lunedì 30 gennaio 2023

I DILEMMI CORNUTI CHE LA VITA CI IMPONE


 L'alternativa del cavaliere: baciare o...

Poiché sono nato nel 1950, da genitori di famiglie dell'entroterra siciliano, ho fatto in tempo a intravedere un mondo essenzialmente feudale che solo il “miracolo economico” degli anni Sessanta è riuscito a intaccare (almeno per quel breve periodo di transizione verso gli anni Ottanta in cui è stato gradualmente ricostruito nei fatti – non istituzionalmente - sostituendo i servi della gleba medievali indigeni con gli immigrati dall'Est europeo e dall'Africa). Ho conosciuto quel mondo in cui il signorotto del borgo faceva il bello e il brutto tempo, decideva chi poteva lavorare e chi no, poteva pagare con puntualità o con ritardo di mesi i suoi salariati, perfino – eco dello ius primae noctis - scegliersi qualche bella contadina e negoziare con la famiglia d'origine il prezzo della sua verginità.

Ho conosciuto quel mondo ma non lo saprei rappresentare con la stessa attenzione ai dettagli, e soprattutto con la stessa capacità di restituire passioni e patimenti, di Alberto Genovese nel suo L'alternativa del cavaliere (Manni, San Cesario di Lecce 2022, pp. 64, euro 12,50). Il racconto decolla a partire dalla e-mail che un docente dell'Istituto di Filologia romanza di Heidelberg invia all'autore per chiedere lumi sull'origine e il significato di un'espressione dialettale isolana, O futtiri o vasari , che letteralmente sarebbe “O penetrare col pene o baciare” ma che, più ampiamente, “sembra riferirsi a circostanze nelle quali si impone una scelta fra due piaceri, e per più estesa metafora, fra due guadagni” (p. 15). 

Il destinatario della missiva elettronica, tipico intellettuale di provincia molto erudito, “dilettante” nell'accezione etimologica più bella perché studia solo per diletto e non in funzione di obiettivi strategici utili, è felice di rispondere alla richiesta dell'illustre professor Henner Gut; anzi, lo è al punto che inserisce la sua risposta - sintetizzabile in quattro, cinque righe al massimo – in una narrazione di decine di pagine, scritte per dare il contesto, ora sapido ora tragico, sia storico che culturale nel quale l'espressione in esame sarebbe stata originariamente pronunziata.

PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLICK QUI:

https://www.zerozeronews.it/lo-ius-primae-noctis-nella-sicilia-degli-anni-50/

 

sabato 21 gennaio 2023

IL COMODINO DI MATTEO MESSINA DENARO: NON PIU' BIBBIE E CROCIFISSI, MA VIAGRA E ROLEX

 

“Il Manifesto”

Sabato 21.1.2023

LA NUOVA MAFIA DIVORZIA DALLA CHIESA? 

Luca Kocci intervista Augusto Cavadi

Quando Bernardo Provenzano venne arrestato, nel suo covo di Montagna dei Cavalli vennero ritrovate diverse Bibbie. Il padre carmelitano Mario Frittitta si recava regolarmente a Bagheria per celebrare messa nel rifugio del boss latitante Pietro Aglieri. Nell’appartamento di Campobello di Mazara in cui si nascondeva Matteo Messina Denaro invece i carabinieri hanno rinvenuto Viagra e profilattici. Un inedito rispetto alla tradizione dei “mafiosi devoti”, circondati da crocefissi e santini e sempre in prima fila nelle processioni patronali, che potrebbe significare una sorta di laicizzazione di Cosa nostra.

«È una novità, e mi riferisco non a ciò che si è trovato, quanto a ciò che non si è trovato: libri di devozione, statuine sacre, rosari», spiega Augusto Cavadi, palermitano, cofondatore della scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone e autore del Dio dei mafiosi.

È sorprendente anche per Messina Denaro?

In realtà si sapeva che Messina Denaro fosse un’eccezione. Quindici anni fa Salvatore Mugno ha pubblicato le Lettere a Svetonio, missive autografe di Messina Denaro a un suo interlocutore in cui troviamo confidenze di questo tenore: «Ci fu un tempo in cui avevo la fede, l’avevo in modo naturale senza imposizioni di sorta», poi l’ho smarrita e «non ho fatto mai nulla per ritrovarla, mi sono accorto che in fondo ci vivo bene anche così, mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla, e sto vivendo per come il fato mi ha destinato».

Qual è il senso della devozione dei mafiosi?

I mafiosi non sono un esercito di cloni, ognuno ha una biografia, una psicologia, persino una teologia. Distinguerei due atteggiamenti, che possono anche convivere: il calcolo strategico di chi strumentalizza l’apparato simbolico religioso per costruirsi un’immagine pubblica accettabile, anzi ammirevole; e la convinzione sincera che c’è una dimensione trascendente con cui fare i conti.

Che religiosità è quella dei mafiosi?

Se fosse una fede evangelica, ai loro stessi occhi risalterebbe l’incompatibilità fra il Vangelo e la lupara. Invece, come avviene spesso nelle popolazioni di bimillenaria tradizione cattolica, dell’essenza originaria della proposta cristiana non si ha alcuna conoscenza diretta. Si vive una religiosità intrisa di superstizioni, dogmi inintelligibili e moralismi bigotti. Questo “cattolicesimo mediterraneo” è dominato dalla figura di un Dio tremendo, di un Padre-padrino di cui i padrini terreni non fanno fatica a interpretarsi come riproduzioni in miniatura e strumenti operativi.

Ora è cambiato qualcosa?

I clan mafiosi sono sottoinsiemi della società, la secolarizzazione galoppante non ha risparmiato organizzazioni criminali che pur ci tengono a legare le innovazioni del presente alle radici del passato. In una società in cui frequentare le chiese non è più uno status symbol, mostrarsi cattolici diventa meno remunerativo in termini di consenso. Se aggiungiamo che l’edonismo post-moderno e il consumismo di lusso sono diventati senso comune, direi che Messina Denaro è un pioniere: anche nei covi dei suoi successori troveremo meno simboli religiosi e più orologi di marca e supporti farmaceutici alla declinante virilità.

Le collusioni fra ambienti cattolici e mafie sono note, nonostante le prese di distanza di qualche vescovo illuminato o l’azione antimafia dei preti di frontiera. In questo caso sembra che sia un mafioso a volersi allontanare. Un paradosso?

Un paradosso provvidenziale. Dopo anni di vani tentativi di allontanare molti cattolici dagli ambienti mafiosi, questo divorzio si delinea possibile ma per iniziativa dei mafiosi stessi che trovano poco interessante riconoscersi nel patrimonio dottrinario e nelle pratiche devozionali della Chiesa cattolica in declino. Il quadro però sarebbe incompleto se non si considerasse che le parrocchie non hanno perduto l’appeal elettorale. I casi di politici che coniugano identità cattolica e familiarità con ambienti mafiosi ci dicono che i rapporti fra Chiesa e cosche continueranno a lungo. Anche il più laico dei mafiosi sa che le parrocchie sono ancora riserve di voti, dunque corteggerà il clero del sud esattamente come la destra parlamentare, i cui esponenti sono quasi sempre abissalmente lontani dalla fede, continua a corteggiare il mondo cattolico.

Le esortazioni degli ultimi papi a spezzare ogni legame con i mafiosi sono state inutili?

Non hanno sortito gli effetti sperati: per ingenuità o malafede, ancora troppi circoli cattolici rifiutano la mafia che spara e uccide ma non quella che altera le regole del mercato con la corruzione, il riciclaggio di denaro, le manovre per distribuire i ruoli apicali in banche, ospedali e università. Ci sarebbe bisogno di un’evangelizzazione a trecentosessanta gradi, non solo con una teologia critica profondamente rinnovata, ma anche con un’istruzione sulla fisiologia e sulla patologia dei poteri.

venerdì 20 gennaio 2023

QUANTI POLITICI IPOCRITI INTORNO ALLA BARA DI FRATEL BIAGIO CONTE?


 DOPO FRATEL BIAGIO, VERSO IL SUPERAMENTO DELLA POVERTA' ?

Dopo una settimana di lutto cittadino, Biagio Conte – autodichiaratosi missionario francescano – è stato accompagnato alla tomba con una partecipazione imponente di autorità civili, di vescovi e preti, soprattutto di popolazione di ogni estrazione sociale, etnica e culturale. Solo uno snobismo ingiustificabile può negare che vicende come questa toccano profonde corde emotive e pongono domande non eludibili.

Quando Biagio Conte, restituito ai genitori grazie alla mediazione di una nota trasmissione televisiva, tornò alla sua città con l'inseparabile cane e il caratteristico bastone, venne a trovarci al Centro sociale “S. Francesco Saverio” che avevamo da pochi anni aperto nel quartiere noto soprattutto per il mercato di Ballarò. Come facevamo con tutti gli aspiranti volontari, abbiamo sinteticamente presentato le linee essenziali del nostro statuto e della nostra pedagogia. Del tutto legittimamente, fratel Biagio non si è ritrovato su quasi nessun punto del nostro programma: né sulla impostazione collettiva (per cui le decisioni venivano assunte assemblearmente, senza leaderismi verticistici); né sull'ispirazione a-confessionale (per cui il Centro era aperto a una pluralità di storie ideali e ideologiche); né sulla finalità principale di tipo 'politico' (per cui ritenevamo di dover supplire le istituzioni sono temporaneamente e, ben al di là di ogni logica assistenzialistica, di dover sollecitare la gente del quartiere a esigere che le amministrazioni pubbliche attivassero i servizi essenziali per i bambini, le donne, gli anziani e i disoccupati). 

Così le nostre strade si snodarono in parallelo, sia pure a un solo chilometro di distanza, ovviamente senza polemiche, anzi con occasionali cordialissimi incontri fra persone accomunate dal fronte della solidarietà. 

A questo punto della storia più che trentennale si impone un primo bilancio che non può non basarsi su una distinzione essenziale: il punto di vista del vissuto esistenziale, soggettivo, e il punto di vista pubblico, oggettivo.

