sabato 28 giugno 2008

Sopravvivere filosoficamente: consigli da Davide Miccione


“Repubblica - Palermo”
28.6.08

I filosofi tra gli scogli della modernità

Vi astenete, solitamente, dallo sfogliare i libri di filosofia perché supponete che debbano essere scritti male, astrusi e - alla fin dei conti - noiosi? Se è così, sappiate di avere ragione (quasi) sempre. Il quasi lo si deve a felici eccezioni come l’agile volumetto di Davide Miccione, dell’Università di Catania, Guida filosofica alla sopravvivenza. Che, invece, è scritto con uno stile disinvolto, fruibile da lettori di media cultura e - last but not least - davvero divertente.
L’autore immagina che l’umanità contemporanea sia divisa in saggi, tradizionalisti e perplessi. Poiché i primi hanno un loro equilibrio (reale) e i secondi una loro tranquillità (illusoria), egli si rivolge ai terzi: a quanti, non essendo pervenuti alla conclusione che “se Dio non c’è, tutto è permesso”, sono convinti che “qualcosa è permesso e qualcosa no”, ma si chiedono “quale sarà mai l’uno e quale l’altro”. A quanti, col filosofo francese Sautet, sono convinti che “le risposte pullulano. Il problema è sapere che valore hanno”.

Miccione accompagna questi spaesati compagni di strada per alcune tappe della contemporaneità, anche se - da filosofo - sa dove non andare piuttosto che dove mirare. La prima stazione è l’onnipresenza invasiva della tecnologia: gli strumenti sempre più raffinati sembrano passivi schiavi al nostro servizio, in realtà condizionano le nostre scelte molto più di quanto noi decidiamo del loro destino. Il cellulare, ad esempio, sembra a tua disposizione: in realtà, “nessuno sarà tenuto a spiegare perché risponde sempre al cellulare, ma dovrà spiegare perchè ieri sera a quella certa ora non fosse reperibile”. La seconda stazione è il mito della spontaneità: devi andare dove ti porta il cuore, non perdere tempo nello stare a ponderare vantaggi e inconvenienti di ogni tua scelta, rifuggire da virtù anacronistiche come l’autocontrollo. Così, all’uomo medio, “si propongono tentazioni che avrebbero fatto sudare freddo l’abate Antonio: dicendogli però che sono opportunità“. La terza tappa è l’idolatria della salute: “danzaterapia, cristalloterapia, teatroterapia, aromaterapia, cristoterapia, ippoterapia, cromoterapia. Il mondo si è reduplicato. Una prima volta esiste per sé, una seconda come lenimento, balsamo, terapia. (…) Nessun nome, né concreto né astratto, nessun ente, nessuna disciplina, per quanto negletta, sfugge ormai a questo destino. Persino colui che fu il redentore del mondo adesso deve accontentarsi di esserne solo il terapeuta”, come promettono i manuali di ‘cristoterapia’. Il quarto scoglio da evitare per sopravvivere è la famiglia: il vincolo della consanguineità che cerchiamo di bilanciare con vincoli scelti da noi per affinità. Ma senza garanzie assolute: “il fratello con cui non andiamo d’accordo sarà un peso come il fidanzato che troviamo sciocco e cattivo. Ma nel secondo caso siamo noi a non essere all’altezza di noi stessi”. Il quinto, ed ultimo passo, è “sopravvivere all’Oriente”: al fascino che gli occidentali avvertiamo del mondo asiatico e a cui cediamo “nella schizofrenica convinzione di poter vivere con il ventre in Occidente e lo spirito in Oriente”. Ma forse, sotto sotto, “ciò che ci attrae nell’Oriente è la possibilità di uscirsene alla chetichella dalla responsabilità della contemporaneità“.

RIQUADRO

Davide Miccione (docente negli atenei di Catania, Enna e Messina) è membro del consiglio nazionale dell’associazione dei consulenti filosofici “Phronesis”, di cui con-dirige l’omonima (e gratuita) rivista on-line. Ha già pubblicato un fortunato manuale (La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007) che spiega ai profani che cosa offre questa nuova professione. In questo secondo libro (Guida filosofica alla sopravvivenza per l’uomo contemporaneo, Apogeo, Milano 2008, pp. 120, euro :-) affronta, con fine ironia, alcuni miti metropolitani, con lo scopo - non tanto nascosto - di demistificarli.

Augusto Cavadi

venerdì 27 giugno 2008

Vi aspetto tutte e tutti a Gibilmanna (11 - 13 luglio ‘08)


Associazione di volontariato culturale

SCUOLA DI FORMAZIONE ETICO-POLITICA “G. FALCONE”

Seminario estivo su “Spiritualità e politica”

I SENTIMENTI E LA POLITICA

CONVENTO DEI FRATI FRANCESCANI DI GIBILMANNA (Palermo)

Venerdì 11 luglio

ore 17: Accoglienza, iscrizione, sistemazione stanze

ore 17,30: Perchè il tema di quest’anno?
Un primo giro di opinioni fra i partecipanti
(Introducono e moderano Francesco Palazzo e Pietro Spalla)

Sabato 12 luglio

ore 10: Il sentimento religioso e la politica
(Giuseppe Savagnone)

ore 17: Il sentimento della paura e la politica
(Andrea Cozzo - Roberto Tagliavia)

Domenica 13 luglio:

ore 10,30: E’ possibile una politica che ascolti i sentimenti
 senza strumentalizzarli?
Tavola rotonda aperta agli interventi di tutti i partecipanti
(Introduce e modera Augusto Cavadi)

ore 13: Pranzo e fine dei lavori

Quote di partecipazione:

Iscrizione al seminario (indivisibile, per i tre giorni o anche solo per uno): euro 10
Iscrizione + 1 pasto: euro 23
Eventuali pasti oltre il primo, euro 15
iscrizione + 1 giorno di pensione completa in singola euro 60
iscrizione + 1 giorno di pensione completa in doppia (a persona) euro 55
iscrizione + 2 gg. di pensione completa in singola euro 110
iscrizione + 2 gg. di pensione in doppia (a persona>) euro 100
* Per adesioni rivolgersi studio avv.to Pietro Spalla: 091.514871 - 328.8135673
pietrospalla@tele2.it

FATE L’AMORE O SARA’ LA FINE DEL MONDO


Centonove 27.6.08

SE LO SCIENZIATO OSSERVA L’AMORE

Non è facile incasellare questa libro (M. ODENT, La scientificazione dell’amore. L’importanza dell’amore per la sopravvivenza umana, URRA, Milano 2008) in un ambito disciplinare. Lo ha scritto, infatti, un ginecologo francese che, dopo 23 anni di pratica medica in un ospedale di provincia, nel 1985 ha fondato a Londra il Primal Health Research Centre (per lo studio degli effetti sulla salute nel lungo periodo di ciò che ci accade al momento del parto e nei mesi immediatamente successivi); ma si occupa non solo di chirurgia, fisiologia e psichiatria, bensì anche di psicologia, sociologia, antropologia, etologia e - in un certo senso - filosofia. Nell’era dell’iperspecializzazione - in cui si tende a sapere sempre di più su frammenti sempre più piccoli dell’universo - il coraggio di questo scienziato di cercare uno sguardo panoramico attraverso ed oltre gli stretti binari disciplinari lo avvicina alla figura, ormai in via di estinzione, del sapiente: di chi persegue con umiltà ma anche determinazione “la capacità di stabilire costanti legami tra prospettive tanto diverse fra loro” (p. 3).

