdinando Sudati, i libri di questo gesuita belga si caratterizzano per una serie di assenze, soprattutto due: di note in calce e di imprimatur ecclesiastico. 

Certamente, in futuro, anche il contributo di Lenaers risulterà ‘datato’, ma difficilmente “si prescinderà da lui, come pure dagli altri riformatori moderni, tra i quali spicca il vescovo episcopaliano John Shelby Spong. Lo si riconosca o no, un cristianesimo rinnovato – precondizione della sua vitalità – avrà fatto i conti con le indicazioni di questi pionieri. Forse non verranno nemmeno ricordati, perché spesso la storia è ingrata con gli antesignani – e quella ecclesiastica fa ancor meno eccezione - , ma sarà con il materiale da loro fornito che si procederà a una nuova costruzione" (F. Sudati).

I curatori

Gianfranco Cortinovis & Augusto Cavadi






 
 

venerdì 10 febbraio 2023

LA FANTASIA AL GOVERNO DELLE NOSTRE ESISTENZE



LA FANTASIA AL GOVERNO DELLE NOSTRE ESISTENZE


In tutte le tradizioni sapienziali, sia religiose che filosofiche (per quanto possano valere queste distinzioni categoriali) , troviamo la divinizzazione (o per lo meno la canonizzazione o la eroicizzazione) di grandi figure esemplari: da Buddha a Pitagora, da Epicuro a Gesù...I vantaggi pedagogici di queste mitizzazioni sono indubbi: in quei personaggi l'utopia si fa concreta e rassicura sulla praticabilità della via suggerita (o insegnata o rivelata o imposta). Altrettanto incontestabili, però, gli inconvenienti: Egli o Ella era (nell'idealizzazione successiva se non nella storia effettiva) una persona speciale, dotata di eccezionali carismi, che a me – comune essere limitato – non sono stati concessi. Devo dunque rassegnarmi a giocare tutta la vita in serie C: senza grandi intuizioni, senza gesti eclatanti, senza guarigioni miracolose, senza digiuni strabilianti, senza martìri conclusivi. La consapevolezza del proprio essere impastato di terra (humusda cui “umiltà”) suggerisce modestia di aspirazioni, ma un confine troppo tenue separa la modestia dalla rassegnazione alla mediocrità (in senso riduttivo).

E' possibile coniugare il desiderio di coerenza, di auto-realizzazione spirituale (nella speranza non che, da morti, venga aggiunta la nostra effige al pantheon dei semi-dei, ma che da vivi contribuiamo a elevare di qualche millimetro la qualità della vita sulla Terra) con la quotidianità di un'esistenza 'normale' in totale condivisione con le piccole gioie e i grandi dolori di tutti gli esseri senzienti?

Forse non solo è possibile, ma addirittura necessario. Nessun aeroplano raggiunge le vertiginose altezze celesti se non decolla da una lunga pista terrestre. Se una voce interiore ci suggerisse di recarci in Grecia per saltare da un piede all'altro del celebre Colosso di Rodi, Esopo ci sfiderebbe ironicamente: Hic Rhodus, hic saltus...o Hegel con il suo Qui la rosa, danza qui. Il taoismo ci inviterebbe, come la Maria dei cristiani secondo i Beatles, a lasciare che le cose avvengano come avvengono (Let it be), senza voler forzare l'ineluttabile; il buddhismo ad essere attento, concentrato, fedele a ogni gesto, anche minimo, della propria giornata.

Cosa significhi, in concreto, partire dalle basi, dalle fondamenta, per evitare che i nostri castelli ideologici, teologici, utopici crollino miseramente alle prime folate di vento? Solo ognuno può rispondere per sé. Purché al mattino si proponga di farlo e la sera non si addormenti senza una breve verifica del proposito iniziale. 

In generale, comunque, il criterio è intuitivo: attraversare le strade della propria vita – breve o lunga che sia – lasciando l' “impronta ecologica” più leggera che si possa e innaffiando le potenzialità germinali proprie e altrui affinché “fioriscano” (per riprendere una metafora cara a Martha Nussbaum). 