Dal punto di vista delle opzioni individuali, nessuno ha il diritto di contestare la predilezione di fra Biagio per la dimensione simbolico-profetica: se, per denunciare le difficoltà economiche in cui doveva accogliere barboni e immigrati senza fissa dimora, girava a piedi l'Italia con una grande croce di legno o proclamare giornate di digiuno, nessuno poteva in buona fede accusarlo di esibizionismo. La sua condivisione con la povertà dei più poveri era così totale da avallare l'autenticità delle sue azioni clamorose. Così come nessuna persona di buon senso potrebbe negare che negli stessi anni, a Palermo, ci sono stati preti e laici di ogni appartenenza culturale che, sia pure optando per stili di vita più discreti, meno appariscenti, hanno speso il meglio delle proprie energie per combattere il sistema di dominio mafioso, lo sfruttamento della prostituzione, la diffusione delle droghe pesanti, l'ignoranza dell'alfabeto civico: insomma, come si usa dire nel Terzo Settore, per insegnare a pescare più che per distribuire pesci agli affamati. 

PER COMPLETARE LA LETTURA BASTA UN CLICK:

https://www.zerozeronews.it/quanti-farisei-al-funerale-di-fratel-biagio-conte/

mercoledì 18 gennaio 2023

NINO CANGEMI SU "LA NONVIOLENZA OLTRE I PREGIUDIZI" DI ANDREA COZZO


 

QUANDO NONVIOLENZA FA RIMA CON NON CONOSCENZA

di Antonino Cangemi

Confessiamolo, l’espressione “nonviolenza” evoca in noi qualcosa di astratto e utopico e suggerisce un atteggiamento di debolezza e di buonismo fine a se stesso.Né quasi mai, pur consapevoli di saperne poco e comunque nutrendo pregiudizi verso di essa, ci siamo presi la  briga di colmare le nostre lacune conoscitive.

A parte il fatto che in generale la superficialità è sempre biasimevole, ancor più se accompagnata da pregiudizi, il conflitto tra Russia e Ucraina, tra un Paese aggressore e uno aggredito – non il solo nel mondo ma quello che investe l’Occidente ed è suscettibile di sviluppi devastanti – ci induce a riflettere sul pacifismo e sulla nonviolenza: concetti del tutto privi di concretezza oppure declinazioni di principi etici alternativi a logiche  poco sensibili ai valori umani?

Se volessimo capirne qualcosa di più sulla nonviolenza e sul pacifismo ci viene in soccorso un breve saggio di Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi – sottotitolo più che eloquente: Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla – edito da Di Girolamo.

Andrea Cozzo insegna Lingua e Letteratura greca all’Università di Palermo, ma è anche un esperto di nonviolenza: sul tema ha tenuto corsi all’ateneo del capoluogo siciliano e ha pubblicato più di un libro, tra cui “Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Mimesis, 2004). L’agile volumetto di Cozzo (137 pagg., 12,90 euro) si fa apprezzare per più di un motivo.

PER COMPLETARE LA LETTURA, BASTA UN CLIC:


sabato 14 gennaio 2023

ANCORA SULLA CEFALU' DI FRANCO VENTURELLA



LA ROCCA DI CEFALU' NEL ROMANZO DI FRANCO VENTURELLA

Il romanzo d'esordio di Franco Venturella ( Rocca di luce, Asterios Editore, Trieste 2022, pp. 202, euro 19,00) ha due protagonisti principali: Manuel (di cui si segue la vicenda biografica dagli anni dell'adolescenza sino alla piena maturità) e la città di Cefalù (dove ho insegnato più di una volta prima di entrare di ruolo nelle scuole statali).

Nel romanzo si evoca la condizione di speciale protezione di una famiglia di cui faceva parte un “testimone di giustizia” e, in proposito, mi sono tornati in mente due episodi di segno opposto legati alla città normanna.

Il primo è il senso civico di una collega, la professoressa La Grua, che – invece di ricorrere al sotterfugio di certificati medici falsi – accettò con coraggio e responsabilità la nomina a giudice popolare in un importante processo di mafia: fu la prima di una serie non breve di persone di mia conoscenza, con alcune delle quali sono diventato amico, che non si sono sottratte al compito di cittadine.

Purtroppo il secondo episodio, legato anch'esso al sistema di dominio mafioso, è di segno opposto. Al liceo scientifico di Termini Imerese avevo avuto un alunno modello con il quale si era instaurata una bella intesa. Quando, qualche anno dopo, mi ero ritrovato a insegnare a Cefalù, mi fu spontaneo cercarlo e chiedergli un appuntamento durante un'ora libera dalle lezioni del mattino. Mi accolse con coretsia, ma estrema freddezza. Sul momento non capii. Ma nei mesi e negli anni immediatamente successivi mi si chiarì il quadro: Massimo Capomaccio era diventato un adepto di Cosa nostra, aveva rinnegato gli ideali giovanili e tentato la scalata dentro l'organizzazione criminale. Conobbe la prigione e, poi, gli effetti dell'inesorabile 'giustizia' mafiosa: cadde crivellato di colpi in un bar di Palermo. 

L'altro protagonista del romanzo, Manuel, mi ha indotto a un viaggio nella memoria di cui mi viene meno facile parlare. Quarant'anni fa, quando frequentavo Cefalù, ero un po' anch'io Manuel o, potrei dire equivalentemente, un po' Franco Venturella: un cattolico - democratico, non bigotto, aperto al confronto - ma un cattolico. Già allora vi erano aspetti del cattolicesimo che mi sbalordivano più che scandalizzarmi. In treno un anziano prete della diocesi di Cefalù, collega di religione, mi chiese una volta come mai mi capitasse di salutarmi con colleghe e alunne scambiandomi abbracci e spesso bacetti sulle guance: “Capisco che ai miei tempi si esagerava quando, in seminario, ci dicevano che il diavolo entra in noi attraverso gli occhi delle donne; ma arrivare ad abbracciare ragazze e giovani signore senza provare turbamenti mi pare davvero incredibile...”. Comunque lo studio della teologia, che mi ha sempre appassionato e mi appassiona, quasi inscindibilmente dallo studio della filosofia, mi ha gradualmente spostato su posizioni che oggi si chiamano “post-teistiche” e “post-religionali” (e che preferisco denominare “oltre-cristiane”). Le pagine di questo romanzo mi hanno dunque fatto rivivere con nostalgia quegli anni in cui credevo con sincerità e convinzione c he la narrazione cattolica – tanto consolatrice - fosse sostanzialmente vera. E che la crisi della Chiesa fosse una questione di coerenza soggettiva dei papi, dei vescovi, dei preti, dei fedeli in servizio permanente ed effettivo. Insomma, mi hanno fatto rivivere lo stato d'animo che caratterizza ancora Franco Venturella. Con molta onestà egli dipinge una chiesa del futuro senza più praticanti, soprattutto fra i giovani. Ma dà l'impressione che si tratti di una crisi di linguaggio, sia verbale che soprattutto gestuale: con un aggettivo troppo bucolico per i miei gusti, una crisi pastorale. Magari fosse così, mi è venuto di commentare fra me e me! Magari non ci fosse un abisso fra la semplicità essenziale dell'annunzio evangelico e tutta quella montagna di dogmi e di precetti sotto cui le chiese cristiane (cattolica in primis) hanno seppellito quella piccola sorgente di acqua fresca!

Faccio un solo esempio: nel romanzo si immagina che Cefalù bruci e che si ricorra all'intervento del Cristo Salvatore per evitare che l'incendio, già grave, provochi danni ancora più gravi. Lo abbiamo visto di recente con l'epidemia del covid: dall'immagine tragica e commovente del papa con la croce in una piazza san Pietro deserta battuta dalla pioggia agli elicotteri affittati per far girare nei cieli statue della Madonna in funzione terapeutica...Ma veramente pensiamo che Dio possa e voglia intervenire, come un puparo buono, per rimediare ai guai che compiamo amministrando disastrosamente la natura, le industrie, gli scambi commerciali? Ma veramente possiamo credere in un Dio tappabuchi da cui già Bonhoeffer prendeva le distanze davanti all'orrore nazista?

Non so se nei prossimi decenni la Chiesa cattolica, un po' come molte altre confessioni religiose più che millenarie, imploderà. Spero però che dalle macerie del sistema dottrinario-istituzionale medievale si salvi il nucleo del messaggio originario evangelico: che l'umanità si salverà solo praticando amore. Non solo eros (e nel romanzo non viene trascurato) né solo amicizia (anch'essa valorizzata), ma anche agape: dono gratuito, disinteressato, asimmetrico, unidirezionale (di cui molti personaggi del romanzo tessono le lodi e che è, per così dire, il tema specifico, anche se non esclusivo, della testimonianza gesuana).

Questa perla della tradizione plurisecolare cristiana – sporcata da troppe infamie imperdonabili – dovrebbe, col tempo, delegittimare ogni strumentalizzazione ideologica del nome di Cristo. E su queste tematiche il mio accordo con l'autore torna a farsi totale. Egli non esita a denunziare le ipocrisie di quanti tradiscono i dettami più elementari della giustizia e della compassione. Ciò avviene a Destra:

I simboli religiosi, a volte, vengono utilizzati non per quello che rappresentano, ma come elementi decorativi. Pensate al crocifisso, divenuto ornamento di moda o portafortuna, o considerato alla stregua di suppellettile dell’arredo negli uffici pubblici, perdendo quel senso forte e provocatorio dell’amore gratuitamente donato per i fratelli. Persino il rosario viene esibito dai politici per usi impropri. Del resto, una certa cultura considera il Vangelo un vademecum di buoni sentimenti o semplicemente una morale come tante. Mentre la fede richiede la disponibilità ad andare controcorrente, ad assumere un punto di vista sul mondo e sulla storia spesso in contrasto con il pensiero dominante” (p. 115).

Ma avviene anche a Sinistra:

C’è una città che vedi, che mostra tutta la sua superba magnificenza, dove le vetrine ostentano una ricchezza eccessiva e invereconda, e la città che non vedi, anzi che fa comodo non vedere, persino da parte di quelle forze politiche che dicono, a parole, di stare con i poveri” (p. 138).

Forse è toccata alla nostra generazione assistere al paradosso di un cristianesimo che si avvia la tramonto senza aver prima raggiunto il suo mezzogiorno.