La tesi centrale - ben sintetizzata dal sottotitolo - va letta a due livelli di profondità. L’amore, infatti, è necessario alla nostra sopravvivenza come individui (e la tendenza millenaria ad interporre fra la madre e il neonato le interferenze materiali e simboliche della società, sino alla recente propensione per epidurali e parti cesarei, compromette questa prima esigenza, al punto da chiedersi quanti bambini riusciranno a sopravvivere all’invadenza delle attuali tecniche di ostetricia), ma è altresì necessario alla nostra sopravvivenza come specie umana. Infatti: se, fino ad oggi, “il potenziale umano di aggressione” ha potuto svolgere - a favore di diverse culture civilizzate - una funzione selettiva in un quadro di evoluzione generale (ma su questa opinione dell’autore sono possibili dei seri dubbi), siamo entrati in una nuova fase epocale in cui “dominare la natura ed esercitare potere e controllo sopra altri gruppi sociali” si sta capovolgendo in autolesionismo, mentre “la capacità di amare e di rispettare il prossimo, oltre che la Madre Terra, sta diventando un presupposto fondamentale per la sopravvivenza sia del pianeta sia del singolo individuo” (p. XXV).
Intorno alla tesi principale, che fa da asse del saggio, l’autore tocca (e in qualche caso sviluppa) una serie di tematiche corollarie che potrebbero rivelarsi delle piste preziose di ricerche ulteriori.
Una di queste tematiche riguarda l’analisi (e le eventuali disposizione correttive) della devianza giovanile e, più in generale, dei comportamenti criminali. I dati che Odent riporta (lamentando la censura accademica da cui vengono colpiti) sono impressionanti: “il principale fattore di rischio di diventare un criminale violento all’età di 18 anni” risulterebbe, da alcune ricerche statistiche, “la presenza di complicazioni alla nascita abbinata a una separazione precoce dalla madre, o al rifiuto da parte di quest’ultima” (p. 16); “uno dei principali fattori di rischio di suicidio in età adolescenziale” sarebbe, secondo altre indagini, “la rianimazione neonatale” (p. 16); altri ricercatori avrebbero appurato che “se a una madre erano stati somministrati determinati antidolorifici durante il travaglio, il figlio correva un rischio statisticamente maggiore d sviluppare dipendenza da droghe in età adolescenziale” (p. 17); da altri studi, ancora, emergerebbe che “il fattore di rischio più significativo per l’anoressia nervosa è un cefaloematoma alla nascita, ossia un ristagno di sangue tra cranio e cuoi capelluto, indicativo di una nascita molto traumatica dal punto di vista meccanico” (p. 17) e così via. Il succo della questione è che esiste un legame, evidente quanto oscurato dalla scienza ‘ufficiale’, fra “le modalità di nascita di un individuo e varie forme di capacità di amare” (p. 19).
Un’altra tematica affrontata da Odent lateralmente (ma non per questo considerata trascurabile) riguarda la necessità di riscoprire la radice dei nostri ‘piaceri’ più intensi. E’ noto come per molte partorienti il momento dell’espulsione del feto vivo è vissuto come un’esperienza orgasmica: cosa hanno di comune eventi come questi (a cui l’autore accosta la creatività artistica e gli stati di identificazione mistica con il Grande Tutto)? Sono tutti momenti in cui l’attività neocorticale (la parte del cervello più recente dal punto di vista evolutivo) si riduce al minimo e si lascia spazio al cervello “primitivo” (quella parte del cervello che abbiamo in comune con gli altri mammiferi). Dunque, l’uso dell’intelletto è - ordinariamente - inevitabile, anzi raccomandabile: non così nei momenti in cui possiamo sperimentare l’estasi perché “i differenti fenomeni della vita sessuale sono sotto il controllo degli stessi freni azionati dai centri inibitori neocorticali”. La resistenza a rallentare questi freni mentali è “l’origine di problemi caratteristici della razza umana: scarso desiderio sessuale, parti complicati e difficoltà nell’allattamento” (p. 42).
Almeno un ultimo tema, fra i tanti toccati da Odent, merita d’essere richiamato: il perdono. Già etimologicamente s’intravede il nesso fra amore e perdono: quest’ultimo è un dono, anzi un iper-dono , che nessuno può esigere per diritto e che può soltanto essere elargito gratuitamente. Non si tratta infatti di dimenticare un’offesa ricevuta né, ancor meno, di reprimere artificiosamente la propria sete di giustizia: se mai, nella piena consapevolezza del proprio diritto al risarcimento, si tratta di regalare - a sé stesso e all’avversario - un gesto creativo che vada oltre il piano della giustizia. L’autore del libro riporta i primi studi ’scientifici’ sull’argomento (per verificare eventuali correlazioni tra “la disponibilità al perdono e altri tratti della personalità come l’ansia, la depressione, la religiosità e la desiderabilità sociale”, p. 98) , auspicando che possano proseguire sino ad affrontare “la domanda fondamentale, ossia come si sviluppa la capacità di perdonare”, p. 100).

mercoledì 25 giugno 2008

I “pizzini” della legalità


L’editore Coppola di Trapani ha pubblicato oggi, nella Collana "I ‘pizzini’ della legalità", il mio tascabile COME POSSO FARE DI MIO FIGLIO UN VERO UOMO D’ONORE?
Nelle librerie è distribuito al prezzo di copertina di euro 2,00.
Buona lettura a tutte e a tutti!

La ’sicurezza’ è minacciata dai nomadi o dai mafiosi?


“Repubblica - Palermo”
25.6.08

IL RICHIAMO DEI PROTESTANTI SULLA LOTTA ALLA MAFIA

“Assistiamo al ritorno della ricerca del capro espiatorio (una volta i rumeni, prima gli albanesi, sempre i clandestini, oggi i Rom, anche le persone omosessuali, e le prostitute di strada, che sappiamo benissimo essere in gran parte schiavizzate) su cui scaricare la responsabilità delle paure, delle insicurezze diffuse, della estrema precarietà rispetto al proprio lavoro ed al proprio futuro. Si tratta di un orribile regresso ad un livello primitivo del vivere sociale, che nega quanto faticosamente conquistato dopo la tragedia della seconda guerra mondiale”. Così si legge nelle righe iniziali di un messaggio che i rappresentanti delle chiese cristiane valdesi e metodiste del Meridione italiano (presenti, come è noto, anche a Palermo e nell’intero territorio isolano) hanno reso pubblico alla fine della loro “Conferenza” annuale, svoltasi, in questi giorni, a Monteforte Irpino. E’ un appello che queste comunità cristiane rivolgono non solo ai protestanti che vivono nel Sud del Paese, ma anche ai cristiani di confessione cattolica e, più ampiamente, a tutti i concittadini di qualsiasi orientamento ideale.

Esse infatti manifestano, essenzialmente, una preoccupazione di ordine squisitamente civile: “Lo Stato, le formazioni politiche, le agenzie culturali non sempre sostengono con trasparenza e decisione i principi della convivenza, della solidarietà, della accoglienza espressi dal nostro ‘patto’ fondativo, la Costituzione repubblicana”. Anzi, peggio: “lo Stato non interviene quando gruppi di violenti distruggono e incendiano case, baracche, costringono famiglie, donne, bambini a fuggire nel terrore di essere linciati per colpe commesse da altri”. Non un missionario cattolico né un rivoluzionario marxista, ma un compunto osservatore liberale, Tocqueville, lo aveva già notato quasi duecento anni fa:“Quando una nazione chiede al suo governo soprattutto il mantenimento dell’ordine è già schiava nel suo animo” .
In nome della sicurezza si concentra l’attenzione sulla microcriminalità quotidiana, strumentalizzandola per demonizzare intere etnie, dimenticando “la malattia sociale del Meridione”: quei gruppi criminali mafiosi che “pretendono di controllare tutti gli affari e il modo di vivere sul territorio, imponendo, al di fuori e contro le leggi dello Stato, un proprio modello sociale fondato sulla sopraffazione e l’esercizio della violenza anche nelle forme più cruente come le stragi”.
In questo contesto, ognuno è chiamato a scelte nette, inequivoche. Chi è credente nel vangelo di Cristo, deve decidere “da che parte stare: se dalla parte di chi agita la paura dell’altro ed alimenta gli egoismi e le chiusure individualistiche, familistiche, corporative, identitarie; o dalla parte del Signore della vita, che ci ha affrancati affinché fossimo liberi e ci ha insegnato a scorgere nell’altro/nell’altra una sua creatura, fatta a sua immagine e somiglianza e raggiunta dallo stesso amore che ha trasformato le nostre esistenze”. Ma anche le coscienze laiche, che non si riconoscono in nessuna fede e in nessuna chiesa, devono fare le proprie opzioni, anche e soprattutto in una fase in cui le voci dei partiti, dei sindacati e dei movimenti di orientamento progressista sembrano ridotti ad un doloroso silenzio. Spetta anche ad esse, infatti, con parole e gesti concreti, personali e collettivi, esprimere consenso o dissenso rispetto a chi, a livello locale, “esercita il controllo mafioso del territorio, di ogni attività produttiva, dell’esistenza stessa di milioni di esseri umani”; e, a livello nazionale, rispetto a chi “occupa le istituzioni democratiche per asservirle alla tutela di interessi privati”.
Può sembrare sintomo di inguaribile infantilismo sperare, in questo momento di oscuramento degli orizzonti, in un futuro dove alcuni principi elementari di etica sociale possano prevalere sul calcolo dei vantaggi immediati. Ma, una volta tanto, ha ragione la saggezza popolare: non può fare più buio di mezzanotte. La miopia interessata, se oltrepassa certi limiti, diventa autolesionistica. Un organismo sociale in cui tutti arraffano quel che gli capita sotto mano si condanna all’implosione. In greco ‘proprio’ si dice idion: chi insegue il proprio ‘particulare’, con i paraocchi, è dunque - tecnicamente - un idiota. E la cronaca palermitana - anche se ci limitiamo a queste ultime settimane - pullula di casi di idiozia quasi sistemica: come altrimenti definire i reati di cui sono imputati grappoli di impiegati dell’Agenzia delle imposte di Palermo (che sottraevano denaro all’erario pubblico per favorire se stessi ed altri), grappoli di dipendenti del Jolly Hotel (fotografati con le vettovaglie sottratte abitualmente alle cantine), grappoli di spacciatori dell’Acquasanta (attivi nel rione e in mezza città) ? Ma la logica impone che i parassiti possono prosperare solo sino a quando non divorano del tutto il tessuto sano: quando lo dilacerano gravemente, si autocondannano all’estinzione. Prima o poi, si dovrà capire che senza il rispetto di regole ‘oggettive’ si compromette - prima ancora di un domani migliore per chi oggi è in condizioni di sofferenza - il mantenimento di una situazione di benessere per chi attualmente ne gode. Quando l’economia del privilegio e delle clientele avrà mostrato la corda, apparirà evidente ciò che agli occhi di molti resta nascosto: gli utopisti sono i realisti che hanno ragione troppo presto.

