martedì 30 aprile 2019

DALLA FATTORIA SOCIALE AL FESTIVAL DELLA FILOSOFIA DI STRADA. E RITORNO.


Come è noto, la Fattoria sociale "Martina e Sara" (presso il tempio di Segesta) è una delle tre realtà che hanno organizzato il Festival della filosofia d'a-Mare a Castellammare del Golfo (Tp).
(Qui sopra due foto gentilmente fornitemi da Christine Reddet: l'ingresso alla Fattoria e uno sguardo sulla campagna che la circonda).
Dopo la passeggiata filosofica (vedi 'post' precedente in questo stesso blog) una buona parte dei presenti si è dunque spostata da Castellammare alla Fattoria sociale per conoscere da vicino questa esperienza.
Con la semplicità, la cordialità e l'autenticità di sempre siamo stati accolti da Giovanna Bongiorno e da Mario Mulé. Dopo le parole di benvenuto di Giovanna, Mario ha illustrato i principi inspiratori generali della Fattoria e ha accennato alle prossime iniziative in programma.
Tra l'altro, Mario ci ha detto che il progetto complessivo della Fattoria può così sintetizzato:

Per la Terra, per l’Uomo, per la Vita.
·      Per la Terra che ha bisogno delle nostre cure. Per noi questo significa coltivazione biologica di colture capaci di fornire cibi essenziali, come ad esempio l’olio d’oliva. Per questo motivo abbiamo piantato circa 2700 piante di ulivo.
·      Per l’Uomo che, in questi ultimi anni, è stato capace di espandere la tecnica al di là di ogni previsione, ma non è stato capace di crescere nella stessa maniera nelle sue qualità essenziali e cioè nell’uso della ragione e nel rapporto con l’altro realizzato nel segno della solidarietà e della compassione.
·      Per la Vita perché essa è un vero miracolo, a cui inchinarsi con il massimo rispetto, qualunque siano le nostre convinzioni sulla sua origine.
Per quanto detto, la fattoria si propone di essere non tanto una azienda produttiva   ( anche se ci auguriamo che ciò possa in qualche misura realizzarsi) quanto piuttosto  un contenitore disponibile per la realizzazione (senza finalità di guadagno) di iniziative - pensate da noi o da altri - che favoriscano gli obiettivi che ci siamo proposti.
Per quest’anno abbiamo stilato un programma d'incontri, in assetto residenziale, sul tema della identità, esplorata a partire da angolazioni diverse e che in fondo si ispira al motto socratico  <<Conosci te stesso>> ".
Il primo appuntamento previsto è stato affidato al filosofo Orlando Franceschelli (Roma) che proporrà alcune considerazioni sulla condizione dell'uomo nel contesto culturale, sociale, politico e tecnologico attuale.
Questo in dettaglio lo svolgimento dell'incontro che avrà il profilo non di un seminario di studi quanto di una sorta di "ritiro spirituale laico" in cui ci sia tutto lo spazio necessario a una silenziosa 'ruminazione' meditativa personale:

Sabato 25 Maggio 2019
Ore 10.00:           accoglienza in Fattoria e sistemazione
Ore 10.30-12.30: relazione di Orlando Franceschelli
Ore 13.00-14.30: pranzo condiviso (con ciò che ognuno vorrà mettere
                                                          sulla tavola)
Ore 16.00-18.00: dialogo comunitario per chiarimenti e approfondimenti
Ore 18.00-20.00: spazio di silenzio per la riflessione individuale
Ore 21.00:           cena in Fattoria (offerta dagli organizzatori)

Domenica 26 Maggio
Ore 8.00-9.00:     colazione in Fattoria (offerta dagli organizzatori)
Ore 10.00-12.00: condivisione dell’esperienza e congedo (è il giorno delle 
                         elezioni europee e si vuole dare a chi lo desideri da possibilità 
                         di  rientrare in tempo in sede per votare)

I presenti siamo stati molto toccati dall'apprendere che, per questo e per altri incontri del genere, NON è prevista nessuna quota di partecipazione. Mario e Giovanna intendono così esprimere il desiderio di contribuire, con un piccolo gesto di solidarietà, alla crescita di un senso etico e civico della società attuale.
Essi indicheranno di volta in volta un'organizzazione (locale o internazionale) a vantaggio della quale , chi può e vuole, potrà lasciare anonimamente un contributo in denaro.
Per ulteriori informazioni e prenotazioni si può scrivere direttamente a
jobongio@alice.it
Nostalgici dei Festival di Castellammare, dunque, non scoraggiatevi: già tra poche settimane ci si potrà rivedere in Sicilia !
                                                                          Augusto Cavadi
                                                                 www.augustocavadi.com

domenica 28 aprile 2019

DOPO IL FESTIVAL FILOSOFICO DI CASTELLAMMARE : CIO' CHE "CI" RESTA...

Con il pranzo di domenica 28 aprile si è conclusa la VI edizione del Festival della filosofia d'a-Mare a Castellammare del Golfo (co-organizzato dal Gruppo editoriale Di Girolamo, dalla Scuola di formazione etico-politica "Giovanni Falcone" e dalla Fattoria  sociale "Martina e Sara"). La gioiosa gratitudine espressa spontaneamente, in pubblico e in privato, dagli oltre settanta partecipanti ha sancito - in maniera inequivocabile - la riuscita dell'esperienza. 
Sarò felice di restituire, in qualche post successivo, dei frammenti (scritti e iconici) di queste quattro, intense, giornate.

Comincio, intanto, con un po' di materiale che ho già a portata di mano.

Al link https://gopro.com/v/OWGaz3JZaR4wK   trovate una breve sintesi fotografica fornitami dalla cara Adriana, senza la cui costante e preziosa presenza la fatica fisica e psichica della gestione dell'evento mi sarebbe riuscita troppo pesante.

Un'altra sintesi, non certo meno efficace e suggestiva, ce l'ha regalata Lorenzo  Raspanti con una composizione poetica letta in sede di agorà plenaria:
"Ciò che mi resta
Abbiamo iniziato un cammino verso il mare
confine che non conosce confini
il mare delle tempeste mute delle sofferenze
relitti
corpi straziati
naufraghi invisibili che cercano invano specchi occhi
mani da salvare
La fitta dolce rete delle passioni dei desideri
a volte cela sguardi di compassione
Forse un giorno sarà amore
Miserere
terra cielo mare martoriato
fetore geneticamente modificato
Saremo ancora capaci di riconoscere la gentile emozione
di un sorriso, di una ruvida carezza?
Nel kaos del breve tempo fragile tutto passa
Ciò che mi rimane addosso non è che polvere
una flebile traccia
frammento di un pizzico di lievito
che ha lo stesso intenso sapore
dello stupore per la bellezza del cosmo".


Aggiungo, a beneficio della memoria di chi c'era e della curiosità di chi non c'era, qualche appunto con cui ho introdotto il primo appuntamento del Festival, la passeggiata filosofica dal belvedere sul golfo ai piedi del castello che presidia l'ingresso del porto (vedi foto nell'incipit di questo messaggio):
"Il Mediterraneo, in linea di principio, sembrerebbe un luogo del pianeta refrattario ai fondamentalismi. Franco Cassano , ad esempio, scrive: 
<<Il Mediterraneo sottolinea il valore della pluralità: nessuna forma di vita è più vicina delle altre alla perfezione. Nessuna tradizione può imporsi alle altre. Il primo comandamento mediterraneo è: tradurre le tradizioni, far sì che gli uomini diventino amici non nonostante le differenze, ma anche grazie ad esse>>.
Purtroppo, di fatto, le cose non sono andate così. L’ebraismo ha prodotto varie interpretazioni, tra cui alcune fondamentaliste; il cristianesimo conosce varie versioni, tra cui alcune fondamentaliste; l’islamismo si è diramato anch’esso in alcune correnti, alcune delle quali fondamentaliste.
Perché, come mai?
Il Mediterraneo alimenta pluralismo, scambi orizzontali, arricchimenti reciproci sino a quando i porti sono aperti. Quando si comincia a chiudere i porti, quando si comincia a erigere mura intorno alle città (a Gerusalemme, al Vaticano, a La Mecca…), le interconnessioni si spezzano. Ogni civiltà si chiude in se stessa, si assolutizza, si isola.
In questi mesi gli animi più sensibili fra noi si preoccupano degli sbarramenti dei porti e dell’erezione dei muri pensando a chi resta fuori, rifiutato. E’ una preoccupazione giustificata e nobile. Ma è solo una preoccupazione a metà. Infatti, quando chiudiamo agli altri, ci chiudiamo noi stessi: ci precludiamo le relazioni, ci isoliamo, ci auto-recludiamo. Ci condanniamo al fondamentalismo".