Augusto Cavadi

Cefalù, 19 novembre 2022

Ottagono di S. Caterina

www.girodivite.it

23.11.2022 

lunedì 9 gennaio 2023

VERSO UN CRISTIANESIMO NON-RELIGIOSO CON NUCCIO VARA

 


(Nella foto un dettaglio del volto di Simone Weil a 19 anni)

VERSO UN CRISTIANESIMO NON-RELIGIOSO CON NUCCIO VARA

Nuccio Vara è un giornalista professionista di lungo corso che, piuttosto recentemente, si è inserito nei gangli della Chiesa cattolica palermitana, una delle tante “diocesi guidate da presuli in perfetta sintonia con il novus bergogliano” che non riescono però “a promuovere cambiamenti sostanziali, percorsi rigenerativi” (La debole parola. Dell'attualità del cristianesimo non religioso, Plumelia Edizioni, Palermo 2022, p. 8). E ciò anche, e soprattutto, a causa della “sostanziale sterilità dei mezzi e degli strumenti utilizzati negli ambiti diocesani per entrare in contratto con tutto ciò che si muove all'esterno del perimetro delle chiese locali” (pp. 10 – 11). Le difficoltà locali sono irradiazioni di un nodo più radicale: il fallimento del progetto originario di Gesù e della Chiesa apostolica di superare la dimensione “sacrale”, tipica di tutte le religioni precedenti. Da qui l'idea dell'autore di percorrere la “pista problematica” del “tema storico-teologico del cristianesimo non religioso” (p. 12).

Quali le tappe di questo percorso? “Il punto di partenza non poteva che esser dato dalla riflessione” di Dietrich Bonhoeffer (p. 12) e, passando per Simone Weil ed Ernesto Balducci, sino ad alcuni protagonisti del dibattito contemporaneo: Christoph Theobald e Andrea Riccardi. Non mancano le puntate “nei territori dell'arte e della letteratura, e entro i quali si è assistito, anche di recente, a suggestive re-interpretazioni, non convenzionali o laiche, della figura messianica di Gesù” (p. 13), come quelle di Giosuè Calaciura e Daniel Marguerat. 

Vara, opportunamente, sottolinea che la crisi attuale del cristianesimo va attribuita non tanto a cause esterne (come la “secolarizzazione avanzata” o la “dittatura del consumismo” o “l'individualismo”), quanto a “un fattore endogeno, individuabile nel perpetuarsi di forme anacronisticamente 'religiose' e gerarchizzate 'del vivere la Chiesa', sovente […] discrepanti, con l'essenza, intrinsecamente 'non religiosa', del messaggio evangelico” (pp. 52 – 53).

Per quanto rilevanti possano essere “le impalcature dottrinarie e canonistiche, l'ideologismo insito nei catechismi, il permanere del peso invadente e invasivo delle gerarchie clericali nella gestione della Chiesa” (p. 53), possono considerarsi le cause radicali della crisi? L'autore sembra supporre di sì e infatti ribadisce a più riprese la sua ammirazione per papa Francesco, riconoscendo nel suo stile pastorale un modello adeguato di terapia. Purtroppo, però, a me – come a una minoranza sempre meno esigua di osservatori – la situazione appare molto più grave. 

Infatti per papa Francesco, come per molti dei migliori esponenti della Chiesa cattolica attuale (ma lo scenario si potrebbe allargare alla maggior parte dei membri di tutte le altre Chiese cristiane), si tratta di tradurre alcuni contenuti essenziali indiscutibili in linguaggi aggiornati e di presentarli al mondo con modalità più rispettose. Ma questi contenuti essenziali (l'universo è espressione di un Dio onnipotente e amorevole, Egli ha parlato in maniera speciale nella storia ebraica, si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, assiste spiritualmente i suoi fedeli nella ricerca di ciò che è più vero e più giusto, li attende uno per uno nell'abbraccio dell'eternità dopo la morte...) sono davvero al di sopra di ogni dubbio? Oppure a un esame esegetico delle Scritture più accurato e, soprattutto, alla luce delle scoperte scientifiche e delle riflessioni filosofiche contemporanee, queste verità centrali e fondanti del cristianesimo rivelano crepe vertiginose ed esigono paradigmi inediti?

La mia opinione è che Nuccio Vara, dopo aver percorso con coraggio e lucidità un sentiero scosceso in salita verso la cima del monte, si sia fermato qualche metro prima di un precipizio che può essere, forse, valicato, ma certamente non ignorato. Mi riferisco a tutto quell'orientamento di studi che, approssimativamente, possiamo denominare “post-religionale” e “post-teistico”, i cui esponenti pionieristici si trovano in diversi continenti: dagli Stati Uniti (John Shelby Spong, di cui leggere almeno Perché il cristianesimo deve cambiare o morire. Riforma della fede e prassi della Chiesa) all'Europa (Roger Lenaers, di cui leggere almeno Cristiani nel XXI secolo? Una ri-lettura radicale del credo) sino all'Australia (Lloyd Geering, di cui leggere almeno Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico). E' merito soprattutto di don Ferdinando Sudati e di Claudia Fanti aver introdotto nel dibattito teologico-filosofico italiano queste problematiche, per esempio attraverso la rivista “Adista” e la Collana editoriale “Oltre le religioni”, i cui primi cinque titoli sono già da soli significativi: Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana (2016), Il cosmo come rivelazione. Una nuova storia sacra per l'umanità (2018), Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza (2019), Oltre Dio. In ascolto del Mistero senza nome (2021), Quale Dio, quale cristianesimo. La metamorfosi della fede nel XXI secolo (2022). 

Volumi di questo tenore mostrano che le questioni riguardanti le strutture della Chiesa e i suoi insegnamenti morali sono davvero trascurabili rispetto alle domande su come intendere Dio e interpretare la figura di Cristo (nonché, conseguentemente, la preghiera personale e comunitaria): tanto è vero che la crisi del cristianesimo non risparmia Chiese molto più democratiche al proprio interno e dialoganti al proprio esterno come le Chiese valdesi, battiste e metodiste. Solo da un serio impegno teologico-filosofico (sul piano intellettuale) e da una rinascita mistica (sul piano esistenziale) si potrà sperare in inedite sintesi future, di cui l'eredità cristiana (debitamente alleggerita delle superfetazioni dogmatiche e disciplinari) potrà costituirà solo uno degli ingredienti, per quanto preziosi. Non si tratta di aspettare la nascita di individui geniali o di mistici straordinariamente carismatici, bensì di moltiplicare le cellule - dentro e fuori i recinti istituzionali delle Chiese – costituite da persone sinceramente desiderose di capire, riflettere, confrontarsi senza remore (anche attraverso strumenti accessibili, ma documentati, come questo testo di Vara) e di sperimentare nuove modalità di coltivare la dimensione spirituale della vita. Ma studiare con rigore e meditare (da soli e in gruppo) non sembrano attività che rientrano tra le priorità delle parrocchie, delle congregazioni, dei movimenti e delle associazioni di varia ispirazione cristiana.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Pubblicato msu “Adista/Segni nuovi”, 2023,1, 14 gennaio


venerdì 6 gennaio 2023

PER UN CRISTIANESIMO SENZA RELIGIONE. LA PROPOSTA TEOLOGICA DI DON BRUNO MORI

 

"Il Tetto"

Dicembre 2023 - 351-352

Bruno Mori, Per un cristianesimo senza religione. Ritrovare la “Via” di Gesù di Nazaret, Gabrielli Editori, san Pietro in Cariano 2022, pp. 254, euro 18,50.


Secondo la tesi ripetuta nei testi scolastici e catechistici Gesù è il fondatore di una nuova religione: il cristianesimo. Se così fosse davvero, un libro come questo di Bruno Mori (un prete appartenente all'Ordine religioso dei Canonici Regolari), intitolato Per un cristianesimo senza religione. Ritrovare la “Via” di Gesù di Nazaret (Gabrielli Editori, san Pietro in Cariano 2022), sarebbe una contraddizione in termini. Ma l'autore, con molta perizia e altrettanta pazienza, sostiene che nel Secondo Testamento i primi cristiani parlavano della loro vita, del loro movimento spirituale, come di una “Via” (cfr. Atti degli Apostoli: 9,2; 16,17; 19,9; 22,4; 24,14). E che solo attraverso una serie di metamorfosi avvenute nei primi cinque secoli (dal Concilio di Nicea del 325 al Concilio di Calcedonia del 451)si è realizzata  la costruzione della religione cristiana, con i suoi Testi sacri, la sua Gerarchia, il suo Magistero, la sua Liturgia. Si è trattato, come ancora sostiene qualche apologeta, dell'esplicitazione di ciò che era implicito nel seme originario? Mori pensa di no e, per evitare di essere equivocato, lo afferma in una pagina cruciale con una contrapposizione - fra il messaggio originario (quale traluce fra le pagine del Secondo Testamento) e il cristianesimo storico - che potrebbe essere sfumata, ma che sostanzialmente mi pare veritiera:


Nessuna religione ha tanto offeso la memoria di Gesù di Nazaret quanto la religione cristiana. Tutto ciò che Gesù ha condannato, la religione cristiana lo ha approvato, adottato e praticato. Tutto ciò che Gesù ha proposto, la religione cristiana lo ha rigettato. Tutto ciò che Gesù ha raccomandato, la religione cristiana lo ha disapprovato. Tutto ciò che Gesù ha affermato, la religione cristiana lo ha nei fatti negato. Tutto ciò che Gesù ha desiderato per i suoi, le autorità religiose cristiane lo hanno rifiutato per loro stesse.

Invece di stare dalla parte dei deboli, dei poveri e degli oppressi, come Gesù aveva fatto e domandato, la religione cristiana ha sempre cercato di mettersi dalla parte dei ricchi, dei forti, dei potenti, dei conquistatori e degli oppressori. Invece di occupare i posti più semplici e più umili, i rappresentanti della religione cristiana hanno sempre voluto occupare i seggi più importanti, più alti e più vistosi. Invece di adottare l'atteggiamento della disponibilità e del servizio, i capi della religione cristiana hanno sempre preferito assumere lo stile del potere, dell'autorità e del prestigio che si fa servire, riverire, onorare, ossequiare e venerare” (p. 98).


