mercoledì 30 agosto 2023

LA FLUIDITA' COME VIRTU': INCURSIONI TEOLOGICHE DA UNA PROSPETTIVA QUEER




 LA FLUIDITA' COME VIRTU': INCURSIONI TEOLOGICHE DA UNA PROSPETTIVA QUEER

 

Di solito usiamo “sesso” e “genere” come sinonimi. Ma le scienze umane, negli ultimi decenni, ci suggeriscono di distinguere il sesso(dato biologico) dal genere (come ruolo socio-culturale), sulla scia della fulminante asserzione di Simone de Beauvoir: “Femmina si nasce, donna si diventa”. Già: femmina o maschio ci si ritrova ad essere sulla base dei propri cromosomi, mentre il ruolo sociale, il modo di vestire, la postura verso gli altri...da donna o da uomo si apprendono nel proprio ambiente familiare e si possono ereditare passivamente o modificare anche profondamente. Un maschio mediterraneo, ad esempio, può accettare a-problematicamente il modello di “uomo” incarnato dal padre e dal nonno (un modello generalmente patriarcale e maschilista, anaffettivo e autoritario) oppure scegliere modelli di “uomo” alternativi (nei quali abbiano posto le emozioni, la gentilezza, la tenerezza, la cura dei piccoli e dei malati...)[1].

 

Non esistono solo due, ma innumerevoli “generi”

Negli ultimi decenni si è imposta una domanda impertinente: quanti “generi” di uomini e quanti “generi” di donne esistono? Bisogna essere davvero ciechi per non vedere che, sia diacronicamente (lungo la storia) sia sincronicamente (nelle diverse aree socio-culturali della Terra), esistono molti modi di vivere la maschilità e altrettanti di vivere la femminilità. Tranne le persone stupide che si consegnano alla schiavitù delle mode, ognuno/a di noi è uomo/donna a modo suo. E' la considerazione che ha suggerito al mio amico don Cosimo Scordato di affermare, nel corso di un incontro su queste tematiche, che esistono tanti “generi” quanti siamo gli individui. 

Ma consentiamoci un passo ulteriore di approfondimento. Se ognuno/a di noi è uomo/donna in modo originale, lo è in maniera stabile dall'adolescenza alla senilità? O lo è in maniera cangiante, elastica, liquida, fluida?  L'aggettivo inglese queer viene adoperato, anche[2], per indicare questo dato di fatto e questo diritto di principio: di non essere ingabbiati in un solo “genere” e di non esserlo dalla culla alla tomba secondo le tradizioni, le aspettative, le sanzioni della società in cui capita di nascere e crescere. Un uomo in gonnella non crea scandalo in Scozia, ma in Sicilia? Probabilmente provocherebbe la stessa reazione scandalizzata alle prime ragazze in pantaloni negli anni Sessanta del secolo scorso[3].

 

Un Dio queer ?

Questa brevissima premessa terminologica serve per rendere intelligibile una domanda apparentemente insensata: a che genere (sessuale) appartiene Dio? Insensata risuona questa domanda alle orecchie di chi, avendo appreso gli elementi basici del catechismo, sa che Dio (se esiste) trascende non solo ogni differenza di sesso, ma anche di genere. Dobbiamo dunque riformularla in maniera meno imprecisa: a che genere sessuale appartiene la rappresentazionedi Dio nelle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) ?

A una domanda simile non possiamo evitare di rispondere che l'immagine(non il concetto, l'idea) di Dio, nella tradizione culturale di matrice medio-orientale, sia di genere maschile.

Limitiamoci al solo cristianesimo (così come si è andato configurando dal secondo secolo ai nostri giorni): Dio è il Principio originario dell'universo costituito, intrinsecamente, dalla comunione tri-personale di un Padre, di un Figlio e di uno Spirito Santo. Di unPadre: qua e là nelle Scritture ebraiche vi sono dei versetti che avvicinano i sentimenti di Jahvé a ciò che prova una madre per i figli, ma nel complesso Egli è adorato come Anziano (“Antico di giorni”), Pastore, Condottiero, Giudice...Di un Figlio: nel maschio Gesù si è incarnato un Logos, un Verbo, che avrebbe potuto essere designato con termini femminili (Sofia, Sapienza), ma che di fatto è declinato al maschile. Di uno Spirito Santo: nonostante in ebraico la parola che significa Spirito sia di genere femminile (ruah) e in greco di genere neutro (pneuma), nella lingua ufficiale della Chiesa cattolica è diventata di genere maschile (spiritus).

Dunque il Dio trinitario è costituito dalla comunione di tre Persone a-sessuate, ma di genere 'maschile'. 

L'ipotesi di ricerca di un numero crescente di teologi e di teologhe è almeno duplice: può darsi che questo modo di rappresentare la Divinità sia stato causato dalla preponderanza quasi assoluta di maschi/uomini nelle fila degli autori dei testi biblici (così come nelle assemblee dei dirigenti delle Chiese cristiane che hanno selezionato come 'canonici' gli attuali libri della Bibbia e ne hanno stabilito l'interpretazione normativa sin dalle origini)? 

E – seconda ipotesi di ricerca – può darsi che questo modo di rappresentare la Divinità, forse effettodi una mentalità maschilista e patriarcale, sia stato a sua volta causa, o con-causa, del radicarsi e diffondersi nelle società cristiane di una mentalità maschilista e patriarcale? 

