giovedì 29 novembre 2012

Il Verona gioca a Palermo: trasferta in Africa?


“Repubblica – Palermo” 29.11.2012

IL TIFOSO LEGHISTA E LA TRASFERTA IN AFRICA

Secondo molti antropologi è in Africa che si è perfezionato – per la prima volta – il processo di ominizzazione: la nostra specie ha superato il livello evolutivo dei primati ed è diventata umana. Ed è in Africa - molto prima che in Grecia o a Roma, per non parlare delle aree selvagge dell’Europa continentale – che è maturata la civiltà egiziana, madre sapiente e tecnologicamente esperta di tante altre civiltà, in Oriente come in Occidente. Senza un certo Gesù di Nazareth e un certo Agostino di Tagaste, entrambi africani vissuti appena al di là del Canale di Sicilia, non ci sarebbe stato il cristianesimo. E quando la civiltà cristiana è entrata disastrosamente in crisi - come nell’Alto Medioevo, quando Roma era poco più di un villaggio tra le cui rovine pascolavano le pecore – ancora una volta è stato attraverso l’Africa che ci ha salvato l’islamismo (nato in Medio-oriente): dal VII secolo sino al XIII una delle civiltà più raffinate intellettualmente e più attrezzate scientificamente che siano mai apparse sulla faccia della terra. Senza il suo contributo, meraviglie architettoniche come l’Alhambra di Granada o il Duomo di Monreale non sarebbero state erette.
Poi, dal XVI secolo a oggi, il colonialismo europeo prima, e statunitense dopo, hanno preso di mira il Continente nero come campo di spietato sfruttamento di materie prime e persino di uomini e donne ridotte in schiavitù. L’economia di tanti villaggi perfettamente autonomi è stata stravolta: con la furbizia o con la violenza le grandi multinazionali hanno estirpato le coltivazioni tradizionali e impiantato monoculture di estensione industriale, rendendo le popolazioni indigene salariati precari. Gli italiani, brava gente, sono stati i primi nella storia del mondo a bombardare la popolazione civile in Libia nel 1911 e ad usare le armi chimiche in Etiopia durante il regime fascista. L’Africa non è dunque un’area povera che si deve vergognare della povertà, ma un’area impoverita di cui si devono vergognare i conquistatori del Nord del mondo.
Tutto questo è ben noto negli ambienti istruiti e, dunque, a maggior ragione, nelle sezioni della Lega Nord. Ecco perché sono certo che Massimo Bessone, consigliere Comunale della Lega Nord e Pdl a Bressanone e coordinatore della Lega Nord Isarco e Pusteria (Trentino-Alto Adige), quando ha scritto sul suo blog che il Verona avrebbe giocato a Palermo la sua prima trasferta africana, ha inteso fare un complimento ai siciliani. L’unico problemino che resta è confortare le famiglie di tanti immigrati africani che, da anni, lavorano nelle industrie del Nord-Est italiano: nelle ultime ore si sono moltiplicati i segnali di grave preoccupazione per i propri cari, costretti da un destino amaro a trasferirsi in zone dell’Europa dove sopravvivono ancora esemplari antropologici che la Modernità si era illusa di aver civilizzato una volta e per sempre.

Augusto Cavadi

venerdì 23 novembre 2012

Il direttore di “Famiglia cristiana” a Palermo


Nell’ambito delle iniziative per festeggiare il rinnovo dei locali della Libreria Paoline di Palermo, don Antonio Sciortino ha tenuto una conversazione pubbica sul rapporto tra fede e comunicazione sociale.
Per coincidenza, sono usciti oggi due miei pezzi complementari sull’argomento.
Il primo (dal settimanale “Centonove”) è un resoconto della serata.
Il secondo (sulla pagina siciliana di “Repubblica”) è un’intervista a don Sciortino (che qui riporto senza i tagli redazionali, quasi tutti riguardanti le mie domande più che le risposte dell’intervistato).



“Centonove”, 23. 11. 2012

SE LA CHIESA DIMENTICA IL VANGELO

Una serie di iniziative nel mese di novembre stanno festeggiando il rinnovo completo dei locali di una delle librerie storiche di Palermo: la Libreria delle Edizioni Paoline che, da ben 83 anni, opera in uno dei palazzi che fronteggiano la stupenda cattedrale arabo-normanna della capoluogo regionale. All’interno di queste manifestazioni si è tenuta, la sera di giovedì 15, una conversazione di don Antonio Sciortino, attuale direttore del settimanale “Famiglia cristiana”. Il tema annunziato era abbastanza pacifico: l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale alla luce del Concilio Vaticano II (di cui ricorre il cinquantesimo dell’apertura). Ma il relatore ha avuto il merito di non affrontare la questione attenendosi al registro celebrativo-omiletico: con gli occhi spalancati sull’attualità, ha mostrato il coraggio di parlare a cuore aperto senza infingimenti diplomatici.
Il filo rosso della conversazione si può concentrare nella domanda: la ventata rinnovatrice del Concilio Vaticano II è stata stemperata, se non addirittura tradita, dalla Chiesa? La risposta è stata, senza ‘se’ e senza ‘ma’ , affermativa. Per suffragarla, don Sciortino ha evocato due argomenti principali. Il primo: i papi successivi a Giovanni XXIII e a Paolo VI sono stati bloccati dalla preoccupazione di trasformare la struttura verticistico-monarchica in senso collegiale, sinodale. I “sinodi” dei vescovi continuano, ogni tanto, a essere convocati: ma si svolgono a porte chiuse e, anche quando si concludono, l’opinione pubblica (ecclesiale ed extra-ecclesiale) non sa cosa davvero sia stato detto dai prelati intervenuti. Solo dopo circa due anni il papa edita un documento sul tema del sinodo, documento nel quale c’è appena qualche rara e pallida traccia di ciò che davvero era stato dibattuto e proposto.
Ma – questo è un secondo argomento evocato dal direttore di “Famiglia cristiana” – i vescovi, praticamente zittiti dai papi, si rifanno nelle loro diocesi: riproducono, nei propri microcosmi, l’impianto piramidale. Più in particolare ciò comporta che essi si attorniano di preti fedeli e, quasi sempre, tengono i laici – uomini e donne – a debita distanza. Insomma, questi cinquant’anni non hanno assistito alla declericalizzazione della Chiesa cattolica: i battezzati-cresimati in serie B erano e in serie B sono rimasti.
L’atmosfera complessiva – ha ricordato il relatore – è ben resa dal titolo di un recente libro scritto a quattro mani da un prete e da un laico cattolico: Manca il respiro. Il fervore di idee, la vivacità di proposte, la ricchezza di sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta all’interno delle comunità cattoliche sono ormai un ricordo lontano: per evitare anche solo il rischio del conflitto, si preferisce un silenzio tombale. Don Sciortino non l’ha detto ma, a molti dei presenti, son tornati alla mente gli attacchi ripetuti che, negli ultimi venti anni, sono stati rivolti a “Famiglia cristiana” per il suo atteggiamento critico nei confronti di tanti aspetti della politica interna e internazionale dei governi succedutisi, soprattutto di centro-destra.
Una Chiesa che non favorisce, anzi addirittura contrasta, la comunicazione al proprio interno è una Chiesa che non sa dialogare al proprio esterno. Ci sono stati momenti nella storia recente (si pensi alla “guerra fredda” fra Stati Uniti e Urss) in cui la parola del papa, dei vescovi, dei laci impegnati (come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira) è risuonata con autorevolezza ed è stata recepita con rispetto: ma da troppo tempo, ormai o non la si ode quando la si attenderebbe (per esempio contro le leggi razziste riguardo agli immigrati) o la si ode quando non la si attenderebbe (per esempio a favore di finanziamenti statali alle scuole private).
Se questa è la diagnosi, la terapia è semplice da enunciare e ardua da applicare: ritornare allo spirito del Concilio Vaticano II e, più in radice, al vangelo di Gesù il Signore. Non si tratta di inventare nuovi contenuti: l’essenziale è stato detto una volta e per sempre. (Anche se – aggiungerei a titolo personale - troppo spesso questo “essenziale” viene incompreso e travisato, per varie ragioni tra cui l’ignoranza delle scienze bibliche). Si tratta di inventare nuove modalità di comunicazione: non si può continuare con il tono di chi ammaestra perché non ha nulla da imparare da nessuno, bisogna osservare i nuovi stili comunicativi (inseparabili dai nuovi mezzi tecnici di comunicazione) e imparare ad adottarli. La comunicazione, oggi ancor più di ieri, lungi dal ridursi a trasmissione unilaterale da un emittente a un ricevente, è scambio bilaterale e paritetico. Una Chiesa che voglia farsi ascoltare deve acquisire un atteggiamento previo di ascolto e, conseguentemente, di sintonizzazione con la lunghezza d’onda della società. Altrimenti i suoi monologhi saranno destinati ad incartarsi in sé stessi, la sua lingua si ridurrà a un dialetto specialistico per nostalgici di un tempo tramontato e di una subcultura in via d’estinzione.