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 24 aprile 2019

L'ULTIMO LIBRO DI ORTENSIO DA SPINETOLI A MONTEFANO (MACERATA)

Domenica 28 Aprile 2019, alle ore 10,  presso il Centro Studi Biblici “Giovanni Vannucci” di Montefano (Macerata), gli Amici di Ortensio da Spinetoli presenteranno la nuovissima edizione del  libro di p. Ortensio da Spinetoli Introduzione ai vangeli dell'infanzia (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018, pp. 149, euro 15).
L'incontro sarà introdotto dal Direttore del Centro, Fra'  Ricardo Perez Marquez.
Ingresso libero, partecipazione gratuita.
Il libro è disponibile in tutte le librerie fisiche e on line.
       
                                                     ***

Dalla Introduzione di Augusto Cavadi:
QUESTO LIBRO: COME E’ NATO E PERCHE’ E’ RINATO

     La mia generazione è stata sottoposta, negli anni della formazione, a una sorta di ricatto morale da parte di preti e catechisti: “Volete essere cristiani? Allora dovete credere che tutto ciò che è scritto nella Bibbia, specialmente nei quattro Vangeli, è storicamente vero parola per parola; se avete dubbi su questo o quell’altro passaggio, non potete considerarvi credenti”. Così venivano prospettate le cose per chi si preparava alla Prima comunione o alla Cresima su per giù al tempo del Concilio Vaticano II (1963 – 1965). 
    Da allora molte parrocchie, organizzazioni cattoliche e movimenti religiosi hanno fatto importanti passi in avanti: spesso (non sempre !) si insegna ai giovani che seguono le lezioni di catechismo che nei Vangeli, come in generale nella Bibbia, ci sono testi che appartengono ai generi letterari più diversi (il racconto storico, la predicazione omiletica, la preghiera liturgica, l’esortazione morale…) e che  ciascuno di essi contiene qualcosa di essenziale (il messaggio teologico) e qualcosa di accidentale (la “forma” in cui viene presentato). Credente è chi accoglie il messaggio teologico e soprattutto s’impegna a viverlo concretamente nel quotidiano, non chi accetta letteralmente ogni possibile veicolo su cui tale messaggio viene trasportato.
    Per far comprendere la necessità di distinguere i contenuti (validi, preziosi) dai contenitori (secondari, contingenti) molti studiosi hanno lavorato molto  e persino sofferto molto: specie la Chiesa cattolica ha contrastato duramente, sin dal primo apparire, molte novità nei metodi d’interpretazione e ha condannato chi le ipotizzava all’emarginazione dalle cattedre universitarie e talora dall’esercizio del ministero presbiteriale. Ma la verità – in qualsiasi ambito e a qualsiasi livello si profili – finisce, prima o poi, col prevalere. Anche nel campo delle scienze (in questo caso delle scienze bibliche) si hanno continue trasformazioni: ma se non si può accettare come definitivamente vera una teoria (dopo un anno o un decennio qualche nuovo studioso può metterla seriamente in discussione), si possono cassare come definitivamente false altre teorie (che nessuno potrà mai seriamente riesumare). Dopo Tolomeo c’è Copernico, dopo Copernico Newton e Galilei, dopo Newton e Galilei c’è Einstein e così via senza un punto di arrivo definitivo: ma è ipotizzabile che qualcuno, tra un secolo o tra mille anni, possa scoprire che la Terra è il centro dell’universo, che è immobile e che sia il sole a girare intorno ad essa ?
    Tra gli studiosi che hanno dedicato la vita alla esegesi(o spiegazione) delle Scritture c’è stato Ortensio da Spinetoli (1925-2015) al quale, per le sue tesi innovative, è stato tolto ogni incarico di insegnamento e persino vietato di vivere nei conventi dell’ordine dei Frati Cappuccini cui apparteneva. Quanti abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo andavamo a trovarlo nella modestissima casetta del guardiano del cimitero di Recanati, la cui famiglia l’aveva generosamente accolto al momento dell’esilio e accudito sino alla fine. 
    Se si esclude un recente libro postumo di Ortensio[1], alcuni testi sono in via di esaurimento presso le varie case editrici e altri ormai del tutto  introvabili (sia nelle librerie che in molte biblioteche). Tra questi un piccolo gioiello intitolato Introduzione ai vangeli dell’infanziache è stato edito una prima volta dalla Queriniana di Brescia nel 1967 e, in versione “rivista e ampliata”, una seconda volta dalla Cittadella di Assisi nel 1976. Dalla seconda edizione sono trascorsi quarant’anni e più, ma – come accade ai libri scritti con convinzione e competenza – non sembrerebbe che la mole di studi pubblicati successivamente lo abbiano reso uno strumento superfluo. Lo specialista di scienze bibliche, ma soprattutto l’uomo di media istruzione che voglia capire (indipendentemente dalla sua personale posizione di fede religiosa) con quali accorgimenti scientifici accostarsi alle prime pagine di Matteo (1-2) e di Luca (1-2), troveranno delle indicazioni orientative semplici ma basilari: già illuminanti in se stesse, possono inoltre preparare a leggere ricerche più recenti e più approfondite sulla medesima tematica.
   Tre notazioni ancora,  prima di lasciare la parola a Ortensio da Spinetoli.
   La prima di carattere tecnico: l’edizione del 1976 (che ripubblichiamo per gentile concessione di Cittadella Editrice) conteneva una bibliografia sterminata. Riprodurla oggi per intero sarebbe stato un “inutile fardello”: troppo pesante per chi si accosti ai testi evangelici da lettore curioso, ma digiuno di studi nel settore; troppo datataper chi, ben introdotto nelle discipline bibliche, lamenterebbe giustamente la mancanza di quella messe di titoli, altrettanto sterminata, che è fiorita negli ultimi quattro decenni. Ci siamo rassegnati, dunque,  a operare dei tagli (si spera non troppo arbitrari).
   La seconda notazione riguarda l’accettabilità delle tesi di Ortensio in base ai criteri dell’ortodossia ecclesiale. Questo libro del 1976 si chiude con un capitolo di “precisazione metodologica” in cui l’autore invitava l’esegeta, il teologo sistematico (o, come si diceva allora, “dogmatico”) e il membro della gerarchia ecclesiastica (papa o vescovo) ad accostarsi alla Bibbia con lucido senso dei limiti delle proprie competenze, non rispettando i quali  “si cade nel razionalismo (a cui arriva l’esegeta che non si attiene alle segnalazioni dei teologi o ai richiami precisi dei maestri autorizzati), nell’arbitrarietà (quando il teologo interpreta qualsiasi libro biblico con il metodo e i mezzi suggeriti unicamente dalla sua disciplina), nell’abuso di potere (se da un’indiscussa competenza giurisdizionale si deducesse un’identica autorità in campo storico-filologico)”. Parole sante, si direbbe, che non hanno perduto certo di attualità. E che dovrebbero meditare soprattutto gli odierni paladini della restaurazione ecclesiale in scomposta agitazione contro quanti, come papa Francesco, praticano il rispetto delle competenze e dei carismi. 
Nel 2014, un anno prima di spirare, il mite e coraggioso Ortensio scriveva: “Le mie indicazioni possono apparire troppo innovative, ma rispetto al progresso che ha fatto, sta facendo in questi ultimi anni e farà presto la scienza biblico-teologica, i competenti e gli informati non possono che definirle <<conservatrici>>”[2]. La sua considerazione è perfettamente valida anche per questo saggio sui vangeli dell’infanzia: un saggio che poteva apparire scandaloso negli anni Settanta del secolo scorso, ma che oggi risuona sin troppo timido se raffrontato a studi successivi come La nascita di Gesù tra miti e ipotesi del vescovo episcopaliano Spong [3].
  La terza  - e ultima -  notazione è di carattere, per così dire, epistemologico. Pur sfrondato da molti riferimenti bibliografici, questo volume di Ortensio resta uno strumento “scientifico”. L’aggettivo suscita spesso diffidenza, se non ostilità: la Bibbia non va letta col “cuore” più che col cervello, con l’intuizione più che con la ragione analitica? Vero. Anzi, verissimo. Le scienze bibliche hanno, fra i tanti meriti, anche questo: ci dimostrano, in maniera difficilmente contestabile, in che senso il nostro accostamento alle Scritture debba essere caratterizzato da “ingenuità”. Non l’ingenuità dell’ignorante che confonde i “generi letterari”, che non distingue una fiaba da una testimonianza giudiziaria, che neppure sospetta la differenza culturale fra la sua epoca e i millenni lontani in cui sono state redatte le pagine che ha davanti in traduzione nella propria lingua. No: si tratta piuttosto della “ingenuità” laboriosamente conquistata da chi ha imparato a mettersi davanti a una pagina di poesia, ricca di simboli e di metafore, con atteggiamento ben diverso da quando esamina un documento storico o un trattato di filosofia teoretica. Ortensio da Spinetoli è tra quegli autori meritevoli che ci restituiscono la possibilità di respirare il fascino dei racconti sull’infanzia e l’adolescenza di  Gesù di Nazareth, di lasciarci cullare dalla loro antica nenia popolare, senza per questo bloccarci a livelli di comprensione magica o miracolistica. Potremo serenamente raccoglierci in commossa meditazione davanti ai presepi natalizi pur sapendo di non essere davanti alla ricostruzione plastica di eventi accaduti esattamente come sono stati narrati dalle fonti canoniche ed extra-canoniche dell’ampia, variegata, tradizione cristiana.  La poesia autentica è una verità più profonda, non un suo surrogato. In un certo senso, dopo aver letto questo libretto, potremo far nostra una considerazione di Pablo Picasso: ho dovuto lavorare sodo e impegnarmi a lungo per riuscire a dipingere come un bambino.