Sulla prima ipotesi, ormai il consenso degli esegeti è pressoché unanime: «Dio non ha sesso, perché è puro spirito (Gv 4, 24). […]Quando Dio viene detto però entra nei limiti del linguaggio umano. A parlare e a tramandare la fede sono stati principalmente uomini maschi e sarebbe insensato ritenere che essi non abbiano parlato dal loro punto di vista, dal quale la donna è considerata l’altro (come ricordava S. De Beauvoir), subordinata e funzionale, secondo lo schema patriarcale, e quindi a partire dalla loro esperienza limitata e in una grammatica declinata al maschile» [4].

Sulla seconda ipotesi la pastora protestante Judith van Osdol è stata icastica: «le Chiese che immaginano o rappresentano Dio come un maschio devono farsi carico di questa immagine come un'eresia. Poiché là dove Dio è maschio, il maschio è Dio...»[5]

 

Un Dio queer?

Per uscire dall'impasseteologica patriarcale-maschilista mi pare di vedere solo due vie.

La prima è la mistica apofatica di chi sa che Dio non è in nessun modo pensabile nella sua essenza e tanto meno rappresentabile con immagini tratte dalla nostra esperienza antropologica. In questa direzione vanno espressioni come le righe di Simone Weil su «un Dio al contempo personale e impersonale, e né l'uno né l'altro» [6]che potrebbero agevolmente parafrasarsi: «un Dio al contempo maschile e femminile, e né l'uno né l'altro».

Ma questa via, almeno nella fase attuale dell'evoluzione umana, è praticabile dalla stragrande maggioranza dell'umanità o – tranne casi privilegiati – abbiamo bisogno di appoggiarci a simboli, metafore, categorie? Propenderei per questa seconda affermazione e dunque, dal punto di vista operativo, per una pluralità dei nomi con cui parlare di Dio e conDio: nella consapevolezza che nessuno di tali nomi lo coglie nella sua intimità. 

E' la direzione testimoniata da molte teologhe, come ad esempio la suora benedettina Teresa Forcades che, in un libro-intervista, racconta: «A volte, come fanno ad esempio le Suore Trinitarie di Suesa, scelgo alcuni passi biblici che declinano Dio al maschile, li traduco al femminile e dentro di me accadono delle cose, da un punto di vista emotivo. Se, per esempio, invece di dire: “Signore, tu sei al di sopra di tutto”, dico “Signora”, avverto un'emozione totalmente differente. Il gioco di questa esplorazione è il riconoscimento del limite del linguaggio umano. Senz'altro non è la stessa cosa usare “Signore” o “Signora”, la cosa migliore sarebbe dire a volte l'uno e a volte l'altra, in modo da non assolutizzare Dio e non idolatrarlo. Questo è anche il senso del tetragramma ebraico. L'importante è esplorare il nome di Dio in modo personale, secondo la relazione che vai costruendo passo dopo passo con Lui (o con Lei)» [7]

Insomma, il modo meno inadeguato di rivolgere a Dio il proprio pensiero è di concepirlo in maniera sempre parziale, sempre provvisoria, sempre fluida: in maniera queer

 

Un Gesù queer?

In qualsiasi modo s'interpreti la “figliolanza” divina di Gesù, non c'è dubbio che il cristianesimo si basi sulla convinzione che il Cristo sia la concretizzazione plastica, nella storia, della presenza dell'invisibile. Alla domanda se Gesù fosse un uomo, suor Forcades risponde: «Sì, ma un uomo queerprobabilmente. Come fosse Gesù cromosomicamente non lo sappiamo»[8]. Francamente la risposta mi pare tautologica: se ci poniamo dal punto di vista genetico-sessuale  di nessun personaggio storico abbiamo notizie attendibili, anche perché ormai le scienze bio-mediche hanno appurato che fra il sesso maschile e il sesso femminile si squaderna una varietà di posizioni intermedie (alcune delle quali risolte subito dopo la nascita per mano dei chirurghi).

Molto più interessante è invece interrogarsi sul “genere” di Gesù, almeno del Gesù attingibile attraverso i vangeli canonici e apocrifi. E, da quest'ottica, mi sembrano illuminanti le pagine di Hanna Wolff, a giudizio della quale Gesù era decisamente “uomo”, ma ha vissuto in maniera innovativa la sua “identità di genere”: non il “maschio” autoritario della tradizione patriarcale ebraica (prima di lui) né il “maschio” monopolista del sacro della tradizione cristiana (dopo di lui), ma un maschio comprensivo, accogliente, tenero[9]. Junghianamente si direbbe che Gesù ha sintetizzato dentro la propria psiche l' animus(maschile) e l'anima (femminile): si è rivelato come «un maschio integrato»[10]  o, per dirla con le parole del riformatore indiano Keshab Candra Sen, «l'unione della perfezione maschile e femminile» [11]

 

Una Chiesa queer

Se  - pur senza sposare integralmente le tesi dell' Indecent Theology (ammesso che qualcuno, oltre l'Autrice, sia in grado di decifrarla compiutamennte) – se ne condivide l'operazione di «liberare non solo l'umanità ma anche Dio dagli angusti confini sessuali e ideologici nei quali Dio stesso è stato collocato»[12], sarà conseguenziale (almeno dal punto di vista logico) progettare una Chiesa meno monolitica, meno androcentrica, meno machista, meno dualista di tante confessioni cristiane[13]  , tra le quali occupa un posto paradigmatico la cattolico-romana. 