Augusto Cavadi



“Repubblica – Palermo” 23. 11. 2012

CHIESA E MAFIA, IL RAPPORTO AMBIGUO
Intervista a don Antonio Sciortino

Non è proprio un ritorno a casa, ma quasi. Don Antonio Sciortino è nato infatti cinquantotto anni fa a Delia e, dopo varie tappe, è arrivato a dirigere uno dei settimanali più diffusi, più amati e più contestati del Paese: “Famiglia cristiana”. Il periodico che, durante il ventennio berlusconiano, qualcuno ha definito – con leggera esagerazione – l’unica voce di opposizione del mondo cattolico. La Sicilia l’ha lasciata subito dopo il ginnasio e ha vissuto la maggior parte della vita a Milano. Quando qualcuno si è stupito che fosse assegnato a un siciliano l’Ambrogino d’oro, ha risposto di considerarsi ormai un milanese d’adozione. “Ma le mie radici restano sempre in Sicilia” – si affretta ad aggiungere – “assieme agli affetti e ai valori di dignità e onestà che ho respirato, fin da bambino, in famiglia e nella mia terra”. Già, la Sicilia. In cosa la trova mutata in questi decenni? La sua visione delle cose non è entusiastica: “Purtroppo, faccio fatica a capire un’atavica rassegnazione dei miei compaesani, che accettano tutto come fosse un destino cui non possono farci nulla. Come i vinti di Giovanni Verga, destinati alla sconfitta. Così, per loro è normale che, soprattutto in estate, nei paesi manchi l’acqua o arrivi col contagocce. Senza reagire come si deve, perché acqua, strada e luce non si negano a nessuno. Invece, si ritengono fortunati se dai rubinetti scorre l’acqua almeno tre giorni alla settimana. Eppure, la Sicilia è ricca d’acqua. E così in tante altre situazioni, dove il diritto diventa un favore che bisogna implorare o pagare per averlo. Non è cresciuto il senso di cittadinanza attiva e di partecipazione diretta alla costruzione del proprio destino e dello sviluppo del proprio paese. In positivo, c’è qualche accenno di risveglio civile da parte dei giovani, che non si rassegnano alla dittatura della mafia. E cominciano a capire che la malavita organizzata è una schiavitù, un destino di morte e non di libertà e di vita”.
A un prete-giornalista, che per anni ha seguito Giovanni Paolo II nei suoi viaggi intorno al mondo, è difficile non chiedere un parere sull’atteggiamento della gerarchia cattolica nei confronti dei mafiosi: dall’appello di papa Wojtyla nella Valle dei Templi alle recenti scomuniche dell’arcivescovo di Agrigento che i mafiosi non li vuole in chiesa né da vivi né da morti. “Certo” – osserva don Sciortino - “dall’affermazione di tanti anni fa che la mafia in Sicilia non esisteva e che era un’invenzione del Nord, a dichiarazioni esplicite di condanna, il salto è stato netto e positivo. Bisogna far capire che non c’è nessuna accondiscendenza da parte della Chiesa alla mafia e alla mentalità mafiosa. Malavitosi che esibiscono Bibbie, Vangeli, crocifissi e icone sacre nei loro nascondigli offendono il sentimento religioso dei credenti. E fanno un torto a Dio con il quale, come tuonava Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, dovranno fare i conti un giorno. Ma” – aggiunge subito - “la denuncia pubblica, sia pure importante, non basta. Bisogna partire dalla formazione delle nuove generazioni. Sradicare la mafia è possibile, non solo con la repressione delle forze dell’ordine, ma soprattutto incidendo nella mentalità dei giovani. Con la scuola e l’educazione. I ragazzi devono capire che il rispetto della legalità e l’onestà sono valori che appartengono non ai deboli, ma ai forti”. A proposito di educazione, gli chiedo quanto possa essere efficace un’azione pedagogica non supportata dall’esempio. E per essere più esplicito, dopo avergli ricordato che , in questi ultimi anni, alcuni politici hanno costruito la propria fortuna elettorale sbandierando la propria appartenenza ecclesiale , gli chiedo come mai nessuna voce autorevole del mondo cattolico abbia preso le distanze da questi politici né quando scalavano le vette del potere né quando ne sono precipitati per acclarate responsabilità penali. Il direttore di “Famiglia cristiana” mi scruta un momento, quasi a volersi concentrare. Ma non elude la questione: “Nessuno deve strumentalizzare la Chiesa per scopi politici e di parte. Ma, al tempo stesso, neanche la Chiesa deve farsi strumentalizzare e usare, in cambio di favori e privilegi. La sua voce deve essere nitida e alta quando sono in ballo valori fondamentali. O quando vengono calpestati i diritti dei più deboli e indifesi. Deve annunciare il Vangelo nella sua interezza e scomodità, rispetto alla mentalità corrente, senza balbettare. Anche quando non è facile dire la verità. E c’è un costo da pagare. Ma la verità, come ci ricorda il Vangelo di san Giovanni, ci renderà liberi. No, quindi, ai compromessi col potere, soprattutto se iniquo”.
Don Sciortino è a Palermo per parlare, nella rinnovata sede storica della Libreria Paoline di Corso Vittorio Emanuele, del rapporto fra la fede e la comunicazione sociale. Palermo, nel maggio dell’anno venturo, sarà teatro di un evento dall’ampia risonanza mediatica: il parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, sarà proclamato “beato”. Alcuni considerano illuminante che la Chiesa proponga a modello un prete che, invece di fare finta di niente, abbia affrontato il prepotere mafioso faccia a faccia. Ma altri temono che, elevando don Puglisi agli onori degli altari, lo si releghi un po’ troppo in alto: che si possa suggerire, involontariamente, la convinzione che solo figure eccezionali di santi possano sfidare il martirio e che i preti “normali” siano legittimati a mantenersi prudentemente distanti da questo genere di problematiche. Ma don Sciortino sembra condividere solo in minima parte questa preoccupazione: “Tutti i preti dovrebbero fare quello che faceva don Puglisi. Che non faceva nulla di così straordinario, se non annunciare il Vangelo ed educare le nuove generazioni secondo i principi cristiani. Che sono quanto di più opposto ci sia nei confronti della mentalità mafiosa. Ed era proprio questo che dava fastidio. Perché così don Puglisi colpiva la mafia in profondità. Bonificava il terreno perché alla mafia venissero a mancare nuove leve. Mi auguro che la prossima beatificazione di don Puglisi sia un riconoscimento e uno sprone per tutti i preti a educare i giovani secondo il Vangelo. Con più coraggio”.
Prima di chiudere la conversazione sulla Sicilia di ieri e di oggi, gli chiedo uno sprazzo sul futuro. Non certo previsioni da veggente, piuttosto auspici da conterraneo. “Sogno finalmente” – mi confida - “una Sicilia protagonista del suo destino. Sia in campo ecclesiale che civile. Che sappia, una volta per tutte, reagire alla rassegnazione, e contrastare il fenomeno mafioso alla radice. Con più senso dello Stato e delle istituzioni. Ma ci vuole una nuova classe politica, meno gattopardesca, che badi più al bene comune e alla crescita della Sicilia, che ai propri privilegi, davvero smisurati. Che non danno una buona immagine dei siciliani nel resto del Paese. Noi siamo di più rispetto ai mafiosi e ai malavitosi: così dovrebbero dire le tutte le persone oneste in Sicilia. E, al tempo stesso, uscire allo scoperto e impegnarsi per una Sicilia davvero nuova. Questa bella isola ha immense risorse umane e civili. E grandi potenzialità di crescita e sviluppo”.

