venerdì 26 novembre 2010

In dialogo con Agnese e Roberta


Due alunne e un professore in dialogo sulle macerie della scuola

Siamo pronti a lottare e vogliamo che ascoltiate la voce di una generazione che vede il proprio futuro perire ogni giorno di più….Non vogliamo più essere spettatori passivi di questa rovina, ma partecipare come attori protagonisti di uno spettacolo unico che è la vita e che è irripetibile. Molti ne pagano il biglietto, ma rimangono fuori ad aspettare che finisca. Per noi non è così e per questo abbiamo messo in atto questa protesta. Tutti, studenti e professori, condividiamo il fine della protesta, ma non il mezzo con cui raggiungerlo: l’occupazione delle scuole. Alcuni ritengono che l’occupazione sia per molti ragazzi un pretesto per anticipare le vacanze natalizie o per saltare lezioni. Per quanto sia criticabile dal punto di vista legale, questa forma di protesta si è rivelata finora quella più efficace e capace di unire e coinvolgere gli studenti di molti istituti scolastici in una lotta coesa per i nostri diritti, per il nostro futuro. Pensate per caso che ci sia divertimento dentro le mura delle scuole occupate? Vi sbagliate! C’è rabbia,mista al dialogo finalizzato alla ricerca di proposte per portare avanti la nostra causa.
Ma qual è la causa che lega in questa lotta gli studenti italiani? Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, ma adesso ribadiamo nuovamente a chi non lo sapesse le nostre ragioni:
* NO a un futuro compromesso da una riforma che tarpa le ali ai nostri sogni, costringendoci alla precarietà;
* NO alla distruzione delle scuole pubbliche a favore di quelle private: la cultura è un diritto inderogabile per tutti (uno dei nostri slogan: “Le nostre scuole non sono aziende, la cultura non si vende”;)
* NO ai tagli dei fondi destinati alla scuola pubblica, che nel nostro liceo (il “G. Garibaldi” di Palermo) impediscono agli studenti di usufruire di una palestra;
* NO all’aumento delle tasse universitarie, che precluderebbero l’istruzione a studenti non in grado di pagarle;
* NO ai tagli del numero di professori (ridotti così alla precarietà), che impedisce il regolare svolgimento delle lezioni e ha già causato nelle università un ritardo dell’inizio degli studi e procrastina l’ingresso nel mondo del lavoro, data l’impossibilità di conseguire la laurea in un tempo opportuno;
* NO ai tagli e al disinteresse per i fondi destinati alla ricerca. Il DDL si è preoccupato dei posti riservati ai ricercatori..ma noi ci chiediamo: quali ricerche si possono compiere senza fondi?
* NO alla riduzione del numero di classi, vissuto con disagio da studenti e professori, che non riescono a portare avanti un programma con classi di trenta o più alunni;
* NO ai tagli delle ore scolastiche. In particolare NO alla riduzione delle ore di italiano, che deve essere la base dell’istruzione per uno studente italiano, per non rendere la nostra stessa lingua una lingua straniera ed evitare di ritrovarci professionisti incapaci di esprimersi in un italiano corretto. Come è possibile ridurre le ore di italiano se “la padronanza della lingua italiana è premessa indispensabile all’esercizio consapevole e critico di ogni forma di comunicazione”? Infatti “il possesso sicuro della lingua italiana è indispensabile per esprimersi, per comprendere e avere relazioni con gli altri, per far crescere la consapevolezza di sé e della realtà, per interagire adeguatamente in una pluralità di situazioni comunicative e per esercitare pienamente la cittadinanza”(Assi culturali 2007/2008, L’asse dei linguaggi del Ministero della Pubblica Istruzione). NO alla fusione delle materie di storia e geografia: abbiamo bisogno di conoscere il mondo in cui viviamo e soprattutto le nostre radici storiche, per non mortificare la nostra identità e sentirci fieri, non vergognarci di essere Italiani. NO all’eliminazione delle discipline sperimentali nei licei. Ci risulta deleterio il provvedimento che elimina lo studio della storia dell’arte al biennio in un liceo classico. Chi abbandona l’istruzione all’età di sedici anni in questo modo si ritrova privo delle “conoscenze fondamentali delle diverse forme di espressione e del patrimonio artistico e letterario”, che “sollecitano e promuovono l’attitudine al pensiero riflessivo e creativo, la sensibilità alla tutela e alla conservazione dei beni culturali e la coscienza del loro valore” (Assi culturali 2007/2008, l’asse dei linguaggi del Ministero della pubblica Istruzione).
Molti si interrogano sull’utilità della protesta. Non vogliamo essere scambiati per sognatori, ma essere presi sul serio: quello a cui puntiamo è un risultato concreto. In questi giorni abbiamo fatto sentire la nostra voce, cercato di sensibilizzare le persone intorno a noi, scosso la città: qualcosa si è mosso, tutta Italia è in fermento, siamo riusciti ad attirare i media. A questo punto, mentre il Parlamento discute sull’approvazione della legge finanziaria, ha il nostro parere. Teniamo a ricordare il principio su cui si dovrebbe basare un governo democratico: i parlamentari sono i NOSTRI rappresentanti, i portavoce del popolo ed è la voce del popolo la prima a contare! La sovranità non appartiene agli uomini eletti nelle istituzioni, ma al POPOLO! Lo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rivolge questo invito:”La politica ascolti la voce degli atenei”.
A differenza di quanto molti pensano, la nostra non è soltanto una critica, abbiamo in mente delle proposte che attendono solamente di essere ascoltate. NOI SAPPIAMO COSA VOGLIAMO PER IL NOSTRO FUTURO!
Ormai in procinto di entrare nel mondo degli adulti, osservandoci intorno, leggendo i giornali, guardando la tv, ci rendiamo conto, giorno dopo giorno, di come il nostro Paese stia andando incontro a una crisi economica, politica e culturale. Il governo non fa altro che preoccuparsi di mantenere la maggioranza e quindi tenersi stretto il “trono”…ma chi si interessa veramente alle sorti dell’Italia?
Quello che vogliamo è un cambiamento che parta dal sistemo politico, siamo convinti di poter far fronte alla crisi attraverso una politica di risparmio. Un risparmio, però, che non colpisca la cultura, punto di partenza per un futuro rilancio del Paese. La cultura è il mezzo mediante il quale i giovani possono sviluppare una coscienza critica e quindi non sottomettersi al volere altrui e di un governo che li danneggia. Per questo diciamo a gran voce per le strade: “Non ci avrete mai come volete voi!”.
Uno dei nostri striscioni esposti durante le manifestazioni reca la scritta: “I soldi per l’istruzione esplodono in Afghanistan”. Ecco, a nostro parere sarebbe opportuno ritirare l’esercito italiano dall’Afghanistan,dunque impiegare il denaro per ciò che è veramente utile alla società, per migliorare e non mortificare la cultura! Noi paghiamo le tasse per usufruire di un servizio che funzioni, non perché siano “mangiate”, rubate dai politici per i loro tornaconti personali. Bisognerebbe valorizzare il patrimonio culturale che l’Italia (dalla Sicilia in su) vanta in tutto il mondo da secoli, non lasciare alla deriva e al degrado siti storici come quello di Pompei, il centro storico di Palermo e di tante altre città. Il turismo è fonte di ricchezza, di denaro da impiegare nel miglioramento della società a partire dall’istituzione scolastica. Ognuno deve pagare le tasse regolarmente, c’è bisogno di più controllo contro l’evasione fiscale. Oppure perché non far pagare l’ICI anche alla Chiesa cattolica? Perché non eliminare questo privilegio e tutti gli altri riservati ai politici, che non sono persone migliori degli altri, ma semplici cittadini al servizio della società?
Infine riteniamo opportuno un risparmio che cominci dal singolo cittadino, nel suo piccolo, perché è dalle piccole cose che nascono le grandi cose.
AIUTATECI AFFINCHE’ TUTTO CIO’ NON SIA SOLO UN’UTOPIA, MA DIVENTI UN SOGNO REALIZZABILE!!!!!!
Agnese Aluia e Roberta Fazio