Secondo la filosofa Judith Butler a fondamento del soggetto moderno ci sarebbe una “melanconia” causata dalla necessità intrinseca di escludere alcune forme del desiderio. Con un entusiasmo forse eccessivo, per il quale si vede già attuato nel presente ciò che potrebbe realizzarsi solo in futuro[14], qualche teologa è arrivata a sostenere che la Chiesa cristiana – in cui  l'unica identità che conta è l'essere battezzati/e e, dunque, le altre forme di identità si rivelano secondarie e inadeguate – è «l'unica comunità che vive sotto il mandato di essere queer, ed è solo all'interno della Chiesa che la teoria queer  raggiunge il suo telos, essendo la melanconia del genere rimpiazzata dalla gioia che nasce dalla morte e dalla resurrezione di Cristo»[15]

 

Effetti di liberazione, non solo dal punto di vista religioso

Queste considerazioni possono essere lette, riduttivamente, come cedimenti alle mode culturali, ma nelle intenzioni dei teologi e delle teologhe che si sono occupati/e di aprire simili orizzonti palpita il desiderio di liberare la teologia tradizionale da paramenti sacri che la riducano a reperto archeologico; la rappresentazione del Divino da categorie patriarcali-occidentali che la rendono incomprensibile a miliardi di contemporanei; il cristianesimo dall'abbraccio mortale con una tradizione colonialista e imperialista che ne pregiudica irrimediabilmente l'originaria vocazione universale (“cattolica”); le comunità cristiane indisponibili alla conversione continua dall'auto-esclusione rispetto alle numerose categorie di “irregolari” (specie fra le generazioni giovanili di ogni epoca) che più avrebbero giovamento dall'incontro con l'essenza agapica del vangelo.

Se qualcuno ritiene irrilevanti le ripercussioni nell'ambito religioso, può per lo meno  considerare gli effetti etici e sociali  di queste concezioni teologiche che, ben lungi «dal portare al nichilismo», hanno proposto «alternative di pensiero che sono anche sessuali e politiche»[16]. Esse, infatti, prima che come invenzioni originali, si presentano quali scoperte di valenze profetiche sepolte nei testi biblici (in particolare del Secondo Testamento): “profetiche” in quanto prefigurano una società in cui in nome della religione non si potranno più mortificare e strumentalizzare le donne. Anzi, più ampiamente, in cui il sesso, l'orientamento affettivo e il genere non costituiscano più gabbie nelle quali rinchiudere, etichettandole, le persone (neppure le etero-sessuali!), la cui dignità trascende tanto i dettagli anatomici quanto gli orientamenti affettivi e i comportamenti sociali cristallizzati da tradizioni umane, troppo umane. Modificando leggermente un antico motto teologico, si potrebbe asserire: in necessariis unitas, in dubiis fluiditas (vel queer), in omnibus caritas.  

 

Augusto Cavadi

 

(Edito in "Le nuove frontiere della scuola", anno XX, giugno 2023, pp. 16 - 21)

[1]   Ancora differenti da “sesso” e “genere” (come ruolo sociale) sono le categorie di “identità di genere” (come auto-percezione psicologica) e di “orientamento sessuale” (nella quale rientrano gli omo-sessuali, i bi-sessuali e gli etero-sessuali). Anche ciascuna di queste due dimensioni, nell'immaginario poco istruito, viene sovrapposta a una delle altre tre, o a tutte e tre. Per intento di chiarezza, in queste pagine le lascio fuori campo e mi limito alle prime due evocate nel testo.

[2]   “Anche” perché il termine queer copre uno spettro semantico ampio e mutevole: qui preciso, per quanto possibile, il significato in cui l'adotto in queste pagine. 

[3]   L'esempio mi è suggerito dal romanzo di Lara Cardella, Volevo i pantaloni, Mondadori, Milano 1989, da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Maurizio Ponzi (1990). 

[4]          S. Zorzi,Viva la teologia femminista, “Rocca”, 16/17 2022.

[5]          La citazione, debitamente contestualizzata, nel mio L'arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato, Di Girolamo, Trapani 2020, pp. 64 – 65.

[6]          Cit. in V. Surian (a cura di), La città salvata. Omaggio a Simon Weil, εϊδος, Palermo 2014, p. 82.

[7]          T. Forcades, Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco, Castelvecchi, Roma 2019, p. 159. 

[8]           Ivi, p. 158.

[9]          Cfr. H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1979, da me sintetizzato e inserito nel complesso delle opere della Wolff in A. Cavadi, Tenerezza. Hanna Wolff e la rivoluzione (incompresa) di Gesù, Diogene Multimedia, Bologna 2016.

[10]           H. Wolff, Gesù, cit., p. 35.

[11]          Cit. ivi, p. 30.

[12]M. Althaus-Reid, From Feminist Theology to Indecent Theology: Readings  on Poverty, Sexual Identity and God, SCM Press, London 2004,p. 4, cit. in G.  Gugliermetto, Perché un Dio queer? Dalla teologia della liberazione alla sovversione sessuale. Prefazione a M. Althaus-Reid, Il Dio queer, Claudiana, Torino 2014, p. 11. 