Augusto Cavadi

mercoledì 21 novembre 2012

Orientación filosofica e insegnamento della filosofia


A cura di Luz Gloria Cárdenas Mejía e di Carlos Enrique Restrepo sono usciti, in Colombia, gli Atti di un convegno internazionale ivi svoltosi nel 2008.
Il libro, intitolato DIDÁCTICAS DE LA FILOSOFÍA VOL. 2, è stato edito dalle Edizioni San Pablo di Bogotà.
Riporto qui la traduzione italiana del mio testo spagnolo, edito alle pp. 57 - 69 .

Orientación filosofica e insegnamento della filosofia: affinità, differenze, sinergie operative.

1. La orientación filosofica all’interno della più ampia famiglia delle pratiche filosofiche.
Nel 1998 lo studioso italiano Alessandro Volpone ha proposto di usare la denominazione “pratiche filosofiche” per indicare un frastagliato complesso di sperimentazioni accomunate dall’idea che “la filosofia, sotto forma di con-filosofare, almeno duale, possa essere praticata in luoghi, situazioni, contesti altri rispetto a quelli tradizionalmente deputati alla produzione-riproduzione disciplinare”: come ” esercizio dialogico, paritario e democratico fondato sull’argomentazione e il contraddittorio, il dissenso, il rispetto, la tolleranza”.
Lo stesso studioso, alcuni anni dopo, ha proposto un criterio di catalogazione: “Snodi storici importanti di questa variegata tradizione d’uso, che, senza alcun progetto unitario, s’è venuta frammentariamente e indipendentemente costituendo lungo il XX secolo, sono almeno tre o quattro: la nascita del Sokratisches Gësprach di Nelson, la Philosophy for children di Lipman, la Philosophische Praxis di Achenbach (…), il Café philò e la Consultation philosophique di Sautet, ecc. Ciascuno di questi ‘eventi’ apre la strada ai diversi filoni di sviluppo della costellazione attuale delle pratiche filosofiche “.
In Italia indichiamo con “consulenza filosofica” ( o, secondo me più opportunamente, con “filosofia in pratica” o “filosofia applicata” o “filosofia da consultazione”) il movimento che si richiama alla Philosophische Praxis di Achenbach, di cui fanno parte - tra gli altri - l’argentina Roxana Kreimer; i peruviani dell’associazione Buho Rojo di Carmen Zavala e Octavio Obando; gli spagnoli José Barrientos Rastrojo, Luis Cencillo e Monica Cavallé. Come apprendo da un’introduzione molto istruttiva a queste tematiche, esistono varie formule nelle diverse lingue contemporanee: Philosophische Praxis e Philosophische Beratung in tedesco, Philosophy Practice e Philosophical counseling in inglese, Consultation philosophique in francese. Non pochi i problemi per lo spagnolo perché l’equivalente di ‘consulenza’ (la asesorìa) è stato rifiutato dalla ETOR (l’associazione dei filosofi-consulenti spagnoli) perché “troppo mercantil, cioè troppo legato terminologicamente a forme professionali che con il senso dell’esistenza ben poco hanno a che fare (consulenza fiscale, consulenza del lavoro eccetera) e inoltre perché troppo direttamente connesso con il concetto di dare consigli che non è proprio quello che un consulente dovrebbe fare”: da qui la decisione di risolvere “l’impasse con l’inedito orientación filosofica”.

2. Affinità tra orientación filosofica e pratica didattica
Mi è capitato più di una volta di sentirmi obiettare: ma, insomma, qual è la differenza fra il filosofo consulente e il docente di filosofia?
La domanda nasce dalla constatazione, inoppugnabile, che vi sono numerosi punti di contatto fra le due professioni.
a) Innanzitutto esse condividono un presupposto per così dire antropologico: entrambe sono possibili in quanto l’interlocutore (alunno o consultante) sia, almeno parzialmente, un potenziale filosofo. Prendendo spunto da un motto di spirito di Karl Popper (“Ognuno ha una filosofia, ma nella maggioranza dei casi questa non ha valore”), Achenbach illustra questa “acquisizione fondamentale”: “ognuno filosofeggia – normalmente senza esserne consapevole – in quanto non solo pensa e riflette, ma prende posizione sul proprio pensare e sui propri pensieri. Quasi chiunque giunge nella propria vita a situazioni, nelle quali si dimostra necessario un ‘secondo pensare’ (…) e cioè un prendere posizione sulle proprie prese di posizione”. Esattamente come un docente che, kantianamente, si prefigga d’insegnare non la filosofia ma a filosofare, “il consulente cerca di evocare il filosofo nascosto nel consultante”.
b) Filosofi sì, ma solo in potenza. Qui emerge una seconda affinità, rilevabile sul versante metodologico più che dal punto di vista antropologico: il consulente, come l’insegnante, sa di dedicarsi ad “una filosofia per non filosofi” e dunque di aver bisogno del “talento di traduttore” . Che significa, innanzitutto ed elementarmente, l’arte di tradurre in linguaggio accessibile le idee della tradizione filosofica senza tradirne il rigore e, per quanto possibile, la densità. Ma, secondariamente e più sottilmente, l’arte di ‘tradurre’ in linguaggio filosofico gli interrogativi, più o meno consapevoli, che si agitano nella mente degli interlocutori. Come si esprime in proposito Achenbach, il talento di chi decifra “la coscienza” dei non-filosofi e, prestandole le parole per dirsi, mette sé stesso in grado di “poter entrare filosoficamente in dialogo con essa”. Se dunque si vuole usare la metafora dell’esistenza del consultante come “testo” su cui il consulente esercita la sua “abilità ermeneutica”, lo si può fare solo a patto di precisare - subito - che non si tratta di un testo “filosofico”, bensì “narrativo”: quasi “un romanzo” da cui si debba “trarre un principio filosofico soggiacente e rilevarne la pervasività“.
c) Una terza affinità, più sostanziale delle altre, concerne il fine delle due attività. Esse, infatti, mirano entrambe a rendersi - tendenzialmente - superflue: per l’una come per l’altra sarebbe da considerare un indice d’insuccesso se si inchiodasse l’interlocutore in una qualche forma di dipendenza. Non so se si possa affermare che “quando un cliente confida i suoi problemi a uno psicoterapeuta diviene dipendente dalle sue competenze e può perdere considerevolmente autonomia rispetto alla ricostruzione del racconto della sua vita” perché “lo psicoterapeuta non gli insegna come portare avanti un’analisi psicoterapeutica”: ma è indubbio che il filosofo, sia in quanto consulente che in quanto docente, incoraggia nell’interlocutore “l’autonomia della propria azione” mediante sia il trasferimento degli “strumenti posseduti” sia l’insegnamento delle “abilità necessarie ad usarli”.