Augusto Cavadi

martedì 24 giugno 2008

IN TERRITORIO DIFFICILE


MAREDOLCE Giugno 2008

BRANCACCIO OSPITA LA PRESENTAZIONE DE “LA MAFIA SPIEGATA AI TURISTI”
Di Francesco Palazzo

Giorno 19 maggio, presso la scuola “Pino Puglisi” di Brancaccio è stato presentato il volume “La mafia spiegata ai turisti”, tradotto in sei lingue, scritto da Augusto Cavadi (pagg. 55 - costo euro 5,90) e pubblicato dalla casa editrice trapanese Di Girolamo. L’incontro è stato organizzato dal giornale Maredolce e dall’Associazione Scuola di Formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Segnaliamo due sorprese positive. La prima riguarda il numero dei partecipanti. Erano presenti più di sessanta persone, un pubblico più che rispettabile, anche per presentazione di libri organizzate in centro città.

Che ciò succeda a Brancaccio, ci si aspetterebbe il deserto in occasione di simili eventi, significa che bisogna andare oltre i luoghi comuni. L’altra notizia, ancora più positiva della prima, è che i partecipanti non sono stati passivi ascoltatori. Abbiamo contato una decina d’interventi. Grazie soprattutto al fatto che si è deciso, modificando la consuetudine di fare intervenire il pubblico alla fine, di dare subito, dopo una breve introduzione di chi scrive, la possibilità ai presenti di interloquire con l’autore. Detto delle note positive, c’è da segnalare che non era presente nessun esponente del consiglio di circoscrizione, anche se a tutti i consiglieri era stato consegnato, così come ci confermano dalla redazione del giornale, personalmente l’invito. Si è pure notata la scarsa presenza dell’associazionismo operante nel territorio e la totale assenza delle tante chiese parrocchiali presenti nella circoscrizione. Queste cose le segnaliamo non per polemica, ma perché riteniamo che quando il territorio ospita un evento di tale spessore, tutte le forze in esso presenti dovrebbero sentirsi interpellate in prima persona. Passiamo al testo. Perché scrivere un libro sulla mafia dedicato ai turisti? Di cosa parla? Perché può interessare anche i siciliani? Vediamo di rispondere brevemente alle tre domande. In genere quando un turista, straniero o proveniente dalle altre regioni italiane, viene nella nostra terra, ha della mafia, e conseguentemente della Sicilia, delle immagini poco chiare. Fatte, nove volte su dieci, di sentito dire. Il libretto intende fornire ai visitatori degli elementi per capire meglio, sia la mafia, sia i siciliani. Come ha strutturato il libro l’autore per cercare di raggiungere tale fine? Qui siamo alla seconda domanda. Cavadi suddivide il suo lavoro in tre sezioni: cosa è la mafia, se c’è sempre stata e se ci sarà per sempre. Su cosa è la mafia, segnala il fatto che essa non spara sempre, quindi i turisti non devono temere di essere coinvolti in sparatorie. Sottolinea, invece, che i mafiosi usano la violenza in maniera mirata, quando serve. E che essi perseguono il potere e l’arricchimento cercando soprattutto il consenso della popolazione. Nella seconda sezione, cioè all’interrogativo se la mafia esiste da sempre, l’autore risponde che essa è un fatto storicamente databile, essendo venuta alla luce con l’unità d’Italia, quindi intorno al 1861. Perciò, se un turista, o più facilmente un siciliano, pensa ancora che la mafia ci sia da sempre, dovrà ricredersi. In questa sezione viene anche affrontato il problema “mafia buona, mafia cattiva”. Una leggenda difficile da eliminare. Non c’è mai stata una mafia buona antica, da contrapporre a una mafia cattiva di oggi o a quella che ha fatto saltare in aria Falcone e Borsellino. No, la mafia è stata, come scrive Cavadi, senza interruzione alcuna, un’organizzazione criminale. Che perseguendo fini di arricchimento illecito e di controllo del territorio, ha ammazzato, quando è stato necessario, nel passato e nel presente, donne, bambini, preti, rappresentanti delle istituzioni. Oltre che gli stessi esponenti delle cosche nelle guerre di mafia. Per quanto riguarda la terza sezione, cioè se la mafia ci sarà per sempre, Cavadi, citando Giovanni Falcone, afferma che è un fenomeno umano. Prima o dopo finirà. Bisogna capire se dobbiamo attendere questa fine senza fare niente o se è il caso di darci da fare. Ovviamente, dobbiamo prendere per buona la seconda ipotesi. Ma in quali campi agire? L’autore, intanto, afferma che dobbiamo cominciare cambiando il nostro modo di pensare e di vivere, cercando di colpire l’economia mafiosa. Poi si sofferma sull’importanza dello studio personale e sul forte peso che ha la politica, ed ecco l’importanza del nostro voto alle elezioni, nel combattere la mafia. Già nelle righe precedenti abbiamo cominciato a rispondere alla terza, e ultima, domanda. Perché un libro del genere può interessare, oltre i turisti, i siciliani? Dovremmo onestamente ammettere che, da siciliani, poche volte ci siamo posti le domande giuste sulla mafia, e anche quando lo abbiamo fatto, non ci sono state le risposte. E quando queste sono venute, non sono state molto differenti da quelle che può darsi un ignaro turista che visita la nostra bellissima isola. Insomma, sull’argomento mafia, ci siamo comportati come dei turisti capitati per caso nel nostro territorio, mentre dovremmo esserne sempre più i protagonisti. Con le armi della democrazia, della conoscenza, della partecipazione e del coraggio. Finiamo con una sorpresa che ha caratterizzato il pomeriggio della presentazione. Un regalo inaspettato, che si lega a quella che è l’intenzione principale di chi ha scritto il libretto. Augusto Cavadi, nel corso del suo intervento, ha rivelato che ha voluto scrivere il libro perché, quando raccontiamo della mafia a chi la conosce poco, possiamo essere in grado di riportare la storia per intero. In Sicilia è nata la mafia, ma è nata anche l’antimafia. E nel libretto sono citati molti personaggi che l’hanno combattuta, con un approfondimento particolare su Peppino Impastato. Inoltre, a dimostrazione che l’antimafia può essere concreta e ben visibile anche oggi, ecco che durante la presentazione del libro abbiamo ascoltato la testimonianza di Nino Miceli. Un imprenditore operante a Gela che, all’inizio degli anni novanta, ha avuto il coraggio di denunciare, fare arrestare e condannare definitivamente coloro che gli chiedevano il pizzo. Adesso lui vive fuori dalla Sicilia, ma è tornato a fare l’imprenditore. Segno tangibile che la mafia si può combattere e si può anche vincere. Come del resto dimostrano i tanti imprenditori siciliani che si sono ribellati al racket e che continuano a svolgere il loro lavoro in Sicilia. A Nino Miceli, il 22 maggio, è stata consegnata la Targa Falcone.

mercoledì 18 giugno 2008

IL GOLFO DI CASTELLAMARE DIVENTA “ZONA DI PESCA”


“Repubblica - Palermo”
18.6.08

LAURA GENTILE (c.)
Gestione del Golfo di Castellammare
Cresm
Pagine 95
Gratis (cresm@cresm.it)

Il titolo completo, Gestione integrata e sostenibile del Golfo di Castellammare, fa riferimento ad un interessante progetto di sviluppo locale (www.golfodicastellammare.org) elaborato e gestito dal “Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione” di Gibellina con il Comune di Castellammare del Golfo e con il supporto decisivo del Dipartimento Pesca della Regione. Questo esperimento, davvero esemplare, di pianificazione partecipata Ë finalizzato alla definizione di una strategia integrata per la tutela del mare e del suo patrimonio biologico, lo sviluppo dell’occupazione e la rivalutazione del ruolo economico e ambientale della piccola pesca costiera. Per raggiungere l’ambizioso obiettivo, data la complessit‡ delle variabili in gioco, Ë stato seguito un approccio integrato e multidisciplinare, in grado di tutelare la “zona di pesca” in tutti i suoi aspetti. Da sottolineare la partecipazione attiva dei pescatori e delle loro cooperative: a conferma che la popolazione sa distinguere benissimo le proposte emancipative dai tentativi di strumentalizzazione.

venerdì 13 giugno 2008

Tra posta, banca e ateneo palermitano: cose da folli


“Centonove” 13 giugno 2008

POSTE, UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA

La psicanalisi ce l’ha insegnato, non possiamo negarlo: ciascuno di noi deve fare i conti con una vena di sadismo che ci porta a godere della sofferenza altrui. Sin quando queste pulsioni si manifestano nei rapporti interpersonali, possono essere compensate da atteggiamenti più positivi nei confronti degli altri. Ma se si concretizzano in norme ufficiali, se regolano rapporti istituzionali, rendono la vita davvero pesante.
Volete una prova, anzi due?