Augusto Cavadi
                                                                                         www.augustocavadi.com
    


[1]L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano 2017.
[2]Ivi, p. 65.
[3]J. S. Spong, La nascita di Gesù tra miti e ipotesi, Introduzione e cura di don Ferdinando Sudati, Massari, Bolsena (Vt) 2017.


martedì 23 aprile 2019

L'AMORE SPIEGATO DA ALBERTO GIOVANNI BIUSO A CASTELLAMMARE DEL GOLFO (TRAPANI)


Pur sapendo che mai raggiungerò l’amorosa quiete delle tue braccia, in cui drammi e desideri saranno appagati e redenti, io continuo a spogliarmi di ogni cosa, continuo a barattare la mia forza con l’istante del tuo sguardo, a rinunciare al mio sorriso per il tuo. Teso verso l’impossibile, il mio discorso è un soliloquio. L’Altro, infatti, è una figura del linguaggio.
Questo ho imparato e questo cercherò di argomentare nella prima delle due conversazioni -dal titolo La passione amorosa– che terrò alla sesta edizione del Festival della filosofia d’A-Mare di Castellammare del Golfo il 26 aprile. Spiegherò dunque finalmente in che cosa consista l’enigma dell’amore 😉
L’altra conversazione, prevista per il 28 aprile, ha come argomento Essere animali.



 Al Festival parteciperanno filosofi e amici di tutta Italia.
 Ecco il programma completo, che si può leggere anche qui di seguito.
                                                                 (Alberto Giovanni Biuso)

lunedì 22 aprile 2019

COS'E' UNA PASSEGGIATA FILOSOFICA? GIOVEDI' 25 APRILE 2019 VIENI E VEDI...


COS’E’ UNA PASSEGGIATA FILOSOFICA ?
L’esistenza di ciascuno di noi può anche essere letta come una passeggiata,
 più o meno lunga e più o meno allegra, dalla culla alla tomba.
 L’essere umano - è stato più volte notato- è un viator, un nomade, un migrante: solo quando dimentica questa sua condizione di base, vuole fermarsi e mettere radici. 
Con qualche vantaggio e molti svantaggi.
La pratica filosofica che, da molti anni, mi piace denominare “passeggiata filosofica” 
intenderebbe ricordarci che la vita può e deve conoscere soste, 
ma come tappe di un cammino di esplorazione, di ricerca, di scoperta, di confronto.
Questa pratica, infatti, ci coinvolge – in modalità estremamente semplici  –
sin dalla nostra più elementare corporeità:
ci si raduna in un luogo; 
il filosofo suggerisce in pochi minuti un tema di riflessione;
il gruppo si avvia in silenzio per una decina di minuti verso la prima tappa dove, chi vuole, esterna agli altri qualche pensiero maturato;
si passa quindi a una seconda tappa dove, nuovamente, chi vuole socializza ciò che gli è venuto in mente durante la meditazione ambulante;
infine si raggiunge una terza e definitiva tappa dove avviene l’ultimo scambio di intuizioni.
E’ dunque una pratica in cui esercitare vari atteggiamenti tipicamente filosofici:
 il silenzio (fisico e interiore); 
l’ascolto rispettoso dei pensieri altrui; 
l’elaborazione di propri pensieri originali;
 la sintonia corporea con il passo degli altri, evitando le fughe in avanti come di isolarsi restando troppo indietro. 

La prossima passeggiata filosofica è prevista giovedì 25 aprile 2019 a Castellammare del Golfo (Trapani) nell’ambito di “Festival della filosofia d'a-Mare” (Manifestazione di "filosofia per non…filosofi”).
Appuntamento davanti Hotel Al Madarig alle ore 16,30 (esatte).
Per ulteriori informazioni sul Festival: 

sabato 20 aprile 2019

L'ORIGINARIO SIGNIFICATO "LAICO" DELLA PASQUA CRISTIANA


20.4.2019

IL SIGNIFICATO ORIGINARIAMENTE LAICO DELLA PASQUA CRISTIANA

Secondo il convincimento più diffuso fra gli storici, Gesù di Nazareth sarebbe morto nel 30 d. C. Aveva annunziato come ormai prossimo, anzi imminente, l’avvento del “regno di Dio”: di una nuova epoca in cui affamati di pane e assetati di giustizia, sofferenti di ogni specie, sarebbero stati soccorsi, riscattati e restituiti a dignità. Invece la crocifissione sancisce, in maniera clamorosamente eloquente, il fallimento delle sue aspettative.
Da qui la dispersione del piccolo gruppo di uomini e donne che lo avevano accompagnato nei due o tre anni precedenti, condividendone – sia pure in maniera un po’ confusa e approssimativa – le attese. Ognuno torna a casa, alla routine di sempre. La rassegnazione seppellisce, come una pietra tombale, i fermenti profetici del rabbino nomade.
Poi (quando? tre giorni dopo la sepoltura ? dieci giorni dopo? cinquanta giorni dopo?) alcuni e alcune dei discepoli provano un’esperienza spirituale imprevista. E’ un’esperienza che li convince del fatto che il loro Dio, Jahvé, non ha abbandonato nell’oscurità della morte, del nulla, il Maestro di Galilea; che questi, in una modalità completamente diversa dalla presenza bio-fisica precedente, è vivo e attivo in mezzo a loro. Come esprimere questa convinzione? Con quali simbologie, con quali categorie letterarie? La storia della mistica di tutte le religioni sinora apparse sulla Terra attesta che, quando si sperimenta il divino (o, comunque, si ritiene di sperimentarlo), mancano le parole per raccontarlo. 
Sui primi venti o venticinque anni dopo la morte di Gesù non abbiamo tracce scritte. E’ dopo l’anno 50 d. C. che un fariseo convertito, Paolo di Tarso, comincia mettere nero su bianco per esprimere la sua convinzione che Gesù, grazie a Dio e in Dio, è stato “risvegliato” dai morti e costituito “Signore” della nuova umanità. Da quel momento si moltiplicano i tentativi di dire l’indicibile: Gesù è “risuscitato”, è stato “elevato al cielo” (come si narrava del profeta Elia), è “presente” dove due o tre si riuniscono nel suo nome. I quattro evangelisti prescelti dalla Chiesa come “canonici” ricorrono a vari miti, immagini, della tradizione ebraica (non nettamente distinta da altre tradizioni religiose dell’epoca), ma – quando i vangeli si diffondono nel mondo latino e greco – quelle narrazioni poetiche vengono prese alla lettera, come resoconti storico-fattuali. 
Siamo arrivati dunque allo stravolgimento dei nostri giorni: l’essenziale non è più testimoniare la novità della vita cristiana, spendendosi nell’autodonazione ai disgraziati del pianeta, ma disputare teologicamente su che cosa sia consistito davvero l’evento che ha trasformato un drappello di delusi in una comunità di militanti del “regno di Dio”. 
Oggi i teologi più aggiornati e più liberi lo dicono con franchezza: leggere i racconti pasquali alla lettera significa proporre dei dogmi che “nessuna mente del ventunesimo secolo può ancora abbracciare”. Là dove le chiese istituzionali perseverano nel “letteralismo biblico” è perché cercano un alibi che esonerino i fedeli  dal vivere il perenne messaggio ‘laico’ di Gesù: “essere pienamente umani” e “abbracciare l’insicurezza senza costruire steccati di protezione” (J. S. Spong).