3. Differenze fra orientación filosofica e pratica didattica
Le affinità non devono nascondere le ancor più profonde differenze.
a) Comincerei da una notazione fenomenologicamente evidente: il filosofo che si rende disponibile per consulenze viene cercato, e pagato, da soggetti fermamente decisi a interloquire con lui. Da soggetti, dunque, che – in ipotesi – o amano già l’approccio filosofico o sono comunque predisposti favorevolmente nei suoi confronti.
Laddove il filosofo che insegna, soprattutto nelle scuole secondarie, non può dare per scontata nei suoi interlocutori la stessa disponibilità: in quanto didatta e pedagogo, ricade su di lui l’onere di inventare le strategie più adatte per iniziare al mondo filosofico delle persone che si trovano nella condizione di ‘dover’ studiare una disciplina senza necessariamente amarla. Va considerato, in proposito, che tale iniziazione è viziata (nel senso di ‘ostacolata’ o , in altri casi, ‘resa poco autentica’) dall’ambiente in cui si agisce: ” la scuola è ‘lavoro’, ‘obbligo’, implica sforzo (eteronomia) e, soprattutto, ‘valutazione’ ”
b) La diversa disponibilità al confronto, da parte dei consultanti e da parte degli alunni, è spia di una diversa posizione nei confronti del filosofo. Nel caso dei consultanti, infatti, si tratta di un rapporto - almeno tendenzialmente - paritetico, laddove il rapporto maestro-discepolo è, di per sé, asimmetrico. Queste affermazioni riguardano il piano dei princìpi: l’esperienza attesta abbondantemente che, di fatto, molti consultanti (pur giocando il ruolo di co-filosofanti) non riescono a stimolare filosoficamente il consulente nella stessa misura in cui ne sono stimolati, mentre certi alunni, in certe circostanze, contribuiscono alla crescita intellettuale del docente più di quanto non riesca a farlo il docente stesso. Al di là del groviglio relazionale empirico, dal punto di vista epistemico la differenza c’è. L’asimmetria istituzionale e fisiologica tra maestro e discepolo si palesa in maniera vistosa quando il tipo di insegnamento (in alcuni licei e, ancor più frequentemente, nelle università) prevede che il professore possa legittimamente avviare gli alunni, più che alla storia della filosofia (come di solito avviene in Italia), ad una determinata filosofia (come avviene più frequentemente nelle scuole francesi, tedesche e anglo-americane). Questo approccio è, invece, radicalmente inaccettabile all’interno della consulenza filosofica: il consulente deve mettersi “sempre in discussione assieme al compagno di dialogo, per quanto spesso possa essere più colto, più lucido, più esperto in materia di competenze sia formali che materiali”. Insomma: “Il consulente filosofico, per quanto possa trovarsi spesso anche a insegnare, non è un insegnante, ma un vero e proprio filosofo e deve perciò aver maturato una personale capacità di porsi filosoficamente di fronte a ogni genere di sapere e di problema. Deve, in altre parole, vivere personalmente la saggezza filosofica, basata sul socratico non sapere”. Qualora ritenesse di fare “l’educatore - etico, sapienziale, esistenziale, dottrinario – non farebbe più il filosofo e la sua consulenza non sarebbe filosofica. Egli deve viceversa sempre porre sé stesso e le proprie convinzioni filosofiche in gioco, deve avere sempre l’intenzione e la volontà di imparare dal consultante”.
c) Una terza differenza concerne le finalità che caratterizzano, rispettivamente, l’avventura filosofico-dialogica e l’impresa pedagogico-didattica. La prima, infatti, si configura come una relazione di aiuto – sia pur intellettuale – nei confronti di soggetti che intendono modificare alcune situazioni vitali o, per lo meno, la propria visione di alcune situazioni vitali: soggetti che chiedono di essere agevolati nella chiarificazione di precisi e concreti problemi che li angustiano. Nel contesto scolastico ed accademico il rispetto per gli alunni esclude simili intenti : l’insegnante ha il diritto/dovere di restare, in quanto insegnante, nell’ambito cognitivo e culturale, senza prefiggersi esplicitamente ed intenzionalmente di ‘utilizzare’ gli spazi della pratica filosofica per riassestare l’ottica dei suoi (giovani) interlocutori.
E’ ovvio che non si sta escludendo che un singolo alunno possa chiedere a un singolo docente un colloquio per misurare alcune ricadute esistenziali o etico-politiche dello studio filosofico: ma, a mio parere, in quel momento il docente non è interpellato in quanto docente, bensì appunto in quanto consulente filosofico.
E’ altrettanto ovvio che non si sta escludendo la possibilità - statisticamente frequente - che lo studio della filosofia (sia della sua storia che di alcune sue tematiche) possa comportare degli effetti - per lo più benefici - sulla dimensione esistenziale degli studenti: ma si sta escludendo che tali effetti - al di là dell’occasionalità, accidentalità ed auspicabilità - rientrino nelle finalità programmatiche ed istituzionali dell’insegnamento. Chi si sentirebbe di qualificare fallimentare un triennio di relazione didattica al termine del quale lo studente dimostrasse di aver capito le diverse teorie filosofiche ma di non volersene avvalere (per le ragioni più diverse: non escluse eventuali ragioni…filosofiche) nella pratica personale? Di contro, “la consulenza filosofica non è una lezione di filosofia su problemi astratti, bensì essa si concentra sulla filosofia per come questa è incorporata nella vita concreta. E’ perciò importante che si lasci parlare il modo di essere dei consultanti (compresi i loro problemi, i loro atteggiamenti, le loro speranze, ecc.) non meno delle loro teorie pubbliche. La preoccupazione principale è la filosofia nella vita dei consultanti, non le loro teorie sulla vita” .
d) Le differenze nell’atteggiamento degli interlocutori (a), nel genere di rapporto con loro (b) e nelle finalità professionali (c), ne implicano ulteriori sul piano dei metodi. Da questa angolazione, la più eclatante riguarda il ruolo del testo scritto. Per un insegnante il riferimento principale è costituito dai classici della storia del pensiero: sia che vengano letti, spiegati e commentati già come primo approccio sia che vi si arrivi dopo un percorso didattico propedeutico. Anche nel caso - a mio avviso preferibile - che si solleciti l’alunno ad una elaborazione sistematica personale, in ambito scolastico il confronto con la letteratura filosofica resta un aspetto ineliminabile. Del tutto differentemente, il riferimento principale per un consulente è costituito dalla filosofia che l’ospite ha maturato sino a quella fase della sua vita (da ‘profano’, grezzamente) e che, di solito, esterna in forma orale, non mediante scrittura. Qualcuno ha anche provato a dettagliare meglio i ‘capitoli’ dell’ ‘opera’ filosofica che, quasi senza averne coscienza, ciascun essere umano va costruendo in base alle esperienze di vita, alle intuizioni soggettive e ai condizionamenti ambientali: “nell’ambito della cosmologia o filosofia della natura (…) come ci si rappresenta l’origine e l’evoluzione dell’universo, l’apparire della vita, l’evoluzione eccetera”; “determinate rappresentazioni metafisiche, nel senso di una ‘ontologia’ (…) e della risposta del tutto individuale al problema della trascendenza”; “alcune questioni gnoseologiche” concernenti, ad esempio, la distinzione fra “sapere e credere”; “asserzioni sui propri valori e obiettivi (…) anche nel senso di un personale sistema etico”; “qualcosa come un’immagine dell’essere umano” e le conseguenti “rappresentazioni sul ‘male’ (negatività, distruttività) nell’essere umano in relazione alle debolezze in sé stessi e negli altri” o sulla “morte”.
Anche quando certi gesti sono identici - per esempio un consiglio bibliografico - diverso ne è il significato: “la filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa prescrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina? Allo stesso modo, anche l’ospite nella consulenza filosofica non verrà addottrinato, non gli verranno cioè date in pasto parole intelligenti né gli verranno servite ‘teorie’ “. La “biblio-terapia” (l’espressione veniva usata anche da Sautet) può avere senso solo come suggerimento dietetico di alimenti da metabolizzare per raggiungere quella ’saggezza’ di cui il consulente dovrebbe essere testimone: almeno nella misura in cui, da parte sua, “grazie alle letture sia diventato consapevole e in grado di comprendere, se abbia acquisito in questo modo un sesto senso per ciò che normalmente rimane trascurato e se abbia imparato a sentirsi a suo agio anche nei pensieri, nelle sensazioni e nei giudizi differenti e poco comuni, in quanto solo nel momento in cui egli pensa e percepisce insieme al suo ospite, può allora liberarlo dalla sua solitudine - o dal suo senso di isolamento - riuscendo forse così a spingerlo verso altri criteri di valutazione della vita e delle sue circostanze”.