Andate in un ufficio postale qualsiasi (io sono andato in via Ammiraglio Rizzo), fate una fila di mezz’ora per spedire un pacco in Giappone e, al momento di pagare i 54 euro, tirate fuori la vostra brava tessera “bancomat”. Con un sorriso tra il dispiaciuto e il compiaciuto l’impiegato vi dirà che non potete pagare con la tessera, bensì in contanti. “Veramente alle Poste ho sempre pagato con questa!” obietterete voi ingenuamente. Ma lui ha la risposta pronta: “Alle Poste si può pagare tutto con il bancomat, tranne i pacchi postali”. Se vi resta un filo di voce potrete replicare: “Perché non avvertite almeno con un cartellino, prima che si faccia la fila?”; ma lui - asserragliato nella sua postazione e protetto da un provvidenziale vetro antiproiettili - ha l’ennesima risposta: “Che bisogno c’è di un avviso? Non lo sanno forse tutti che alle Poste i pacchi si pagano in contanti?”. Dunque: cornuti e mazziati. O almeno: fregati e presi per ignoranti. A quel punto non vi resta che uscire, andare alla ricerca di una banca con sportello del bancomat funzionante, prelevare liquidi, ritornare all’ufficio postale: in premio, però, di solito non vi sarà inflitta una seconda fila. E, in più, avrete gratis un passatempo assicurato: andare in giro fra amici, vicini di casa, colleghi di ufficio e conoscenti vari per verificare quanti di loro sanno che alle Poste il bancomat si usa per tutto, tranne che per i pacchi. Magra consolazione: non ne troverete neppure uno (a meno che non sia in quiescenza dopo trentanove anni di lodevole servizio alle Poste italiane!).
Se non avete un pacco da spedire, c’è un altro esperimento da fare. A me è capitato un protocollo inesorabilmente completo, ma credo che a voi può bastare lo spezzone finale. Cominciamo dall’inizio. L’Università di Palermo mi chiede di pagare certe tasse, ma con una raccomandazione sorprendente: il modulo è “da presentare presso gli sportelli del Banco di Sicilia in duplice copia e, solo in caso di effettiva impossibilità, per i residenti fuori dalla Sicilia, ad effettuare i versamenti tramite una filiale del Banco di Sicilia, in quanto assente dalla propria città, i versamenti potranno essere effettuati con un bonifico bancario”. Leggo e rileggo, incredulo, ma non ci sono dubbi: nell’epoca della terza rivoluzione industriale - l’epoca della telematica, della globalizzazione - non posso usare, come di solito, il mio computer per sdebitarmi con l’Ateneo palermitano. Anzi, se vivo in una città del pianeta in cui c’è anche una sola filiale del Banco di Sicilia, non posso neppure farlo attraverso la mia banca. No: devo andare pirsonalmente di persona - per citare l’appuntato Catarella di camilleriana memoria - ad uno sportello del Banco di Sicilia.
Vinta la tentazione di dichiarare di trovarmi, per un lungo periodo di studio o di lavoro, a Oslo o a Pechino (ma è sicuro che almeno là non ci siano filiali del Banco ex- ‘nostro’ ?), mi rassegno a recarmi alla filiale del Banco di Sicilia di via De Gasperi. Dopo la fila regolamentare, la gentilissima signora dello sportello tenta di digitare un certo codice e - stanca di vari quanto inani tentativi - mi comunica che forse è meglio che ritorni a casa. Timidamente suggerisco di provare a verificare se il guasto è anche nel computer del collega che siede alle spalle, ma questi fa, per un altro quarto d’ora, orecchio da mercante (anzi, da bancario). Meno timidamente, anzi sfacciatamente, chiedo allora che si provi col computer della collega accanto: e questa volta il meccanismo si sblocca. Raggiante per il successo insperato, mi accingo a pagare i 396 euro con la solita tessera bancomat, ma neppure nel tempio della finanza postmoderna mi è concesso. Carta di credito? Neppure. Assegno bancario? Neppure. Lei deve uscire dalla sala, preleverà al distributore automatico contanti, ritornare allo sportello e pagare in moneta sonante (o in banconote ancora tiepide). Mi arrendo: la vena di masochismo che mi ha trattenuto per più di mezzo secolo a Palermo non arriva al punto da contrastare il “combinato disposto” del sadismo dell’Università e del Banco di Sicilia. Mi appiglio all’ultimo granello di energia rimastami per chiedere se questo divieto di usare moneta elettronica vale solo in Sicilia o è stato emanato dalla nuova direzione romana, ma la signora è desolata: “Non so chi l’abbia deciso, non so perché l’abbia deciso. So che è così e basta”.
Alla radio, tornando in auto a casa, sento i risultati di un recente calcolo statistico: il cittadino medio trascorre diciotto giornate l’anno (non ho capito se si tratta di giornate di 24 ore o ’solo’ lavorative) per sbrigare nei vari uffici delle pratiche che, in futuro, potrà liquidare in pochi minuti dal computer di casa. Mi chiedo se la promessa varrà anche nel caso che si debba spedire un pacco alle Poste o un versamento all’Ateneo palermitano.

Augusto Cavadi

giovedì 12 giugno 2008

Mercoledì 18 giugno: caffé filosofico a Catania


Sitosophia, il sito degli studenti di Filosofia di Catania, presenta:

CAFFE’ FILOSOFICO con

PROF. AUGUSTO CAVADI
(sito web personale: http://www.augustocavadi.com)

Seminario sul tema:

RIPARTIRE DALLE RADICI, TRASFORMARE LA POLIS

Mercoledì 18 Giugno 2008, ore 16.15, Aula 31
Monastero dei Benedettini - P.zza Dante 32, Catania

giovedì 5 giugno 2008

“Eros e agape nella Deus caritas est. Motivi di consenso e ragioni di perplessità”


“Filosofia e teologia”
Eros e agape nella Deus caritas est .
Motivi di consenso e ragioni di perplessità.
2008, 2, 381 - 392

Consensi
Poiché i papi più recenti hanno consegnato nella prima enciclica le linee programmatiche del pontificato, anche la Deus caritas est è stata accolta con particolare attenzione.
Va innanzitutto registrata la reazione di gradevole “sorpresa” - persino in teologi non certo ‘allineati’ pedissequamente con le posizioni del magistero ufficiale - nel constatare che “lo scritto papale è un invito a riscoprire il volto più affascinante di Dio, e il dono, la comunicazione più esaltante di sé che egli ha fatto all’uomo: la capacità di amare, l’unica molla che dà soddisfazione, gioia, forza di vivere. L’amore non è semplicemente piacere, passione, assillo, estasi, sogno. E’ tutto questo insieme e molto di più″ . Anche Hans Kueng ha riconosciuto prontamente che si tratta di “un documento rispettabile, solido e differenziato” in grado di offrire “un solido cibo teologico sull’eros e sull’agape, l’amore e la carità e che si guarda dal costruire falsi contrasti” . In particolare è stato notato da esponenti del clero sensibili al confronto con il laicato più inquieto come sia da salutare con soddisfazione il fatto che un papa abbia fatto proprie, “seppure tardivamente, le categorie della psicanalisi” e che l’Eros venga riconosciuto “come emanazione divina e non del demonio”
Nessuna riserva dunque sugli intenti - sul telos - dell’enciclica (riconciliare, nel concetto e nella vita, “le due accezioni principali, spesso congiunte ma spesso anche contrastanti, dell’amore: agape e eros, i due grandi amori che rischiano di dividere l’umanità” ): non altrettanto unanime, però, il giudizio sui percorsi intellettuali proposti per realizzare in effetti tale riconciliazione.
Dico subito che non prendo in considerazione, in questa sede, l’obiezione radicale di chi si confronta con questo documento del magistero da un’ottica puramente filosofica: non perché non ritenga lecito un esame critico-razionale dei testi che si autopresentano come ’sacri’ e/o variamente ‘ispirati’, ma perché mi sembra plausibile che un testo teologico non debba riprendere daccapo, ogni volta, la (possibile) fondazione dello statuto epistemologico della teologia. Un’enciclica non pretende di essere un trattato filosofico e neppure, a stretto rigore, teologico: affermare, dunque, come fa Michele Martelli, che “l’Amor Dei e Dio stesso” sono “articoli di fede, presupposti arbitrariamente o surrettiziamente assunti come già dimostrati” , non mi risulta convincente. Che l’enciclica non si preoccupi di mostrare, preliminarmente, le (ipotetiche) ragioni per affermare un Dio trascendente e benevolo, non mi sembra una lacuna da rimproverare. Più pertinente, piuttosto, una seconda obiezione: che Ratzinger abbia accennato all’enigma del dolore nell’universo e, pur appellandosi alla fede silenziosa di Giobbe, si sia poi avvicinato alla posizione degli amici di Giobbe che - secondo il testo biblico - hanno tentato (empiamente) di difendere Dio stesso . Il papa è entrato, infatti, sia pure en passant, nel dibattito su Dio dopo Auschwitz, dissociandosi da posizioni come quella di Hans Jonas sulla “debolezza” dell’Onnipotente : posizioni che sarebbe stato saggio o non evocare per nulla o decidersi a discutere con l’approfondimento che la loro serietà speculativa e spirituale richiederebbe. Se l’attuale pontefice sia esponente di una filosofia in senso genuino (dunque di una ricerca intellettuale senza presupposti dogmatici e senza esiti precostituiti) o piuttosto di un’ “antifilosofia” affetta da “forme (…) di fallacia logica” è, in sé, certamente una questione meritevole di riflessione: ma non penso che la si possa dirimere riferendosi a testi che appartengono ad un genere letterario differente dalla scrittura filosofica.