Care Agnese e Roberta, sono compiaciuto della vostra lettera ‘aperta’: esprime una maturità insolita per ragazze di diciassette anni e un’onestà intellettuale ancor più rara fra giovani e adulti. Meriterebbe una risposta ben più articolata, ma non possiamo appesantire i lettori. Dico subito, perciò, che sui fini della protesta sono quasi del tutto d’accordo: su questo stesso blog ho avuto modo di precisare alcuni dissensi (per esempio sul tabù della riduzione delle ore di lezione che, complessivamente, mi sembrano attualmente eccessive e rischiano di sovraccaricarvi al punto da farvi odiare ciò che dovrebbero farvi amare), ma sorvoliamo.
Andiamo direttamente ai metodi scelti che possono essere valutati dal punto di vista della legalità oppure dell’etica oppure ancora dell’efficacia politica. Che sia palesemente illegale non solo astenervi dalla fruizione di un servizio che avete pagato con le tasse (tale astensione rientra fra i vostri diritti) ma tentare di impedire ad altri compagni l’esercizio del loro diritto allo studio (mediante l’occupazione dei locali) , non ritengo che sia necessario dimostrarlo. Un vostro compagno (Federco Davì) mi ha obiettato che io stesso ho più volte spiegato, a proposito di varie dottrine politiche incontrare nella storia occidentale, che ci sono casi in cui “l’obbedienza non è più una virtù” e infrangere la legalità può essere non solo lecito, ma addirittura doveroso. Verissimo. Ma quando un parlamento eletto democraticamente vara una riforma del sistema universitario e scolastico a maggioranza, siamo di fronte a una legalità solo formale e non sostanziale? In nome di quale etica superiore alla legalità studenti e professori (ammesso, per un momento, che siano tutti compatti e d’accordo) potrebbero sospendere le regole costituzionali? Il popolo ‘sovrano’ a cui fate riferimento sono i 40 milioni di italiani che hanno diritto di voto (e che con il loro voto, o con il loro astensionismo, hanno permesso questa maggioranza e questo governo) o sono i 10 milioni di studenti e docenti in rivolta? Quando sono gli spazzini o i controllori di volo o i neurochirurghi a ribellarsi a una normativa li tacciamo, giustamente, di ‘corporativismo’:perché il metodo democratico (basato sul principio che la maggioranza vince) dovremmo invocarlo quando facciamo parte di una maggioranza e contestarlo quando siamo in minoranza?
Ma ammettiamo che ci siano, a differenza di ciò che appare a me, delle ragioni etiche talmente evidenti da legittimare l’illegalità dei metodi. Rimane la terza questione, per me davvero decisiva: occupare le scuole, interrompere il proprio processo formativo, bloccare stazioni ferroviarie e marittime è funzionale allo scopo? Voi sostenete di sì e alcuni intoppi parlamentari delle proposte governative vi danno l’illusione ottica che sia così.Ma a me sembra che ciò sia due volte sbagliato. Sia nell’immediato perché se “Futuro e libertà” non avesse da regolare conti interni alla maggioranza con il PDL di Berlusconi e con la Lega, la maggioranza avrebbe retto senza ostacoli. Ma anche se davvero la cosiddetta “riforma Gelmini” fosse temporaneamente bloccata in parlamento non (come sono convinto) per beghe partitiche ma (come siete convinti molti di voi) come effetto della vostra contestazione, che cosa ci aspetterebbe in futuro? Per rendere più chiara la mia domanda, vi concedo il massimo che un contestatore può sognare: che riusciate a fare cadere questo governo, a fare sciogliere questo parlamento, a fare indire nuove elezioni. Bene: che cosa insegnano gli ultimi quarantadue anni di storia italiana, dal 1968 a oggi? Che la verità verrà, tragicamente, a galla. Il 20% degli studenti preparati e motivati alla contestazione, voterà e farà votare per uno schieramento (anche minoritario) che abbia delle idee più chiare in fatto di scuola (e, soprattutto, contribuirà con analisi e proposte, a renderle più chiare); il 20% degli studenti, consapevolmente, rivoterà esattamente per quei partiti che oggi contesta perché riterrà che ci siano ‘valori’ più importanti dell’istruzione da salvaguardare (dalle barriere contro gli immigrati alle battaglie in difesa della vita biologica, delle istituzioni tradizionali, della morale sessuale cattolica); il restante 60% continuerà a fare esattamente quello che sta facendo in queste settimane (o evitare di prendere posizione in sovrana indifferenza godendosi il calduccio delle coperte o scomodandosi, ogni tanto, dal divano per recarsi a votare secondo ciò che in quel momento gli sembra più utile a sé o emotivamente più coinvolgente). Cara Agnese, cara Roberta, non ho nulla contro il 20% degli alunni onesti (anche se un po’ abbagliati) come voi due che combattete per una causa che ritenete giusta; non ho neppure nulla contro il 20% dei vostri colleghi che, altrettanto onestamente (e ancor più abbagliati di voi), saranno sempre pronti a innescare freni e marce indietro; ma mi fa orrore quel 60% di ignavi, di incerti, di qualunquisti, di opportunisti. Non saranno né migliori né peggiori del 60% di noi adulti attuali, genitori o insegnanti, eletti o elettori. O vi preparate, come tutte le brave dittature del popolo, a tagliare milioni di teste (il 60% dei cittadini italiani sono circa 36 milioni) o vi preparate (anche mediante la partecipazione a partiti, sindacati, movimenti, associazioni) a lavorare con loro e per loro a riformare le coscienze e a creare nuove maggioranze (non solo quantitative, ovviamente) nel Paese e di conseguenza in Parlamento. In questa seconda direzione continuerete ad avermi accanto nei tempi e nei modi che vorrete; nel primo caso sarò esattamente dove mi trovo dal ’68 in poi: dalla parte opposta.

Augusto Cavadi

giovedì 25 novembre 2010

L’osceno normalizzato di Barbara Spinelli


Riporto un editoriale dall’edizione nazionale di ieri di “Repubblica” perché, oltre al valore intrinseco del pezzo, sono stato sorpreso e grato per la citazione en passant da parte dell’autrice (che non ho il piacere di conoscere personalmente).
***

L’osceno normalizzato

di Barbara Spinelli

“Repubblica”, 24 novembre 2010

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi - futuro Premier - aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un “uomo di garanzia”.

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il “regalo” a Riina (5 milioni) per “aggiustare la situazione delle antenne televisive” in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe “finito sotto i ponti o in galera per mafia” (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: “A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera”.

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: “Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (…) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (…) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale”.

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.

Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: “Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni”.

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: “Se non vi adeguate ve li scateno contro”. Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il “ciarpame senza pudore” del Cavaliere, e le “guerre per bande” orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 - condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere “antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza”. Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa “di sinistra”, ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.

Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con “vocazione maggioritaria”, ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ‘45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: “È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso”.

(24 novembre 2010)

martedì 23 novembre 2010

Un invito per lunedì
29 novembre alle 18,30 a Palermo
(e uno scambio... fraterno con un padre domenicano)


Lunedi 29 novembre 2010

Sala della Chiesa Evangelica Valdese di Via dello Spezio 43
(dietro il Teatro Politeama)
ore 18.30

PRESENTAZIONE DEL LIBRO
DI
AUGUSTO CAVADI

NON LASCIATE CHE I BAMBINI VADANO A LORO
CHIESA CATTOLICA E ABUSI SU MINORI
(Falzea editore, Reggio Calabria 2010)

NE DISCUTERANNO CON L’AUTORE

COSIMO SCORDATO (teologo)
GIOVANNI SALONIA (psicoterapeuta Gestalt)
GIORGIO CAVADI (dirigente scolastico)

MODERA IL DIBATTITO
MAURIZIO MURAGLIA (presidente CIDI Palermo)

L’INGRESSO E’ LIBERO SINO A ESAURIMENTO POSTI

PER INFORMAZIONI TELEFONARE A:
347.1863420 vodafone 339.1956128 tim 3895548292 wind

Scambio di messaggi telematici
con il padre domenicano Marcello Di Tora o.p.
del Convento San Domenico di Palermo

Quanto delicati siano i ‘nervi’ che tocca questa problematica, in sé circoscritta, lo testimonia, fra l’altro, lo scambio di messaggi intercorsi fra me e un teologo domenicano.

All’invito di cui sopra, egli ha così risposto a mia sorella Rosalba (che mi ha girato l’e-mail):

“….sono indignato per il fatto che si dia risalto a libri di questo genere, tesi solo a gettare discredito; e che l’operazione abbia trovato il consenso dei Valdesi che hanno offerto i loro spazi per quella che può essere definita propaganda anticattolica. Alla faccia dell’ecumenismo….Che poi il cosiddetto teologo cattolico Mancuso faccia la prefazione non mi stupisce affatto.
Cordialmente,
Marcello Di Tora o.p.”