4. Sinergie operative fra orientación filosofica e pratica didattica.
Abbiamo cercato di fissare, insieme alle forti affinità, i confini fra consulenza filosofica e docenza filosofica. Non per puntigliosità gratuita: la chiarezza epistemologica è condizione necessaria, anche se non sufficiente, della correttezza deontologica e dell’efficacia professionale. Tuttavia bisogna ammettere - e certo non con dispiacere - che fra le due attività sono possibili reciprocamente delle sollecitazioni, o addirittura dei supporti.
Come è stato notato da Francesco Dipalo, in Paesi come l’Italia sono state “gettate le basi, epistemologiche e sperimentali, di una sorta di ‘rivoluzione copernicana’ nella didattica della filosofia, con il contributo assai rilevante della stessa S.F.I. Dall’insegnamento della materia interpretato come trasmissione ex cathedra di nozioni manualistiche, in un’ottica quasi esclusivamente storicistica, si è passati allo studio e alla sperimentazione di specifiche pratiche incentrate sul confronto diretto con i testi della tradizione. Il recupero della centralità del testo ha comportato un nuovo assetto del rapporto docente-discente e del rapporto di quest’ultimo con la disciplina. La conoscenza dei contenuti, in chiave storica, dottrinale e concettuale, è ora concepita in funzione del progressivo sviluppo da parte dello studente di determinate abilità filosofiche, che contribuiscono in maniera decisiva – cito dal recente documento OSA elaborato dalla Commissione Didattica della S.F.I. - « all’arricchimento della formazione culturale, umana e civile delle nuove generazioni e al conseguimento delle finalità cognitive e formative generali del sistema dei licei. L’insegnamento filosofico non è qui inteso come trasmissione di un sapere compiuto, ma come promozione di un abito di riflessione, di ricerca e di ragionamento su questioni di senso, di valore e di verità, acquisito attraverso il dialogo con gli autori della tradizione filosofica» (S.F.I., OSA di Filosofia, Riflessioni, indicazioni, suggerimenti, in «Comunicazione filosofica», 15 [2005], su www.sfi.it e in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», 185 [2005], p. 67). Insieme al professore e attraverso il suo esempio, lo studente diventa un ’soggetto filosofante’ a tutti gli effetti, e la lezione un vero e proprio ‘laboratorio’ di esperienze riflessive, in cui, attraverso la reciprocità e la relazione dialogica a più livelli (intrapersonale, interpersonale docente-discente e discente-discente, comunitario, ecc.), si forma un modo di essere, un ethos, <> “. Dopo aver precisato, in nota, che “la bibliografia intorno a queste tematiche è assai ricca” ed aver citato “l’ultimo lavoro di Fulvio Cesare Manara, Comunità di ricerca e iniziazione al filosofare. Appunti per una nuova didattica della filosofia, Lampi di stampa, Milano 2004, e il manuale-laboratorio didattico (corredato di CD-ROM) realizzato da Enzo Ruffaldi e Mario Trombino, L’officina del pensiero. Insegnare e apprendere filosofia, LED, Milano 2004)”, Dipaolo così prosegue: “Come dire, la nuova frontiera dell’insegnamento della filosofia nel sistema liceale (di recente esteso anche ai nuovi licei previsti dalla riforma Moratti) non è far comprendere ai ragazzi, ad esempio, che cosa sia il dialogo socratico, bensì imparare con loro a farne esperienza concreta in classe e fuori; non è spiegare in cosa consista teoricamente un problema filosofico, bensì aiutarli ’socraticamente’ a problematizzare e a concettualizzare il vissuto autobiografico e socio-linguistico di cui sono portatori, motivando il loro stare a scuola; aiutarli ad apprendere l’ascolto attivo, il rispetto del prossimo come premessa all’arricchimento del Sé, a praticare la democrazia; in ultima istanza, fornir loro la possibilità effettiva di interrogare se stessi e di interrogare la realtà avendo di mira il ‘ben vivere’ in chiave individuale, sociale e politica”.

a) Che cosa può dare la consulenza filosofica alla pratica didattica?
Ho sostenuto che in un’aula scolastica o universitaria il docente non ha il dovere, e neppure il diritto, di misurare le ricadute esistenziali o etiche o politiche del suo insegnamento. Se un allievo capisce perfettamente l’etica kantiana e ne sa discutere con intelligenza, l’insegnante deve limitare a questo ambito cognitivo la sua valutazione: non deve certo lasciarsi condizionare dal fatto che l’alunno, nei rapporti con la fidanzata o quando va a votare per il rinnovo del Parlamento, si mostra incoerente con i princìpi kantiani. Tuttavia bisogna ammettere che questa impostazione pedagogica comporta dei rischi. Il professore - per eccesso di rispetto verso il vissuto degli studenti - può tendere a trasformarsi in una sorta di computer che sforna informazioni, dati bibliografici, teorie asettiche: così la scuola diventa una camera pressurizzata del tutto estranea alla domanda di senso che ogni studente, in quanto persona, porta in sé.
Forse la consulenza filosofica, con la sua attenzione programmatica al vissuto esistenziale degli interlocutori, può aiutare gli insegnanti a limitare questo rischio. Intendiamoci: né i consulenti né i docenti possono trasformarsi (a meno di deformare il loro ruolo) in apostoli religiosi o in propagandisti ideologici. Tuttavia non sarebbe realistico negare l’esigenza - da parte di tutte le generazioni e, in particolare, delle più giovani - di avere dei ‘maestri’ : sia sul piano ‘tecnico’ delle strumentazioni che sul piano ’sostanziale’ degli orientamenti di vita. Se non c’è questione dal primo punto di vista (nessuno può seriamente dubitare dell’opportunità che il consulente filosofico, ed ancor più l’insegnante, forniscano nozioni storiche, metodologie logiche, abilità dialettiche etc.), come risolvere invece il dilemma dal secondo punto di vista (quando, cioè, si tratta di confrontarsi sulle grandi opzioni esistenziali ed etiche)? Direi che, tra gli opposti profili del guru cui conformarsi e dell’enciclopedia vivente che non lascia trasparire nessuna convinzione soggettiva, ci sia un certo spazio per la comunicazione che Kierkegaard qualificava ‘indiretta’. Come consulente e come docente, non devo convertirti a nessuna prospettiva teoretica; ma come filosofo ho il diritto, e forse anche il dovere, di non seppellire sotto una coltre impenetrabile il mio modo di essere. Ciò che sono diventato grazie alla filosofia non ho nessun motivo per imporlo, ma neppure per nasconderlo. Una volta il papa Paolo VI ebbe a sostenere che, in campo religioso, c’è più bisogno di testimoni che di maestri: mi pare un’indicazione preziosa da trasferire in campo filosofico. Quando si va oltre l’addestramento tecnico, consulenti e docenti dovrebbero autointerpretarsi più come testimoni che come maestri. O, se si preferisce esprimersi in maniera meno provocatoria, dovrebbero autodefinirsi ‘maestri’ solo in quanto insegnano - prima di tutto ed essenzialmente – che siamo tutti condiscepoli davanti agli enigmi della vita.

b) Che cosa può dare la pratica didattica alla consulenza filosofica?
Abbiamo appena visto quali sensibilità può risvegliare la consulenza filosofica in chi insegna filosofia. Ma lo scambio è anche in senso inverso. Abbiamo affermato che il consulente non è un docente, non deve richiamare alla memoria dell’ospite tremila anni di tradizione filosofica prima di discutere con lui il lutto per la perdita di un figlio o l’opportunità di trasferirsi in un altro continente per lavoro. Ma se alcuni consulenti filosofici (come il tedesco Achenbach) insistono su questa differenza, altri (come il canadese Raabe) fanno notare che, comunque, il consulente - se vuole rendere autonomo il consultante - gli deve fornire degli strumenti filosofici che gli consentano di proseguire per conto proprio la riflessione e di affrontare, da solo, eventuali dilemmi futuri. Questo significa che il consulente, pur restando consulente, deve acquisire alcune competenze e abilità pedagogico-didattiche. Qui mi pare che gli insegnanti abbiano un patrimonio esperienziale da trasmettere ai consulenti o da cui, per lo meno, i consulenti farebbero bene a lasciarsi contagiare. Non è detto infatti che un consulente sia in grado, solo perché sa pensare filosoficamente, di comunicare ai suoi visitatori gli elementi essenziali dell’alfabetizzazione filosofica. E, soprattutto, non è detto che lo sappia fare non solo individuando gli elementi ‘oggettivamente’ essenziali ma anche graduando, di caso in caso, a seconda dei tempi di apprendimento del cliente concreto, la loro esposizione. Con una leggera forzatura sloganistica direi che, mentre l’approccio maieutico del consulente può aiutare il docente a far diventare parola ciò che nell’alunno giace inespresso, l’approccio pedagogico dell’insegnante può aiutare il consulente a saper tacere ciò che egli sa di filosofia per farne diventare parola solo una piccola parte: in questa capacità di non inondare gli alunni con la propria erudizione, di saperla centellinare senza fretta né esibizionismo, sta forse uno dei segreti dell’arte d’insegnare.

Augusto Cavadi

domenica 18 novembre 2012

Il Sessantotto secondo Alberto Biuso


“Repubblica – Palermo”
18.11.2012

SESSANTOTTO A PERDERE

Alberto G. Biuso

Contro il Sessantotto.
Saggio di antropologia.

Villaggio Maori, 170 pagine, euro 14.