[13]        Come ho precisato all'inizio, in queste pagine non sono esaminate altre religioni.

[14]Bisogna però riconoscere che in alcune Chiese cristiane più avanzate (ad esempio le Chiese valdesi, battiste e metodiste) già oggi l'identità sessuale e di genere è stata fortemente relativizzata rispetto all'identità religiosa e ecclesiale: ci sono pastori gay e pastore lesbiche che convivono con i propri partnersenza dover rinunziare per questo al proprio ministero pastorale. 

[15]E. Stuart, Sacramental Fleshin H. Loughlin (a cura di), Queer Theology: Rethinking the Western Body, Blackwell, Oxford 2007, p. 75, cit. in G. Gugliermetto, Perché un Dio queer? ,cit., p. 37. 

[16]M. Althaus-Reid, Il Dio queer, cit., p. 47. 

domenica 13 agosto 2023

QUANDO A CORLEONE CHI DENUNCIAVA I MAFIOSI DOVEVA POI FINGERSI PAZZO...UN LIBRO DI ERNESTO OLIVA


 QUANDO SOLO I PAZZI (VERI O FINTI) DENUNCIAVANO I MAFIOSI DI CORLEONE

 

Se si vuol capire la ragione per cui le aree para-mafiose del ceto dirigente italiano replicano, con puntualità, i tentativi di smantellare la legislazione sui “collaboratori di giustizia” (giornalisticamente noti come “pentiti”) e sui “testimoni di giustizia” (cittadini onesti esterni alle cosche o addirittura vittime di intimidazioni mafiose) occorre leggere questo intrigante volume di Ernesto Oliva, I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato, Di Girolamo, Trapani 2020.

Si tratta, infatti, di una puntuale ricerca su documenti, archiviati e dimenticati, relativi a vicende della seconda metà del secolo scorso (pubblicati soprattutto dalla Commissione parlamentare antimafia negli anni Ottanta), da cui si traggono storie ben al di là di ogni immaginazione letteraria. Dalla ricerca, infatti, emergono nomi e cognomi di abitanti di Corleone che – per le ragioni più svariate – decidono di accusare i colpevoli ignoti di delitti ben noti alle autorità giudiziarie, ma che, privi di qualsiasi conseguente protezione, vengono tempestivamente minacciati dai mafiosi e indotti ad annullare le prime loro deposizioni. Con quale stratagemma?

Da qui il titolo del volume: assumendo atteggiamenti, pose, reazioni da “pazzi”.

Uno di questi folli per autodifesa è Luciano Raia, della famiglia perdente del dottor Michele Navarra (medico condotto e capomafia), che inizia a denunciare d’intesa con la moglie Biagia Lanza i membri della famiglia vincente di Luciano Liggio: la loro collaborazione non rimane segreta, viene sbandierata dal Giornale di Sicilia  e al “Valachi siciliano” non resta che comportarsi da smemorato clinico. Un altro pazzo a scoppio ritardato è Vincenzo Maiuri che aveva assistito all’omicidio di un luogotenente di Navarra. Davvero autentico pare sia stato l’impazzimento di Vincenzo Streva che, dopo l’autodenuncia per l’assassinio di un giovane ladro di bestiame e la denuncia dei suoi complici, finisce ricoverato in manicomio criminale (mentre i correi da lui indicati restano a piede libero).

Oliva stesso evidenzia alcune delle numerose considerazioni suggerite dalle vicende che egli ha strappato all’oblio. Innanzitutto “un quadro corale di aperte denunce contro i delitti del clan, del tutto contrastante con l’opinione comune secondo cui Corleone sia stato il luogo per eccellenza della pratica dell’omertà” (p. 20); inoltre che lo Stato – in particolare la magistratura  – ha “permesso in quegli anni alla mafia di Corleone di affermarsi con la forza della soggezione, salvando i liggiani da ergastoli e condanne che avrebbero potuto forse impedirgli di uccidere in seguito investigatori, magistrati, politici, giornalisti e chiunque fosse stato ritenuto capace di opporsi al loro potere stragista” (p. 21). Come si è icasticamente espresso il magistrato e senatore Giuseppe Di Lello, “allo storico silenzio dei siciliani” è corrisposta “una storica sordità dei giudici” (p. 41). 

Ancora una volta, dunque, si conferma la teoria sociologica per cui i responsabili dei delitti di mafia non sono soltanto i mandanti (più o meno occulti) e gli esecutori, ma anche quei rappresentanti delle istituzioni che – per interesse, per vigliaccheria, per mille altre motivazioni – si sottraggono ai propri compiti: abbandonando i cittadini inermi al ricatto delle cosche, ne inducono la maggioranza alla rassegnazione  e condannano all’isolamento i pochi coraggiosi che preferiscono rischiare la vita anziché svendere la dignità.


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venerdì 11 agosto 2023

GLI EUROPEI ABBIAMO "SCOPERTO" O "CONQUISTATO" LE AMERICHE ? UN INTERVENTO DI ELIO RINDONE

 


La “scoperta” della conquista 

Nel 1992, in occasione dei 500 anni della cosiddetta “scoperta” dell’America, si sono moltiplicati convegni e dibattiti sulla correttezza del termine. Ovvio per alcuni, era inaccettabile per altri. In particolare per i nativi, privati delle loro terre e sopravvissuti a un vero e proprio genocidio: si calcola che ci siano stati tra gli 80 e i 100 milioni di morti.