Sono accuse, o auto-denunce, ormai molto frequenti sulle labbra di teologi, preti e perfino papi. L'originalità di questo libro sta nella precisione chirurgica (possibile solo a chi ha il coraggio intellettuale di dire ciò che pensa perché non ha né cattedre né altri ruoli istituzionali da mantenere) con cui l'autore indica la radice teologica (teorica) di queste perversioni etiche (pratiche): la divinizzazione dell'uomo Gesù. Una Chiesa che si è progressivamente convinta di fondarsi non sulla predicazione di un semplice Rabbi, per quanto carismatico, bensì sulla volontà di Dio stesso fattosi uomo (secondo il dogma irriformabile, Gesù sarebbe una persona con due nature: una persona divina, che, senza cessare di essere tale e senza abbandonare la natura divina, avrebbe iniziato in un determinato tempo a partecipare anche alla natura umana, senza con ciò diventare una persona umana), come avrebbe potuto atteggiarsi in maniera misurata, paritetica, con le altre confessioni religiose mondiali e le istituzioni politiche di ogni risma e colore?

Bruno Mori osserva dunque che


il mito dell'incarnazione e della divinità di Gesù, che per secoli è stato la struttura portante della Chiesa, rischia ora di essere ciò che la farà crollare. La Chiesa costantiniana del quarto secolo non poteva immaginare che, volendo onorare ed esaltare Gesù di Nazaret in questo modo, sarebbe riuscita solo a renderlo un giorno pericoloso per essa e completamente irrilevante per altri” (p. 75).


Per uscire da questo vicolo cieco, l'autore suggerisce, per “rendere accettabile oggi il mito cristiano dell'Incarnazione”, di


interpretarlo come una metafora o un simbolo dell'incarnazione nell'Universo dell'Energia «attrattiva» di Fondo che, scaturita dalle profondità abissali e insondabili di un Mistero cui si è dato il nome di «Dio», crea, sostiene e pervade tutta la Realtà cosmica. Questa Energia «amorevole» di fondo si manifesterebbe in modo specifico in ogni entità fisica intelligente e autocosciente. Però si sarebbe manifestata in una forma e in un grado particolarmente sublimi, intensi e vivaci in Gesù di Nazaret” (p. 78).


Queste diatribe teologiche potrebbero suonare astratte, quasi di lusso per intellettuali dalla pancia piena. In realtà, secondo Mori, esse hanno forte incidenza sulla vita concreta delle persone sia tra chi crede di credere (per citare Gianni Vattimo) sia fra chi crede di non credere.

Le prime, infatti, potranno scoprire che


la Via conduce chi la percorre non a credere in Gesù, come esige la religione (credere che sia il cristo, il messia, il figlio di Dio incarnato, la seconda persona della trinità, il redentore e salvatore del mondo, ecc.), ma piuttosto credere come Gesù, cioè a realizzare una forma di esistenza ispirata dal suo spirito e dalle sue convinzioni” (p. 240).


Le seconde, poi, potranno scoprire che il loro scetticismo nelle questioni metafisiche, la loro estraneità alle tematiche teologiche, la loro diffidenza verso tutto ciò che sa di candele e di incenso, non sono – di per sé – motivi per tenersi alla larga dalla figura di Gesù (del Gesù neotestamentario, l'unico di cui abbiamo notizia): questi, infatti, si è contraddistinto per “una totale «laicità»”:


Non appare mai come il fondatore di una religione. Non ha mai stabilito o fissato spazi o tempi sacri. Non ha mai promulgato rituali per il culto. Non ha mai «ordinato» preti. Non ha mai incoraggiato i suoi seguaci a frequentare le sinagoghe, i luoghi di culto, a recitare preghiere, a offrire sacrifici, a digiunare, a osservare il sabato o altre prescrizioni della tradizione rabbinica. [] Ciò che caratterizza la personalità di Gesù è il suo carattere fondamentalmente umano, che cerca di umanizzare sempre più coloro che lo avvicinano. [] Gesù fa parte del patrimonio dell'umanità. E' un bene universale. E' un capolavoro che tutti possono ammirare e al quale tutti possono fare riferimento. [] Possiamo riassumere tutto questo dicendo che, alla fine, grazie a Gesù, abbiamo capito che la nostra relazione con il divino è possibile solo nell'umano” (pp. 225 – 226).


Se, nonostante questo stile “secolare” di Gesù, alcune o molte persone se ne vogliono tenere lontano, non può costituire un problema per nessuno. I grandi modelli dell'umanità non hanno bisogno di discepoli né di imitatori; siamo noi che possiamo trarre giovamento dalla conoscenza delle loro personalità, dei loro messaggi, delle loro azioni, per trarne ispirazione e sprone. Proprio lo studio attento dei racconti evangelici ci insegna che non ha importanza dirsi credente o miscredente o agnostico: ha importanza vivere la sincerità, la solidarietà, la tenerezza, il servizio del Bene comune. Sono pregi che qualificano le donne e gli uomini più evolute/i che, dunque, si ritrovano un passo avanti rispetto alla media dell'umanità attuale. Che sappiano o meno di essere in compagnia di Gesù e di altri modelli prolettici della storia del pianeta non fa nessuna differenza.

Chiarito tutto ciò, non si può fare a meno di precisare che simili prospettive “post-religionali” non sono esenti da rischi. L'individualismo spontaneistico, effervescente ma inconcludente, fra i tanti. Il superamento della religione-gabbia non deve necessariamente coincidere con l'abbandono di ogni esercizio (“ascesi” in greco), di ogni pratica, di ogni auto-aiuto comunitario. Bruno Mori lo accenna qua e là, ma si tratta di spunti che meriterebbero d'essere ripresi e sviluppati: abbandonati i vecchi gesti stereotipati, occorre “inventare gesti più in linea con la sensibilità e la cultura degli uomini” del nostro tempo (p. 232); “trovare il coraggio e l'audacia di uscire dalle nostre chiese, se vogliamo celebrare veri riti di ringraziamento e di «comunione» (p. 133); “inventare «ambienti» più naturali, più congeniali, più tonificanti, più propizi al silenzio e alla riflessione”; “nuovi «riti», che si possono celebrare da soli o in piccoli gruppi, nella natura, nei campi, nei parchi, nei boschi, sulle rive di un fiume, su una spiaggia di fronte all'immensità dell'oceano, durante un'escursione in alta montagna, al bagliore di un'alba o di un tramonto, nel silenzio di una notte stellata, o anche in un laboratorio di ricerca, in una clinica di maternità...” (ivi).

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


mercoledì 4 gennaio 2023

PAPA RATZINGER E' STATO DAVVERO UN CONSERVATORE? UNO SGUARDO OLTRE I TITOLI DEI MASSMEDIA


 PAPA BENEDETTO XVI E' STATO DAVVERO UN CONSERVATORE? 

L'aggettivo conservatore accompagna in queste ore, quasi immancabilmente su tutti i titoli, il nome di papa Ratzinger. Qualcuno lo usa come complimento, la maggioranza come denigrazione. In ogni caso, se ne dà per scontato il significato. 

La questione sarebbe già complessa se si parlasse dal punto di vista 'politico' dove non tutto merita di essere 'conservato', ma neppure tutto merita di essere 'riformato'. Il saggio conservatore conserva solo ciò che va preservato come il saggio riformatore dà una nuova forma solo a ciò che è ormai deformato: scaduto, obsoleto, di peso. 

Se poi ci spostiamo dal campo della politica al campo della religione la questione si fa ancora più delicata e, francamente, mi pare che nei commenti prevalenti venga affrontata a colpi di accetta, senza nessuna attenzione chirurgica. 

Benedetto XVI è stato un papa conservatore? Se il riferimento è al Concilio ecumenico Vaticano II (1962 – 1965) certamente. Come il suo predecessore Giovanni Paolo II, di cui è stato il più stretto collaboratore teologico per decenni, egli ha ritenuto che – nonostante i cambiamenti positivi decisi durante l'ultimo Concilio ecumenico – tutto sommato il bilancio sia stato negativo. Infatti i due pontefici hanno ritenuto che quel Concilio dovesse riguardare solo l'aspetto “pastorale” della Chiesa (cioè il suo modo di porsi, di comunicare, di insegnare) non i contenuti “dottrinali”: e che, dunque, i vescovi e i teologi che l'hanno interpretato non come mero lifting, bensì come rivoluzione culturale, sono stati – in buona fede o meno – dei traditori (da inquisire e condannare con tutti i mezzi possibili in un'epoca in cui non è più possibile in Occidente accendere roghi). 

Ma andare indietro dal Vaticano II al Vaticano I (Concilio svoltosi a Roma dal 1868 al 1870) significa accettare le tesi di un concilio che non fu per nulla “conservatore” rispetto al Concilio precedente (svoltosi a Trento dal 1545 al 1563). Limitiamoci a un solo esempio: qualche mese dopo la sospensione “provvisoria” del Concilio, il papa che lo aveva gestito ha proclamato in una Costituzione il dogma dell'infallibilità papale. Si trattava di una tesi talmente innovativa, inedita, da proclamare uno scisma: da allora infatti sono nate, per protesta, le Chiese vetero-cattoliche, cioè “conservatrici” rispetto alla novità rivoluzionaria del dogma riguardante il carisma papale. D'altronde sappiamo dagli storici della Chiesa cattolica che Pio IX, non avendo sufficienti basi nella Scrittura, cercò la legittimazione della Tradizione. Infatti già dal V secolo vigeva il principio, formulato da san Vincenzo di Lerino, che va accettata come vera una tesi (anche se non presente nella Bibbia) che «tutti gli uomini abbiano creduto in ogni tempo e ovunque». Il papa inviò dunque a tutti i vescovi del mondo un questionario per sapere se nelle loro diocesi fosse stata ritenuta sempre vera la dottrina dell'infallibilità papale, ma la stragrande maggioranza delle risposte furono negative. Gli si attribuisce allora la frase, eco di un'espressione di Luigi XIV re di Francia, «Io sono la tradizione! »: autentica o meno che sia, comunque si comportò di conseguenza emanando lo stesso il dogma tanto opinabile.