Quanto all'impronta ecologica, anche i manuali per bambini indicano come misurarla (secondo le abitudini di ciascuno riguardo alle scelte nell'alimentarsi, ai rifiuti prodotti, alla superficie di suolo occupato, alle merci acquistate, all'energia consumata e all'anidride carbonica dispersa nell'atmosfera...) e dunque, di conseguenza, come ridurla (per esempio orientando la nostra dieta in senso vegano, o per le meno vegetariano; comunque preferendo verdure e frutta di stagione che non debbano provenire da altri continenti; spostandoci in bicicletta o con mezzi pubblici piuttosto che con mezzi privati; spegnendo le lampadine e le spie di elettrodomestici, computer e televisori quando non sono in uso; moderare – evitando gli sprechi – l'attività dei condizionatori d'aria in estate e dei caloriferi in inverno). 

Quanto alla fioritura della vita propria e altrui, non si tratta di andare “alla conquista della felicità” perché la felicità – almeno quegli sprazzi che ne possiamo sperimentare – non dipende da noi. Noi possiamo solo predisporci ad ospitarla qualora le capitasse di visitarci per un intreccio di circostanze fortuite: possiamo fare spazio, accogliere informazioni, fruire di bellezze naturali e artistiche, coltivare amicizie, aiutare chi ha bisogno di aiuto ad aiutarsi sempre di più, impegnarci in uno degli innumerevoli canali scavati collettivamente per migliorare la polis...

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giovedì 9 febbraio 2023

L'INGUARIBILE VIZIETTO DI SCROCCARE LIBRI A SBAFO

L'ARTE DI SCROCCARE LIBRI AD AUTORI ED EDITORI

Se qualcuno di voi produce e vende parmigiano reggiano, o olio pugliese, riceve mai richieste di merce in omaggio? Suppongo proprio di no. L'onorevole Tizio, il professore Caio, il vescovo Sempronio proverebbero un forte imbarazzo a chiedere – direttamente o per interposta persona – quanto potrebbero senza problemi acquistare presso il negozio sotto casa.

Con i libri, invece, non funziona così.

Se un compagno d'infanzia che non vedi da decenni, o un lontano parente emigrato in una città diversa dalla tua, vengono a sapere che è uscito un tuo volume, scattano le richieste di omaggi. Tali questuanti si distribuiscono, fondamentalmente, su due livelli di evoluzione culturale.

I più primitivi suppongono che, se hai pubblicato un testo, sei proprietario di tutte le copie che desideri e che dunque devi soltanto disturbarti a impacchettare il volume, recarti al più vicino ufficio postale, fare affrancare la busta e spedirla. Quasi quasi, nella loro mente cavernicola, con la richiesta ti hanno gratificato, dandoti la possibilità di diffondere il tuo verbo al di là delle ristrette pareti domestiche.

Una seconda categoria di richiedenti omaggi sa che l'editore ti ha regalato 3 copie previste nel contratto e che tutte le altre – ammesso che ne abbia di riserva a casa tua – sono state acquistate con lo sconto del 30% sul prezzo di copertina. Questi più raffinati intellettuali, dunque, solitamente ti scavalcano e si rivolgono direttamente alla fonte originaria: la casa editrice che ha investito migliaia di euro per confezionare quel libro e che, prima ancora di sapere quante copie sono state acquistate in giro per l'Italia, deve apprendere con sconforto quante copie vengono richieste gratis per recensioni, biblioteche scolastiche, circoli di anziani pensionati, carceri, ospedali...