Naturalmente le vittime degli “scopritori” hanno chiesto insistentemente di sostituire il termine ‘conquista’ al termine ‘scoperta’. Eppure, contro ogni evidenza, la richiesta non è stata subito accolta ed è stato necessario attendere ancora una trentina di anni perché le autorità cattoliche, che avevano avuto a suo tempo responsabilità particolarmente gravi, prendessero una posizione netta.

Infatti, nel luglio del 2022 papa Francesco, nel corso della sua visita in Canada, dopo aver chiesto perdono per i crimini subiti anche per colpa della Chiesa, ascolta dalle delegazioni di autoctoni canadesi la richiesta dell'abolizione della "dottrina della scoperta", in base alla quale gli indigeni erano stati assoggettati alla dominazione delle potenze coloniali dei re cattolici; dottrina che continua a incidere negativamente sulle loro attuali rivendicazioni territoriali a causa di una giurisprudenza che da essa, più o meno esplicitamente, discende.

Così, dopo una lunga istruttoria, si arriva, il 30 marzo 2023, a una Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta” dei Dicasteri per la Cultura e l’Educazione e per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.

Dopo avere ricordato che i papi hanno condannato gli atti di violenza contro i popoli indigeni e che uomini e donne credenti hanno persino dato la vita in loro difesa, la Nota riconosce che ci sono «fallimenti dei discepoli di Cristo in ogni generazione» e che «molti cristiani hanno commesso atti malvagi contro le popolazioni indigene per i quali i Papi recenti hanno chiesto perdono in numerose occasioni». I fallimenti e gli errori, in questa Nota come in tutti gli altri documenti vaticani, non sono mai della Chiesa ma sempre e solo dei suoi figli!

Passando, quindi, ai nostri giorni, la Nota, dopo avere rilevato che in un contesto di ascolto dei popoli indigeni «la Chiesa ha sentito l'importanza di affrontare il concetto denominato dottrina della scoperta», afferma che «alcuni studiosi hanno sostenuto che la base della suddetta “dottrina” si trova in diversi documenti papali, come le Bolle Dum Diversas (1452), Romanus Pontifex (1455) e Inter Caetera (1493)».

Ma i Dicasteri vaticani non sono affatto d’accordo con questi studiosi! A loro parere, infatti, «la “dottrina della scoperta” non fa parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica. La ricerca storica dimostra chiaramente che i documenti papali in questione, scritti in un periodo storico specifico e legati a questioni politiche, non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica».

A parte il fatto che qualunque documento viene redatto “in un periodo storico specifico” e in rapporto a determinate “questioni politiche”, sarebbe opportuno spiegare perché «la “dottrina della scoperta” non fa parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica». Quelle Bolle chiedono ai sovrani europei – è il caso di Alessandro VI – che «le nazioni barbare vengano sottomesse [deprimantur] e condotte alla fede», e l’invasione delle terre scoperte viene incoraggiata da quei papi proprio appellandosi – sono parole della Romanus Pontifex – all’autorità di «successore di san Pietro e vicario di Gesù Cristo»?

Dato che si richiamano alla stessa autorità apostolica cui farà appello Paolo III – che nella bolla Sublimis Deus del 1537 riconosceva che gli abitanti di quelle terre sono proprio esseri umani: «Noi che, sebbene indegni, esercitiamo sulla terra le veci di Nostro Signore», affermiamo che essi sono «veri uomini», e perciò «capaci di ricevere la fede cristiana», sicché non devono essere «privati della loro libertà e del dominio delle loro cose. Anzi, di tali libertà e dominio, possono usare e possedere e godere, liberamente e lecitamente, e non devono essere ridotti in servitù» – forse sarebbe corretto ammettere apertamente che tale autorità è in contraddizione con se stessa. Senza una tale chiara ammissione, sembra una scappatoia dire che i documenti di Niccolò V e di Alessandro VI non fanno «parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica», e quello di Paolo III, che affermava esattamente il contrario, considerando gli indigeni «veri uomini», va considerato invece adeguata espressione di tale fede!

E come sostenere la tesi secondo cui «i documenti papali in questione, […] non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica»? «Mai considerati»? Nemmeno dai loro autori? Si può seriamente pensare che i papi, Niccolò V e Alessandro VI, che emanavano quelle Bolle, e i sovrani cattolici che le accoglievano con grande soddisfazione, non considerassero quei documenti «espressioni della fede cattolica»? Quando si esagera, non si corre il rischio di cadere nel ridicolo?

Oggi, prosegue la Nota, «la Chiesa riconosce che queste Bolle papali non riflettevano adeguatamente la pari dignità e i diritti dei popoli indigeni»: ma davvero si può affermare che quelle Bolle «non riflettevano adeguatamente la pari dignità o è necessario »ammettere che negavano radicalmente dignità e diritti di quei popoli? Ed è corretto cercare attenuanti nel fatto che «le potenze coloniali in competizione tra loro» hanno commesso «atti immorali contro le popolazioni indigene», però «compiuti talvolta senza l'opposizione delle autorità ecclesiastiche»? O bisogna riconoscere onestamente non che talvolta è mancata «l'opposizione delle autorità ecclesiastiche» ma piuttosto che queste hanno proprio incoraggiato a «invadere, conquistare, espugnare, sconfiggere e soggiogare» quei territori e i loro abitanti, conferendo agli aggressori il diritto di scegliere «un appropriato confessore», che potrà «concedere la piena remissione di tutti e dei singoli peccati, crimini, delitti e trasgressioni che […] avrete confessato» (Dum Diversas)?