Dobbiamo allora concludere che i vetero-cattolici, fedeli a Trento (XVI secolo) ma ribelli al Vaticano I (XIX secolo) siano i 'veri' conservatori' cristiani? Se si pensa che Trento proclamò come verità assolute una serie di tesi teologiche che avevano indotto il monaco agostiniano Martin Lutero (e tutte le successive Chiese protestanti) allo scisma, perché riteneva che tali tesi fossero invenzioni medievali estranee all'insegnamento dei Padri della Chiesa (Agostino in primis), si intuisce che il gioco può durare quasi all'infinito: c'è sempre qualcuno più “conservatore” di te che ti può rimproverare, carte alla mano, di essere un pericoloso innovatore. Agostino stesso (IV-V secolo), nume inspiratore di Lutero, non ha introdotto nel patrimonio dottrinario comune di molte chiese cristiane dei 'dogmi' (peccato originale, necessità assoluta del battesimo per i bambini etc.) che non appartenevano all'eredità evangelica del primi tre secoli? 

E allora: è stato papa Ratzinger un vero “conservatore” e sono stati degli intollerabili “rivoluzionari” i teologi e le teologhe che egli ha condannato come persone eretiche sia da Prefetto della Congregazione per la fede (durante il pontificato di Giovanni Paolo II) sia da papa egli stesso? O papa Francesco, nella misura in cui sembra relativizzare una montagna millenaria di superfetazioni teologiche e di norme morali, per tentare di ritornare alla fresca e trasparente essenzialità evangelica – l'amore per gli uomini come segno dell'amore di Dio - è più conservatore dei conservatori nostalgici che lo attaccano contrapponendogli la fedeltà tradizionale dei due immediati predecessori?

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


domenica 1 gennaio 2023

FRANCESCO D'ASSISI: LUCI E OMBRE IN UNA LETTURA 'LAICA' NEL XXI SECOLO

 


FRANCESCO D'ASSISI. UNA LETTURA 'LAICA' NEL XXI SECOLO

Nella denominazione “cristianesimo” rientrano, in questi due millenni e nel panorama contemporaneo, centinaia di organizzazioni ecclesiali molto differenti fra loro e, perfino, al loro interno. In questo arcipelago non è per nulla facile orientarsi, ma una prima discriminante è individuabile nel IV secolo quando il cristianesimo “perseguitato” viene affiancato – e via via quasi soppiantato – dal cristianesimo “tollerato” prima (editto di Costantino, 315) e “obbligatorio” dopo (editto di Teodosio, 380). Così il “movimento” spirituale-politico avviatosi nel nome di Gesù di Nazareth diventa una “religione” istituzionalizzata; il messaggio minoritario e rivoluzionario diventa l'ideologia della maggioranza a servizio della conservazione del potere politico di turno; l'ortoprassi, misurata con il metro della solidarietà attiva gratuita, cede il primato all'ortodossia, stabilita in dogmi immodificabili formulati secondo le categorie culturali dell'epoca. 

La vittoria del cristianesimo imperiale, gerarchico, maschilista non è però totale: il fiume carsico del cristianesimo originario, organizzato in maniera leggera e flessibile, continua a scorrere sotterraneamente e a zampillare, qua e là, nei venti secoli successivi. E' evidente che quanti si rifanno all'uno non riconoscono come legittimo l'altro: chi abbraccia un modello non può che rifiutare come diabolico l'alternativo. La tragedia di quanti provano, nel loro ruolo e nel loro tempo, a mediare fra le due interpretazioni teorico-pratiche opposte è inevitabile perché si tratta di due prospettive oggettivamente inconciliabili. E' quanto sta accadendo, ad esempio, a papa Francesco, malvisto dai conservatori ma non per questo apprezzato dai riformatori, delusi dalla sua 'prudenza'. Ed è quanto è accaduto, mutatis mutandis, al Francesco d'Assisi di cui Jorge Mario Bergoglio – benché gesuita - ha voluto mutuare il nome.


Un personaggio sfuggente perché poliedrico

Chi è stato davvero il Poverello umbro? Come nel caso di tanti altri protagonisti della storia, a cominciare dallo stesso Gesù, siamo condannati a ignorare per sempre le sue vicende biografiche. Dobbiamo accontentarci di un Francesco polivalente, poliedrico, come viene narrato da vari testimoni, più o meno a lui vicini cronologicamente, cercando – con l'intuito e il buon senso – di sfrondare i racconti, per quanto possibile, dalle superfetazioni leggendarie agiografiche. Ma con la consapevolezza che, alla fine, racconteremo un “nostro” Francesco. 

Tale consapevolezza sostiene, sin dalle prime pagine, la recente, voluminosa e appassionata, monografia di Francesco Coniglione, L'uomo venuto da un altro mondo. Francesco d'Assisi (Bonanno Editore, Acireale-Roma 2022), tesa a privilegiare, rispetto al “Francesco della storia”, la “storia di Francesco” quale rientrerebbe, per citare Gadamer, nella “storia degli effetti” della sua persona e della sua azione. Chi cerchi una chiave di lettura, per trovare il filo conduttore delle 410 pagine, la può trovare a cavallo fra pagina 10 e pagina 11, dove l'autore dichiara di essere interessato a focalizzare l' “itinerario i perfezionamento interiore” del santo medievale, per il quale


lo svuotamento interiore di sé e la scelta della radicale povertà costituiscono il presupposto per l'accoglimento del tutto, culminando in un nuovo sguardo verso la natura che, appunto nella misura in cui non si perde nelle nebbie di un generico e romantico sentimento di misticismo naturalistico, si converte in un positivo atteggiamento e in una concreta prassi operativa a difesa del Creato”.


Coniglione, storico della filosofia di formazione “laica”, tiene a precisare che questa sua chiave interpretativa non deriva da una concessione alle mode ecologiste né, ancor meno, intende sminuire “il forte radicamento di Francesco nella tradizione cristiana” (p. 11) . Vuole soltanto sottolineare che di tale tradizione il “povero cavaliere di Cristo” (F. Cardini) ha valorizzato


una direzione che va in senso contrario alla fuga dal mondo e al disprezzo della corporeità dell'uomo, atteggiamenti per molto tempo assai diffusi e verso i quali ha operato una decisiva rottura”,


a ennesima conferma che - secondo l'ironica affermazione di Alano di Lilla a proposito della Bibbia e del magistero ecclesiastico - ogni “auctoritas ha un naso di cera, cioè lo si può piegare in diversi sensi” (ib.).

Anche se non perseguita ruffianamente, l'attualità del “mito” francescano s'impone spontaneamente: ha infatti


molto da dire all'uomo contemporaneo, di questo mondo, assai versato nello sviluppare le proprie 'competenze' ma parecchio sottodimensionato per quanto riguarda la formazione della sua interiorità, lo sviluppo del suo 'carattere' o, per dirla in modo più laicamente moderno, nella costruzione di una mind che non sia unidimensionalmente concentrata sulle sole capacità tecniche ed operative. [] L'insegnamento di Francesco sembra essere invece a noi assai vicino, non solo per i suoi specifici contenuti legati a una determinata temperie e tradizione, ma soprattutto per aver indicato quell'iter difficilior che è alla base di ogni autentico arricchimento umano, di ogni perfezionamento e sviluppo della mente, di ogni formazione educativa che faccia dell'uomo un essere spiritualmente completo e non un composito centauro, in cui a una raffinata cultura scientifico-ingegneristica si giustappone un rachitico senso morale e umano, schematico, dogmatico, intriso di fondamentalismi fideistici” (pp. 18 – 19).


La 'povertà' come appello a un nuovo paradigma economico


Presupposto di ogni altra qualità virtuosa è, per Francesco, la povertà: non quella che si subisce involontariamente dalla nascita, bensì quella che si sceglie liberamente in modo da poter condividere con i poveri involontari le proprie risorse, materiali e immateriali. La sua è stata definita da Leonardo Boff 


un'autentica rivoluzione morale: dall'economia dell'elemosina e del regalo, propria della società dei signori, si passa all'economia della restituzione per diritto” (p. 47) .


Anche di questo aspetto peculiare del messaggio francescano, Coniglione non può fare a meno di sottolineare l'attualità, citando in proposito papa Francesco:


Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un'omelia marxista. «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». Sono parole di sant'Ambrogio, servite a papa Paolo VI per affermare, nella Populorum Progressio, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro” (p. 46).


Superfluo aggiungere che sia il Francesco medievale che il Francesco del XXI secolo non hanno ricevuto il consenso che speravano. Per limitarci al primo dei due, scoraggiato per la piega 'moderata' che stava assumendo il suo movimento, preferì cederne ad altri la direzione e trascorse, tra ingratitudini e diffidenze, gli ultimi anni di vita. Un discepolo – Tommaso da Celano - che lo conobbe personalmente, e ne scrisse due biografie, notò che già tra i frati sopravvissuti alla morte del fondatore non pochi preferiscono “riposare prima ancora di lavorare [], lavorando più con le mascelle che con le mani” e “senza faticare, si nutrono col sudore dei poveri” (p. 52). E' una storia nota, non solo nelle tradizioni religiose ma anche nelle esperienze politiche dell'umanità: onestà, giustizia, uguaglianza, sobrietà...sono valori affascinanti da predicare al mondo, non necessariamente da praticare in prima persona (specie se, proprio grazie alla proclamazione di quei valori, si è arrivati ai vertici del potere istituzionale). 