Questa la mia risposta:

“Reverendo padre,
“libri di questo genere”, come questo che ho scritto io, Lei l’ha già letto?
Se non lo ha fatto, la sua “indignazione” non è giustificabile né evangelicamente né secondo la lezione del grande Dottore Angelico.
Se lo ha fatto, perché non viene “in partes infidelium” per portare le Sue ragioni?
Per una condanna ‘a priori’, senza processo e senza possibilità di difesa dell’imputato, ha scelto l’Ordine religioso più adatto, ma ha sbagliato secolo: è dal XVIII che a Palazzo Steri hanno chiuso l’Inquisizione e da allora non si celebrano più ‘auto da fé’.
Forse don Cosimo Scordato (uno dei teologi più stimati in Italia) e frate Giovanni Salonia (padre cappuccino e psicoterapeuta stimatissimo in tutto il Paese), come la coraggiosa e ospitale Chiesa dei fratelli Valdesi, accettando di leggere e di discutere pubblicamente le mie povere paginette tese a capire l’incomprensibile, stanno offrendo alla comunità cristiana e alla società civile una testimonianza molto più efficace del suo sfogo un po’ troppo …preventivo (e, temo, prevenuto).
Con i migliori auguri per il Suo lavoro a favore dell’ecumenismo, invoco su di noi la luce dello Spirito illuminatore.
Augusto Cavadi”

Risposta che, evidentemente, non è piaciuta al Reverendo padre:

“Gentile Sig. Cavadi,
la sua risposta non fa altro che confermare quanto avevo già segnalato. Anziché offrire rassicurazioni sul fatto che il libro non è anticattolico (e non ci si poteva aspettare diversamente, se il titolo del libro esprime anche le convinzioni dell’Autore), lei di fatto le riconferma, dandomi, irridendo la mia persona. E questa è una delle tante differenze: io mi soffermo su un testo, lei attacca le persone…
Che poi vi siano presenti dei cattolici come Scordato e Salonia non cambia nulla. Non aggiunge e non toglie nulla.
Sappiamo che alle presentazioni dei libri si va solo con l’intento di compiacere l’Autore e il pubblico. Anche quando è stato presentato il libro di Mancuso (guarda caso sempre dai Valdesi…) i teologi presenti non hanno mosso un solo rilievo critico….
Infine, che i Valdesi offrano i loro locali per presentare un libro anticattolico, ma ammantando tutto con lo spirito (laico) della discussione del dibattito e del confronto, non può che fare il loro gioco. Ma hanno perso l’occasione per mostrare un pio’ di dignità. Infatti, se al posto loro, mi avessero chiesto i locali del mio convento per presentare un libro dal titolo “Lutero l’eretico e il giustiziere”, ebbene, per una questione di dignità li avrei negati. Proprio secondo quello spirito di distensione e di rispetto a cui lei fa riferimento, ironicamente, nella conclusione della sua email. Ma ovviamente, non tutti sono animati da nobili ideali…
Cordialmente
Marcello Di Tora o.p.”

Poiché abbiamo organizzato, allora, la presentazione del libro di Mancuso perché nessuna struttura cattolica ci ha voluto ospitare (e la diocesi di Cefalù, che tempo dopo ha dato l’assenso, se lo è rimangiato in 48 ore) e poiché nel salone del centro culturale valdese, allora, Vito ricevette critiche molto aspre da cattolici intransigenti (Marcello Briguglia, Giuseppe Savagnone), da valdesi infastiditi dal suo riduzionismo biblico (Elisabetta Ribet) e persino da ‘laici’ non cristiani (Gianni Rigamonti), ho capito che il buon frate o parla di cose che non sa o, peggio, mente sapendo di mentire. Perciò ho ritenuto evitare di sprecare altro tempo: la vita è breve e le iniziative più belle, e più utili all’umanità, sono tante.

Lettera di un reduce del ‘68 ai nipotini del 2010


Dal quotidiano online I love Sicilia (oggi 23 novembre 2010).
Qui di seguito il mio testo: se andate al link:
(http://www.livesicilia.it/2010/11/23/lettera-dal-68-alla-peggio-gioventu) trovate una cosa poco piacevole (il titolo del redazionale del ‘pezzo’ che pare fatto apposta per imbufalire i miei interlocutori diretti…) e dei commenti interessanti (sia di chi mi approva sia di chi, specie nascosto dall’anonimato, mi attacca con una certa durezza).
E’ lecito, a un reduce del ’68, dire due paroline ai nipotini del 2010? Ne ho già udite e lette alcune da miei coetanei. Da coetanei che aderiscono entusiasti a queste ennesime okkupazioni (“Meno male che siete voi a difendere la democrazia!”) o che, malinconicamente, esprimono comprensione (“Sarebbe da malati non essere estremisti alla vostra età, come lo sarebbe esserlo alla nostra”). Vorrei dirne qualcuna di dissenso, se possibile.
Comincio dall’aspetto meno importante: l’opportunità di manifestare contro un governo moribondo. Che volete che se ne freghi di voi una maggioranza allo sbando e in procinto di dissolversi alla prima verifica parlamentare?
Ma lasciamo questo aspetto secondario e opinabile. Ammesso che sia il momento più propizio, pensate davvero che l’arma dell’occupazione (o l’equivalente funzionale: dall’astensione parziale all’autogestione permanente) sia efficace allo scopo che tutti - anche gli anziani ‘non pentiti’ come me – ci proponiamo? Sono più di quaranta anni (dal ‘68, in cui ero attivamente studente al “Garibaldi”) che si ripetono proteste e occupazioni e il risultato oggettivo, visibile, tangibile è una scuola peggiore (Berlinguer, De Mauro, Moratti, Gelmini) in una società peggiore (istituzioni e mentalità comune colonizzate dal berlusconismo). Vorrà dire qualcosa? La rivoluzione - più o meno graduale, più o meno silenziosa, più o meno violenta - la voglio non MENO, ma PIU’ di voi: per questo ritengo assurdo giocare con caricature, scimmiottamenti, che non fanno a nessun governo (tanto meno a un governo sull’orlo dello scioglimento) neppure il solletico! Volete la rivoluzione? Iscrivetevi a un partito politico, a un sindacato, a un’associazione antimafia, a un movimento ambientalista, a un centro studi pacifista. Volete la rivoluzione? Convincete il 75% degli italiani (cioè dei vostri coetanei, dei vostri genitori, dei vostri docenti) a uscire dalla palude (del voto al centro-destra per il 45% e dell’astensionismo per il 30%) in cui si sono immersi. Volete la rivoluzione? Rispettate la legalità democratica: pagate il biglietto sull’autobus, mettete il casco, non comprate droghe dalle mafie, invitate i genitori a pagare le tasse e a mettere in regola i collaboratori domestici immigrati. Volete la rivoluzione? Seguite ogni tanto una trasmissione televisiva seria, leggete qualche libro di sociologia o di politica, andate al cinema a vedere qualche film impegnato civilmente. Volete la rivoluzione? Non chiedete raccomandazioni per niente e a nessuno, diventate talmente prestigiosi nel vostro lavoro da poter raggiungere posti di leader per scombussolare le regole attuali del clientelismo, del favoritismo, dell’opportunismo, del carrierismo a spese dei più deboli.
Voi mi direte che fare questo - e tanto altro che si potrebbe aggiungere e che alcuni come me abbiamo cercato di fare da quando abbiamo memoria - sia troppo faticoso, troppo controcorrente: e avreste ragione. “Tutti vogliono fare la rivoluzione, pochissimi vogliono preparasi a esserne degni”. Ma chi di voi non se la sente, eviti di fare il rivoluzionario a prezzi bassi. Eviterà di deludere chi come me spera in voi e, soprattutto, di deludere voi stessi: perché questo difficilmente, passata la furia della protesta, ve lo perdonerete.
Augusto Cavadi

lunedì 22 novembre 2010

Programmazione e criteri di verifica


PROGRAMMAZIONE IV sez. i
FILOSOFIA, STORIA ED EDUCAZIONE CIVICA
PROF. AUGUSTO CAVADI
ANNO SCOLASTICO 2010 – 2011

• Situazione di partenza
La classe si presenta motivata all’apprendimento, disponibile all’ascolto e al confronto. Facilmente si riesce ad accendere un dibattito. Le verifiche orali non sono vissute con apprensione e non pochi alunni mostrano un interesse personale per gli argomenti affrontati. Frequenti, però, le assenze.

• Finalità
Questa programmazione pedagogico – didattica mira a favorire negli alunni un processo di autoformazione alla consapevolezza critica in campo filosofico e storico - politico. In campo filosofico perché ogni persona ha diritto di conoscere le principali risposte alle domande esistenziali (che senso ha la vita? Qual è il posto dell’uomo nell’universo? La morte segna il confine definitivo dell’esperienza o sono pensabili degli orizzonti ulteriori? Esistono criteri oggettivi per distinguere azioni giuste ed ingiuste?); in campo storico - politico perché ogni cittadino ha diritto di conoscere la genesi dei problemi attuali della società e le ipotesi di soluzione avanzate dai principali progetti ideologici.

• Obiettivi
Al termine dell’anno scolastico, ogni alunno dovrebbe essere in grado di:
a) livello di sufficienza
- conoscere (a livello manualistico) le linee essenziali del pensiero dei filosofi, delle vicende storiche e delle problematiche socio-politiche;
- rispettare le regole elementari necessarie ad una serena, se non anche allegra, convivenza in classe (abituale puntualità, capacità di ascoltare gli interlocutori, capacità di argomentare logicamente le proprie posizioni, disponibilità tendenziale ai momenti di verifica sia orali che scritti);
b) livello superiore alla sufficienza
- saper istituire confronti critici fra pensatori, periodi storici, progetti politici diversi;
- saper riferire verbalmente, in maniera chiara e sintetica, sul proprio lavoro a contatto con testi classici, documenti storici, pagine critiche (dimostrando si saper attingere alle ‘fonti’ della produzione manualistica);
- saper redigere una relazione scritta (tipo ‘recensione’) su testi letti e interpretati personalmente;
- studiare con costanza in modo da essere abitualmente disponibile alle verifiche ed al dialogo in classe;

c) livello di eccellenza
- saper elaborare e formulare (sia in forma orale che scritta) un giudizio personale su dottrine filosofiche, avvenimenti storici, progetti politici che costituisca l’abbozzo di una propria interpretazione del mondo;
- mostrare un atteggiamento collaborativo con i compagni ed il docente (esercitando costruttivamente il diritto di critica, proponendo iniziative utili all’autoformazione del gruppo – classe, dedicando tempo ed energie a compagni meno inclini allo studio di queste materie ma desiderosi di apprendere, partecipando ad iniziative para- ed extra-scolastiche ed illustrandone in aula le acqusizioni più interessanti etc.).