Se si pensa che la Nota è stata il risultato della lunga istruttoria non di uno ma di ben due Dicasteri vaticani, forse era lecito attendersi qualcosa di più. Un intervento un po’ tardivo?

Non ci si può, tuttavia, non rallegrare del fatto che nel 2023 la Nota abbia preso una posizione netta sulla questione: «La Chiesa cattolica ripudia quei concetti che non riconoscono i diritti umani intrinseci dei popoli indigeni, compresa quella che è diventata nota legalmente e politicamente come dottrina della scoperta». E sicuramente positivo è il fatto che «la solidarietà della Chiesa con i popoli indigeni ha dato origine al forte sostegno della Santa Sede ai principi contenuti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni».

Ma non tutti i problemi sono risolti: in effetti, la condizione di inferiorità dei popoli indigeni è ancora una questione aperta a livello internazionale! Infatti, José Francisco Calí Tzay, diplomatico guatemalteco, nominato nel 2020 relatore speciale sui diritti dei popoli indigeni, non solo ha accolto con favore il rifiuto da parte del Vaticano del termine scoperta, sottolineando che «La dottrina della scoperta è ancora una ferita aperta per molti popoli indigeni in tutto il mondo. Deve essere affrontata come parte di un processo di riconciliazione tra i popoli indigeni e gli Stati coloniali», ma ha addirittura esortato «tutti gli Stati che ancora abbracciano e applicano la Dottrina della Scoperta a seguire l’esempio del Vaticano» nel ripudiare formalmente quella dottrina e nel «rivedere tutta la giurisprudenza e la legislazione» che si basano su di essa.

Chi l’avrebbe mai detto? Ci sono Paesi che sono stati superati in velocità, si fa per dire, dal Vaticano nel liberarsi di un termine che, se scorretto, può provocare conseguenze davvero disastrose!

ELIO RINDONE

Elio Rindone è stato docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, saggista e studioso di teologia, collaboratore di pubblicazioni quali Aquinas (Rivista internazionale di filosofa dei docenti della Pontificia Università Lateranense), Critica liberale, Il Tetto.

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 28 del 05/08/2023

martedì 8 agosto 2023

LA PEDAGOGIA DEI MAFIOSI COME MODELLO PER OGNI PEDAGOGIA CHE VOGLIA ESSERE ANTIMAFIA


 19.5.2023

IMPARARE LA PEDAGOGIA DEI MAFIOSI. PER CAPOVOLGERLA.

 

Se un’associazione criminale può considerarsi di tipo mafioso quando persegue 

·      arricchimenti illeciti e 

·      posizioni di dominio 

·      mediante seduzione e violenza, 

può essere istruttivo tematizzare l’elemento della seduzione. Differentemente dalle narrazioni prevalenti, il mafioso non si accosta a un soggetto con modi minacciosi; al contrario, inizia a corteggiare offrendo servizi (ad esempio protezione), prestiti in denaro, raccomandazioni utili a salire i gradini della scala sociale o in alcuni casi avanzando proposte chiaramente corruttive. Solo se il soggetto “avvicinato” si mostra restìo all’adescamento, il mafioso può decidere di passare all’intimidazione: di sostituire la carota con il bastone.

L’esperienza ci dice che le cosche riescono a coinvolgere, a titolo di supporter e complici, un consistente numero di cittadini (di varie età e fasce sociali): il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta riteneva che un quinto circa dei 5 milioni di siciliani fosse più o meno stabilmente irretito nel sistema mafioso.  

Questa strategia di coinvolgimento sarebbe possibile senza la proposta di condividere, insieme a opportunità di carriera e di arricchimento illecito, anche un “codice culturale” (Umberto Santino)? O, invece,  la persistenza del fenomeno mafioso (almeno dall’Unità d’Italia a oggi) è comprensibile solo se si ammette che le organizzazioni di tipo mafioso sono state e sono anche agenzie pedagogiche (in senso ampio, dunque efficaci nei riguardi degli abitanti di un territorio di ogni età)? Insomma: la mafia è mafia – e non mera criminalità episodica – perché trasmette da una generazione alla successiva una visione-del-mondo. E lo fa in maniera persuasiva e pervasiva. 

La visione-del-mondo mafiosa è, come ogni altra, costituita da una serie di tasselli, tra cui: obbedienza assoluta ai capi, familismo amorale, sciovinismo campanilistico, maschilismo paternalistico, esaltazione (verbale) dell’omertà, enfatizzazione dell’onore, svalutazione del lavoro, tendenza al dogmatismo, propensione al fondamentalismo, violenza come linguaggio, valorizzazione del sadismo, individualismo a-politico, robinhoodismo ideologico, sottovalutazione della vita terrena.

Questa visione-del-mondo non viene insegnata a livello puramente teorico, intellettuale, cognitivo: la pedagogia mafiosa è “integrale”, mira a formare «tutto l’uomo»; inoltre è “territoriale” perché destinatari sono non solo i minori, ma tutti i cittadini di un territorio; infine è “contestuale” perché non si accontenta di condizionare settorialmente, bensì tocca trasversalmente tutti gli aspetti della vita quotidiana e tutti i momenti della vicenda storica (dall’economia alle feste, dalla politica alle relazioni amicali...).