Il Sessantotto ha segnato, almeno simbolicamente, uno spartiacque epocale: la società occidentale fondata sulle tradizioni, sulle convenzioni, sulle gerarchie castali ha subìto scosse telluriche come non accadeva – probabilmente – dal tempo della Seconda guerra mondiale. E dopo il decennio ’68 – ’77? Sono arrivati i micidiali anni Ottanta: Reagan in USA, Thatcher in Gran Bretagna, Craxi in Italia. Per restare in Italia, il 1992 ha segnato – fra tragedie di ogni genere – il passaggio dalla Prima Repubblica (quando rubare per il proprio partito non era ritenuto reato) alla Seconda (in cui ci si vorrebbe far credere che non sia reato rubare al proprio partito). Insomma, ce n’è abbastanza per non mitizzare il Sessantotto. Ce n’è anche a sufficienza per demonizzarlo, tendendo a trasformare il “dopo” in “a causa di”? Se non ci si lascia fuorviare dal titolo (Contro il Sessantotto), questo agile ma denso libro del filosofo catanese Alberto Giovanni Biuso può costituire un prezioso strumento valutativo. Esso infatti, pur evidenziando molte ambiguità insite nell’esprit del ’68, non trascura di segnalarne alcuni elementi positivi. Forse – se non interpreto troppo benevolmente le pagine dedicate a quegli anni infuocati – i veri bersagli della polemica sono quei sessantottini che hanno utilizzato la contestazione per sedersi al posto dei potenti scalzati.

venerdì 16 novembre 2012

CHIESA E POLITICA ? MEGLIO PREDICARE CON L’ESEMPIO


“Centonove” 16.11.2012
CHIESA E POLITICA ? MEGLIO PREDICARE CON L’ESEMPIO

Ricordate il rumore di pochi mesi fa sul movimento politico “Uomini nuovi per una società di uguali e partecipi”, promosso da un gruppo di preti palermitani in vista delle elezioni regionali? La reazione critica di quasi tutti i commentatori ‘laici’, di qualche storico della Chiesa particolarmente autorevole (don Francesco Michele Stabile) e soprattutto della Curia arcivescovile hanno spento la fiammella sul nascere. La montagna ha partorito il topolino: la leader del movimento si è candidata, in quanto donna “nuova” ed “onesta”, in una delle liste collegate con Musumeci (dunque in allegra compagnia con chi ha sgovernato sino a Monti e ha reso possibile le elezioni di Lombardo alla Regione e di Cammarata al Comune). Se si fosse collegata al pronipote di don Luigi Sturzo, ancora ancora…Risultato: 774 voti in tutta la provincia di Palermo, settima della sua lista (di cui è stato eletto solo un candidato, con più del decuplo dei voti di Flavia Odoroso). Ma anche se fosse andata diversamente, e la signora fosse stata eletta, una rondine avrebbe portato la primavera? Un consigliere all’ARS può avere tutte le qualità soggettive del mondo, ma vale quanto vale la politica del suo schieramento d’appartenenza.
Più saggia la posizione del cardinale Romeo che, senza entrare all’interno della competizione fra partiti e liste, si è concentrato nella evidenziazione di alcuni dei problemi più scottanti che il mondo politico dovrebbe affrontare con urgenza: astensionismo, disoccupazione, corruzione, collusione con le cosche mafiose… Insieme a tutti i vescovi siciliani, poi, ha anche emanato alla vigilia delle elezioni regionali un documento di riflessioni sull’attuale condizione sociale e politica (dal titolo, preso in prestito dalla Bibbia, Amate la giustizia, voi che governate sulla terra).
Che eco registrano simili appelli, quali conseguenze incisive nelle coscienze e nelle pratiche della gente (più o meno convintamente cattolica)? E’ impossibile dare risposte attendibili. Ciò che si può asserire con certezza è che sarebbero più efficaci se la chiesa siciliana accompagnasse la parola con il gesto, l’invito con l’esempio. Per la verità, i vescovi lo affermano sin dalle prime righe: “Siamo chiamati ad un discernimento profondamente evangelico che richiede una conversione radicale: non vogliamo esimerci da un necessario esame di coscienza riguardo alle responsabilità che anche noi credenti, insieme con tutti gli altri, abbiamo avuto in questo processo di degrado. È urgente un tempo di riflessione per affrontare non solo l’ormai prossimo appuntamento elettorale, ma soprattutto il periodo che ad esso seguirà. Lo diciamo ai cristiani e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che operano in questa terra: è necessario che il grido di dolore dei piccoli e dei poveri trovi accoglienza piena e coraggiosa nell’azionepolitica e nel quotidiano operare delle Istituzioni”. La questione è se, e come, simili lodevoli propositi potrebbero tradursi in fatti.
Sensibilità ecologica? Le comunità cattoliche che mi capita di frequentare (parrocchie, monasteri, strutture di accoglienza) non mostrano un’attenzione alla raccolta differenziata dei rifiuti, o al risparmio dell’acqua o alla produzione di energie alternative, più elevata della media dei siciliani (notoriamente disattenti).
Ripudio del sitema di dominio mafioso? Non mi pare di ricordare che, quando un politico - asceso ai vertici sbandierando la sua formazione cattolica - venne condannato per mafia, i vescovi abbiano preso pubblicamente le distanze da lui e ricordino che la mafia non è solo bombe e lupara, ma anche corruzione e clientelismo.
Trasparenza amministrativa? In molte parrocchie d’Italia si rende pubblico il bilancio trimestrale delle entrate e delle uscite (anche per eventuali perequazioni fra parrocchie ricche e parrocchie povere della stessa diocesi): non mi risulta che, di norma, avvenga così anche da noi.
Partecipazione democratica? Su molte questioni organizzative il parroco dovrebbe condividere la responsabilità delle decisioni con i membri del consiglio parrocchiale (composto da laici): assai raramente, dalle nostre parti, è dato di farsi le ossa in queste scuole di democrazia.
Disaffezione politica? In parrocchia si svolgono, nel corso dell’anno, centinaia di incontri formativi per varie fasce d’età e per vari ambiti d’interesse: solo una minima parte di questi incontri riguardano le tematiche su cui si scontrano le diverse opzioni elettorali (Stato sociale, immigrati, difesa dell’ambiente…).
Legalità? Quanti sono gli istituti ecclesiastici - retti da preti, frati e suore – che si avvalgono per le loro attività (asili, scuole, cliniche, case di riposo, alberghi…) di personale laico assumendolo e trattandolo secondo la normativa vigente? Spero che i molti casi irregolari che mi risultano direttamente, come quelli segnalatimi da amici di cui mi fido, siano proprio le eccezioni che confermano la regola.
Conosco l’obiezione a questo genere di considerazioni: sono affari interni alle comunità ecclesiali sui quali gli osservatori (in qualche misura) esterni non avrebbero né diritto né, per altro, interesse di intervenire. Ma è un’obiezione debole perché – piaccia o non piaccia – la Chiesa cattolica è tutt’ora una potente agenzia educativa. Lo scrivono gli stessi vescovi nel loro documento: “Come Pastori delle Chiese di Sicilia siamo consapevoli del rilievo pubblico che l’esperienza ecclesiale riveste”. Ecco perché la comunità ecclesiale fa bene a far sentire la sua voce autorevole nel delicatissimo momento politico che stiamo attraversando. Ma farebbe ancor meglio se la rendesse più credibile con una prassi libera e liberante.

Augusto Cavadi

lunedì 12 novembre 2012

E’ uscito il volume a più voci: Sofia e agape!


Care e cari amici,
e già disponibile in internet (versione e-book) e lo sarà nei prossimi giorni nelle librerie italiane (versione cartacea) un libro a cui ha lavorato con molto impegno una mia amica veneta, Chiara Zanella.
Si tratta di Sofia e agape. Pratiche filosofiche e attività pastorali a confronto (Liguori, Napoli 2012).
Ci sono, fra altri, dei miei contributi e anche uno “strappato” al carissimo don Cosimo Scordato.
Qui di seguito uno stralcio del primo dei miei contributi (quello che ritengo più significativo) che, nella versione completa, occupa le pp. 19 – 23.