La doppia metamorfosi del cristianesimo originario

Coniglione dedica varie pagine anche alla diffidenza di Francesco d'Assisi verso la teologia e mette in evidenza uno dei nessi fra tale diffidenza e la sua tendenziale fedeltà ai dettami evangelici: chi fa l'intellettuale di professione è tentato dall'orgoglio, dal potere, talora dal profitto economico. Ma ci sono altri nessi, più profondi e nascosti. Anche il teologo soggettivamente più sobrio, e distaccato da ambizioni mondane, producendo teologia contribuisce – oggettivamente – a snaturare il cristianesimo (dove “snaturare” non implica alcuna valutazione di merito: può darsi che, cambiando continuamente 'natura', il cristianesimo si assicuri una più durevole persistenza storica). La teologia, infatti, è il prodotto più tipico della metamorfosi del cristianesimo da proposta di vita a visione-del-mondo, da atteggiamento etico-esistenziale a dottrina teoretica: insomma, una sorta di gigantesco alibi per sostituire la ricerca della virtù con la speculazione intellettuale. Francesco non è, o non è necessariamente, un “simplex et idiota” (p. 73). Pur rivelando nei suoi scritti una notevole finezza espressiva, non è stato un pensatore. Non per questo, però, è stato un irrazionalista. Chiunque può ammirare la filosofia, la razionalità, la logica, a patto di non illudersi che esse possano sostituire, subdolamente, la fede come aspirazione all'unione col Tutto e alla compenetrazione empatica con i sofferenti. La sua è stata, dunque, 


una diffidenza verso quel sapere teologico che, avventurandosi in arzigogolate interpretazioni, alimenta il timore che la parola si sostituisca all'azione, che ci si senta soddisfatti nel predicare, senza a ciò far seguire l'operare, laddove invece lo 'spirito' della parola divina non è il ripeterla od onorarla solo nella sua dimensione verbale, ma farne lievito di azione concreta, di pratica operativa” (p. 77). 


Non si trattava per lui di esaltare l'ignoranza o di disprezzare l'istruzione, ma di invertire il cammino della Chiesa che, a mille anni dalle origini, aveva consentito alla teo-logia di soppiantare la teo-pratica (se così si potesse chiamare l'imitazione agapica del Dio annunziato da Gesù). 

E', in sostanza, il (forse disperato) tentativo di papa Francesco di riavvolgere il nastro a quei secoli iniziali in cui soccorrere un malato o salvare un naufrago erano gesti più urgenti e più rilevanti che processare i teologi dubbiosi sulla “pericoresi” intra-trinitaria o sul divieto dei metodi anticoncezionali: dopo tre decenni di governo del duopolio Wojtyla- Ratzinger, nei quali si sono formati per la maggior parte i preti e i vescovi cattolici, sarà possibile senza rischiare un ennesimo scisma? E, se tale scisma non dovesse palesarsi, dopo Bergoglio tornerà qualche nuovo papa talmente concentrato - con le scarpette di Prada al piede – sul dilemma se il presbitero opera la “transustanziazione” oppure la “transignificazione” dell'ostia da non chiedersi su quali edifici della City londinese vengano investiti i miliardi donati dai fedeli alla Santa Sede?

Il “giullare di Dio” ha intuito che, nel passato, l'intellettualizzazione del messaggio cristiano aveva reso possibile, se non addirittura inevitabile, una seconda metamorfosi: da movimento “carismatico”, profetico, a istituzione gerarchica, ricca di denari e di potere. E che, dunque, la novità della sua proposta di “fratellanza” si sarebbe inaridita e sclerotizzata se fosse diventata una bella teoria, utilizzabile ideologicamente per legittimare un nuovo “Ordine” religioso da sommarsi ai tanti altri “Ordini” trasformatisi, nel tempo, in potentati politico-economici. 

Pare che il Francesco della storia abbia cercato di mediare fra la radicalità della sua ispirazione originaria (condivisibile da pochi discepoli più motivati) e l'esigenza di venire incontro alla maggioranza dei “frati minori”, bisognosi di un minimo di istruzione teologica e di inquadramento disciplinare, se li si voleva mantenere nell'alveo ecclesiale cattolico: 


è stata proprio la capacità di articolare, nei luoghi e nei tempi opportuni, questi due momenti indispensabili ad assicurare la stupefacente fortuna del movimento francescano” (p. 104)


passato in dieci anni (dal 1209 al 1219) da 12 frati a circa 5.000 in tutta Europa, in Africa settentrionale e in Medio Oriente. 

Ma le vicende dei secoli successivi, con i frequenti tentativi di “rifondare” il francescanesimo imborghesitosi, sono state – per riprendere la citazione da Jacques Dalarun (alle pp. 110 – 111) – quasi 


la riedizione del destino della Cristianità: tra insegnamento del Vangelo e necessità di istituire una Chiesa, come tra il carisma del santo fondatore […] e la necessità, per una fondazione, per un Ordine di vivere queste esigenze giorno per giorno. Tutto sommato ciò che viene svelato in maniera frammentaria nella morte del santo fondatore, è la difficoltà, il paradosso o la sfida che costituisce l'esistenza stessa di una società cristiana”.


Coniglione riporta alcuni passaggi, a mio avviso tragicomici, della gestione ecclesiastica del “paradosso” francescano in quanto riproposizione del “paradosso” gesuano. Negli anni immediatamente successivi alla morte del Poverello (1226) qualche discepolo si richiama al suo Testamento per suffragare la necessità di un severo rispetto delle regole ivi raccomandate. Il papa Gregorio IX interviene nel dibattito con una finezza argomentativa ammirevole: Francesco è stato il fondatore, ma di un Ordine di uguali. Dunque non può essere considerato, specie da morto, superiore ai suoi frati. Se gli si vuole essere veramente fedeli, non gli si può essere troppo: ha predicato la fratellanza, dunque spetta alla comunità dei frati stabilire come vivere concretamente, senza lasciarsi condizionare dalla sua pedissequa sequela dei dettami evangelici. Il papa ha ragione, ma – aveva osservato con non minore acutezza il cardinale Giovanni di San Paolo, vescovo di Sabina - la Chiesa non può rifiutarsi di “dare almeno una accettazione verbale alla proposta di Francesco” se non vuole rischiare di “bestemmiare Cristo, autore del Vangelo” (p. 112). Ciò che non è avvenuto per Francesco, è però capitato a tanti suoi poveri discepoli: bruciati vivi – in seguito a sentenze di condanna emesse da altri frati minori ! - perché avevano preso troppo sul serio le parole di Gesù come riportate nel Nuovo Testamento (cfr. pp. 375 - 380). In fondo, colpevoli - più che di un peccato – di un erroneo metodo esegetico: interpretare letteralmente quanto dev'essere inteso, a quanto pare, metaforicamente... 


Quale radicalità nel vangelo?

Vorrei qui aprire una parentesi. Considerando i protagonisti dell'epoca medievale non è difficile tifare per Francesco contro le gerarchie ecclesiastiche, ben avviate – tra Innocenzo III e Bonifacio VIII - verso il culmine dell'elefantiasi teocratica. Ma, nel XXI secolo, alla luce sia delle scienze bibliche sia delle scienze umane, è ragionevole per un cristiano condividere la radicalità evangelica nello stesso senso in cui la intendevano Francesco (per ripristinarla, difenderla, promuoverla) e il Magistero cattolico (per smussarla, limarla, riservarla a pochi eletti)? O entrambi contendevano a partire da alcuni equivoci secolari sì che, oggi, ha senso puntare sulla radicalità evangelica ma a patto di restituirla, per quanto possibile, al significato originario (proprio dei primi tre secoli dell'era volgare)? La mia risposta è quest'ultima e, per argomentarla, sintetizzo brutalmente il volume I consigli evangelici. Proposta e interpretazione (Edizioni Dehoniane, Roma 1990) di Ortensio da Spinetoli, un biblista rinomato che, tra l'altro, è stato proprio un religioso francescano (più precisamente un membro dei Frati Minori Cappuccini , ossia di un Ordine fondato nel XVI secolo per riformare l'Ordine - ritenuto decadente – dei Frati Minori) e di cui lo stesso Coniglione cita più volte la monografia Francesco: l'utopia che si fa storia (Cittadella Editrice, Assisi 1999). 

Premetto un chiarimento terminologico: mentre, nel vocabolario comune, una persona 'religiosa' è una persona che segue una propria religione o, almeno, una propria religiosità interiore, nel lessico teologico-ecclesiale cattolico è una persona che si è “consacrata” in maniera speciale a Dio accettando di “praticare la castità nel celibato per il Regno, la povertà e l'obbedienza” (Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1992, punto 915, p. 249); sia che rimanga una persona solo battezzata sia che – nel caso dei maschi – abbia accesso al ministero presbiterale, cioè diventi prete. Mentre ci sono ordini religiosi, congregazioni, associazioni che chiedono altre promesse solenni e vincolanti (ad esempio la “stabilità” nel monastero di appartenenza per Benedettini e Benedettine o “l'assistenza ai malati” per i Camilliani o “l'obbedienza speciale al papa” per i Gesuiti), tutte le istituzioni 'religiose' cattoliche devono chiedere ai propri membri almeno i tre voti di castità (celibataria), povertà e obbedienza perché sarebbe questo il modo oggettivamente migliore per “seguire Cristo da vicino” (ivi). Castità da celibe (o da nubile) significa astensione rigorosa da ogni relazione affettivo-sessuale con persone del proprio o dell'altrui sesso; povertà significa rinunzia totale ad ogni proprietà, e tendenzialmente ad ogni possesso, di beni materiali; obbedienza significa dipendenza continua dalla volontà di un'altra persona che si trovi, temporaneamente o definitivamente, a occupare un ruolo di governo della propria comunità 'religiosa'. 

Dove nasce il problema? Dalla constatazione, evidente, che dalle fonti evangeliche a nostra disposizione non risulta che Gesù fosse un celibe (poiché sarebbe stato molto strano per un rabbi trentenne non essere sposato, le fonti lo avrebbero notato) né tanto meno si astenesse da relazioni affettive con amiche (le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria; Maria Maddalena; le molte donne che facevano parte del suo gruppo errante); che fosse un povero (a differenza di Giovanni Battista non si dice mai che vestisse pelli di animali e mangiasse locuste); che fosse obbediente a qualsiasi autorità umana, religiosa o civile, se non nei limiti di ogni altro concittadino ebreo (e solo nella misura in cui tale obbedienza non dovesse ostacolare la sua obbedienza all'unica volontà da lui ritenuta assoluta, la volontà divina). Insomma: per quel che ne possiamo sapere storicamente, Gesù non fu né un eremita solitario né un monaco di clausura né un frate mendicante né un prete celibe e diffidente d'ogni relazione con donne. Spiegare come mai dal modello gesuano si sia potuti arrivare al modello monastico-conventuale esigerebbe un volume a parte da inscrivere nella più ampia questione delle influenze greche, manichee, gnostiche sul piccolo seme del movimento spirituale palestinese del I secolo.