Ad amareggiare non sono certamente le rare e-mail in cui qualche persona dichiara di essere interessata a un certo titolo, ma in serie difficoltà economiche: magari fra queste persone può infiltrarsi pure un finto disoccupato, ma almeno la motivazione espressa ha un suo senso. Molto più rattristante è osservare che, di solito, le richieste di libri in omaggio provengono da fasce sociali benestanti che fanno leva proprio sul fatto che occupano ruoli sociali elevati: come se non mettere mano al portafoglio – e dunque non incoraggiare chi lavora a vario titolo nel delicato mondo dell'editoria – fosse uno sorta di status symbol : “Mica sono un cittadino qualsiasi che, per leggere un libro, deve uscire da casa, andare il libreria e per giunta sborsare il prezzo di copertina!”.

Autori e editori hanno mille aneddoti da raccontare. Solo per dare un'idea di come va il mondo, mi limito a due episodi. 

Il primo è capitato a un editore che, richiesto da un vescovo, gli ha spedito in dono un mio libro sulla teologia della liberazione, con la speranza – confidatami – che quell'omaggio sarebbe stato compensato da una sorta di campagna promozionale del presule presso i suoi preti. Immaginate la delusione nell'apprendere che, da quel momento, Sua Eccellenza non perdeva occasione per raccomandare ai suoi contatti di non leggere “cosacce” scritte da me e/o pubblicate da quella casa editrice “falsamente cattolica”... 

La seconda disavventura è capitata direttamente a me, senza la mediazione di un editore. Invitato dalla biblioteca di un ridente comune balneare della provincia di Palermo – Terrasini – presentai un mio libro di introduzione alla politica che fu anche acquistato da una decina di presenti all'incontro. Quasi all'uscita mi ferma un signore abbastanza avanti negli anni che mi chiede di regalargliene una copia. A occhio e croce, non mi sembrava indigente e gli chiesi la ragione per cui non mi aveva proposto di acquistarlo come avevano fatto altri suoi concittadini. “Veda” - fu la risposta - “ogni settimana in estate qui presentiamo libri di autori noti anche in TV ed io ne acquisto sempre una copia. Ma Lei non mi pare così famoso come gli altri scrittori: dunque a Lei conviene regalarmi un volume per diffonderlo molto più che a me spendere soldi per acquistarlo”. Commosso da tanta sollecitudine per la diffusione della mia fama anche in quell'area dell'Isola, declinai la proposta con un sorriso: “Preferisco rimanere un illustre sconosciuto che diventare un povero squattrinato per via di troppi omaggi in giro”. 

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lunedì 6 febbraio 2023

E DOPO LA MORTE? METAMORFOSI IN ALTRA DIMENSIONE O DISSOLVIMENTO DELL'IO ?


 Dopo il nostro decesso: entriamo in una nuova dimensione o perdiamo l'illusione di essere individui?

Non c'è bisogno di essere dei filosofi di mestiere per interrogarsi sull'enigma del male, del dolore, della sofferenza: l'unica differenza è che il filosofo di professione si interroga spesso, le altre persone raramente. Ma ciò non garantisce che i filosofi vedano più a fondo.

Una domanda preliminare è se il male sia un dato oggettivo o se si tratti di un falso problema. Da almeno due secoli in Occidente - come da millenni in Oriente – si tende a negare il confine tra il bene e il male. Nel Tutto ogni evento ha un senso, una ragion d'essere, una funzione: dunque può considerarsi, nella peggiore delle ipotesi, un male relativo (relativo a qualcuno), non certo un male in sé (in assoluto). Il terremoto è un male per le poche migliaia di umani che restano sepolti sotto le macerie, ma in sé è un benefico (o per lo meno inevitabile) assetto geologico. Senza le malformazioni genetiche di tanti neonati non sarebbe stata possibile, e non sarebbe possibile nel presente, l'evoluzione della nostra specie. Senza la morte di tutte le generazioni precedenti, la nostra non avrebbe avuto spazio per nascere e vivere. E così via.

Devo confessare che queste prospettive – per quanto logiche – non mi convincono. Sono lieto se - per il Tutto, per l'equilibrio geologico, per l'evoluzione biologica...- il male non costituisca problema. Ma si dà il caso che io non sia il Tutto. Il male relativo, irreale per il Tutto, è realissimo per me che sono solo una parte. Avverto una sofferenza insopprimibile se so di persone sepolte sotto le macerie di un terremoto; se mi nasce un figlio down; se penso di dover prima o poi morire.