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

venerdì 19 aprile 2019

FILOSOFARE: UN DIRITTO/DOVERE DI TUTTI. CASTELLAMMARE CI ATTENDE !


19.4.2019

FILOSOFARE NON E’ AFFARE ESCLUSIVO 
DEI FILOSOFI DI PROFESSIONE


Succede anche questo. Ogni anno, da sei anni, centinaia di persone si danno appuntamento in una splendida località del Mediterraneo – Castellammare del Golfo, nella Sicilia occidentale – per “confilosofare”. Per pensare insieme, scambiarsi intuizioni e riflessioni, conversare a tavola o passeggiando. Tra filosofi di professione? Non solo. E non soprattutto. Infatti il “Festival della filosofia d’a-Mare” non è un convegno per specialisti, ma un appuntamento dedicato a coloro che – nel resto dell’anno – fanno tutt’altro. Ma che per tre o quattro giorni vogliono staccare la spina, dedicarsi un po’ di tempo in compagnia di gente che accorre da tutta Italia (veramente qualcuno anche dall’Estero) per confrontarsi su alcune tematiche esistenziali, etiche e teoretiche.
Si comincerà alle 16,30 di giovedì 25 aprile con una “passeggiata filosofica” di un’oretta guidata da Augusto Cavadi: un breve tragitto a piedi per le vie della cittadina trapanese intervallato da alcune soste nel corso delle quali chi vorrà suggerirà al gruppetto dei “viandanti” una sua considerazione sul tema dell’anno (“Che cosa mi dice la contemplazione del mare?”).
Alle 18 ci si sposterà nei pressi del Teatro greco di Segesta e si visiterà la Fattoria sociale “Martina e Sara”: un luogo di accoglienza e di ricarica interiore dove la coltura dei campi (agri-coltura) si annoda con la coltura dell’anima (animi-coltura). Verranno brevemente presentati i week-end estivi con filosofi, psicologi, sociologi, poeti e astrofili.
Alle 21, nel Teatro comunale di Castellammare, saranno il violino di Giorgio Gagliano e il pianoforte di Gabiele Catalanotto a chiudere la giornata e a predisporre gli animi alla successiva. Che si aprirà, al Castello, con una lezione pubblica di Alberto Giovanni Biuso su La passione amorosa. I partecipanti potranno, quindi, suddividersi in vari “laboratori di con-filosofia” e, con la sapiente regia di Marta Mancini e Chiara Zanella, scambiarsi esperienze e idee sull’argomento.
Alle 16,30, sempre nello stesso meraviglioso Castello sul mare, toccherà a Giorgio Gagliano illustrare il suo punto di vista su I molti volti della sofferenza: conferenza in plenaria cui seguiranno nuovamente dei “laboratori” in gruppi più ristretti.
Stesso modulo (conferenza generale e poi dialoghi tra poche decine di persone in modo da stimolare tutte e tutti a prendere la parola, senza inibizioni né timori) la mattina di sabato 27: Orlando Franceschelli introdurrà la scottante problematica intorno a Natura umana, biotecnologie e poteri economico-sociali.
La sera, di nuovo al Teatro comunale, Manuela Pascolini e Antonio Carnicella offriranno una “lettura interpretata” de La commedia dei filosofi di Albert Camus. 
Domenica 28, prima del pranzo conclusivo, saranno offerti in contemporanea altri tre laboratori di con-filosofia tra i quali i presenti potranno scegliere: Mistica cristiana e mistica buddhistaEssere animaliElogio della solidarietà samaritana
Poiché il Festival non ha scopo di lucro è previsto un piccolo contributo di 10,00 euro al giorno che possono ridursi a 20,00 euro in tutto per chi sceglie il pass completo per i quattro giorni. Sulla pagine FB filosofiadamarele indicazioni sugli alberghi in convenzione, ma un numero di cellulare è a disposizione di chi volesse ulteriori informazioni o avesse bisogno di qualsiasi genere di assistenza (Rosanna Fasulo: 328.3369985). 
In una fase culturale e politica che, eufemisticamente, potrebbe qualificarsi un po’ confusa non sarebbe male che si diffondessero in Europa occasioni del genere: perché la democrazia si nutre di tanti alimenti, ma in primo luogo di informazione corretta e di capacità critica. Se ci si illude che le grandi sfide epocali si possano affrontare a colpi di battute sarcastiche, di slogan sui social mediae di sondaggi degli umori…si rischia di svegliarsi troppo tardi in una immensa prigione dove pochi comandano e gli altri devono ubbidire. 

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

https://www.zerozeronews.it/filosofia-damare-extra-web-e-pret-a-porter/

mercoledì 17 aprile 2019

IL BENE E IL MALE SECONDO ORLANDO FRANCESCHELLI



Natura umana, biotecnologie e poteri economico-sociali sarà il titolo della lezione che terrà sabato 27 aprile 2019, alle ore 9.30,  Orlando Franceschelli nell'ambito del Sesto Festival di "Filosofia d'a-Mare" a Castellammare del Golfo (Trapani).  A seguire i partecipanti potranno partecipare ai laboratori di "con-filosofia" che Augusto Cavadi, Marta Mancini e Chiara Zanella terranno sul tema della conferenza di Franceschelli.
Il filosofo molisano si è occupato di queste problematiche nella sua ultima pubblicazione di cui riporto, qui di seguito, la mia recensione apparsa sulla rivista on line (gratuita) "Phronesis".
                                                                        ***
“Phronesis”, anno 1, Seconda serie, n. 1
Marzo 2019