La filosofia-in-pratica e la spiritualità contemporanea

Dizionarietto preliminare

Il termine ‘spiritualità’ veicola diverse valenze semantiche. Per quanto brutalmente le si voglia ridurre, a scopo meramente orientativo e per amore di chiarezza, se ne devono distinguere almeno tre:
a) In una prima accezione più circoscritta, la spiritualità come dimensione di un’esistenza credente all’interno di una confessione (in questo senso si nomina la spiritualità cattolica, la spiritualità protestante, la spiritualità ebraica, la spiritualità sufi…). I capolavori di Dante o di Manzoni potrebbero scegliersi come istruttive esemplificazioni di questa prima accezione;
b) in una seconda accezione, più ampia, la spiritualità come dimensione di un’esistenza sensibile al ‘sacro’ (in questo senso è pressoché sinonimo di religiosità naturale, di propensione a sintonizzarsi con il divino ovunque traspaia). Penso che molte pagine di Platone o, più recentemente, di Foscolo si presterebbero bene come esemplificazioni di questa seconda valenza;
c) in una terza accezione, infine, per spiritualità può intendersi la dimensione di un’esistenza tesa all’esplicazione delle proprie potenzialità specificamente umane. Alcune opere di Leopardi – o molte o tutte –potrebbero esemplificare questo terzo significato di spiritualità.

Non di rado questi ‘modelli’ di spiritualità vengono pensati e vissuti in conflitto o, nella migliore delle ipotesi, in concorrenza. Non sono d’accordo con questa logica. Né, d’altra parte, ritengo onesto e produttivo rifugiarsi in una sorta di indifferentismo buonista, della serie “tutto fa brodo”… A uno sguardo fenomenologico scevro da (eccessivi) pregiudizi direi che queste tre valenze si supportano in sequenza: il mini-cilindro della spiritualità teologico-confessionale poggia sul medio-cilindro della spiritualità religioso-aconfessionale che, a sua volta, non avrebbe dove basarsi se non poggiasse sul maxi-cilindro della spiritualità areligioso-antropologica. Riformulato con altre parole: nessuna spiritualità confessionale di un praticante appartenente a una chiesa istituzionale può considerarsi autentica se non si radica su una preliminare sensibilità religiosa in senso ampio; ma tale sensibilità religiosa sarebbe sospetta, e soggetta a deformazioni, se non presupponesse - ancor più basilarmente - una vita umanamente intensa, attiva, limpida. Una vita, insomma, laicamente ma autenticamente spirituale. Viceversa una vita può ‘fiorire’ (come ama esprimersi Martha Nussbaum) spiritualmente senza necessariamente declinarsi in senso religioso; così come un soggetto può benissimo coltivare una vivace sensibilità religiosa senza necessariamente incanalarla in una pratica comunitaria più o meno istituzionale.

La filosofia-in-pratica e le spiritualità

Questa iniziale explicatio terminorum, per quanto un po’ pedante, mi sembrerebbe irrinunciabile se si vogliono evitare fraintendimenti ed equivoci nel confronto sul tema (…).
Provo dunque a sintetizzare le mie convinzioni attuali sul ruolo della filosofia-in-pratica rispetto alle dimensioni spirituali (possibili) dell’esistenza. Innanzitutto potrei asserire che un filosofo ‘pratico’ può risultare proficuo, a certe condizioni minimali, nel rapporto con interlocutori che si riconoscano in tutte e tre queste accezioni. Infatti:

a) è possibile che un filosofo consulente (indipendentemente dalle proprie posizioni in questioni teologiche) risulti stimolante e istruttivo per un consultante che si auto-interpreti come credente e praticante all’interno di una ben precisa comunità religiosa (…).
b) E’ possibile, a maggior ragione, che un filosofo consulente (indipendentemente dalle proprie propensioni rispetto alle tracce del ‘sacro’ nel mondo e nella storia) risulti stimolante e istruttivo per un consultante che si auto-interpreti come soggetto ‘religioso’, ma esterno e estraneo a qualsivoglia ‘religione’ storico-positiva (…).
c) Là dove il filosofo-in-pratica può riuscire particolarmente stimolante e istruttivo per un consultante, o per una comunità di ricerca, è nell’ambito della spiritualità non solo aconfessionale ma anche areligiosa (dove l’alfa privativa di matrice greca va intesa come epoché, come ‘messa fra parentesi’, non come anti-, come ‘messa in discussione’). Gli interlocutori del filosofo su questo livello basilare, laico, della spiritualità sono portatori (più o meno consapevoli) di una domanda di ‘esodo’ dal mondo dell’utile e della chiacchiera, del divertissement come senso (o non-senso) di giornate senza memoria e senza progetti (…).

Una conseguenza rilevante

Se questa impostazione teorica ha una sua plausibilità, dovrebbe derivarne (almeno) una conseguenza di rilievo che pertiene al livello non trascurabile del linguaggio, della comunicazione interpersonale. Come una volta ci si chiedeva se fosse preferibile lo psicoterapeuta o il direttore spirituale (e la risposta più saggia era che dipendesse da caso a caso, da soggetto a soggetto, da situazione a situazione…), così ora emerge la questione se sia preferibile il consulente spirituale o il consulente filosofico. Ecco: innanzitutto - proprio preliminarmente rispetto ad ogni ulteriore riflessione in proposito – a mio avviso va riformulata la questione: è preferibile il consulente teologico-confessionale o il consulente filosofico? Solo questa formulazione, infatti, lascia impregiudicata la possibilità - che a mio parere si realizza effettivamente di frequente – che sia il consulente teologico-confessionale (prete cattolico, pastore protestante o rabbino ebreo…) sia il consulente filosofico siano, entrambi, consulenti spirituali. Ovviamente si fregeranno (se ci tengono) del titolo da prospettive diverse e con diverse finalità: ma con eguale diritto (e con eguale divieto di appropriarsene monopolisticamente) .
(…).