E' nota la terapia per questo genere di sofferenze (rese tanto più dolorose dalla incapacità di decifrarne un qualsiasi senso): tu ritieni di essere una parte in qualche modo distinguibile dal Tutto, ma è solo un tuo errore. Liberati dall'illusione di essere qualcosa – o addirittura qualcuno – e sradicherai (almeno intellettualmente) ogni fondamento alla domanda sul male.

Francamente, però, questa terapia non mi riesce convincente. Che io sia imparentato, in quanto essente, con ogni altro essente all'interno di un Intero che ci precede, di abbraccia e ci trascende è verissimo: ma questa parentela è identità assoluta o anche differenza?

Personalmente propenderei per dare credito all'autocoscienza che implica la certezza, o almeno il presentimento, di essere qualcosa di altro rispetto allo sconfinato mare degli essenti: qualcosa di unico, di originale. Di essere un 'io' marcato dalla differenza rispetto al non-io. In questa ipotesi ho diritto di considerare un male (sia pur relativo, sia pur minimale, sia pur limitatissimo) l'esser destinato a perdere questa individualità inconfondibile.

Ma anche se mi sbagliassi – anche se l'autocoscienza fosse fallace perché non esiste alcuna soggettività individuale (personale) – sarei per questo esente dal male? Ritengo di no: il male di cui sarei affetto sarebbe proprio l'illusione di essere un “io”.

Insomma, la Natura in entrambe le ipotesi gioca un brutto scherzo perché condanna a ritornare nell'Indistinto un ente che o è davvero un novum, un inedito, o è stato condannato dall'evoluzione a concepirsi – infondatamente – come tale.

Allo stato attuale della mia riflessione non vedo che due sole vie d'uscita per assolvere la Natura dall'accusa (antropomorfica!) di sadismo.

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giovedì 2 febbraio 2023

"AMORI BIBLICI CENSURATI" SECONDO K. RENATO LINGS: QUASI CONCLUSA LA RACCOLTA-FONDI DI "SAMARIA"




 Guarda, ascolta, leggi il 🎞️ video del Prof. Augusto Cavadi 

(durata 81 secondi).

https://youtu.be/VgJJ9QmT-Z0

«Liberare la Bibbia 📖 da interpretazioni equivoche o peggio omofobe, razziste, maschiliste»: quanto è importante per te?

Quanto è importante per il cristianesimo, secondo te?

Ti ricordiamo che puoi 🤲🏻 donare a partire da 25 euro, 📥ricevendo una copia📘 del libro o destinandola a una biblioteca 🏫:

👉🏻 visita  https://sostieni.link/32674  e clicca su sostieni questo progetto e poi scegli “UNA COPIA PER TE” oppure “UNA COPIA PER UNA BIBLIOTECA”.

Mancano 17 giorni alla fine della campagna!

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Grazie 🙏🏻

SAMARIA APS 🫱🏿‍🫲🏻🏳️‍🌈 associazione di solidarietà LGBT+ di ispirazione cristiana

ℹ️ info:

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mercoledì 1 febbraio 2023

IL VESCOVO DOMENICO MOGAVERO E LA «PIETA'» PER MATTEO MESSINA DENARO



 

PIETA' PER MATTEO MESSINA DENARO? POCA, TROPPA, NESSUNA ?

Intervistato all'improvviso, all'uscita da una chiesa della sua ex-diocesi di Mazara del Vallo, il vescovo emerito Domenico Mogavero, visibilmente commosso al ricordo – fra i tanti delitti di Matteo Messina Denaro – della feroce eliminazione del piccolo Di Matteo, ha dichiarato: “Non è uomo per cui possiamo provare troppa pietà. Ha ammazzato troppo”.

Come avviene in queste circostanze, la frase del prelato ha dato la stura a una girandola di commenti contrastanti, accomunati – forse unanimemente – da una caratteristica: l'assenza di qualsiasi tentativo di capire, di decifrare, prima di sputare la propria sentenza.