Dissensi I: una riabilitazione molto parziale dell’eros
Il papa affronta le contraddizioni - o, forse meglio, i contrasti - fra le diverse modulazioni possibili dello slancio amoroso nella logica ‘cattolica’ dell’ et - et. Ma in questa operazione riesce a rispettare la genuinità originaria dei termini in questione? O, per rendere compatibili la pulsione erotica (che cerca insaziabile ciò che manca al soggetto-io) e il gesto agapico (che dona instancabile ciò che manca ai soggetti-altri), opera una devitalizzazione della prima ed un addomesticamento del secondo? Provo a spiegarmi meglio.
Come scrive con precisione il teologo spagnolo Juan José Tamayo, “l’enciclica difende la compatibilità tra l’amore erotico e l’amore verso Dio, dopo secoli di demonizzazione del primo. Per questo cita il Cantico dei Cantici, che vuole come canto d’amore per una festa nuziale l’esaltazione dell’amore coniugale, e lo Pseudo Dionigi Aeropagita, che attribuisce a Dio eros e agape, e critica Nietzsche poiché sostiene che il cristianesimo converte l’eros in vizio. Tuttavia, man mano che va avanti con le argomentazioni, la compatibilità si trasforma nel suo contrario e attraverso le risposte date a chi considera il cristianesimo come avversario della corporeità finisce per dare ragione ai critici come Nietzsche” . Su che base si può asserire che, alla fine, l’eros “torna ad essere demonizzato” ? Tamayo indica due passaggi dell’enciclica. Il primo è al n. 4: “L’eros necessita di disciplina e purificazione, per dare all’uomo non il piacere dell’istante, ma un modo per pregustare in una certa maniera il momento più alto della propria esistenza, quella felicità alla quale tende tutto l’essere”. Il secondo è al n. 5: “L’eros vuole innalzarci ‘ nell’estasi ‘ al divino, portarci oltre noi stessi, ma per ciò è necessario seguire un cammino di ascesi, rinunzia, purificazione e recupero”.
Passaggi di questo tenore rendono difficile contestare l’opinione di lettori come Rossana Rossanda, a parere della quale “l’Enciclica non concepisce un rapporto con l’altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell’amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un’originale perversità” . Davvero la riabilitazione dell’eros, meritoriamente avviata da Benedetto XVI, è rimasta a metà strada?
Un indizio non secondario potrebbe essere la ricognizione storica, decisamente parziale, che ne fa al n. 4: ” Guardiamo al mondo pre- cristiano. I greci — senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una « pazzia divina » che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: Omnia vincit amor, afferma Virgilio nelle Bucoliche — l’amore vince tutto — e aggiunge: et nos cedamus amori — cediamo anche noi all’amore. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione ’sacra’ che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino. A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la ‘pazzia divina’: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, ‘estasi’ verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende”. Se il papa avesse scritto che talora è capitato anche che l’eros diventasse perversione religiosa e strumentalizzazione delle donne, non avrebbe dato adito a nessuna obiezione. Ma le sue affermazioni si presentano con un tono perentorio e in una prospettiva generalizzante. Ecco perché, a mio avviso del tutto pertinentemente, un attento conoscitore della storia del pensiero religioso occidentale si è chiesto in proposito: “E’ corretto ridurre l’esperienza dell’eros nel mondo antico all’ebbrezza del Divino raggiunta mediante le prostitute sacre?”. Ed ha risposto: “Una presentazione più rispettosa della complessità di quel mondo avrebbe richiesto un cenno alla teoria platonica, quella che, per unanime giudizio degli studiosi, ‘caratterizza meglio, agli occhi della posterità, l’ideale greco dell’amore, ad un tempo slancio di tutto l’essere e conoscenza intellettuale, compimento dell’uomo e iniziazione alla vita divina’ (R. FLACELIERE, L’amour en Grèce, Paris 1960, p. 259). E basta leggere il dialogo platonico dedicato al tema dell’amore , il Simposio, per trovarsi di fronte a prospettive tutt’altro che volgari. (…). Certo un’enciclica non è tenuta a offrire una trattazione completa della cultura classica, ma se certi temi si vogliono affrontare è necessario un certo equilibrio: non si può parlare delle prostitute sacre tacendo il fatto che la Grecia antica ha parlato dell’amore in termini che si possono condividere o meno ma che sono innegabilmente di una grande nobiltà spirituale” .
Molto probabilmente un papa dello spessore teoretico di Ratzinger - e non certo ignaro della storia della teologia - accentua certi motivi e ne trascura altri non per caso. Lo ha notato, fra gli altri, uno dei maggiori teologi statunitensi, riconoscendo all’autore della Deus caritas est una indiscutibile - per quanto problematica - coerenza: “Il Concilio proponeva due criteri per il rinnovamento della Chiesa: il ritorno alle fonti e l’aggiornamento (specialmente tramite un ampio dialogo con gli altri). Negli anni dopo il Concilio, si è creata una divisione tra questi due approcci. La scuola del ritorno alle fonti, identificata con teologi come Von Balthasar, Danielou, De Lubac e Ratzinger, ha espresso timori per molti sviluppi della Chiesa post-conciliare. Il gruppo dell’aggiornamento dei tomisti teologici, come Congar, Rahner, Schillebeeckx, Chenu e Kung, hanno fatto appello a una continua riforma” . Se dunque il Ratzinger papa predilige “una sorta di agostinismo teologico” (e guarda con diffidenza ogni versione del “tomismo teologico, che accetta la fondamentale bontà di tutto ciò che Dio ha creato, malgrado la deturpante presenza del peccato nel mondo e nella Chiesa” ), non fa che confermare la continuità sostanziale con il Ratzinger perito conciliare prima, Prefetto della Congregazione per la fede dopo. Ovviamente il riconoscimento di questa coerenza non implica la condivisione della prospettiva. Infatti, come è stato osservato, “l’enciclica ‘Dio è amore’ si muove tutta sulla linea tracciata da Agostino. C’è al fondo una sfiducia totale verso l’amore umano” . Forse l’aggettivo totale non è il più appropriato: direi che dall’enciclica risulti verso l’eros una sfiducia essenziale che non esclude apprezzamenti accidentali e soprattutto condizionali. Mi spiego meglio. Già negli anni Trenta del secolo scorso il pastore luterano Anders Nygren segnalava “il malinteso corrente, per il quale l’agape viene concepita come una forma superiore, spiritualizzata dell’eros, e l’eros potrebbe eguagliarla tramite sublimazione. Il concetto [platonico] di ‘eros celeste’ ci ricorda che ciò non è possibile; esso potrebbe essere una sublimazione dell’amore sensuale, ma non è passibile di un’ulteriore sublimazione. L’ ‘eros celeste’ è il grado supremo assoluto nel suo genere, è stato spiritualizzato in una misura oltre la quale non è possibile andare. E’ giunto nella sua spiritualizzazione fin dove si può giungere. L’agape sta accanto all’ ‘eros celeste’ e non al di sopra di lui. Non è una differenza di grado, ma di natura. Nessuna via, nemmeno quello della sublimazione, può condurre dall’eros all’agape” . Ratzinger ha, qui, capovolto le tesi di Nygren: ha fatto dell’agape la sublimazione dell’eros, riducendo l’eros a qualcosa di valido solo a patto che venga spiritualizzato. Mi chiedo se sia opportuno che un papa, in un documento ufficiale, si pronunzi - investendo la sua autorità magisteriale - su una questione esegetico-teologica ancora dibattuta e, in caso affermativo, se sia opportuno che lo faccia senza portare un solo argomento contro la tesi che intende screditare. Anzi, senza neppure nominarla!