• Metodi
Con degli opportuni adattamenti allo specifico di ciascuna delle tre discipline, si attiveranno:
a) metodi di apprendimento a scuola:
- spiegazione in classe dei passaggi essenziali del manuale;
- lettura e commento di brani filosofici, di fonti storiche e di pagine monografiche;
- domande e risposte (possibilmente da parte di tutta la classe e dell’insegnante) tese alla chiarificazione del manuale, dei brani originali e delle spiegazioni del docente;
- discussione collettiva per incoraggiare la valutazione critica personale delle dottrine analizzate e comprese;
- uso episodico di film ed altri strumenti audiovisivi, anche informatici.
b) Carichi di lavoro a casa:
- nel corso della lezione si cercherà di esaudire la maggior parte dei dubbi e delle curiosità, anche nell’ambito dei colloqui orali per la valutazione, in modo che a casa resti il compito di riorganizzare mentalmente i contenuti (ed eventualmente di approfondirli con letture facoltative) con un impegno forfettario di tre ore settimanali (su circa 18 ore in media di lavoro pomeridiano presumibile).
c) Metodi di valutazione:
- colloqui orali quanto più frequenti possibile;
- questionari scritti;
- interventi occasionali alle discussioni collettive in aula;
- composizioni facoltative (da esporre in aula o da consegnare al docente) su singoli problemi, da cui si possa ricavare la lettura di testi diversi da quelli usati abitualmente in aula e la capacità di esprimere giudizi personali.

• Contenuti
a) Filosofia: Si prevede uno svolgimento quasi regolare del programma ministeriale: anche se la classe, all’inizio d’anno, è ancora ferma ad Aristotele. Si cercherà di colmare i ritardi entro il primo quadrimestre.
b) Storia: Anche in questa disciplina si prevede uno svolgimento regolare del programma ministeriale: occorrerà dedicare, però, il primo quadrimestre a completare gli argomenti essenziali previsti per il I anno.
c) Educazione civica: Si dedicherà un’ora la settimana ad una alfabetizzazione essenziale sulle principali ideologie del Novecento (anche con l’ausilio di un sussidio didattico messo a disposizione gratuitamente sul blog del docente).

Augusto Cavadi

DOCUMENTO DEL COLLEGIO DEI DOCENTI


I docenti del Liceo Classico “Garibaldi” esprimono il proprio disappunto per la forma di protesta (l’occupazione) adottata dagli studenti: improvvisa, imprevedibile e lesiva dei diritti di coloro che se ne dissociano.
Ritengono di non essere e di non dover essere in nessun modo considerati controparte avendo sempre mostrato grande disponibilità al dialogo e apertura a riflessioni e iniziative condivise, nel rispetto dei ruoli e della legge; e deplorano affermazioni e formulazioni che, anche nel variopinto mondo della rete, si prestino a tale lettura o che presentino una situazione non rispondente alla realtà (ad esempio “degrado strutturale dello stesso istituto”, - secondo una Dichiarazione del Comitato di occupazione del 20.11.2010 pubblicata da Collettivo autorganizzato studentesco ‘Garibaldi’ - che fa pensare a strutture scolastiche fatiscenti, mentre è solo la palestra ad essere inagibile).
Il liceo “Garibaldi” ha una tradizione e una storia antica : trovano espressione nel POF, nel quotidiano impegno dei docenti, nella progettazione globale della scuola, nei documenti dai quali risulta chiaramente, nel rispetto della normativa, il punto di vista dei docenti, sul piano didattico-educativo e culturale, su tematiche di rilevanza generale.
Il Collegio auspica che gli studenti scelgano, in linea con la formazione ricevuta e nel rispetto dei principi costituzionali, modalità differenti per esprimere il proprio pensiero, più vicine alla vera democrazia.
Palermo, lunedì 22 novembre 1010

domenica 21 novembre 2010

Un dialogo con Raimon Panikkar


Un dialogo con Raimon Panikkar

Come è noto, poche settimane fa è deceduto Raimon Panikkar (1918 - 2010) , uno dei massimi teologi del XX secolo. Mi sono ricordato di aver partecipato nel settembre 1989 a un seminario residenziale da lui gestito ad Assisi (in compagnia di Candida Di Vita, la cara amica che mi aveva segnalato questa opportunità).
Uno scambio fra me e Panikkar venne poi pubblicato nel 1993 nel libro che, in qualche modo, riportava gli Atti del seminario di quattro anni prima (R. Panikkar, “Ecosofia: la nuova saggezza per una spiritualità della terra”, Cittadella, Assisi, pp. 98 - 100; 104 - 106). Aggiungo anche, traendolo dalle pp. 172 - 173, il testo che mi fu chiesto di scrivere per la liturgia eucaristica conclusiva celebrata da Panikkar (le parole accompagnarono, al momento dell’offertorio, la presentazione del fuoco, inserita nell’offerta del pane, del vino, dell’acqua e dei fiori).

AUGUSTO: Il primo novenario mi è sembrato molto interessante per elaborare – per noi che operiamo in un fronte difficile come quello palermitano e siciliano attuale – un’etica dell’antimafia. Di questo la volevo ringraziare perché proprio con alcuni amici, nell’intervallo, ci siamo chiesti se non era possibile elaborare queste indicazioni per dare forza e motivazione a una lotta contro la criminalità mafiosa che è un fatto, sia regionale siciliano, sia purtroppo, di portata mondiale.
La seconda osservazione riguarda il problema cristologico. Lei ha detto che alla domanda se Cristo è Dio, nella nostra cultura occorre necessariamente rispondere sì. Io sarei forse più prudente perché, anche all’interno di una logica cristiana quale la mia, ritengo che questa risposta sia non sia stata così immediata e schematica nella storia del cristianesimo. Soprattutto non lo è stata nei primi secoli. Penso che un evangelista o uno dei primi apologisti avrebbe avuto difficoltà di fronte a questa identificazione, un po’ immediata, un po’ brutale, fra Cristo e Dio; e tutto questo la teologia contemporanea, grazie anche all’esegesi, lo va scoprendo, per cui inviterei gli amici che hanno questo tipo di preoccupazioni, che sono state per molti anni anche le mie, a farsi attenti anche a certe voci della teologia cattolica contemporanea. A Pasqua ho avuto la gioia di partecipare qui alla Cittadella alle riflessioni guidate da don Carlo Molari, che in Italia è una delle persone che con più attenzione sta distinguendo il Verbo come ‘Parola di Dio eterna’ dalla persona di Gesù, della ricchezza infinita della Parola di Dio. L’ultimo contributo, che è una perplessità, riguarda il rapporto Dio-uomo-cosmo, perché personalmente non sarei del tutto d’accordo nel dire che l’uomo e il mondo hanno bisogno di Dio, allo stesso modo Dio ha bisogno dell’uomo e del mondo così che, in una ipotetica distruzione della creazione, il Creatore non sarebbe più nulla. Comunque, ho preferito recepire, nel suo accenno a questo rapporto Dio-mondo, una istanza positiva più che gli aspetti che mi lasciano perplesso; è l’istanza positiva, che mi pare venga dal pensiero orientale, è essenzialmente l’invito a rendere il concetto occidentale di trascendenza, che sicuramente è imperfetto. Quando noi abbiamo parlato di trascendenza, l’abbiamo intesa in senso univoco, come qualche cosa di altro rispetto al mondo, dimenticando che nella Bibbia e nella riflessione cristiana Dio è anche immanente all’uomo, proprio perché creatore; allora questa istanza positiva credo che in ogni caso vada accolta e di questo dobbiamo essere grati. Quanto poi a dire che l’uomo è relativo al mondo, questo mi lascerebbe perplesso, perché è vero che il sole è relativo alla pianta e la pianta è relativa al sole, però non credo che si tratti esattamente di un rapporto biunivoco.