Se queste sommarie analisi sono realistiche, una pedagogia democratica, alternativa alla pedagogia mafiosa, dovrebbe ribaltarne i contenuti pur all’interno della medesima impostazione. 

Ribaltarne i contenuti, i tasselli, proponendo: il senso critico, la solidarietà ‘larga’, l’ethos del lavoro ben fatto, il gusto dell’impegno politico, la passione per la bellezza naturale e artistica, l’eroicità della nonviolenza...

Ma all’interno della stessa impostazione: dunque attivando strategie educative che – a imitazione della pedagogia mafiosa – siano altrettanto integrali, altrettanto territoriali, altrettanto contestuali.

Non si tratta di criteri facili a attuare. Solo che, accontentandosi di meno, si rischia  di indebolire la mafia come soggetto militare, politico ed economico, ma di lasciarle la perfida egemonia come soggetto pedagogico-culturale.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


Per la versione originale, illustrata, cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/canoni-e-metodi-seduttivi-della-sub-cultura-della-mafia/


(Il titolo redazionale non è mio: infatti non uso "sub-cultura" nell'accezione adottata dal Direttore del sito).

venerdì 4 agosto 2023

BACIARE O ...? UN DILEMMA IMPEGNATIVO RILANCIATO DA ALBERTO GENOVESE



 L'alternativa del cavaliere: baciare o...

 

Poiché sono nato nel 1950, da genitori di famiglie dell'entroterra siciliano, ho fatto in tempo a intravedere un mondo essenzialmente feudale che solo il “miracolo economico” degli anni Sessanta è riuscito a  intaccare (almeno per quel breve periodo di transizione verso gli anni Ottanta in cui è stato gradualmente ricostruito nei fatti – non istituzionalmente -  sostituendo i servi della gleba medievali indigeni con gli immigrati dall'Est europeo e dall'Africa). Ho conosciuto quel mondo in cui il signorotto del borgo faceva il bello e il brutto tempo, decideva chi poteva lavorare e chi no, poteva pagare con puntualità o con ritardo di mesi i suoi salariati, perfino – eco dello ius primae noctis - scegliersi qualche bella contadina e negoziare con la famiglia d'origine il prezzo della sua verginità.

Ho conosciuto quel mondo ma non lo saprei rappresentare con la stessa attenzione ai dettagli, e soprattutto con la stessa capacità di restituire passioni e patimenti, di Alberto Genovese nel suo L'alternativa del cavaliere (Manni, San Cesario di Lecce 2022, pp. 64, euro 12,50). Il racconto decolla a partire dalla e-mail che un docente dell'Istituto di Filologia romanza di Heidelberg invia  all'autore per chiedere lumi sull'origine e il significato di un'espressione dialettale isolana, O futtiri o vasari , che letteralmente sarebbe “O penetrare col pene o baciare” ma che, più ampiamente, “sembra riferirsi a circostanze nelle quali si impone una scelta fra due piaceri, e per più estesa metafora, fra due guadagni” (p. 15). 

Il destinatario della missiva elettronica, tipico intellettuale di provincia molto erudito, “dilettante” nell'accezione etimologica più bella perché studia solo per diletto e non in funzione di obiettivi strategici utili, è felice di rispondere alla richiesta dell'illustre professor Henner Gut; anzi, lo è al punto che inserisce la sua risposta  - sintetizzabile in quattro, cinque righe al massimo – in una narrazione di decine di pagine, scritte per dare il contesto, ora sapido ora tragico, sia storico che culturale nel quale l'espressione in esame sarebbe stata originariamente pronunziata.

“La storia si svolge nella seconda metà dell'Ottocento, diciamo pure negli ultimi decenni di quel secolo”, in un periodo nel quale gli antichi latifondisti aristocratici – che “vivevano in città esistenze dissolute” - svendevano via via le terre a “genìe di astuti contadini appena un po' agiati, pronti a sfruttare il bisogno di contanti dei signori”. Ma il cambio ai posti di comando non consentiva al proletariato dei campi nessun passo avanti: “a un padrone inetto ne subentravano altri più oculati e canaglieschi” (p. 17). Protagonista del racconto si profila ben presto uno di questi padroni che, in mancanza di titoli nobiliari ereditati, si fa chiamare con “un rispettoso «don»” o, preferibilmente, “cavaliere” (21). Un tipo – si suppone che abbia superato la cinquantina – allergico all'idea di matrimonio, convinto che le mogli “ti lisciano, ti danno la dote e poi vogliono comandare, ti importunano, ti chiedono il perché e il percome di mille cose”, impedendoti di vivere come veramente vorresti: “un animale libero” (p. 22). 

La rinunzia al matrimonio non implica, ovviamente, l'astinenza da ogni gratificazione erotica. Il cavaliere infatti, quando è punto dal desiderio sessuale, bussa alla porta di Crocifissa, una sorta di governante che – sverginata dal padre del cavaliere a soli 12 anni – era poi rimasta al servizio, in ogni senso, del figlio suo coetaneo (con il quale ha il primo rapporto sessuale a 16 anni). Col trascorrere del tempo succede nell'animo del cavaliere qualcosa che egli non prevede e non vorrebbe: si affeziona a quella Crocifissa che invecchia piano piano con lui. Ciò nonostante, egli chiede ogni tanto che la governante faccia da “ruffiana” e le procuri qualche bella ragazza vergine di cui s'incapriccia, come Carmela, “dalla carnagione scura e carnosa di ciliegia matura, che a incontrarla nel buio della campagna si sarebbe confusa nel mistero della notte, e di giorno faceva dimenticare il sole” (p. 35). 