Dissensi II: un ridimensionamento della radicalità dell’agape
Se nel tentativo, in sé apprezzabile, di ricucire la relazione tra “l’amore autocentrato proprio dell’eros con l’amore eterocentrato dell’agape” - risalendo a “Dio come fonte comune di entrambi” - il papa non è riuscito a restare all’altezza delle sue premesse a proposito dell’eros (di cui ha offerto una rappresentazione poco serena e non certo integrale), più sottili ma non meno gravi riserve ha suscitato la sua interpretazione dell’agape.
Due le pericopi più eloquenti. La prima al n. 7: “Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro (…). Così il momento dell’agape si inserisce in esso”. La seconda al n. 14, dove si ritiene di indicare il perfezionamento e l’attuazione piena dell’agape nel modello ecclesiale neotestamentario: “Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani”.
Anche qui è opportuno non lasciarsi abbagliare dalla suggestione letteraria ed emotiva, ma attrezzarsi di lucida penetrazione analitica. Come mostra l’attento studioso che ho sopra citato a proposito dell’eros, la prima delle due gambe con cui l’amore percorre l’universo, “affermare che l’amore cristiano è l’eros che si apre alla generosità e al dono significa in realtà lasciarsi sfuggire l’originalità dell’agape evangelica. Il papa, infatti, parla dell’amore come forza che unisce in Cristo ‘tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi’ e che genera ‘l’unità con tutti i cristiani’. Ma davvero l’amore evangelico si rivolge solo ai cristiani, attuali o potenziali, erigendo un recinto che esclude chi resta fuori? Non è, al contrario, puro dono, disinteressata ricerca del bene dell’altro, anche se questi fosse e rimanesse un estraneo o addirittura un nemico? E’ proprio questa la novità del vangelo: ‘amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori’ (Matteo, 5, 44). (…) In effetti è difficile ammettere che l’amore per i nemici possa sbocciare dall’eros, come ha mostrato in un’opera fondamentale Anders Nygren (..), le cui tesi sono state accolte ormai da tempo dalla maggior parte dei biblisti cattolici. Ma il papa, mostrando la consueta chiusura nei confronti delle acquisizioni esegetiche, preferisce muoversi nel solco dell’interpretazione tradizionale, e arriva ad affermare, a proposito del Dio d’Israele, che ‘Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape’. Per la verità è Plotino, ultima espressione della religiosità greca, che concepisce l’Uno come Causa sui, che ama la propria perfezione: egli è hautoù éros (Enneadi VI, 8, 15); Giovanni, invece, ha dato la più compiuta formulazione della concezione biblica di Dio come amore che si dona scrivendo: Theòs agàpe estìn (1 Giovanni 4,8). Forse sia Plotino che Giovanni avrebbero provato un leggero stupore apprendendo che, in fondo, parlavano dello stesso tipo di amore!” . Come non ricordarsi dell’avvertenza di U. von Wilamowitz-Moellendorrff che, nel suo Platon, metteva in guardia “dall’equivoco, oggi non più sempre innocuo, per il quale si confonde l’eros platonico con l’agape, a cui Paolo ha dedicato il cosiddetto Inno all’amore nella I Cor. 13 (…) L’uno non sapeva nulla dell’eros, e l’altro [Platone] nulla dell’agape: avrebbero potuto apprenderlo l’uno dall’altro, ma così come erano non l’avrebbero fatto” ?
Queste - e simili - osservazioni non mirano a contestare il benemerito tentativo di sanare il divorzio secolare fra due valenze dell’amore che, nel vissuto esistenziale, non si lasciano separare: probabilmente non è mai esistito un solo soggetto umano che non sia stato capace di autodonazione gratuita (ricordiamo la vecchietta di Dostojesvkji che, in una lunga esistenza di avarizia, è stata - sia pure per una sola volta - in grado di dare una cipollina a un mendicante?), proprio come non è mai esistito (chi di noi ne potrebbe dubitare seriamente?) un soggetto umano che non abbia assecondato, anche nei momenti di prevalente donazione agapica, l’esigenza del tutto naturale e legittima di attuare le proprie potenzialità. La questione è un’altra: è teoricamente legittimo e praticamente innocuo interpretare come identici i due movimenti, in sé opposti, dell’amore erotico centripeto e dell’amore agapico centrifugo? Oppure la nozione di ‘carità‘ (che è emersa dalla storia bimillenaria di questo tentativo di con-fusione), pur elaborata per conciliare la saggezza greca e la profezia ebraica, ha finito con lo snaturare sia l’eros (diffamato in sé stesso e recuperato solo in quanto anticamera di un amore ec-centrico) sia la stessa agape (re-interpretata come atteggiamento di solidarietà forte e indiscutibile fra membri della stessa famiglia, della stessa chiesa, se mai della stessa città e di solidarietà sempre meno intensa e sempre più facoltativa man mano che ci si allontana dal cerchio primigenio verso individui e popoli altri da noi)? Non è un caso che, già all’alba del XX secolo, Max Scheler richiami l’opposizione fra il movimento dell’eros (”ascendente, dal non formato al formato, dall’imperfezione alla perfezione, dal basso verso l’alto, dal ‘µη ον’ all’ ‘ον’, dal ’sembrare’ all’ ‘essere’, da non sapere al sapere”) e la ” conversione di movimento [Bewegungsumkehr], di abbassamento, di discesa dal nobile all’ignobile, dal sano al malato, dal ricco al povero, dal buono e santo al cattivo e comune, dal Messia insomma a pubblicani e peccatori” nell’ottica della “critica alla morale borghese ed alla morale degenere” Se davvero si riconoscesse l’originalità dell’impianto agapico monoteistico, in specie cristiano, per cui “non sussiste ragione di chiederci quale sia il valore di coloro che sono oggetto dell’amore divino” dal momento che Dio ama per la sola ragione che “la sua natura è amore” , quante probabilità di restare in piedi avrebbe la visione pedagogica e più ampiamente politica (tuttora dominante in campo cattolico e protestante) che privilegia minori ed adulti ‘obbedienti’ e ‘consenzienti’ - almeno secondo i parametri della morale maggioritaria - rispetto ad ogni possibile caso di ‘devianza’ dal sistema normativo?
Personalmente ritengo più rispettoso della memoria storica e più fecondo per le relazioni sociali adottare un modello antropologico realistico che preveda, nel continuum dell’esperienza esistenziale effettiva, la dimensione della passione erotica inebriante (che, nella sua schietta originalità, non ha bisogno di essere riscattata o sovraordinata ad altro ) e la dimensione dell’autodonazione commisurata al volto dell’altro (che solo una mitologia psicologistica contemporanea tende a ridurre meschinamente a forme di egoismo mascherato ). E se adotto il semantema ‘dimensione’ è perché alludo ad aspetti distinti della vita, non a momenti cronologicamente separabili. Concordo, infatti, senza riserve con Giovanni Ventimiglia quando sostiene che “il culmine del piacere di un atto sessuale, la famosa ‘intesa sessuale’, non si può raggiungere badando - egoisticamente - solo al proprio piacere, ma imparando - altruisticamente - ad ascoltare, aspettare e assecondare il corpo dell’altro. Dunque, è proprio vero che l’egoismo non aumenta ma diminuisce il piacere dell’atto sessuale. Insomma: un vero epicureo del sesso è sempre anche un po’ stoico e, comunque, fa molta ‘beneficenza sessuale’. Il culmine dell’eros non si ottiene senza agape” . Ingredienti agapici non snaturano il movimento erotico che resta eros, proprio come e perché elementi erotici non snaturano il movimento agapico che resta agape. Ma forse, su questi temi etici, si possono pronunziare - con più pertinenza rispetto ad illustri studiosi che si limitassero a leggere libri o a chierici ben inseriti nelle gerarchie ecclesiastiche - gli uomini e le donne che, come avvertiva Aristotele, ne avessero esperienza in prima persona: in questo caso, che avessero la ventura di sperimentare effettivamente, nell’esistenza quotidiana, sia il miracolo dell’estasi erotica (anche, ma non esclusivamente in ambito sessuale) sia il miracolo, irriducibile al primo, del servizio gratuito a chi versa nella sofferenza.