Ciò che importa in questa sede è chiarire che Francesco, figlio del suo tempo, rivendicava (a mio parere meritoriamente) radicalità evangelica, ma identificandola (a mio parere disastrosamente) con un modello di vita imperniato sulla mortificazione della dimensione sessuale e affettiva, dell'autonomia nella gestione dei beni materiali e soprattutto della libertà di coscienza e di scelta. Solo in parte il suo intuito spirituale gli ha fatto presentire che l'anelito alla santità è sì un cammino senza mete prestabilite, senza limiti dettati dal moderatismo bigotto, ma un cammino essenzialmente interiore non sottostante alle regole moralistiche di chi stabilisce che l'astensione da ogni pratica genitale sia preferibile ai rapporti sessuali; quanti soldi si possano spendere ogni giorno per non varcare la soglia della povertà volontaria; che farsi manovrare (“perinde ac cadaver”: come se si fosse un cadavere) da un capo-comunità, per obbedienza militare, sia più cristiano del metodo democratico-assembleare adottato nei primi secoli dopo Cristo. 

Come spiega Hans Küng a proposito di Thomas More, canonizzato dalla Chiesa cattolica, non aveva certo rinunziato ai piaceri del sesso e alle gioie della famiglia (ebbe due mogli e dalla prima, morta prematuramente, tre bambine e un maschietto); né alle ricche proprietà familiari dal momento che “aveva una casa magnifica a Londra, una a Chelsea sulla riva del Tamigi, con biblioteca, una galleria, una cappella e un parco unito ad un frutteto” (Libertà nel mondo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2014, p. 18), né, tanto meno, all'esercizio del potere (fu Gran Cancelliere del Regno d'Inghilterra, dunque l'uomo più autorevole subito dopo il sovrano). Possedette, ma come se non fosse padrone di nulla (cfr. 1 Cor. 7, 29 - 31). E che fosse davvero libero dai vincoli affettivi, dai beni economici e dal potere politico lo dimostrò con i fatti quando gli eventi lo misero alla prova: tra obbedire a Enrico VIII, che gli chiedeva di sostenerlo pubblicamente nello scisma da Roma per banali faccende matrimoniali, e perdere – insieme alla vita – i familiari, le proprietà, l'autorità politica, non ha esitazioni. “Egli tentò di evitare il conflitto e di ritirarsi a vita privata: presentò le sue dimissioni motivare da «ragioni di salute». Non cercava il martirio” (ivi, p. 47). Ma, quando si accorse che poteva evitarlo solo tradendo la sua coscienza – nella quale riteneva di percepire la volontà divina – lo accettò rassegnato e senza perdere il suo proverbiale umorismo: “rinunciò alla famiglia” prendendo “congedo dalla moglie e dai figli che non poterono più visitarlo nemmeno in prigione” (p. 50); “rinunciò ai suoi possedimenti: perse i redditi, licenziò la servitù, dovette lasciare che gli confiscassero i beni” (p. 49); “rinunciò alla sua posizione nello Stato: si dimette dagli incarichi e restituisce al re il Gran Sigillo. L'uomo, che era il politico più eminente d'Inghilterra, fu gettato nel carcere della Torre di Londra” (ivi). 

Insomma, la radicalità del cristiano non si misura con autoflagellazioni masochistiche del proprio corpo né con un pauperismo che ci consegna totalmente all'arbitrio di chi - autonominatosi o eletto a capo di una comunità 'religiosa' – può decidere della nostra vita, avendo, come unico limite al proprio potere, la lex naturalis (interpretata “infallibilmente” dall'autorità papale): questa “radicalità” non merita, a mio avviso, di essere difesa a oltranza. Si permetta pure ai monsignori che vogliono godersi a fondo la vita, anche grazie alle rinunzie dolorose che consigliano ai fedeli, di aggirarla con vari giochetti dialettici. La “radicalità” evangelica autentica è altra.

La cosa più importante per un cristiano” - afferma Küng a conclusione della sua breve monografia su More – è 


compiere una scelta radicale nella fede, per Dio, il Signore e il suo regno, a dispetto di tutte le inclinazioni peccaminose, e conservarla intatta attraverso le vicende ordinarie di ogni giorno. Conservare, vivendo nel mondo, la libertà fondamentale nei confronti del mondo, in mezzo alla famiglia, ai possedimenti e alla vita politica, nel servizio di Dio e dei fratelli. Possedere la lieta prontezza ad attuare questa libertà, in ogni tempo, nella rinuncia e, quando si è chiamati a farlo, nella rinuncia totale. E' solo in questa libertà dal mondo, cercata, per amore di Dio, che il cristiano, il quale vive nel mondo e la riceve come dono di grazia di Dio, trova la fortezza, la consolazione, la potenza e la gioia, che sono la sua vittoria (ivi, pp. 54 – 55). 


E allora “l'ubbidienza è sempre una virtù insostituibile, ma va prestata a Dio cercato, conosciuto, amato con la sincerità de dedizione di un figlio” (O. da Spinetoli, I consigli evangelici, cit., p. 63), non a un altro essere umano:


Gesù ha liberato l'uomo dal dominio del proprio simile. Egli non si ritroverebbe in un'istituzione (religiosa) che lega, subordina i suoi membri a un sedicente delegato divino” (ivi, p. 64). 


Anche la povertà, intesa come “spoliazione volontaria”, può essere “un messaggio per chi rischia di diventare schiavo dei beni temporali”, ma


deve soprattutto mirare ad alleviare l'indigenza, il dubbio, l'inquietudine delle moltitudini bisognose. La sua funzione può essere anche ascetica, ma è prima di tutto umanitaria. L'illusione che occorre sempre evitare è che in se stessa abbia un valore, che sia un gesto accetto a Dio, come se egli trovasse particolare compiacimento a contemplare l'uomo indigente, spoglio, privo di sussistenza, addirittura nella miseria piuttosto che chi è nella prosperità e nell'abbondanza o che egli senta più vicino a sé colui che soffre che chi gioisce. Un'affermazione o aberrazione in cui si è spesso caduti e si rischia sempre di ricadere. Quel che Dio sicuramente vuole è che gli uomini siano felici, che lo siano tutti non soltanto alcuni” (ivi, p. 95). 


Quanto alla castità, poi, essa non implica la rinunzia alla propria dimensione affettivo-sessuale, quanto una gestione saggia della stessa: dunque rispettosa della libertà dei partner e funzionale all'integrale completamento della propria e dell'altrui personalità. Come scrive genialmente Drewermann, la “castità” autentica - testimoniata già da Gesù per primo - 


significa questo: intuire qual è l'essenza dell'altro e riportarla in superficie con la stessa attenzione che distingue un restauratore di quadri quando toglie i ritocchi operati da estranei e risana gli effetti della corrosione del tempo per rendere nuovamente visibile l'opera originaria; evidenziare le linee del carattere, in cui l'Io dell'altro manifesta di più la sua bellezza; accogliere in se stesso il ritratto del suo sorriso e l'espressione della sua tristezza così che queste immagini dell'attimo possano manifestare pienamente la verità della sua persona; attirare l'anima dell'altro che è sepolta sotto montagne di macerie, fatte di speranze distrutte, gesti nascosti, pensieri segreti, e farla ritornare alla luce del sole; far sì che l'anima faccia fiorire le zone devastate, bruciate, disseccate o gelate dall'angoscia e vi si senta a suo agio. Si tratta ello sforzo di liberare il corpo dell'altro dai vincoli di un falso pudore e di donargli la sua originaria bellezza e innocenza” (E. Drewermann, Funzionari di Dio. Psicogramma di un ideale, Edizzioni Raetia, Bolzano 1995, p. 506).


I classici “consigli evangelici” codificati dalla tradizione cristiano-cattolica nei tre “voti” di castità, povertà, ubbidienza andrebbero interpretati in maniera ben diversa da come è avvenuto storicamente, anche da parte di Francesco e dei francescani: il che non significa in maniera più “permissiva” o “ammorbidita”, ma più ragionevole e più seria. E comunque perché ci si è fissati – e si continua a perseverare – proprio su questi tre “consigli” come se non ce ne fossero di altrettanto, anzi più, tipici e rilevanti, quali la “pazienza”, la “misericordia”, il “coraggio”, la “sollecitudine per chi soffre” e mille altri ?


Francesco e il mondo della natura

Il secondo capitolo di questo ampio saggio di Coniglione è dedicato a Francesco e il mondo della natura. Non c'è dubbio che, se consideriamo le correnti filo-gnostiche e neo-manichee coeve, egli abbia rappresentato una silenziosa ma ferma protesta. Senza la violenza repressiva delle autorità cattoliche, tuttavia Francesco ha espresso un forte richiamo a quelle pagine bibliche che indicano la natura extra-umana, intrisa di materia, come dono del Creatore e motivo di gratitudine nei suoi confronti. Come nota Franco Cardini , dopo aver tratteggiato l'eresia catara,


se teniamo presente tutto questo e porgiamo orecchio ai Minori che, nelle strade dell'Europa, lodano il Signore per tutte le Sue creature, il Cantico si rivela anche un efficace, serrato, appassionato manifesto anticataro” (p. 159). 


Questa rivalutazione del mondo fisico, corporeo, non poteva non coinvolgere anche il regno animale. Egli sembra oltrepassare “l'idea che la natura debba essere soggiogata e dominata dall'uomo e che solo nella misura in cui ciò accade essa diventa un «paradiso»” (p. 151): ritiene, infatti, che essa “deve essere apprezzata così com'è, ha una sua bellezza intrinseca, anche se in qualche caso deve essere addomesticata, secondo lo stereotipo agiografico del potere sugli animali come prova di santità” (ivi). 


Ovviamente ciò non significa fare di Francesco un animalista nell'accezione odierna, né tanto meno sostenere un suo pur indiretto sostegno per il vegetarianismo o addirittura il veganismo: non solo manca ogni testimonianza in tal senso e anzi si possono citare numerosi episodi in cui egli consuma carne di animali , ma soprattutto perché di solito nel mondo cristiano antecedente a Francesco le pratiche vegetariane erano giustificate in termini penitenziali e non per il rispetto dovuto agli animali” (p. 154).