C’E’ ANCORA UNA DIFFERENZA FRA BENE E MALE?
In dialogo con Orlando Franceschelli

   Tra le questioni che più frequentemente vengono proposte a un filosofo consulente da parte di singoli interlocutori, o di piccoli gruppi omogenei di committenti, si registrano senza dubbio le problematiche etiche. Ognuno di noi assorbe, sin dal latte materno, delle convinzioni sulla distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male; e le conserva anche a lungo sino a quando persone o avvenimenti non le mettono in crisi. Infatti, se nessuno ci chiede ragione del perché riteniamo un’azione buona e un’altra disdicevole, procediamo determinati come treni su binari ben piantati. Se invece qualcuno ci interroga in proposito si configura un bivio: o interrompiamo, anche violentemente, la comunicazione (compromettendo la stessa relazione interpersonale) o, più raramente, ci mettiamo – talora anche con l’aiuto di un filosofo consulente – alla ricerca dei fondamenti delle nostre convinzioni morali. 
  Sappiamo che, in questi casi, il ruolo del consulente (almeno in una prima fase della relazione professionale) potrebbe consistere  nel  sondare nel consultante una qualche forma di coerenza logica fra alcune sue premesse di ordine generale (ontologiche e antropologiche) e le sue conclusioni pragmatiche; solo in una seconda fase , una volta accompagnato l’interlocutore a uscire dalla contraddizione schizofrenica fra alcuni princìpi e alcune conseguenze operative, potrebbe essere opportuno (con il consenso del consultante stesso) risalire al nucleo fondante della sua visione-del-mondo per sottoporla – dialogicamente -  a critica. Per far questo, il consulente deve avere una panoramica abbastanza completa degli scenari possibili, almeno nell’epoca contemporanea, in ambito ontologico, antropologico e etico.
  Tra questi scenari occupa un posto di rilievo – sia dal punto di vista della diffusione sociologica  sia soprattutto dal punto di vista della consistenza teorica – la prospettiva “naturalistica” che, dopo Spinoza e Feuerbach, ha trovato delle conferme sperimentali formidabili nella biologia evoluzionistica darwiniana. Ed è all’interno di questa (per altro variegata) angolazione filosofica che Orlando Franceschelli, preoccupato da possibili derive relativistiche in senso nichilistico, propone  la sua teoria etica nel  recentissimo In nome del bene e del male. Filosofia, laicità e ricerca di senso (Donzelli, Roma 2018, pp. 189, euro 17,00). Il suo pensiero, limpido ma profondo,  mi stimola a una triplice operazione: sottolineare l’impianto metodologico della ricerca; richiamare i tasselli principali cui essa perviene e che, insieme, costituiscono un quadro logicamente coerente; quindi, in un terzo momento, sollevare alcune riserve sulla sua  prospettiva ontologica e antropologica di partenza.
   L’impianto metodologico mi sembra particolarmente congeniale all’approccio di un consulente filosofico che, pur nel rispetto pregiudiziale per tutte le idee del consultante, deve aver chiara (almeno dentro di sé) la differenza fra teorie “plausibili” e teorie manifestamente inverosimili. E appunto a una “epistemologia della plausibilità” (pp. 49 - 50) si appella Franceschelli, intendendola come “sinergia tra filosofia e scienza” ossia come produzione di “valide argomentazioni razionali” senza “entrare in conflitto con l’attuale visione scientifica del mondo” (p. 50): epistemologia a cui “non può non accompagnarsi anche una pedagogia della plausibilità, ossia la laica disponibilità al dialogo e a rivedere la propria visione del bene e del male – nonché la condotta pratica che essa ispira – ogni volta che ci si trovi di fronte a evidenze empiriche o ad argomentazioni prima sconosciute o scarsamente considerate” (p. 50). 
   Con queste premesse di metodo, l’autore entra nel merito delle questioni prendendo l’avvio dalla prospettiva ontologica e delineando, in proposito,  due scenari principali. 
   Il primo è dominato dal “principio creazione”  (p. 15): le cose  sono “creature” che devono a un Essere creatore l’esistenza, la quale è in se stessa un bene. Di conseguenza “anche le nostre valutazioni di bene e male devono confrontarsi con i valori e i fini che il creatore, secondo il suo provvidenziale disegno, ha incorporato nella stessa realtà empirica dell’universo” (p. 16). 
   Il secondo scenario è dominato dal “principio natura” (p. 17): le cose sono “indipendenti da ogni potere e disegno della mente-volontà di un agente soprannaturale” (ivi) e in esse, generate dalla natura e soggette a “inesauribile divenire” (pp. 17 – 18), “non è inscritto o incorporato alcun valore morale e alcun senso-fine ultimo” (p. 17).
   All’interno delle grandi prospettive onto-cosmologiche troviamo, come caso particolare, la questione antropologica. A proposito della quale l’autore riprende la contrapposizione fra ottica naturalistica (secondo cui gli esseri umani sono “una delle tante forme di vita []emerse dallafucina cosmica che è al di là del bene e del male”, p. 31) e l’ottica teistica (secondo cui essi non sono effetto accidentale dell’evoluzione cosmica ma rientrano a pieno titolo nel “provvidenziale disegno” del Creatore).
   Poiché l’autore si riconosce all’interno delle concezioni naturalistiche sia in ontologia che in antropologia, le conseguenze etiche che gli interessano non derivano dal “trinomio Dio-uomo-mondo” bensì dal “binomio mondo-uomo” (p. 17): e si tratta di conseguenze assai lontane dal nichilismo rinunciatario o, peggio, aggressivamente dominatorio (alla Nietzsche). Infatti esse si fondano su due “segnavia” (o “formule imprescindibili”): la prima prescrive di procedere “al di là del bene e del male soprannaturali e naturali, ossia al di là di ogni concezione di entrambi condizionata da prospettive teologiche o antropomorfiche” (p. 35); la seconda – che integra dialetticamente la prima – prescrive, spinozianamente, che “bonum et malum retinenda sunt” (p. 37). Dunque: “male e bene non esistono veramente: non si trovano in qualche cielo metafisico e non sono incorporati nella realtà naturale (prima formula). Essi però a noi esseri umani appaiono come tali, ossia per noi costituiscono un problema che non possiamo non affrontare (seconda formula)” (p. 38). 
  Come homines sapientes abbiamo a disposizione “empatia e ragione” (p. 63) grazie al cui connubio ci è possibile individuare quegli atteggiamenti, personali e collettivi, atti a “contrastare la fonte del sommo male morale (l’indifferenza verso la sofferenza) e a far fiorire il sommo bene terreno (la possibile felicità di ogni essere senziente)” (p. 77). Franceschelli stesso dedica tutta la parte construens del suo denso testo ad esemplificare come “l’identificazione del bene con la felicità possibile e del male con l’indifferenza verso la sofferenza” potrebbe contribuire ad affrontare alcune scottanti questioni del nostro tempo: “dignità e diritti degli esseri senzienti; utilizzazione della crescente potenza della tecnica, a cominciare dalle bio-tecnologie; solidarietà samaritana verso chi soffre; cooperazione a favore dei beni comuni, incluso il godimento di quello che certo rientra tra i più preziosi e feriti: la bellezza in ogni sua manifestazione” (p. 83).

   Pur se brutalmente sintetizzato (anche per lasciare nel lettore della recensione la curiosità di fruire direttamente delle sue pagine)  il discorso di Franceschelli suscita riflessioni, perplessità e obiezioni  che proverò a esternare nello stesso atteggiamento di concordia (convergenza di cuori pensanti !) di cui egli dà ancora una volta testimonianza[1].
   La mia prima considerazione riguarda il passaggio dal “trinomio Dio-uomo-mondo” al “binomio mondo-uomo” (p. 17): questo “congedo”, che non ha nulla di nostalgico, anzi viene designato anche come “affrancamento” e “emancipazione” (termini tutti che non gettano una luce molto favorevole sul termine a quo), da cosa è giustificato? Anche in questo testo, come nei precedenti, mi pare di cogliere nell’autore un’oscillazione fra due posizioni: sembrerebbe da una parte che in omaggio al suo “scetticismo” consideri le due teorie ugualmente “plausibili”, ma dall’altra che la teoria teistica lo sia assai scarsamente e la teoria a-tea molto di più. Mi chiedo quanto siano compatibili scetticismo e  ateismo: non  costituisce quest’ultimo  una posizione un po’ troppo ‘forte’ per uno ‘scettico’ (proprio come lo sarebbe, d’altronde,  il teismo creazionistico)?  Poiché escludo che in un filosofo si possano dare preferenze davvero immotivate, quasi dogmatiche[2],  avanzo un'ipotesi esegetica: Franceschelli, acuto e stimato studioso di Karl Löwith, registra quasi come incontrovertibile l’orientamento ateo del pensiero moderno dopo Spinoza, Hume, Feuerbach e Nietzsche. 
   Se questa mia spiegazione fosse fondata, mi sorgerebbero due perplessità. La prima riguarda una questione di fatto, storica: nel pensiero moderno  troviamo orientamenti altrettanto rilevanti, ma non certo atei, come Cartesio – Locke- Voltaire - Kant – Hegel – Schelling- Jaspers. La seconda perplessità è di principio: se Franceschelli fosse storicista, potrebbe esonerarsi dalla fatica di giustificare il suo ateismo appellandosi al principio che  lo sviluppo storico è di per sé evoluzione teoretica. Ma egli, che da decenni si è lasciato consapevolmente alle spalle il marxismo, si vieta da sé il  ricorso (sia pur tacito) al criterio della verità come figlia del tempo. 
   La problematica, dunque, appartiene per intero al piano teoretico-ontologico: il principio natura (p. 17) è davvero più convincente del principio creazione (p. 15)? Sarebbe ridicolo affrontare in questa sede l’interrogativo. Posso solo accennare ad alcune considerazioni per cui lo ritengo tuttora legittimo. Come vedo attualmente le cose, l’universo è una sorta di frutto maturo in evoluzione (per certi versi) e in deperimento (per altri versi). Le scienze hanno il diritto/dovere di indagare questo dato empirico, osservabile, misurabile, nella speranza di darci delle risposte a domande tutt’ora aperte (sull’età del cosmo, sulle sue dimensioni quantitative, sull’eventuale esistenza di cosmi paralleli…). Gli esseri umani possiamo fermarci a questo approccio fenomenologico, descrittivo; oppure sporgerci su una domanda meta-scientifica: perché questo universo, o questo eventuale pluriverso, esiste anziché no? E’ la domanda di chi guarda wittgensteiniamente il mondo come una noce racchiusa nelle mani di un bambino e si chiede, con Leibniz e con Heidegger, come mai esista qualcosa anziché il nulla.  
    A questa domanda si può rispondere, come opportunamente ricorda Franceschelli, in almeno due modi alternativi[3]: il mondo è “creatura” (la sua esistenza “dipende necessariamente dalla scienza, potenza e benevolenza di un padre celeste”) (p. 15) oppure è ”natura” (“la totalità cosmica è una realtà generata spontaneamente da madre natura”) (p. 17)[4]. Ciò che mi preme notare, innanzitutto, è che entrambe queste risposte sono filosofiche. Nel discorso di Franceschelli mi pare adombrata un’illusoria differenza fra chi fa metafisica (qualsiasi forma di teismo) e chi non la fa (qualsiasi forma di ateismo), laddove sono convinto che affermare che la “natura” sia evidente non implica che lo sia il “naturalismo”. In altri termini: che la natura sia è un dato evidente, che esista-solo-la-natura è una tesi metafisica esattamente come la tesi che non-esiste-solo-la-natura (uso l’aggettivo metafisico come sinonimo di ontologico, non di sopra-naturale; forse sarebbe meglio sostituirlo con intra-fisico). Aggiungo che ciascuna di queste due tesi comporta serie obiezioni e aporie, ma – appunto – ciascuna delle due (e non la tesi creazionistica soltanto). Come conciliare una qualche intenzionalità benevola nell’ipotetico Fondamento assoluto dell’universo con la marea incontenibile di sofferenze constatabili dappertutto ?[5]E, però, d’altra parte, dire che “la totalità cosmica […]è generata spontaneamente da madre natura” (p. 17) non significa affermare che il mondo (per ipotesi privo di autocoscienza e di intenzionalità) è il Fondamento assoluto di se stesso, dal cui nocciolo caotico per un gioco di improbabilissime probabilità si è evoluto questo cosmo e, in esso, si sono configurati del tutto casualmente animali autocoscienti e progettanti come gli esseri umani?   Qui il vocabolario consueto non ci supporta più. Se si adotta un’angolazione ontologica, secondo cui tutto ciò che è  è evocabile come “essere”, l’ambito della natura percepibile certamente è; ma si spiega da sola o possiamo – se non addirittura dobbiamo – ammettere che esista un ambito non sopra-naturale, ma super-naturale, iper-naturale, che rientri esso stesso nel grande mare dell’essere ?