Conosco don Mogavero da più di mezzo secolo, ma non così bene da potermi spacciare per suo interprete autorizzato. Perciò, lasciando a lui i chiarimenti su ciò che intendesse affermare, mi limito a commentare la sua asserzione.

La parola-chiave mi pare “pietà” che, avendo smarrito il significato etimologico latino (devozione verso i genitori, gli antenati e gli dei), nell'italiano corrente oscilla fra varie accezioni semantiche.

In un primo senso, il termine allude a un sentimento emotivo di commiserazione suscitato dalla vista di qualcuno che soffre manifestamente. Questo moto psichico si traduce, talora, in piccoli gesti di solidarietà 'corta' come l'elemosina al barbone accucciato su un cartone all'angolo di una strada. Le immagini di un boss ormai non più giovane, in uno stato di salute fortemente compromesso, se non addirittura in fase terminale, potrebbero suscitare questo genere di “pietà”? 

L'ex-vescovo di Mazara del Vallo non sembra escludere questa evenienza e, perciò, mette in guardia l'opinione pubblica dal rischio di un simile “buonismo” a poco prezzo. E' vero che , dopo decenni di sangue, si avverte una stanchezza intima cui si potrebbe reagire – forse anche inconsciamente – con il desiderio di chiudere la parentesi storica della mafia stragista. Però sarebbe un desiderio non solo cieco (nessuno può garantire che i mafiosi ancora liberi rinunzino alla violenza metodica, se necessario eclatante), ma anche immorale perché comporterebbe una sorta di riconciliazione, di riappacificazione, con nemici che non sono minimamente pentiti dei crimini consumati. Nessuno ha diritto di perdonare gli assassini se non le vittime, che però non sono più in grado di farlo – o, per lo meno, di comunicarcelo. 

Ciò che il presule non aggiunge – a mio parere si tratta di omissioni comprensibili nella concitazione di chi risponde a un'intervista inaspettata – è che, esclusa la “pietà” superficiale da telenovela, esiste almeno una seconda accezione del vocabolo: che è la comprensione, razionale e sentimentale, dell'infelicità altrui con il conseguente desiderio che tale infelicità non si aggravi, ma anzi possa in qualche misura essere lenita. Per sperimentare questo stato d'animo occorre una notevole maturità interiore e una saggezza non proprio di tutti. Esso è infatti il corrispettivo – uguale e contrario – dell'odio, dell'ardente sete di vendetta. 

Ebbene, in questo significato, può una persona – tanto più se si riconosce negli insegnamenti evangelici – provare “pietà” per Matteo Messina Denaro?

Se coltivare il risentimento nei suoi confronti ci facesse star meglio, se la vista delle sue ferite alleviasse le nostre cicatrici, se la sua morte arricchisse la qualità della nostra vita, la risposta sarebbe ovviamente negativa. Ma, se ragioniamo con un minimo di distacco emotivo sulla base dei dati offerti dalla storia – dalla grande storia e dalle nostre piccole storie -, sappiamo che non è così. A noi “conviene” che Matteo Messina Denaro, invece di sprofondare nell'inferno della disperazione in cui si trova o in cui si è trovato per sua stessa ammissione, recuperi un minimo di dignità ai propri stessi occhi e decida di intraprendere l'unica strada che può salvarlo (non dall'ergastolo a vita né dall'inferno dei teisti, quanto dalla convivenza irreversibile con il proprio io peggiore): la resipiscenza e la collaborazione con gli organi giudiziari. 

Già in una lettera confidenziale del 1 febbraio 2005 scriveva: “Veda, io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l'inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l'ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede? Credo di no” (M. Messina Denaro, Lettere a Svetonio, a cura di S. Mugno, Stampa Alternativa, Roma 2008, p. 58). Quanto alla morte, aggiungeva il 22 maggio dello stesso anno, “non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni” (p. 68). 

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