Due postille non pleonastiche
A conferma del fatto che questo contributo, in quanto filosofico, non è animato da intenti apologetici né - di contro - eristici, mi pare irrinunziabile aggiungere almeno due precisazioni.
La prima è di ordine più propriamente concettuale. Secondo le Scritture ebraico-cristiane (ma, in questo, riprese sostanzialmente anche dal Corano), il modello archetipico dell’agape è Dio stesso: “Non noi abbiamo amato Dio, ma ha amato noi…” (I Giovanni, 4, 10). Ma il Dio della Bibbia (il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dei profeti, di Gesù e di Paolo) non è solo principio incondizionato che si autorivela e, autorilevandosi, si dona: è anche un’istanza esigente di severità. Nel Primo come nel Secondo Testamento è il Giano bifronte di cui ha parlato più volte Giuseppe Barbaglio La teologia cristiana si è distaccata, lentamente, da questa ‘immagine’ di Dio, ma sarebbe anacronistico attribuire ai Padri della Chiesa e agli stessi Dottori della Chiesa la concezione teo-logica che abbiamo maturato solo ai nostri giorni. Hannah Arendt, nella tesi di dottorato cui ho fatto riferimento sopra, ha attirato l’attenzione su brani agostiniani del genere: “Nulla ci rende inclini all’amore quanto il pericolo che ci sovrasta (…) Pertanto, la pace e l’amore siano conservati nel cuore grazie al pensiero del comune pericolo”. Di che pericolo si tratta? Della morte fisica e, ancor più, della dannazione eterna. Chi ama può fare ciò che vuole - secondo la celebre espressione del vescovo africano - a patto che si abbia la memoria e quasi la sensazione di essere sotto la spada della parola di Dio: Si memineris senserisque te in gladio verbi Dei.
Enzo Mazzi avverte in proposito quanto sarebbe istruttivo per la teologia non rimuovere queste radici ambigue la cui persistenza ha compromesso, attraverso la dogmatica ufficiale e la catechesi ordinaria, una prassi ecclesiale davvero nonviolenta e compassionevole. Egli evoca uno dei tanti passi di Ernesto Balducci in cui il religioso della Badia fiesolana invitava a rivedere profondamente la concezione tradizionale di Dio inteso come “cifra assoluta dell’aggressività umana”: “un Dio aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo in cui noi pensiamo che si debba essere giusti,capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per tutti i secoli dei secoli” .
Una seconda precisazione è di ordine più etico e storico. Con tutte le riserve del caso appena richiamate, non c’è dubbio che è stato il Libro delle tre grandi religioni monoteistiche a consegnare all’umanità una interpretazione dell’amore come agape che altre culture, non meno nobili, come la cultura greca o la cultura romana o la cultura cinese non hanno conosciuto o, meglio, non hanno tematizzato con la stessa insistenza e chiarezza. Il riconoscimento di questo dato ‘oggettivo’ non deve però indurre nell’errore - da cui questa stessa enciclica non sembra immune - di ritenere che, conseguentemente, siano stati i fedeli di queste tre confessioni religiose monoteistiche a vivere in maniera coerente o addirittura in maniera esclusiva tale modello di amore benevolente. Già le stesse Scritture ebraico-cristiane insegnano che presso i miscredenti, eretici o pagani che siano, è possibile trovare fulgidi testimonianze di amore gratuito e oblativo: un esempio fra i tanti, la parabola del buon Samaritano (cfr. Luca 10, 25 - 37). Ma anche le letterature di diverse epoche e di diverse aree geografiche confermano che in nessun modo si possono identificare una dottrina retta sull’agape e una prassi realmente agapica. E ciò nel doppio senso: che non necessariamente chi sa, sulla base del modello teologico, come si dovrebbe amare di gratuità agisce di conseguenza e che non necessariamente chi rifiuta il modello teologico dell’agape è poi, nei comportamenti effettivi, incapace di un’opzione agapica. Personaggi come don Abbondio dimostrano senza possibilità di equivoci che accettare, nominalmente, il modello biblico dell’amore come autodonazione disinteressata non costituisca una condizione sufficiente per viverlo praticamente; altri personaggi, come i medici de La peste di Camus, dimostrano che non è nemmeno una condizione necessaria.

Augusto Cavadi

mercoledì 4 giugno 2008

La mafia è l’anti-Stato che difende i cittadini inermi?


“Stella polare”
Trapani, Maggio 2008
anno XVI, n. 5

La mafia è l’anti- Stato?

Lo hanno intuito i filosofi orientali, poi anche i greci: la vita è intreccio di positivo e negativo. Non appena prende volto un valore, ecco la sua negazione ergersi dialetticamente contro. La giustizia non sfugge a questa regola generale che rende, forse, più interessante la vicenda umana, ma certamente anche più lacerante.
Dalla fine del XIV secolo in Europa si sono andati costituendo i primi Stati nazionali (Francia e Inghilterra), modello cui si sono adeguati nei secoli successivi altri Paesi europei (Spagna, Italia, Germania) e un po’ tutti gli Stati del mondo attuale. Ciascuno di essi ha segnato i propri confini territoriali e in essi ha inteso esercitare - in maniera autarchica - “il monopolio della violenza” (secondo la celebre definizione di Max Weber).

Questo processo evolutivo, tipico della Modernità, non è privo di ambiguità. Che l’amministrazione della giustizia non sia affidata allo scontro quotidiano fra i singoli cittadini, è certamente un passo avanti rispetto alla giungla o al Far West; ma nessuno ci garantisce che la giustizia statale sia giusta per il solo fatto che è esercitata dallo Stato. Quando uno Stato non è democratico, le sue sentenze possono essere legali (cioè secondo le norme in vigore) ma ingiuste: basti pensare alle leggi razziali in Italia durante il fascismo o in Germania durante il nazismo. Anche in regimi formalmente democratici - come l’Italia repubblicana dal 1948 - può accadere, come abbiamo constatato, che il Governo sia in mano a cittadini disonesti che, con l’appoggio della maggioranza parlamentare, modifichino le leggi in maniera tale da rendere legale - per interessi biecamente privati - ciò che prima non lo era. In questi casi il terzo potere (il primo è il Parlamento, il secondo è il Governo), intendo la Magistratura, può fare molto poco per difendere la giustizia dall’ingiustizia mascherata da legalità: compito dei giudici, infatti, è applicare le leggi vigenti, non contestarle o adattarle. Insomma: solo una attenta partecipazione del popolo sovrano può far sì che la legalità statuale si avvicini - o, per lo meno, non si allontani troppo - dalla giustizia umanamente individuabile.
La storia degli ultimi sessanta anni attesta che ci sono gruppi di potere, talora criminali (è il caso delle cosche mafiose), che approfittano della imperfezione costitutiva della legalità statuale per erigersi a difensori della gente comune e fare, in realtà, ciò che risulta più conveniente alla loro sete di dominio e di denaro. Da qui, ad esempio in Sicilia, il mito fraudolento della mafia come anti-Stato in difesa dei deboli e degli indifesi. Mito due volte fraudolento.
Prima di tutto perché le organizzazioni mafiose, a differenza ad esempio dei briganti e in genere dei delinquenti comuni, si mettono contro lo Stato solo se non riescono ad inserirsi nello Stato e a strumentalizzarlo. La mafia diventa anti-Stato, insomma, solo quando trova settori dello Stato che resistono alle sue infiltrazioni; altrimenti preferisce farsi Stato nello Stato, ‘mafiosizzare’ (se può passarmi il brutto neologismo) lo Stato.
Il mito della mafia come anti-Stato è ingannevole, poi, per una seconda ragione: essa - per riprendere una frase efficace di don Milani formulata in altro contesto e con altri riferimenti - “non serve i poveri, ma si serve dei poveri”. Se il sindaco mafioso o l’imprenditore mafioso o il sindacalista mafioso fossero davvero animati - come dicono e come vogliono far credere - da sentimenti di solidarietà sociale, non si adopererebbero per assumere qualche disoccupato ‘amico degli amici’ lasciando tutti gli altri in condizioni di disperazione e di ricattabilità; al contrario lavorerebbero, ognuno nel proprio ruolo, per accrescere i posti di lavoro e li assegnerebbero, man mano, in ordine di merito e di competenze. Essi invece aiutano solo chi promette loro un ritorno, un tornaconto: in bustarelle o, meglio ancora, in fedeltà elettorale. I mafiosi insomma aiutano pochi per evitare che, migliorando la condizione generale della popolazione, non si abbia più bisogno di bussare alla loro porta e di inginocchiarsi davanti alla loro poltrona. Essi fingono di aiutare gli altri, in realtà aiutano solo sé stessi e la propria cerchia di sodali. E fingono così bene che i loro beneficiati - quanti sono stati favoriti dai potenti disonesti - non se ne accorgono: vivono per anni convinti di essere stati privilegiati, senza sospettare di aver venduto la propria dignità. Ecco, a mio avviso, la tragedia della società siciliana attuale: è costituita a maggioranza (per fortuna non all’unanimità; e le minoranze morali dovrebbero non perdere la speranza di un futuro diverso) da cittadini che si sentono furbi solo perché sono diventati schiavi di pochi furbi e non ne hanno neppure consapevolezza.