   Senza inoltrarmi in una diatriba millenaria, mi limito a segnalare un’implicazione fondamentale: a differenza di quanto sostiene l’autore, in entrambe le prospettive metafisiche il cosmo fisico si svolge su un registro “extramorale”. Per chi crede in un Dio come per l’ateo, la pioggia che cade sui campi aridi non è più “buona” del fulmine che incenerisce un contadino. Ma allora che farsene dell’adagio tomistico del bonum et ens convertuntur (“l’esistenza delle cose è in se stessa un bene”)(p. 16)? Qui si tratta del bene ontologico che non va confuso con il bene morale. Nerone o Hitler in quanto esseri viventi, pensanti, volenti…sono un quid positivo: costituiscono un bonummaggiore, ad esempio, di una pietra. I loro pensieri, i loro sentimenti, le loro azioni…valutati non in sé stessi, ma in relazione al resto dell’umanità, sono condannabili: moralmente un malum.La vita biologica, piscologica, intellettuale è sempre una ricchezza preziosa (Hegel ha scritto in proposito pagine efficaci), un “bene” “al di là”, o meglio “al di qua”, del “bene e del male” in senso etico. Con un’immagine (forse claudicante): tutto nell’universo è preferibile al nulla, se si prescinde dal rapporto con gli uomini; tutto, invece, diventa preferibile o meno al nullain relazione all’uso che gli esseri umani ne possono fare. L’energia atomica è ontologicamente una risorsa e moralmente neutra: solo l’uso tecnologico e politico la può rendere moralmente valutabile. Se queste mie considerazioni – che ritengo del tutto in linea con la costante tradizione giusnaturalistica, anche cristiana – sono valide esse fondano la possibilità, anzi la imprescindibile necessità, di un confronto paritetico sulle questioni morali tra “creazionisti” e “naturalisti”: quale che sia il loro pensiero in ontologia, sono ugualmente disarmati di fronte alle sfide etiche. Per nessuno dei due esistono, in sede di giudizio morale, “i valori e i fini che il creatore, secondo il suo provvidenziale disegno, ha incorporato nella stessa realtà empirica dell’universo” (p. 16). Che da un accoppiamento eterosessuale possa generarsi una nuova vita è, in sé, sempre e comunque un bonum: se, quando, per quali ragioni, a che condizioni sia moralmente un bonum o un malum interrompere lo sviluppo di uno zigote (o di un embrione) è una questione che va affrontata con gli strumenti della ragione dialogante, a prescindere dalle proprie convinzioni teologiche e/o metafisiche[6]
  Se l’etica è, come sostiene Luigi Lombardi Vallauri, “a-tea” (nello stesso senso in cui lo è la matematica) – almeno sin quando si tratta di determinare le norme della convivenza civile, senza arrivare alla eventuale fondazione ultima delle stesse – non altrettanto si può dire della sua autonomia rispetto all’antropologia: le nostre etiche, infatti, sono strettamente legate alle nostre concezioni (filosofiche) dell’essere umano. E anche da questa angolazione ritorna l’alternativa tra teismo creazionistico e naturalismo immanentistico. 
Darwin insegna che l’essere umano è il risultato di un’evoluzione dovuta all’intreccio di mutamenti genetici accidentali e di condizioni ambientali favorevoli; a questa tesi le religioni monoteistiche hanno, tradizionalmente,  opposto la convinzione che la comparsa dell’uomo fosse il fine dell’universo e di tutte le possibili specie viventi. Personalmente ritengo che  simile convinzione teologica, alla luce delle conoscenze astronomiche e astrofisiche attuali, sembra davvero assai poco sostenibile, se non addirittura risibile. Ma negare ogni delirio antropocentrico significa, necessariamente, optare per la tesi che siamo frutto del “caso” e della “necessità”? Che solo una fortuita concatenazione di incidenti nel percorso biologico abbia portato qualche ameba a diventare progenitore di Michelangelo, di Shakespeare e di Beethoven ? Che gli animali respiriamo, comunichiamo nell’intesa e nella lotta, ci riproduciamo… solo per una concatenazione di fattori imprevedibili grazie ai quali la temperatura atmosferica si è attestata in un range tale da non sopprimerci per l’eccesso di freddo e da non soffocarci per l’eccesso di caldo? Grazie ai quali troviamo nel pianeta di che sfamarci e di che dissetarci? Non ci vuole troppa “fede” per credere questo? Ovviamente non si tratta di mettere in discussione le acquisizioni (per la verità sempre riviste e precisate) delle scienze positive: si tratta solo di non trarre da esse delle conclusioni di carattere filosofico complessivo che le stesse non giustificano o, per lo meno, non impongono. Non conosciamo ancora i confini dell’universo né la sua origine (se ne ha avuto una) né la sua fine (se ne avrà una): come possiamo pretendere di pronunciarci sulle strategie di un Essere che, se dovesse esistere, sarebbe l’Origine e il Fine dell’intero cosmo? Tra le constatazioni empiriche vediamo la ferita di un dito che si rimargina con regolarità impressionante: senza invocare teorie generalissime (l’universo sarebbe intellegibile se non corrispondesse a una qualche forma di Intelligenza originaria? [7]) possiamo negare che ci sono enti non-intelligenti che  si comportano intelligentemente? Hans Jonas è convincente solo quando mette in crisi le teodicee tradizionali o non merita neppure una confutazione quando sottolinea l’intrinseco finalismo di ogni ente ‘naturale’? E, più globalmente, era del tutto ingiustificata la convinzione di Aristotele che solo il più(un Essere già compiuto, in atto) può spiegare il meno(la tendenza di un ente ancora abbozzato, in potenza, a maturare)? Che è la gallina a dare senso (direzione) all’uovo e non viceversa?  
In una prospettiva contemporanea la questione può anche essere riformulata in altri termini: è pacifico ammettere che “noi esseri umani” siamo “una delle tante forme di vita” “emerse dalla fucina cosmica che è al di là del bene e del male” (p. 31)? So che questa è la narrazione ormai quasi unanime nel mondo degli scienziati: ma a me continua a far problema l’idea che il Tutto ignori una sua parte; sia incapace di accorgersi di ciò che avviene in una sua microscopica concretizzazione (nell’essere umano, intendo). Mi continua a interrogare la teoria che il Tutto sia solo Natura  priva della consapevolezza, ma che, in un qualche remoto angoletto del suo stesso tessuto,  stia emergendo un ente dotato di autocoscienza e di autodeterminazione.  Se si risponde che è proprio nell’uomo che la Natura prende consapevolezza di sé, avremmo il paradosso di una Natura (a-morale) che, almeno in un punto,  si manifesta come dotata di senso morale: il paradosso di una madre, né benevola né malvagia (cfr. p. 23), che partorisce un figlio al quale s’impone “ineludibile” (p. 33)  la domanda sulla benevolenza e sulla malvagità.  