PANIKKAR: Vorrei chiedere se qualcuno desidera rispondere al mio posto a questi ultimi quesiti, perché sarebbe bello poter stabilire un dialogo a più voci. Comunque, per predicare con l’esempio e prendere lo spunto da quanto ha detto Achille, cercherò di commentare le domande o dare le risposte secondo l’impostazione dello schema ‘cosmoteandrico’, invece di rispondere secondo la chiave in cui la domanda è stata formulata. (…)

E finalmente i tre punti dell’ultimo intervento.
Grazie per il primo: sulla lotta alla mafia ci sarebbero tante cose da dire; si tratta di problemi difficili che si devono assumere e forse i miei nove punti possono essere utili.
Sono pienamente d’accordo con tutta l’esegesi moderna: Cristo non è Dio. Cristo sarebbe in ogni caso ‘Figlio di Dio’ nel senso tradizionale; ma io non ho voluto fare polemica, ho tentato semplicemente di mostrare i tre livelli a cui ho cercato di rispondere, ma siamo d’accordo. Il punto che sottolineo adesso è quello che l’interlocutore ha visto con molta chiarezza, perché le difficoltà sorgono quando si vedono le cose più in profondità. Il mondo e l’uomo hanno bisogno di Dio, sta bene, ma dire che Dio ha bisogno dell’uomo sembra un po’ troppo. Qui io dico che ‘avere bisogno’ è un antropomorfismo, quindi sono disposto a fare una ‘retractatio’, se io ho detto ‘ha bisogno’. Io sostengo semplicemente che queste relazioni sono costitutive della realtà, ma non che la relazionalità sia la stessa in ogni caso. Per esempio, l’uomo non è relazionato con Dio nello stesso modo in cui Dio è relazionato con l’uomo, ma la relazione esiste, e senza relazione ‘non c’è’ Dio; e se il mondo creato sparisce, anche il Creatore sparisce: non c’è l’uno senza l’altro. Dio solo è isolato è un’astrazione: non esiste ‘un’ uomo senza Dio, senza materia; non esiste una materia senza un elemento di infinitudine e di libertà. Io non posso pensare l’uomo senza un fondamento: la religatio è essenziale. Invece posso pensare un Dio senza uomini, la relazione è accidentale. Ma questo è puro idealismo. La differenza sta nel mio pensare, sta nell’idea di Dio e nell’idea dell’uomo; in realtà non c’è Dio senza uomo. La relazione può non essere essenziale, ma è costitutiva.
È questo che io cerco di dire nell’intuizione ‘cosmoteandrica’ come modo di pensare. Siamo così frantumati nel pensare, che nell’uomo alcuni vedono un individuo, altri vedono la società, altri vedono la razza umana, altri vedono solo le scimmie, altri un po’ di più… Tutto questo è ancora frammentario e certamente non è l’uomo. L’uomo è la prospettiva di cui faccio parte e dalla quale io vedo tutta la realtà. In un discorso più accademico io contesto la definizione dell’uomo dell’uomo come ‘animale razionale’ per una semplice ragione di logica elementare. Da Aristotele, passando per Porfirio e fino a tutto il pensiero moderno, l’Occidente ha esercitato il genio della classificazione. Tutte deve essere classificato. Ecco la tavola degli elementi di Mendeleev, la fisica moderna, la vita cittadina… abbiamo avuto un successo enorme nel classificare la realtà. Niente sfugge alla classificazione: io sono teologo, io sono filosofo, io italiano, io indiano… Stimolati dal successo abbiamo classificato anche l’uomo. Abbiamo distinto gli esseri inanimati da quelli animati e i vegetali dagli animali, e in seno a questi ultimi l’uomo, l’animale razionale. Orbene, in ogni classificazione ci sono due cose che non possono entrare nella classificazione: 1) classificatore; 2) il criterio di classificazione. Dunque classificare l’uomo, che è il classificatore, e quello che a me interessa, e inserirlo nella classificazione, ci fa smarrire l’uomo. L’uomo è un animale razionale, dal punto di vista scientifico, professionale; chi può negarlo? Ma quello che è interessante è il classificatore; quando io domando ‘chi parla?’ - come diceva Giancarlo – chiedo chi è il classificatore. E il classificatore non può essere classificato proprio perché è il classificatore. La razionalità dell’uomo come animale razionale è qualcosa al di sopra o al di sotto o differente dall’animalità. Ma quello che sono ‘io’ è assolutamente inclassificabile, perché sono io il classificatore, e il classificatore non può appartenere alla classificazione. Noi abbiamo perso – qui ritorna ancora una volta la contrapposizione tra Oriente e Occidente – la consapevolezza di questa dignità straordinaria di essere classificati. Perciò ciascuno è univoco, è divino, fa parte di una relazionalità intrinseca e costitutiva di tutto il reale; non si può oggettivare la realtà, perché la realtà sono anch’io. E questa sarebbe la mia risposta cosmoteandrica, applicata alla difficoltà suscitata dalla domanda.

LITURGIA DEL FUOCO:
Accogli, o Tu che sei al di là di tutto,
l’offerta di questo fuoco.
Tu che hai tutti i nomi perché non hai nessun nome.
Noi ti restituiamo il fuoco che ci hai donato,
perché esso non ci appartiene.
Lo avevamo in prestito e te lo restituiamo.
Noi ti offriamo questo fuoco
con tutta la ricchezza di senso e di significati
che sfugge a noi stessi che compiamo questo gesto.
Quel fuoco, che vive morendo e che muore vivendo,
ci ricorda che anche la nostra vita la possiamo conservare spendendola
e, se non la spendiamo, se non la bruciamo, non viviamo veramente.
Questo fuoco che parte dal basso e va verso l’alto
si nutre di legno e va verso il cielo
per ricordarci che neanche noi possiamo andare verso l’alto
se non ci nutriamo della terra,
se non assimiliamo, non metabolizziamo le cose terrestri.
Questo fuoco,
che è sempre lo stesso e sempre diverso,
ci ricorda che non ci può essere unità se non nella varietà,
che non ci può essere sintesi se non nel rispetto delle differenze,
e che la vera armonia è insieme sinfonia di tante fiamme diverse.
Noi ti offriamo questo fuoco
che illumina e riscalda insieme
e che ci ricorda che noi possiamo illuminare
soltanto se ardiamo d’amore per gli altri.
Così come il nostro amore per gli altri
non è vero amore se non è anche offerta di luce.

venerdì 19 novembre 2010

DA BALLARO’ AL VATICANO


“Centonove”
Settimanale siciliano
N° 19 novembre 2010

QUELLA LETTERA SENZA RISPOSTA DALL’ALBERGHERIA
In tutto il mondo il nesso fra omosessualità e pedofilia - asserito nella scorsa primavera (durante un viaggio in Cile) dal Segretario di Stato del Vaticano, cardinal Tarcisio Bertone - ha suscitato ferme reazioni di protesta. Una comunità cattolica, che si riunisce periodicamente nella chiesa di san Francesco Saverio all’Albergheria di cui è rettore don Cosimo Scordato, docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica, non si è limitata alle lamentazioni. Con metodo ‘politico’ ha preso carta e penna e ha indirizzato al cardinale Bertone “Lettera aperta” affinché, come si leggeva, “dopo aver ascoltato le sue parole, ascolti le nostre”. “Numerosi psichiatri e psicologi - aveva detto Bertone - hanno dimostrato che non esiste relazione tra celibato e pedofilia, ma molti altri, e mi è stato confermato anche recentemente, hanno dimostrato che esiste un legame tra omosessualità e pedofilia. Questa è la verità e là sta il problema”. “Dato che la domanda dei giornalisti a Lei posta - scriveva allora la comunità del quartiere Ballarò -, si riferiva agli abusi fatti dai preti”, “la sua affermazione, non ne contiene anche un’altra e cioè, che i preti pedofili sono per lo più omosessuali”? E un’altra domanda si rendeva quindi necessaria secondo i firmatari: “Dato che l’istruzione pontificia del 2005 ha posto il divieto di accesso ai seminari a coloro che ‘presentano tendenze omosessuali profondamente radicate’”, “la gerarchia è convinta che, dato il nesso tra pedofilia e omosessualità, vada fatta prevenzione impedendo agli omosessuali di accedere al ministero?”.“Restiamo sconcertati dalla suddetta sequenza di affermazioni. E’ risaputo, infatti, - continuava il documento - che la maggioranza dei pedofili è eterosessuale e spesso si tratta di persone sposate; è risaputo, inoltre, che molti preti hanno adescato bambine. Lei, per non mettere in discussione le contraddizioni della legge ecclesiastica del celibato, ha preferito colpevolizzare la condizione dell’omosessualità”. Ed è risaputo che, “a differenza della pedofilia, l’omosessualità non viene considerata dalla Organizzazione mondiale della Sanità una malattia e non è annoverata tra le devianze sessuali”. Ne deducevano i firmatari che, “se cade il legame omosessualità-pedofilia da Lei insinuato, non c’è nessun impedimento a che un omosessuale acceda al ministero ordinato, purché, come un eterosessuale, sia disposto a impegnarsi a mantenere il voto di castità”. Nella lettera si osservava ancora che “l’imposizione venuta da Roma (e firmata anche da Lei quando era segretario della Congregazione della Fede) di mantenere il segreto pontificio pena la scomunica, è stato un gravissimo errore; ancora più grave in quanto accettato o subìto passivamente da migliaia di vescovi che, forse in nome di una malintesa obbedienza, si sono resi corresponsabili dell’occultamento della verità e, conseguentemente, della possibilità della reiterazione del reato; chi ha pagato il conto sono i bambini e le bambine che avrebbero dovuto essere trattati, evangelicamente, come Gesù Cristo stesso”. Si voleva evitare lo scandalo occultandolo, anziché “evitare che gli scandali avvenissero!”. Quello che la comunità di S. Francesco all’Albergheria attendeva dal cardinale e dalle alte altre autorità ecclesiastiche, “oltre ai buoni intendimenti emersi nell’ultimo documento ai vescovi di Irlanda” di Benedetto XVI, era “non solo la richiesta di perdono alle vittime per quello che hanno subito, ma anche il riconoscimento dell’errore di avere permesso l’insabbiamento dei casi d’abuso”. E l’iniziativa, partita da Palermo, ha registrato echi significativi in varie altre città italiane (a cominciare da Roma, dove è stata ripresa dall’agenzia “Adista”). Ma non pare sia arrivata a oltrepassare il Tevere sino a raggiungere le alte, spesse, mura del Vaticano. Da lì, infatti, non è arrivata - dopo sei lunghi mesi di vana attesa – nessuna risposta.
Augusto Cavadi
(Autore del volume “Non lasciate che i bambini vadano a loro. Chiesa cattolica e abusi sui minori”, Prefazione di Vito Mancuso, Falzea, Reggio Calabria 2010