Augusto Cavadi

(L’autore dell’articolo ha pubblicato vari libri sull’argomento. Con le edizioni “Di Girolamo” di Trapani: A scuola di antimafia, Strappare una generazione alla mafia, La mafia spiegata ai turisti. Questo ultimo tascabile è disponibile, a scelta, in sei lingue: italiano, spagnolo, francese, inglese, tedesco, giapponese).

martedì 3 giugno 2008

Parla Nino Miceli, perla preziosa nella melma siciliana


“Repubblica - Palermo”
3.6.08

“Io, ribelle al racket, solo contro tutti”
Dopo anni di fatiche e di rischi, riesci ad avviare una tua azienda. Vendi automobili, anzi sei concessionario della “Lancia Autobianchi” per tutta una zona in espansione economica - pur nel degrado urbanistico e sociale - che, avendo Gela come epicentro, comprende comuni di tre provincie limitrofe (Caltanissetta, Agrigento, Ragusa). All’improvviso cominciano delle visite indesiderate: gente vestita bene, con modi controllatissimi se non proprio educati, ti chiede un forte sconto, anzi qualche vettura gratis, anzi una grossa donazione, anzi una percentuale mensile sugli utili. Che fai? Le statistiche parlano chiaro: negli anni Novanta, così come oggi, la quasi totalità degli imprenditori si piega. Cerca, se può, qualche intermediazione ‘autorevole’ ma, nella sostanza, si piega. Ma la popolazione siciliana non è - secondo i cliché - un’etnia fiera, indomita, con un senso persino eccessivo dell’onore? Sì, forse. Per certi versi. In certi casi. Ordinariamente invece preferisce reagire sulla base di una saggezza veicolata da proverbi arcaici (”Abbassati giunco e sappi attendere fiducioso: non c’è piena di fiume che non passi”), inchiodato alla propria solitudine individualistica: con vera o presunta furbizia, tace e paga.

Ogni regola ha le sue eccezioni. Rispetto allo slogan con cui i giovani palermitani di “Addiopizzo” si sono autopromossi in città (”Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità“), Nino Miceli ha costituito l’eccezione. Inizialmente resiste: gli incendiano i locali (”l’odore di un ufficio bruciato, se ti penetra dentro, non ti lascia più neppure dopo anni”) , poi gli lanciano una molotov contro una serranda, poi di nuovo un secondo incendio. Fa finta di cedere al ricatto, per un anno registra segretamente ogni colloquio, si rivolge ai carabinieri: sino a quando i suoi (mancati) padroni non sono stati catturati, processati, condannati. 49 estortori in gabbia per un totale di 460 anni di carcere duro.
Ogni scelta, anche vittoriosa, ha il suo prezzo. Nino deve vivere con la famiglia in caserme blindate, poi lasciare per sempre l’isola, mutare professione e sin anche identità anagrafica. “Può sembrare paradossale” - racconta col buonumore caratteriale venato solo da una punta d’ironia - “ma, chiusa la battaglia insieme allo Stato contro la mafia, mi aspettava una battaglia meno cruenta ma molto più duratura contro lo Stato. Contro pezzi di Stato che invece di premiare la tua scelta, la penalizzano. Contro funzionari incompetenti, ma anche contro rappresentanti delle istituzioni ammirevoli ed ammirati, politicamente progressisti, che in certi passaggi decisivi, obbediscono a logiche indecifrabili, quasi condizionati da meccanismi perversi “. Proviamo a farci spiegare con qualche esempio il suo calvario burocratico - istituzionale.
Primo esempio sul versante finanziario. Ha dovuto chiudere una concessionaria automobilistica: ma come quantificare il danno? Certificati, documenti contabili, attestati di imposte versate, perizie ufficiali e perizie di parte,… “So che è incredibile, ma quando i due periti arrivarono indipendentemente alle stesse conclusioni, la Prefetura di Caltanissetta mi obiettò che il totale di quei calcoli andava abbattuto del 40%: non avevano tenuto conto del fatto che la forte presenza mafiosa rendeva commercialmente poco appetibile un’attività del genere. Insomma: avevo creato un’impresa che valeva 100 ma, siccome lo avevo fatto in territorio mafioso, in realtà valeva 60! Particolare non del tutto trascurabile: non stavo vendendo di mia iniziativa un’attività commerciale ad un altro privato, stavo chiedendo allo Stato il risarcimento per i danni subiti…”. Tano Grasso contesta il ragionamento della Prefettura, capisce che se si applica su Gela si dovrà applicare per gli imprenditori eventualmente ribelli al racket in ogni altro angolo del Meridione, ma il Comitato deliberante decreta una restituzione addirittura inferiore alla cifra riconosciuta precedentemente. Nino è testardo. Non ha ceduto ai mafiosi, non vuole cedere a chi lo dovrebbe compensare dei danni patiti dai mafiosi: ricorre al Consiglio di Stato e, finalmente, ottiene giustizia.
Secondo esempio sul versante psicologico. Nella località segreta in cui si è trasferito con la famiglia, uno dei suoi ragazzi compie un’ingenuità e rende noto in un certo elenco il suo vero cognome. Nino corre dal maresciallo dei carabinieri per chiedere di intervenire tempestivamente e, con discrezione, far cancellare quel cognome imprudentemente sfuggito. Ma è ora di cena, il maresciallo si infastidisce e sbotta: “Oggi ho già avuto a che fare con trenta delinquenti: abbia pazienza, lei è il trentunesimo”. Quando la Commissione parlamentare antimafia lo convoca, Miceli insiste sulla necessità di dare al più presto anche ai figli una nuova identità anagrafica perché, a metà del guado, non sono più chi erano e non sono ancora nient’altro. Vivono come zombi senza possibilità di accedere ad un concorso pubblico o di stipulare un contratto. Ma tra i parlamentari c’è distrazione; non capiscono la gravità delle richieste; qualcuno esprime persino insofferenza e, dai termini che usa, rivela di confondere il testimone di giustizia che ha davanti con un collaboratore di giustizia; il cittadino che sceglie le ragioni della legalità con il mafioso ‘pentito’ che usa lo Stato come estrema difesa dai suoi ex-complici; la vittima con il carnefice.
A un certo punto, Nino usa la scrittura come autoterapia: ne esce fuori Io, il fu Nino Miceli. Storia di una ribellione al pizzo, delle Edizioni Biografiche di Milano, un libro intenso e vivace come il carattere dell’autore. Alla prima presentazione a Roma, il sottosegretario Minniti propone che il Commisario antiracket ne acquisti alcune decine di migliaia di copie da distribuire, come strategia pedagogica, a commercianti e studenti di tutto il Paese. Il Commissario acconsente e chiede all’editore il relativo preventivo. Ma, passata l’euforia del momento, della proposta non se ne fa nulla. Così Nino accetta di girare l’Italia a discutere il libro nelle scuole e nelle facoltà universitarie. Il 22 maggio è stato anche a Palermo per ricevere dall’associazione di volontariato culturale “Giovanni Falcone” l’VIII Targa destinata a oppositori silenziosi al sistema mafioso. E’ un’occasione - un po’ rischiosa ma preziosa - di spezzare la cappa della solitudine a cui lo hanno condannato la sua condizione ed una recente separazione dalla moglie (che con venti anni di tensioni psicologiche qualcosa da fare ce l’ha). Eppure Nino oggi ha un desiderio profondo: vorrebbe un po’ di normalità. Va bene tentare nuove amicizie raccontando di essere nato e vissuto dove non è né nato né vissuto, ma ha pure bisogno - almeno ogni tanto - di passare una sera a sorseggiare qualche bicchiere di vino siciliano chiacchierando con amici fidati a cui può raccontare verità. Pure e semplici verità.

Augusto Cavadi

Verso una spiritualità incarnata nel quotidiano


“Repubblica - Palermo”
3.6.2008

Le tappe della Via Crucis con le sofferenze di oggi

VINCENZO NOTO
Oggi come allora
Edizioni Paoline
Pagine 72
euro 3,50

All’apparenza Oggi come allora, del direttore della Caritas di Monreale, è uno dei tanti libretti devozionali in uso nelle parrocchie per rinnovare antiche pratiche un po’ in declino come la “Via crucis”. Sfogliandolo si ha però una gradevole sorpresa: don Vincenzo Noto, prete e giornalista di lungo corso, prende spunto dalla cronaca per meditare sulle quattordici tappe della passione di Gesù. Una volta è il tradimento di un mentecatto ad opera di amici che lo uccidono per pochi spiccioli; un’altra volta è lo stupro di una ragazzina venduta dai familiari a maniaci sessuali; un’altra volta ancora è un commerciante di borgata che osa ribellarsi al pizzo…Ogni fatto è circostanziato: luogo, giorno, mese ed anno. L’invito complessivo è chiaro: la vita spirituale è autentica non quando sorvola sulla concretezza della storia, ma quando sa attraversarne lo spessore con le sue molte ombre e poche luci. Viene in mente - in un senso diverso da chi lo ha espresso - un motto di Hegel: “Per l’uomo moderno, la preghiera consiste nella lettura del quotidiano”.