Se, invece, si ritiene che l’essere umano costituisca non una manifestazione qualsiasi della Natura extra-morale bensì un novum unico, assoluto, che emerge dalla storia evolutiva inaspettatamente e ingiustificatamente, ci troviamo col rischio di esaltare la nostra condizione antropologica ancor più di quanto lo facesse l’antropocentrismo ebraico-cristiano. Personalmente sono proclive a ipotizzare (proprio per rendere conto dei dati esperienziali a noi evidenti) che la nostra specie sia una delle innumerevoli  spie, più o meno luminose, sparse nell’universo, rivelanti che la Natura sia un orizzonte penultimo; che il Tutto (l’Intero dell’Essere) abbracci la Natura (visibile e misurabile) ma non si esaurisca in essa. Nel vocabolario di Eraclito, “il sapiente sa che la natura è armonia visibile-conoscibile e insieme segno dell’invisibile; non confonde in uno la distinzione; non pecca di hybris pensando che la propria umana saggezza possa disvelare il ‘proprio’ della natura. Ma può far-segno a ‘ciò’ di cui la natura, nella sua manifesta armonia, è segno. Il sapiente non nasconde il nascondimento, né discorsivamente può conoscerlo, ma lo ri-vela,lo mostra appunto come tale, nel farne-segno, semainein.Allora nella sua trama il discorso giunge alla massima tensione: tra conoscenza chira, saphes, e oscurità”[8]. Nel vocabolario di Giordano Bruno direi: che la natura naturata sia la faccia a noi conoscibile della natura naturante. Per riprendere la metafora materna: che, attraverso la maternità della Natura, operi una maternità ancora più radicale che designiamo, approssimativamente, con il termine “Dio” (del quale, ci avverte Tommaso d’Aquino sulla scia della teologia negativa, sappiamo ciò che non è piuttosto che ciò che è). In questo scenario, come il frutto di ogni albero saremmo interamente e veramente prodotti dal ramo (la Natura) e interamente e veramente prodotti dal tronco (Dio). Insomma: non riesco, ancora (?), a staccarmi dalla supposizione (così poco cara a Nietzsche e a Franceschelli) di un “retromondo” che dia ragione di alcuni enigmi del “mondo”; di un “mondo noumenico” che dia ragione dei “mondi fenomenici”; di una Bellezza assoluta che dia ragione delle bellezze relative che, certo, vengono riconosciute solo perché esistono esseri capaci di “conoscenza sensibile” (cfr. pp. 114 e ss.), ma che non potrebbero essere riconoscibili se non possedessero delle caratteristiche ontologiche intrinseche (al punto che non pochi pensatori hanno considerato il pulchrum come il quarto trascendentale, accanto a ensverum bonum)[9].
    Se, dopo aver messo fra parentesi la questione ontologica, sospendiamo (provvisoriamente) anche la questione antropologica, arriviamo alla tematica specifica di questo libro di Franceschelli: l’etica. Qui distinguerei due piani. A un primo, fondamentale, livello (qualcuno direbbe meta-etico) ci si potrebbe chiedere con che coerenza teoretica si possa parlare di “male morale” (p. 34) in una prospettiva naturalistica in cui ogni vivente – dunque anche l’essere umano – appaia una manifestazione delle leggi (o dell’anomia caotica) della Natura: in virtù di quali argomentazioni le “passioni” e le “azioni” umane sarebbero diverse dalle azioni e dalle passioni di una pianta o di una belva?  Perché, a differenza di queste ultime, le prime sarebbero valutabili con criteri morali (e non soltanto giuridiche: se mordi ti metto la museruola, se picchi le donne ti metto in prigione)? Ma così non usciamo dall’angolazione della questione antropologica: la ritroviamo dal punto di vista della libertà e, dunque, della responsabilità etica. C’è però un secondo livello, meno radicale, in cui possiamo parlare di etica: il livello della dialettica sociale fra pensanti. Qui l’approccio di Franceschelli mi pare molto convincente: mettiamo fra parentesi ciò che ci separa (concezioni teologiche, teorie ontologiche, visioni antropologiche) e appelliamoci, quasi a un minimo comune multiplo,  a quello che ci unisce  al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Mi permetterei solo di avanzare un’ultima obiezione e di suggerire un’ultima precisazione. 
    L’obiezione. Il pensatore cattolico Romano Guardini, che per altro stimo molto, ha accusato di “slealtà” quei pensatori esterni alla tradizione biblica che avrebbero abusivamente tradotto la Rivelazione in “valori cristiani secolarizzati”[10]; e  Franceschelli sembra d’accordo con lui, al punto da voler prendere esplicitamente le distanze da questo genere di abusivi. Questo modo di vedere le cose si basa su alcuni presupposti che mi sembrano oggi, anche alla luce della storia delle religioni e della teologia delle religioni, ingiustificabili: primo fra tutti il presupposto che la Bibbia sia proprietà esclusiva di chi l’ha scritta, di chi l’ha tramandata e di chi l’accoglie come Parola di Dio in senso unico e incomparabile. A mio avviso, la Bibbia  - che contiene pagine altissime e pagine bieche – è inspirata (nelle pagine altissime) dallo Spirito divino esattamente come lo sono (nelle pagine altissime) la Bhagavad Gita, i Dialoghi platonici, il Corano, le liriche di Leopardi, i discorsi di Gandhi e di Martin Luther King: e come tutte queste – e simili opere somme dell’umanità – appartiene all’intera umanità. Può un cristiano, rimanendo tale,  prendere in prestito un’intuizione di Lucrezio o una teoria di Marx o una riflessione antropologica di Nietzsche senza essere tacciato di slealtà o di appropriazione indebita? Perché a un non-cristiano dovrebbe essere vietato fare altrettanto con qualche intuizione di Gesù o con qualche riflessione antropologica di san Paolo? 
   E, per finire, arrivo alla precisazione. La virtù (sacrosanta ?) della laicità implica certamente il riconoscimento del “pluralismo” come “un dato di fatto da affrontare rispettando la libertà, le ragioni e i valori dell’altro” (p. 129): ma “rispettare” la libertà altrui è da intendere nello stesso senso in cui diciamo “rispettare” le ragioni e i valori altrui? Sono decisamente convinto di no. Non sarei intellettualmente ed esistenzialmente ciò che sono se non avessi vissuto in un contesto antropologico, sociale e politico in cui è stata – quasi sempre – rispettata la mia “libertà”; ma non lo sarei neppure se non fossero state assai poco rispettate molte mie “ragioni” e non fossero stati contestati molti miei “valori”. Da queste critiche distruttive sono uscito o rafforzato nelle mie convinzioni o, più spesso, liberato da pregiudizi ed errori. Qualche volta, supponendo negli altri il medesimo desiderio di confronto radicale (che non solo non esclude, ma al contrario presuppone una solidarietà cor-diale con il portatore sano di teorie insane), ho incontrato reazione amareggiate e amareggianti: ma non vedo alternative.