La gratitudine dello straniero


“Adista”
18 settembre 2010
La gratitudine dello straniero
(Luca 17, 11 – 19)

Il Gesù di Luca è in cammino. Fisicamente, corporeamente, geograficamente; ma anche esistenzialmente. Procede sulla strada della vita acquisendo esperienze, scoperte, riflessioni. Che perdita aver limitato ai suoi anni infantili e adolescenziali ciò che, invece, contrassegna l’intera sua vicenda terrena (“cresceva in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini”, 2, 52)!
In questo brano mi viene spontaneo (ma rinuncerei a questa impressione naif qualora un esegeta di professione me la dichiarasse insostenibile con le acquisizione filologiche ed ermeneutiche della comunità scientifica) riconoscere una tappa della crescita del maestro di Nazareth: il racconto di un evento che in qualche modo lo sorprende, lo ammaestra. Egli invia al Tempio dieci lebbrosi che gli avevano chiesto la guarigione: indica l’iter rituale, liturgico, tradizionale. Non è un fenomeno da baraccone che stupisce gli astanti con ‘miracoli’ clamorosi. La salvezza è prima di tutto inserimento consapevole e libero nell’alveo della tradizione (no, meglio: della Tradizione) in cui ci si è trovati a nascere. Ma, prima che i dieci malati possano iniziare il percorso standard, si accorgono di essere già risanati. L’incontro con una persona abitata dallo Spirito è stato già sufficiente a farli uscire dalla condizione di diversità maledetta in cui si trovavano. Prima scoperta da parte del Messia: l’onnipotente tenerezza di Dio Padre/Madre può agire non solo attraverso i canali istituzionali (come egli stesso riteneva), ma anche in modi e tempi inaspettati. Per esempio, come in questo caso, attraverso una relazione interpersonale fra dieci malati e un predicatore ambulante. 
Ma come Gesù apprende che, attraverso gli incontri ‘laici’ fuori dal Tempio, può passare l’energia risanatrice del Creatore? Non ne avrebbe saputo nulla se uno dei dieci non fosse tornato indietro a rivelarglielo. Qui - mi pare – una seconda scoperta operata dal Messia nella sua evoluzione mentale e più ampiamente umana: esiste la gratitudine. “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (17,19): esagero se vedo qui non tanto l’approvazione del professore rivolta all’alunno diligente che ha fatto il proprio dovere, quanto l’ammirazione del profeta davanti ad un comportamento lodevole? Che significa, in questo contesto, che la fede ha salvato il decimo lebbroso? Non erano stati tutti quanti guariti? Forse Gesù sta imparando che le piaghe della pelle sono solo sintomo di un male più profondo: che stiamo in ‘salute’ non solo (ed è importante) quando il corpo non soffre, ma anche (ed è decisivo) quando il ‘cuore’ esce dall’autoreferenzialità della propria sofferenza. Salvezza intera, completa, è guarigione dalla lebbra dell’ingratitudine. Gesù impara che inchinarsi davanti alla malattia altrui è opera grande, ma ancora più grande è saper accogliere la cura dell’altro. Dare è un gesto signorile e degno di stima, ma ancor più difficile e meritorio saper ricevere.
Tuttavia così è la dialettica della vita: impari e apprezzi la gratitudine di qualcuno contestualmente all’esperienza dell’ingratitudine di altri. Di molti altri. Del novanta per cento delle persone con cui entri in contatto e alle quali presti il tuo – per quanto imperfetto – servizio: “Non sono stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non è ritornato nessun altro a ringraziare Dio all’infuori di questo straniero?” (17, 17 – 18). Il Cristo scopre - la chiamerei la terza scoperta in questo racconto – che la norma statistica è l’ingratitudine: la nobiltà di chi ammette d’essere stato aiutato, soccorso, costituisce l’eccezione alla regola. Chi si impegna nell’azione sociale o nell’insegnamento, nel volontariato o in politica, è avvertito: se attende ‘ritorni’, di qualsiasi natura e consistenza, si condanna da solo alla delusione. Non occuparsi del mondo è egoismo, ma occuparsene aspettando riconoscimento è insipienza.
Ma chi è il lebbroso che, con il suo grazie tanto ovvio quanto raro, riesce a stupire il guaritore in nome dell’Altissimo? Luca non ne riporta né il nome né la paternità: ritiene molto più rilevante sottolineare che si tratta di uno “straniero” (versetto 18), più esattamente di un “Samaritano” (versetto 16). E’ come se avesse detto: dieci paralitici vanno a Lourdes e, per strada, incontrano un credente (né prete né monaco né frate) che li incoraggia a proseguire in carrozzella il pellegrinaggio verso il santuario; ma poco dopo si accorgono di essere in grado di camminare sulle proprie gambe. Nove (europei bianchi, cattolici osservanti, politicamente moderati) se ne vanno per i fatti propri lungo le strade del mondo, ma il decimo paralitico torna indietro per cercare l’uomo di Dio che gli ha trasmesso l’energia rinnovatrice: ed è un extracomunitario scuro, musulmano, di orientamento politico estremista. Anche questa (quarta) scoperta viene operata da Gesù il Galileo: la fede autentica, che tra mille altri aspetti è anche consapevolezza che “tutto è grazia”, la si sperimenta più spesso negli eretici, negli emarginati, che nella brava gente “tutta casa e chiesa”. Qualche secolo dopo persino Agostino di Tagaste dovrà ammetterlo: “molti di quelli che sembrano dentro la vera chiesa sono fuori, molti di quelli che sembrano fuori, sono dentro”.

Augusto Cavadi

Scioperi: dove sbagliano gli studenti


“Centonove”
12.11.2010

SCIOPERI, DOVE SBAGLIANO GLI STUDENTI

A meno di un mese dall’inizio delle lezioni, gli “Studenti medi di Palermo” hanno annunciato il primo “corteo studentesco”: insomma, come viene impropriamente chiamato, il primo ‘sciopero’ dell’anno scolastico. Un’occhiata al volantino fotocopiato rivela che si tratta di un’iniziativa di ragazzi dell’area di opposizione al governo di centro-destra. La matrice ‘progressista’ è, per genitori e professori ‘moderati’, un dato sufficiente a condannare l’iniziativa: deve essere, per chi è affine ideologicamente ai promotori, un dato sufficiente per approvarla? So che, in questi mesi, la rabbia contro la Gelmini indurrà molti adulti ad appoggiare, o per lo meno a non criticare, l’astensione in massa dalle lezioni di questi ragazzi: ma, così atteggiandosi, si fa davvero il bene della scuola e del Paese?
Nel foglio distribuito si affastellano rivendicazioni di ogni genere. L’intento generale - contestare una politica scolastica ridotta a variabile dipendente della riduzione della spesa pubblica - è due volte sacrosanto: primo, perché i tagli all’istruzione dovrebbero seguire, non precedere, i tagli alle spese militari, agli emolumenti dei superburocrati e dei manager di aziende a partecipazione statale, ai patrimoni degli evasori fiscali; secondo, perché i tagli all’istruzione, che implicano un risparmio nell’immediato, si risolvono entro pochi anni in abbassamento della produttività e della competitività di uno Stato.
Ma come si traduce, in concreto, questo legittimo intento contestatario? In una serie di richieste in qualche caso opinabili, in altri francamente sbagliate. Opinabile, infatti, è contestare la diminuzione del monte-ore settimanale di lezioni frontali (a mio parere, studiare meno contenuti culturali è l’unica condizione per poterli studiare con più serietà qualitativa); la diminuzione delle gite scolastiche all’estero (tre mesi di vacanze estive sono più che sufficienti per girare l’Europa, non c’è nessuna necessità di interrompere il ritmo delle lezioni in aggiunta alle vacanze natalizie e pasquali); la riforma della formazione professionale (per gli studenti che, a prescindere dai ceti sociali di appartenenza, si sentono più realizzati in attività tecniche e manuali che intellettuali). Francamente sbagliata, poi, la battaglia contro il 5 in condotta: tranne rarissimi casi, si sa che un voto del genere è affibbiato ad alunni che mostrano, reiteratamente, di fregarsene delle regole stabilite dalla comunità scolastica. Perché spuntare quest’arma educativa se può servire a dissuadere adolescenti dal diventare come gli adulti peggiori, dai mafiosi ai politici corrotti? Altrettanto, anzi ancora più sciocca, la battaglia contro il tetto di 50 giorni di assenze per anno: invece che difendere l’assenteismo di alcuni di loro, gli alunni dovrebbero combattere l’assenteismo (laddove si registra) di dirigenti scolastici, docenti e personale amministrativo ed ausiliario.
Molto più convincente e costruttiva sarebbe una protesta che non implicasse minori occasioni di studio, di informazione, di riflessioni e di confronto, bensì l’apertura anche nel pomeriggio delle strutture scolastiche (biblioteche, palestre, aule per seminari e conferenze); che si svolgesse non di mattina al posto delle lezioni ordinarie bensì di sabato pomeriggio, prima della partita di calcio o della serata in discoteca; che mirasse non alla mobilitazione massiccia ed emotiva di masse, bensì alla formazione delle coscienze anche in ambiti solitamente trascurati dai programmi scolastici (il diritto, l’economia, la sociologia, la psicologia sociale e soprattutto la politologia). La scuola si salva solo se si rigenera la dignità della politica: ma la politica si rigenera solo con una scuola più seria, più esigente, più laboriosa e più allegra. Il Sessantotto ha avuto una sua funzione storica, ma distruggere il vecchio non ha nessun senso se – contestualmente – non si costruisce il nuovo. Quarant’anni di cortei, manifestazioni di piazza, occupazioni e autogestioni sono serviti a formare elettori più consapevoli e incisivi? Non mi pare. Anche se con poche speranze di essere ascoltati, abbiamo il dovere di dirlo ai sedicenni di oggi: l’ignoranza diffusa, la scuola permissiva, gli scioperi autolesionistici ci hanno regalato un ventennio berlusconiano. Forse sarebbe il momento di mutare strategia per evitare di regalarcene altri venti.