Il predicatore umbro è stato frenato, nel portare alle estreme conseguenze logiche la sua compassione con i “fratelli” animali, dalla “idea di una superiorità dell'umanità nella gerarchia della creazione” (un'idea irrinunciabile per “un uomo impregnato dei sentimenti del suo tempo”) (p. 152)? Coniglione sembra pensarlo, in linea per altro con la stragrande maggioranza degli studiosi. Personalmente sono convinto che la medesima convinzione della “superiorità dell'umanità” (ovviamente relativamente a molti parametri, non a tutti) rispetto alle altre specie, di per sé potrebbe condurre a conseguenze pratiche esattamente opposte: proprio se un essere è più evoluto dal punto di vista della coscienza, è anche più responsabile delle sue azioni. Il leone non può fare a meno di divorare la gazzella se ha fame: l'uomo – che ha il terribile potere di uccidere la gazzella senza necessità, per puro gioco da imbecilli – ha però anche la libertà di rinunziare a mangiare carne di altri animali e di cercarsi alternative non violente (o meno violente). La libertà potenziale lo sposta al di sopra dell'invincibile innocenza a-morale degli altri animali e lo inchioda alle sue responsabilità. 

Comunque la si pensi su questo tema, più in generale l'atteggiamento di Francesco nei riguardi del mondo naturale rimane “ancora ambivalente” (p. 181). Infatti non c' dubbio che, da una parte, 


tutta la sua vita è una gioiosa condivisione della natura e dei suoi animali, che fanno parte del progetto di salvezza di Cristo e quindi hanno una dignità pari all'uomo, in quanto tutte creature divine e tutti fratelli/sorelle: non si perviene a Dio fuggendo dal mondo, ma amandolo profondamente, identificandosi con esso” (p. 180).


Tuttavia, dall'altra parte, è altrettanto incontestabile che su Francesco e i suoi discepoli 


abbiano pesato i canoni ascetico-spirituali ed agiografici del tempo, tra gli elementi più caratteristici dei quali sono o v'erano un atteggiamento di sospetto, talvolta di disprezzo, verso il corpo […]. Questo influsso a nostro avviso ha frenato alquanto l'atteggiamento spontaneo, istintivamente positivo, dell'anima francescana verso il corpo ed ha colorato la prassi spirituale e la visione dottrinale francescana verso di esso di una certa tinta di pessimismo anticorporale, che è in oggettivo contratsto con l'affermazione di Francesco e dei suoi seguaci della positività di tutte le cose, anche di quelle materiali” (così G. Iammarrone cit. a p. 181). 


Dunque – come già a proposito di quanto osservato sulla rilettura dei classici voti 'religiosi' (castità, povertà,obbedienza) – non possiamo vedere in Francesco un modello per la spiritualità contemporanea. Non perché siano stati registrati nel suo profilo caratteriale degli aspetti di durezza, di eccessivo rigore, di intolleranza: in questo non si è discostato molto dalla figura canonica del “fondatore” (in cui “il carisma [] appare sempre come un abuso di potere”), in genere “un tipo particolare, che potremmo definire, cum grano salis, un insoddisfatto aggiunto a un megalomane: nulla di ciò che esiste mi soddisfa (leggere il Testamento); io posso fare meglio di qualunque sino ad ora. [] Dominus ego: quanta presunzione in questa linea diretta! (così J. Dalarun citato alle pp. 182 – 183).

No, la inadeguatezza del modello-Francesco per le donne e gli uomini del XXI secolo affonda le radici ben più in profondità. Egli può essere considerato un prezioso traghettatore dal teismo - sinora dominante in tutte le principali Chiese cristiane - antropomorfo, fortemente dualistico e (per citare Matthieu Fox) “amartiocentrico” (=centrato sul peccato) verso quella teologia, ancora in fase di elaborazione, che assume con serietà l'innominabilità del Divino e la sua onnipresenza nel cosmo (senza necessariamente sfociare nel panteismo). 



Sulla mistica francescana

Francesco ha lasciato tracce indelebili anche – e forse soprattutto – nella storia della mistica cristiana. A proposito delle quali vanno notati almeno due aspetti.

Il primo riguarda il nesso fra mistica e poesia. Opere liricamente significative, a cominciare dal Cantico di frate sole vanno considerate come documenti di un hobby personale, ai margini dell'attività principale - per così dire professionale – del padre fondatore di nuove famiglie spirituali? Con sguardo penetrante, l'autore di questo poderoso studio mostra che non è per nulla così. Francesco e i suoi (basti citare Jacopone da Todi) attestano che l'esperienza interiore del Divino non può essere espressa con il linguaggio ordinario; che essa è costretta, se non si rassegna al silenzio, a tutta una “strumentazione retorica” che “tende a un al di là della lingua stessa scardinandone alla radice la logica” e che è “esattamente quella della poesia”; che, insomma,


quando la poesia affronta temi mistici o quando, anche al di fuori di ogni contesto propriamente religioso, si slancia verso il Sacro e il Trascendente, poesia e mistica sono la stessa cosa” (così F. Zambon qui citato a p. 231).


Un secondo aspetto degno, fra tanti altri, di essere sottolineato è che Francesco incarna, per così dire plasticamente, un itinerario mistico il cui vertice – sino a quando si calpesta la polvere di questo pianeta – non è la beatitudine della fusione con l'Assoluto. Coniglione illustra questo aspetto parafrasando Riccardo di San Vittore che, nella descrizione 'canonica' dei tre gradi dell'ascesa a Dio, introduce 


“ una significativa novità quando al terzo grado dell'amor languens, nel quale si ha excessus mentis e il suo rapimento nell'abisso della luce divina, egli fa seguire un quarto grado di discesa, affinché l'anima possa conformarsi perfettamente a Cristo, essendone l' imitatio: è l'umiliazione di ritornare sulla terra, farsi carne e sopportare le sofferenze inflitte sino alla morte. […] Una conclusione assai importante in quanto mostra come «il rapimento mistico e l'unione con Dio non bastano, sono soltanto la premessa dell'opera che ogni uomo è chiamato a compiere tra i suoi fratelli, imitando Cristo» (F. Zambon). E' l'opera che – aggiungiamo – si pose come missione della propria vita Francesco” (p. 229). 


Siamo, come Coniglione non manca di far notare, agli antipodi dalle aporie della “mistica speculativa” su cui, in Italia, insiste da decenni Marco Vannini, con il forte rischio di ridurre l'esperienza ineffabile del Divino a


una sorta di hegelismo di ritorno, dove il «pensiero speculativo» - che supera ed eccede l'intelletto di cui sono fatte le scienze profane ed empiriche – viene di fatto equiparato al mistico” (p. 234)


e al quale interessa il cristianesimo dei dogmi più cervellotici (teandricità di Cristo, unitrinità di Dio) più che l'essenzialità dell'invito evangelico originario ad amare con gratuità e operosità.

Va comunque notato che sarebbe storicamente falso fare finta che Francesco non condividesse la dogmatica cristiana - diventata l'unica ortodossa dal IV secolo in poi – e, in particolare, che non credesse che la natura umana di Gesù fosse innervata in una Persona divina (non in una persona umana): solo dal XVIII secolo a oggi – prima in ambienti 'laici', poi via via anche in ambienti ecclesiali – è stato possibile, con gli sviluppi delle scienze bibliche, contestare il passaggio, avvenuto lentamente ma inesorabilmente dalla morte di Gesù in poi, dalla venerazione per Gesù il Cristo (=Messia) all'adorazione di Gesù in quanto Dio. Come tutti i mistici di ogni religione, egli esprime la sua esperienza spirituale all'interno di un apparato concettuale e simbolico che eredita, senza averlo scelto. Anzi, secondo S.T. Katz (qui citato alle pp. 194 – 195), 


le esperienze stesse sono inevitabilmente modellate da influenze linguistiche precedenti in modo tale che l'esperienza vissuta si conforma a uno schema preesistente che è stato appreso, poi inteso, e poi attualizzato nella realtà esperienziale del mistico”.


Per questo non sono sicuro che Francesco abbia avvertito i dogmi cristiani (l'incarnazione o la Trinità) come “dottrine «folli» o “paradossi” su cui meditare come su Köan Zen in modo da “mettere in scacco quella vigile coscienza razionale che impedisce l'apertura della mente a un altro e diverso tipo di accesso al Vero” (p. 251): più semplicemente, da buonfedele medievale, egli vi ha aderito a-problematicamente, ma, da buon mistico, ha avvertito la “infinita distanza tra ciò di cui sente di avere immediata esperienza” e “l'apparato teorico cristiano” (o, per altri mistici, “giudaico, buddhista, islamico ecc.”) (p. 195). Da buon mistico cristiano, inoltre, ha concentrato la propria attenzione non sulla “propria vita interiore” (p. 242) - Francesco non scrive una sola parola su questa dimensione, sarà Bonaventura a “costruire una teologia mistica” francescana (p. 269) - , ma sulla prassi evangelica propria e dei suoi seguaci. 

Distante dalla mistica “speculativa”, più teoretico-metafisica che esistenziale-affettiva, Francesco lo è altrettanto dalla mistica “naturalistica”, atea o agnostica o panteistica, tipica del successivo Romanticismo europeo. Va dunque rispettato nella sua identità di “uomo arcaico e neomoderno” (L. Boff qui citato a p. 275), la cui “grandezza” sta in ciò:


pensare e agire nel contesto di una proposta integralmente cristiana – a pieno titolo all'interno della sua tradizione, dei suoi dogmi, dei suoi riti – e nondimeno aver proiettato tale sua visione su uno sfondo più ampio, più comprensivo, tale da essere in grado di parlare ad ogni uomo, religioso o laico che sia. In ciò sta lo scandalo e il paradosso di Francesco, che tante interpretazioni divergenti ha suscitato” (p. 279).

La divergenza delle interpretazioni suscitate dalla figura e dal messaggio di Francesco si registra già lui vivente. In tutta laParte seconda di questo volume (pp. 305 – 380) l'autore riepiloga – in ordine cronologico – le reazioni, dentro e fuori del movimento francescano, all'originalità del Fondatore: è un intreccio di vicende drammatiche, intrighi, tradimenti, processi, condanne, roghi, rivincite...rispetto a cui le soap opere brasiliane più inverosimili appaiono romanzetti sfornati da scrittori privi di fantasia. 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com