Effettivamente i tre fratelli di Carmela la cedono per una settimana in cambio dell'acquisizione definitiva di un pezzo di terreno particolarmente fertile che, su suggerimento di Crocifissa, è la Carrubata, la proprietà più bella del cavaliere. Perché proprio la Carrubata? Non lo sveliamo perché, come tanti altri passaggi, meritano di essere scoperti solo da chi leggerà direttamente il piccolo, denso, pensosamente leggero, libro. Possiamo solo andare, un po' frettolosamente, al clou della storia quando, per ragioni obiettive dipendenti dalle diverse stature dei due amanti,  il cavaliere è posto, dalla giovane - ma non inesperta né ancor meno ritrosa - longilinea Carmela, davanti al bivio: o trapassarla con la sua lancia o “baciarle il viso e la bocca” (p. 50). Egli vorrebbe, comprensibilmente, sommare i due piaceri,  ma deve constatare che talora la vita ci sbatte in faccia alternative non eludibili. E, se un dilemma è cornuto, siamo condannati, optando per uno dei due corni, a deludere fortemente o noi stessi o qualcun altro. O tutti quanti. 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

La versione originale con illustrazioni al link:

https://www.zerozeronews.it/lo-ius-primae-noctis-nella-sicilia-degli-anni-50/

mercoledì 2 agosto 2023

ESSERI-PER-LA-MORTE O ESSERI-PER-INCOMINCIARE ?

SIAMO NATI “PER” MORIRE ?

 

Del filosofo tedesco Martin Heidegger si ricorda, in particolare, un’asserzione: l’essere umano è un essere-per-la morte. 

Questa affermazione si può intendere in almeno due prospettive.

La prima, descrittivo-fenomenologica, è più innocua, quasi banale: sulla linea di sant’Agostino, per il quale “nasciamo e, di questo, moriamo”, Heidegger starebbe osservando – per usare le sue stesse parole – che “dacché un uomo nasce è abbastanza vecchio per morire”.

In una seconda prospettiva, ontologico-esistenziale, Heidegger asserisce qualcosa di assai meno ovvio, scontato: che nasciamo “per” morire. Detto in altri termini, il decesso biologico non è solo - come per ogni vivente - la fine, ma il fine. La frase, come nello stile di Heidegger, è volutamente provocatoria e può prestare il fianco a interpretazioni nichilistiche dalle quali ha preso le distanze Hanna Arendt. Nonostante il legame intellettuale e sentimentale che la legava al maestro, infatti, ella ha scritto: «Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare».

Ma Heidegger non era un nichilista (o, se lo era, non in maniera così smaccata): egli pensava che l’essere umano è congenitamente correlato non al Niente, al Nihil, ma all’Essere, alla Totalità, all’Intero del reale; solo che, a suo convincimento, questo Essere non ha alcuna stabilità, alcuna permanenza. Questo Essere non è Eternità, ma Tempo. 

In questo scenario  - siamo esseri divenienti radicati in un Essere diveniente – come si potrebbe interpretare allora la sua formula, apparentemente disperata e disperante, per cui esistiamo “per” morire? 

Molto probabilmente egli intendeva evidenziare che la morte può essere affrontata come un incidente imprevisto da maledire (è quanto avviene abitualmente per chi non è attrezzato alla riflessione filosofica), ma anche ‘anticipata’ consapevolmente come criterio di orientamento: in questo modo essa può, costruttivamente,  illuminare l’esistenza e darle sapore, significato. 

Un poeta contemporaneo cino-francese, François Cheng,   ha elaborato a modo suo l’intuizione heideggeriana: “Ci viene dunque offerto un mutamento di prospettiva: invece di limitarci a fissare la morte come uno spauracchio, a partire da questo lato della vita, potremo integrare la morte nella nostra visione e guardare la vita a partire dall’altro lato, che è la nostra morte. In questa posizione, mentre siamo in vita, il nostro orientamento e i nostri atti sarebbero slanci verso la vita” (Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 19). 

Allora la morte acquista i lineamenti del frutto il quale indica “uno stato di pienezza e, al tempo stesso, il consenso alla fine, alla caduta al suolo” (ivi, p. 22). Il poeta Rilke ha scritto: “Noi siamo solo la buccia e la foglia. /La grande morte che ognuno ha in sé/ è il frutto attorno a cui tutto cambia”.  Cheng, memore delle sue origini orientali, così commenta: “Rilke esprime l’ardente desiderio che la morte di ogni essere sia una morte che appartenga a quello stesso essere, perché nata da lui, come un frutto. E non manca di constatare, come tutti noi, che se il frutto cade a terra finisce per trovarsi accanto alle radici; fecondando la terra, partecipa del loro potere rigeneratore. Non dimentichiamo che il frutto in cinese si chiama quo-zi, che significa involucro contenente l’essenza e i semi. Vuol dire anche una forma di compimento e una possibilità di rinascere altrimenti” (ivi, p. 23).


 

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