Augusto Cavadi

Perché don Puglisi non può essere un martire?
(”Adista” e “Micromega”)


Riproduco un’intervista che ho rilasciato a Luca Kocci per “Adista” (71/2010) e che è stata ripresa anche sul sito di “Micromega” (http://temi.repubblica.it/micromega-online/don-pino-puglisi-santo-e-martire-di-mafia-il-vaticano-tentenna)

PERCHÉ IL VATICANO NON VUOLE DON PUGLISI MARTIRE
INTERVISTA AL TEOLOGO CAVADI

di Luca Kocci

Don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia per il suo impegno pastorale e sociale, è un martire oppure no? Il Vaticano, dove è fermo il processo di canonizzazione che ha superato la fase diocesana, è restio a concedere il titolo. Troppo pericoloso, forse, affermare che chi si oppone alla mafia fino alla morte è un martire: che figura farebbe tutta quella parte di Chiesa che non solo non si oppone ma convive tranquillamente con mafia, camorra e ‘ndrangheta? Diverse associazioni ecclesiali di base palermitane, invece, pensano esattamente il contrario, ed hanno scritto a Benedetto XVI – che il prossimo 3 ottobre andrà a Palermo per incontrare famiglie e giovani, v. notizia successiva – chiedendogli che “venga solennemente riconosciuta dalla Chiesa, come martirio cristiano, la morte di don Puglisi, ucciso dalla mafia”: dare questo valore alla morte di un uomo “che non ha piegato la testa al potere mafioso” in nome del Vangelo sarebbe un segno di “svolta” (v. Adista n. 61/10).
Per approfondire la questione Adista ha intervistato Augusto Cavadi, filosofo e teologo palermitano, esperto dei rapporti fra Chiesa e mafia e autore, fra l’altro, del Dio dei mafiosi (Edizioni San Paolo, 2009), un volume che analizza in particolare le relazioni fra etica mafiosa e teologia cattolica.

Don Pino Puglisi può essere considerato dalla Chiesa un martire?
Un antico adagio teologico sostiene che ogni Chiesa ha i martiri che si merita. Nel caso di don Pino Puglisi concordo, ma a patto che si capovolga il senso abituale della frase. Essa, infatti, suona tradizionalmente in tono trionfalistico: più una comunità è santa, più martiri produce. A Palermo, come a Casal di Principe con don Peppino Diana (il parroco ucciso dalla Camorra il 19 marzo 1994, ndr), va intesa invece su un registro molto meno entusiasmante: più una Chiesa è qualunquista, più è probabile che - se qualcuno s’impegna - finisca ammazzato. Non sarebbe strano, d’altronde, se così non fosse? È una legge che vale, spietatamente, per ogni gruppo professionale. Se i giudici di un distretto prediligono per anni il quieto vivere, la loro tiepidezza investigativa crea le condizioni oggettive per cui il primo collega che si mette a fare sul serio si espone ai colpi della mafia; se i commercianti di un rione pagano il pizzo, la loro sudditanza condanna a morte il primo collega che si ribella; e così, altrettanto, per i medici, i giornalisti o i poliziotti.

Lo stesso può valere anche per i preti?
Certamente. La figura tipica del prete meridionale è di un onesto burocrate del sacro: amministra i sacramenti, insegna un po’ di catechismo ai bambini, soccorre qualche famiglia in difficoltà. Per il resto, meno interrogativi si pone, e pone ai parrocchiani, e più viene apprezzato. In questo scenario, i mafiosi possono accettare che un prete organizzi marce e fiaccolate in difesa della legalità democratica, come faceva don Puglisi? Che chieda alle autorità di far sgombrare locali abusivamente adibiti a deposito di sigarette di contrabbando e di droghe illegali? Che critichi gli amministratori esperti in pratiche clientelari quanto incapaci di attivare spazi sociali istituzionali (come scuole, palestre, centri sociali, biblioteche)? Che addirittura vada a visitare familiari di mafiosi per problematizzare la compatibilità di certi criteri etici con i dettami evangelici? Evidentemente no! Un prete può andare bene solo nella misura in cui non insiste sul messaggio di Gesù di Nazareth: la dignità di ogni uomo e di ogni donna, la cura del debole, la difesa del perseguitato. Può essere lasciato in pace se, a sua volta, lascia in pace padroni e padrini: se – come diceva a proposito di sé monsignor Helder Camara – aiuta i poveri ma evita di chiedersi perché questo sistema socio-economico produca poveri.

Per questo motivo il Vaticano indugia a riconoscere il martirio di don Puglisi?
Credo proprio di sì. Se non si ha chiara questa problematica non si possono capire le resistenze sinora opposte da ambienti vaticani alla canonizzazione di don Puglisi: additarlo alla venerazione dei fedeli significherebbe ammettere che, per un prete, l’impegno per la libertà e la giustizia nel territorio costituisca non un optional, o addirittura una deviazione, rispetto alla sua missione, bensì un elemento costitutivo, irrinunciabile.

(29 settembre 2010)

giovedì 11 novembre 2010

OMICIDIO E COSI' SIA


“CENTONOVE” 5.11.2010

M. D’ASARO

OMICIDIO E COSI’ SIA
“E’ necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (…) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, hanno potuto conviverci senza una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società”. “Una teologia che… riconducesse al progetto originario di Dio l’intangibilità della dignità di ogni persona, la sua irriducibilità a qualsiasi forma di schiavitù e la sua intrinseca vocazione alla fraternità solidale, non costituirebbe per ciò stesso una riserva critica rispetto alla teologia dei mafiosi, anzi a qualsiasi teologia anche solo analogamente mafiosa?”. Le parole pronunciate da Caselli, capo della Procura della Repubblica a Palermo, poco dopo l’omicidio di don Puglisi, e l’interrogativo posto dall’autore prof. Augusto Cavadi a fine libro (rispettivamente pag.219 e 216 del testo) esemplificano in modo chiarissimo l’obiettivo del saggio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Milano, 2009): capire per quali intrecci perversi un mafioso ritiene normale farsi il segno della croce prima di commettere un omicidio o leggere la Bibbia. E, per converso, capire perché la Chiesa, nel suo complesso, è stata spesso silenziosa e tollerante verso la signoria mafiosa.
Il testo mantiene egregiamente quel che promette. L’autore, a pag. 142, precisa che sarebbe un errore grave individuare un rapporto di causalità diretta tra teologia cattolica e fenomeno mafia, ma è pur vero che non è possibile sostenere la totale estraneità del cattolicesimo romano-mediterraneo rispetto alla mafia, in quanto “in alcuni casi gli elementi cattolici presenti nella cultura meridionale hanno suggerito (ai mafiosi) alcune idee-guida e alcuni modelli di comportamento” o esplicitamente o obliquamente o negativamente. Mentre una riflessione teologica e una comunità ecclesiale impegnate a costruire una spiritualità incarnata, sobria, conviviale, nonviolenta, nella quale “il criterio ispiratore di ogni possibile istituzionalizzazione non può essere che la migliore disposizione alla diaconia (…) dove non ci sia altro modo di esercitare la signoria che mettendosi in ginocchio e lavando i piedi agli ultimi” (pag.167) “non avrebbe neppure bisogno di guardarsi da infiltrazioni mafiose (…) sarebbero i mafiosi… a tenersi lontani mille miglia da una Chiesa simile. La sfuggirebbero come la peste perché sarebbe, culturalmente e operativamente, la negazione della loro cultura e della loro prassi.” (pag.198).
Fa veramente piacere che tale testo, che ogni cristiano minimamente interessato all’adultità della sua fede e alla consapevolezza dei suoi comportamenti dovrebbe leggere e meditare, sia stato oggetto, tra le altre, anche di una recensione del filosofo Gianni Vattimo su “L’Espresso” del 29.10.2009 e sia presentato da Corrado Augias, nella trasmissione televisiva di Rai 3“Le storie. Diario italiano” il 9.2.2010.
Ancora due notazioni positive. La prima riguarda la ricca e composita bibliografia proposta a fine volume, la seconda la fluidità e la scorrevolezza di quella che oserei definire struttura narrativa del libro. Che è un saggio necessario, corposo e nutriente, ma che si legge comunque come un romanzo. Arricchito da note, che il prof. Cavadi definisce opportunamente “finestre” di approfondimento. Qualcuna forse sarebbe potuta diventare “mattone”, ma tutte, per chi avrà la cura di leggerle, sono foriere di ulteriori “aperture” di luce alla casa/libro già ariosa e soleggiata. D’altronde l’autore (pag.214), senza avere l’ardire di parlare del suo saggio, ci ricorda con Erasmo da Rotterdam che “ogni buon libro, ispirato dalla fede autenticamente biblica, dovrebbe risultare veramente prezioso e non meno benefico che gioioso”.