                          Augusto Cavadi
               www.augustocavadi.com



[1]Forse non è superfluo precisare che esporrò opinioni del tutto personali che non pretendono di coinvolgere nessuna corrente di pensiero e nessuna chiesa. Infatti sono stato affettuosamente citato dall’autore (a p. 161) come “filosofo e credente”: ma, soprattutto nel contesto culturale italiano, è molto facile essere confusi con certi modi di filosofare, e ancor più di credere, in cui non mi riconosco per nulla. 
[2]Costretto dalla sinteticità dell’esposizione qualche volta l’autore dà l’impressione di un’eccessiva sbrigatività sulla tematica, come quando scrive: “E tuttavia, proprio se non siamo interessati a tornare prima di Nietzsche, ossia al trinomio Dio-uomo-mondo”…(p. 48). C’è una notevole differenza, filosoficamente impegnativa, tra essere “interessato” a una questione (ogni pensatore ne esclude tantissime dal suo orizzonte) e ritenere che quella determinata questione non sia, in sé, interessante.
[3]Forse in questa sintesi sto forzando il pensiero dell’autore perché egli, piuttosto che esaminare alcune risposte a questa domanda, mette in discussione proprio la legittimità della stessa: una domanda  che, “essendo condizionata alla radice dal principio creazione”, “non può costituire neppure la domanda fondamentale della stessa filosofia” (p. 162). Se, come Franceschelli, si intende “principio creazione” in senso lato, sostenendo dunque che risale a Platone (seguito a ruota, almeno sulla domanda teologica, da Aristotele), ci troviamo in una strana situazione: di non poter considerare “fondamentale” (magari non “la” domanda fondamentale della filosofia , ma “una delle” domande fondamentali della filosofia) una questione che è stata ritenuta tale da quel pensatore a proposito del quale “non si è mancato di affermare che tutta la filosofia successiva” “sarebbe poco più di un commento alla sua opera e alla versione demiurgica del principio creazione” (p. 130). Sorge dunque il sospetto che le riserve verso questa domanda siano “condizionate” pregiudizialmente dall’adozione del “principio natura”.
[4]Sembrerebbe che per l’autore questo ”naturalismo” sia un ritorno alle origini del pensiero filosofico (“una natura ormai tornata a essere effettivamente sine Deo,ossia la ‘natura creatrix’ e ‘affrancata da padroni superbi’ (dominis privata superbis) descritta da Lucrezio sulla scia di Epicuro e Democrito”) (p. 23): sarebbe interessante chiedersi se la polemica contro il politeismo antropomorfico popolare, operata dai pensatori citati, li abbia condotti davvero lontano da qualsiasi ipotesi di “divino”, fosse pure il panteismo dei primi pensatori greci (da Talete a Senofane e Parmenide). Insomma: sarebbe interessante chiedersi se il “naturalismo” odierno sia davvero una rinascita del “naturalismo” pre-cristiano, impregnato di un senso del sacro da cui oggi ci si guarda come da un fattore inquinante . Secondo Giorgio Colli, ad esempio, è possibile affermare che “tutta la sapienza di Eraclito sia un tessuto di enigmi che alludono a un’insondabile natura divina. Si tratta del tema dell’unità dei contrari. Si è detto che l’unità, il dio, il nascosto, la sapienza sono designazioni del fondamento ultimo del mondo. Tale fondamento è trascendente. Dice Eraclito: <<Nessun uomo, tra quelli di cui ho ascoltato i discorsi, giunge al punto di riconoscere che la sapienza è separata da tutte le cose>>” (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2002, p. 68). Comunque, anche se il naturalismo greco fosse materialistico, noi oggi siamo indotti – o addirittura costretti – dalla fisica post-newtoniana a chiederci se la “natura” sia sinonimo di “materia” (e, nel caso lo si possa affermare, se - più radicalmente -  il costitutivo primigenio della “materia” sia tale nel medesimo senso in cui abbiamo usato questo semantema da Platone e Democrito sino a Feuerbach e Comte o non consista, piuttosto, in una “energia” tutta da determinare). 
[5]Franceschelli dedica a questo nodo cruciale di ogni creazionismo le pp. 24 – 28. Il mito della cacciata di Adamo e Eva dal Giardino originario è chiaramente inutilizzabile, come ha fatto sant’Agostino e dopo di lui moltissima teologia, per spiegare la presenza del male “fisico” nell’universo. Se esso rimane tra i più “tenaci” e “diffusi” (p. 25) – nonostante che “la visione della sofferenza come espiazione di una colpa” sia “ormai messa apertamente in questione anche da non pochi teologi” (p. 29) - a mio parere dipende dal fatto che tale mito, invalido come strumento di spiegazione di ogni sofferenza e di  ogni dolore, tuttavia getta una luce istruttiva sul legame fra alcuni errori umani ed alcunesofferenze (nella vita dei colpevoli e soprattutto di altri incolpevoli). Anzi, a parere di numerosi esegeti contemporanei, il racconto biblico più che protologico, rivolto al passato, è escatologico, rivolto al futuro: vorrebbe, poco teoreticamente e molto praticamente, suggerire che l’umanità abiterebbe in un paradiso terrestre se vivesse la lealtà, la trasparenza, la solidarietà.  
[6]Cito una pagina in cui mi sono imbattuto, quasi casualmente, proprio in questi giorni: “L’analisi razionale della ‘natura’ è un principio al quale il pensiero cristiano ama riferirsi e si sa quanto frequente è stato il ricorso alla cosiddetta ‘legge naturale’ nelle questioni etiche: vedi l’etica tradizionale, che condanna come ‘contrari alla natura’ alcuni comportamenti. Questo principio va sottoposto a un’attenta riflessione critica, perché l’utilizzazione di questo criterio è talora avvenuta con accentuatissime forme di assolutismo, quasi che le leggi naturali consistano in un prontuario preciso di precetti specifici e immutabili, deducibili dalla ‘natura’ stessa. Si tratta, invece, di un criterio complesso, che tiene conto di tutta la realtà del creato nella varietà e complementarietà dei suoi elementi strutturali e si tratta soprattutto di un criterio dinamico, quanto evolutiva e dinamica è la realtà del creato. La natura cioè non è una realtà compiuta e finita (entelechia), ma è soggetta a fondamentai processi di sviluppo e di evoluzione. Ciò vale non solo nel senso che si evolve la conoscenza che l’uomo ha della natura e dell’universo, ma nel senso più profondo che la natura stessa viene evolvendosi secondo processi di perdita e assunzione di dati, che la conoscenza e la scienza di volta in volta colgono, sceverano e propongono. Entro questi processi dinamici è possibile attribuire qualche significato permanente alla natura? Senza dubbio, ed è quanto anche il pensiero teologico cerca di fare, ma non già riflettendo su un ‘ordine naturale’ sentito e difeso come immutabile, ma partendo dall’autocomprensione che gli uomini hanno della natura in quel momento e luogo e confrontandola, quanto è possibile, con quella di altri tempi e luoghi. E’ questo il solo modo di riferirci alla natura, alle sue leggi; dobbiamo affidarci criticamente alla cultura in cui hic et nunc siamo immersi, utilizzando ad esempio i risultati a cui pervengono nel nostro caso l’insieme delle discipline biologiche (come la sociobiologia, la fisiologia, l’anatomia comparata, le neuroscienze, l’etologia, la zooantropologia)” (Gianfranco Nicora, Anche gli animali pregano, Messaggero, Padova 2018, pp. 17 – 19).
[7]Come è noto (l’autore lo ricorda a p. 40)  questa intrinseca intellegibilità del cosmo induceva Einstein a una forma di “religiosità” a -confessionale.
[8]M. Cacciari, Filosofia e tragedia. Sulle tracce di Carlo Diano, Introduzione a C. Diano, Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, p. 14.
[9]A questo proposito tengo a precisare che la tesi platonica (di Platone e dei platonici) sul rapporto fra bellezza terrena e bellezza sovra-terrena (differenza che non coincide con naturale e soprannaturale: ho sempre capito che per Platone e i platonici la dimensione divina fa parte della Physis,anzi le “idee” sono le matrici ontologiche che rendono ciò che sono gli enti naturali) non mi sembra che sia sintetizzabile nella frase: “la (falsa) promessa di felicità di cui, secondo i platonici, è portatrice la bellezza terrena” (p. 131). Che per alcuni platonici, come Agostino (specie da anziano), sia così è probabilissimo; ma, in generale, ho sempre inteso la questione nel senso che la bellezza terrena è una promessa attendibile della felicità assoluta, promessa che diventa falsa (cioè deludente) qualora tale felicità assoluta la si attenda esclusivamente dalla bellezza terrena (goduta nel tempo) e non dalla Bellezza assoluta (goduta intermittentemente nel tempo e definitivamente nell’eternità). Trovo la teoria dell’amore platonico, come Socrate la espone nel Simposio,di un realismo ineccepibile.
[10]Cfr. pp. 155 – 156.