Augusto Cavadi

venerdì 9 novembre 2012

Omosessuali di Dio


“Centonove” 9. 11. 2012

OMOSESSUALI DI DIO

Il diritto degli omosessuali a vivere serenamente, pubblicamente, la dimensione affettiva riguarda una minoranza trascurabile della società? Tra le statistiche ufficiali e le percentuali reali c’è sicuramente uno scarto. E i numeri, nelle questioni di civiltà, non sono decisivi. Anche se si trattasse di meno del 5% della popolazione, sarebbe ugualmente importante l’impegno generale a salvaguardare la salute mentale, la dignità sociale e la qualità della vita di queste concittadine e di questi concittadini. Senza contare che l’omofobia è l’anticamera della misogenia, o forse il rovescio della stessa medaglia. Palermo è da anni all’avanguardia su questo fronte ed è sede di un festival annuale, Sicilia Queer Filmfest, che raduna artisti e intellettuali a vario titolo impegnati nella difficile battaglia civile. Mercoledì 31 ottobre ha avuto luogo un importante appuntamento, per così dire interlocutorio, fra l’ultima edizione del festival e la prossima: al cinema De Seta dei Cantieri culturali della Zisa, aperto per l’occasione, alle ore 21 è stato proiettato il docufilm Taking a chance on God (Scommetti su Dio, USA 2012) . La singolarità dell’iniziativa (sottolineata dalla partecipazione al dibattito, dopo la proiezione, del regista Brendan Fay e di don Franco Barbero, della comunità di base di Pinerolo) sta nel tema del filmato: la vita del gesuita statunitense John McNeill, sacerdote e teologo cattolico gay, pioniere per i diritti civili delle persone omosessuali nella società e nelle chiese e autore di opere rivoluzionarie di spiritualità per le persone omosessuali che, impegnato nell’aiuto della comunità gay durante la crisi dell’AIDS degli anni 1980, rifiutò di essere messo a tacere sui temi dell’omosessualità dall’allora cardinale Ratzinger e perciò venne espulso dall’ordine dei Gesuiti.
L’evento palermitano è stato replicato il 2 novembre a Trapani e il 4 a Catania.
Il riferimento alla teologia cattolica e alle posizioni ufficiali della chiesa non è certo casuale. Sappiamo quanta influenza abbiamo le indicazioni etiche delle gerarchie ecclesiastiche nell’opinione pubblica, soprattutto quando si tratta non di rispettarle in prima persona quanto di strumentalizzarle per stigmatizzare i comportamenti altrui. Non è un caso che il siciliano Alfredo Ormando, nel 1998, si sia lasciato bruciare vivo nel in piazza San Pietro in segno di protesta contro l’insegnamento vaticano (spesso smentito dalle abitudini sessuali di tanti preti e frati) che, come scrisse egli stesso a un amico, “demonizza l’omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l’omosessualità è sua figlia”. Né è un caso che proprio a Palermo sia attiva da anni un’associazione (“Ali d’aquila”) che raccoglie omosessuali credenti desiderosi di sensibilizzare le comunità cristiane. Non molti i preti che hanno mostrato intelligente e fattiva solidarietà: tra questi don Cosimo Scordato, rettore di San Saverio, e don Franco Romano, parroco di San Gabriele. Più elastico l’atteggiamento di alcune chiese protestanti, come la valdese-metodista, anche se la prima benedizione in Italia di un matrimonio fra donne è stato celebrata a Trapani, dal giovane pastore Alessandro Esposito, perché la maggioranza dei fedeli che frequentano le due comunità palermitane avevano espresso parere sfavorevole.
Il cammino che resta da percorrere non è né breve né privo di insidie. Sul piano teologico è facile dimostrare che la Bibbia non ha delle indicazioni vincolanti in ambito sessuale, ma questioni del genere vengono di solito affrontate più con la pancia che con la testa. E, a livello viscerale, si preferisce conservare alcuni pregiudizi culturali, rafforzati dalla medicina tradizionale e dalla stessa psicoanalisi freudiana, che rivedere i propri parametri di giudizio. Soprattutto per due ragioni. La prima riguarda il fondamento etico di ogni relazione sessuale, l’amore vissuto come riconoscimento reciproco e impegno per la gioia del partner: se questo criterio diventasse qualificante, quante relazioni eterosessuali rivelerebbero inconsistenza e ipocrisia? La seconda ragione riguarda la diversità statistica della persona omofila: come ogni altra “diversità” inquieta, mette in crisi la confortante certezza di essere “normali” ed esonera dalla fatica di aprirsi alla varietà della natura e della storia.
Sia chiaro che non è necessario abbracciare nessuna esaltazione retorica della opzione omo-affettiva né, tanto meno, farne una bandiera di contestazione del sistema borghese. Su questioni del genere è del tutto ovvio che si possano legittimamente coltivare idee, perplessità, argomentazioni di segno opposto. Non opinabile è solo ciò che i padri costituenti, fino a revisione della Carta, hanno sancito solennemente, tranciando alla radice ogni forma di fanatismo ideologico e di bigottismo pratico: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Augusto Cavadi

mercoledì 7 novembre 2012

Un cordiale, pressante, invito: partecipate alle primarie del CS!


So che è un po’ anomalo questo mio post, ma la gravità della situazione politica italiana non consente distrazioni né pigrizie.
Credo che una sterzata, ragionevole ma non improvvisata, rispetto alla politica di Monti (che FORSE era indispensabile come rimedio di emergenza, ma che CERTAMENTE è sbagliata come dieta abituale: non si possono curare le sofferenze psichiche croniche a colpi di elettrochoc !) la possa dare soltanto un presidente del consiglio come Vendola.
So che molti amici di sinistra lo snoberanno perché cerca di mediare con i cattivi alla sua destra e che molti del centro lo attaccheranno con il pretesto (di segno opposto!) del suo estremismo di sinistra: ma proprio per questo non ritengo giusto che resti isolato.
Se ognuno di noi farà la sua parte, forse uscriremo dal pantano!
Chi si vanta di non occuparsi di politica, dimentica che la politica non cessa di occuparsi ogni giorno di ciascuno di noi: per farci stare meglio o per rovinarci l’esistenza.

In concreto, se volete partecipare alle primarie DI TUTTO IL CENTRO-SINISTRA (non del solo PD !), dovete registrarvi al seguente indirizzo telematico:

https://www.primarieitaliabenecomune.it/

sabato 3 novembre 2012

Erich Hobswam e la Sicilia


“Centonove”
2.11.2012

HOBSWAM E LA SICILIA
Erich Hobsbawm è stato uno storico anomalo per almeno due ragioni: è rimasto un marxista, sia pur critico e creativo, sino alla fine dei suoi giorni; ha scritto di storia in maniera così accattivante che alcuni suoi titoli (uno per tutti: Il secolo breve) sono diventati, meritoriamente, dei best seller. Ma questo è noto e in queste settimane, in occasione della sua scomparsa, è stato ricordato da più parti. Meno nota - e mi pare da nessuno ricordata – l’attenzione di Hobswam alle vicende siciliane, soprattutto nel suo I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (del 1959 e tradotto in italiano dall’ Einaudi nel 1966).
Una prima chiarificazione riguarda la necessità di distinguere ciò che nell’immaginario comune viene troppo spesso – e disastrosamente – confuso: il banditismo sociale con la mafia. Il banditismo è “rurale, non urbano”; si limita a società contadine “profondamente e tenacemente tradizionali, a struttura precapitalista”; è “un fenomeno prepolitico”. La mafia siciliana, al contrario, è tanto rurale quanto urbana; è originata “dalle ambizioni delle classi medie”; è organizzata secondo “vere e proprie ‘catene di comando’ e di iniziativa, forse sul modello degli ordini massonici”. A suo modo - arriva a sostenere Hobsbawm, ma la sua tesi andrebbe ulteriormente precisata – la mafia ha una strategia politica di lunga durata: i suoi alfieri, i “gabellotti”, vogliono e realizzano “il trasferimento del potere dalla classe feudale al ceto medio” (rurale prima, cittadino dopo). Infatti presto gli interessi mafiosi si concentrano su Palermo, la capitale dove “risiedevano gli avvocati (che di solito erano figli o nipoti istruiti della borghesia campagnola), che stipulavano i trasferimeni di proprietà; i funzionari e i tribunali da ‘orientare’; i commercianti che disponevano dei prodotti tradizionali, quali bestiame e grano, e dei nuovi prodotti ad alto reddito quali aranci e limoni”. La svolta decisiva si ebbe con l’avvento al potere della Sinistra storica (dunque all’interno dell’unica ideologia politica dominante, il liberalismo) nel 1876: si instaura “il vero regno della Mafia” che, grazie all’alleanza con la classe politica al governo, diventa “una grande potenza”. Con una coniugazione al passato (che non esclude un prolungamento sino al presente), lo storico inglese annota: “I suoi membri sedevano in Parlamento a Roma e affondavano le mani nella parte più ricca della greppia governativa: grandi banche, scandali nazionali”. Altro che identificazione fra banditismo e mafia, insomma! “La Mafia manteneva l’ordine pubblico con mezzi privati e, generalmente parlando, difendeva la popolazione proprio contro il banditismo”.
Almeno un secondo tema affrontato da Hobsbawm va ricordato: il movimento dei fasci siciliani (1892 – 93) che, a suo avviso, meriterebbe molta più attenzione da parte degli storici (alcuni decenni dopo gliela avrebbe dedicata Umberto Santino). Infatti, nel contesto europeo, “oltre ad essere il più esteso, è anche il primo che possa essere definito come un movimento organizzato con dei capi, un’ideologia moderna e un programma: è questo, in effetti, il primo movimento contadino che si distingua da una semplice reazione spontanea dei contadini” (come quella raccontata da Giovanni Verga nella novella Libertà). Sappiamo come è finito questo movimento di riscossa popolare in cui attese millenaristiche e teorie socialiste si intrecciarono (a Piana degli Albanesi si registrò una originale, “triplice fedeltà: al comunismo, agli albanesi e alla Chiesa greca” che si tradusse in alcune aziende agricole a conduzione cooperativistica capaci di sopravvivere alla reazione padronale e governativae sino agli anni in cui lo storico marxista scriveva). Esso resta, comunque, un possibile modello per il presente: un’esperienza collettiva di mobilitazione per ragioni economiche ma non priva di ideali morali e politici che aiuti la gente, soprattutto i ceti sociali più deboli (come oggi i disoccupati, i sotto-occupati e i precari a vita) , ad uscire da uno stato ibrido di “parassitismo e ribellione”, a convergere su un progetto complessivo minimamente coerente e a scongiurare la tentazione più ricorrente (in queste settimane di scottante attualità): “la mancanza di interesse” da parte dei cittadini, soprattutto dei proletari, “nei confronti della politica”.

Augusto Cavadi