Maria D’Asaro

DAVIDE MICCIONE su “Chiedete e non vi sarà dato”


“Filosofia e teologia”
2010 / 2/ pp. 412 – 414

DAVIDE MICCIONE

A. Cavadi, “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore”, Editrice Petite plaisance, Pistoia 2009.

Si potrebbe scrivere un saggio assai rivelativo sui tempi in cui ci troviamo a vivere a partire dai rapporti che il testo intrattiene con il paratesto e segnatamente con il titolo. Si è passati da periodi in cui il titolo si proponeva di essere un’accurata descrizione del contenuto del libro, quasi una riproduzione in scala del volume, ai nostri giorni in cui il titolo evoca, ammicca, tradisce. Il divorzio tra titolo e testo confonde così il lettore e il recensore, ma a volte finisce con il portare alla scoperta di mondi in cui, con titoli troppo ligi, non si sarebbe mai arrivati. Un rischio e una possibilità simile pertengono al nuovo volume di Augusto Cavadi, autore la cui prolificità e apparente varietà nasconde una tensione unitaria, di ordine spirituale, etico e politico non facilmente ravvisabile altrove.
Qui, tra le pagine di Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore per i tipi della petite plaisance di Pistoia, si cela forse più che altrove il cuore dell’ormai non breve itinerario di Cavadi. In questo libro si trovano infatti radunati attraverso una prospettiva a cui nessun uomo può rinunciare restando tale (come splendidamente ci ricorda il filosofo francese Marion nelle prime pagine del volume) temi assai cari all’autore: innanzitutto quello di una filosofia che sia alimento per l’esistenza, che ne diventi compagna, che pensi la vita e che “viva” il pensiero; in secondo luogo la fede, le convinzioni religiose che mai si trasformano in diaframma ma sempre in ponte per l’alterità; poi la dimensione etico-politica come progettualità per una vita condivisa e non come mera enumerazione di regole.
La risposta alla questione di come faccia un libro su una questione tanto specifica a comprendere in sé queste tre dimensioni è connessa alla particolare torsione che Cavadi ha dato a queste pagine. Contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare dal titolo nonché dall’attività dell’autore (uno dei principali consulenti filosofici italiani), il libro non parte da esperienze di vita o da una “concreta” analisi dell’amore così come lo viviamo. 
Siamo insomma lontani, ad esempio, dall’analisi debitrice della lezione fenomenologica intrapresa da Ortega nei suoi Saggi sull’amore. La sensazione invece è che questo libro si inserisca pienamente non tanto nella corrente dei libri pratico-filosofici di Cavadi quanto in quella sorta di trilogia ideale costituita da una base: In verità ci disse altro, e da due fondamentali applicazioni, cioè Il Dio dei mafiosi e infine il volume a cui stiamo dedicando queste righe. In queste tre opere Cavadi, con tutta evidenza, trae alcuni interlocutori ma non casuali bilanci del suo rapporto non solo con la fede ma anche con le modalità con cui essa si rapporta al mondo odierno. Di questa trilogia “Chiedete e non vi sarà dato” sarebbe la parte palesemente esistenziale-sentimentale e Il Dio dei mafiosi quella etico-politica.
Si potrebbe far notare come l’autore non parta in questo caso né dalla teoria né dalla pratica bensì dalla semantica. Citando il titolo di un vecchio romanzo la domanda sarebbe: di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Cavadi spiega come, notoriamente, nella parola amore si celino diverse stratificazioni culturali, linguistiche, religiose, direi persino etnologiche. La prima parte del libro si presenta dunque come una ricognizione afferente alla storia delle idee. In particolare come un commento, assai angolato e piegato ai fini del libro e del discorso del Nostro, dell’importante volume di Anders Nygren, “Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni”.
Qui il docente prende la mano al filosofo pratico portandolo ad un serrato corpo a corpo che frustrerà forse le aspettative di chi cerchi nel libro una connessione immediatamente pratica. Pure, il guadagno in termini di chiarificazione non è da poco: attraverso la lettura di Nygren, Cavadi ci chiarisce la distinzione tra l’approccio all’amore della cultura greca (eros, narrato da Platone) e quello cristiano (agape, illustrato da Paolo). Il primo sarebbe egocentrico, titanico, tendente all’alto, animato dalla sua stessa mancanza; il secondo misericordioso, umile, tendente al basso, traboccante nella sua pienezza. Difficile una mediazione tra i due. La costruzione spirituale medievale sarebbe basata su un ibrido non particolarmente riuscito di queste due categorie: la caritas. La philìa, nell’ottica di Cavadi, invece mi sembra rimescoli le carte, permettendo la messa in comune di valori: “abbiamo a cuore la stessa verità”. Essa costituirebbe non soltanto il collante di un rapporto di lunga durata ma anche qualcosa che, rispetto alle altre due dimensioni, può essere più facilmente e proficuamente coltivata e migliorata.
Eppure calati nella realtà dell’uomo singolo ed empirico difficilmente questi due ideali (eros e agape) si trovano rispettati nella loro archetipa purezza. Cavadi mette in moto un’operazione concettuale mirante ad allargare le strette maglie di questi concetti. L’amore agapico, che ha il suo culmine nel sacrificio cristico, non sarebbe circoscrivibile solo a quest’ambito ma verrebbe messo in pratica anche in aspetti dell’Islam e dell’ebraismo (magari meno centralmente tematizzato) e delle religioni orientali (con un significativo, ecologico ante-litteram, allargamento in direzione “extra-umana”). Il secondo passaggio è teso invece a mettere in dubbio che tra questi due amori si debba scegliere e che dunque la loro pura contrapposizione (e dunque la scelta per uno dei due) dia frutti certi o sani: «anche nel caso che – per motivi teologici o per motivi esclusivamente etici – abbia improntato il “cuore” della mia esistenza ad un progetto di benevolenza illimitata, posso per questo cancellare – o far finta di non avvertire – altre istanze non meno profondamente radicate nella mia struttura psicofisica?» (p. 52). Con il passo tranquillo di colui che cerca l’equilibrio tra le posizioni in realtà Cavadi sostiene posizioni forti, fino a ricordarci come il mondo possa anche essere fatto di ibridi di agape erotizzata (la prostituta che accetta di “lavorare” con un disabile grave) e eros agapizzato (la gioia per il godimento dell’altro per favorire il proprio godimento, e dunque l’evidenza che l’egoismo riduce il piacere di eros). In tutto questo l’analisi della Deus est caritas di Benedetto XVI mi sembra riporti nell’autore la movenza dello studioso di pratica filosofica, incline a diffidare di ogni realtà che sembri essenzialmente “applicata” da un fuori aprioristico rispetto alla situazione. Nello specifico l’idea ratzingeriana che l’eros necessiti di “disciplina e purificazione” fa sorgere il dubbio nell’autore che esso in sé non possa essere positivo (punto di vista che Cavadi tende a vedere come eredità agostiniana) e che questo costituisca il punto di partenza per spostare l’accento sull’attività di disciplina, controllo, regolamentazione. Ragionevole pensare che questo apparato, per quanto costruito con le migliori intenzioni abbia più probabilità di fare fuori eros che di migliorarlo. Su questa strada la filosofia (perlopiù esercizio a margine delle pagine di Platone, come diceva qualcuno) è difficile possa troppo inoltrarsi, e anche la lettura di questo volume lo dimostra.

Davide Miccione