martedì 22 luglio 2008

CONSULENZA FILOSOFICA


“La Rivista Italiana di Cure Palliative”, VIII, Estate 2008

Il tramonto della vita mondana: quale spazio per la consulenza filosofica?

di Augusto Cavadi
(Filosofo consulente, Palermo)

Per tre volte ho avuto il privilegio di essere coinvolto dalla “Società italiana per le cure palliative” (cui aderiscono sia medici sia altri operatori sanitari) come relatore agli ultimi convegni organizzati dalla sezione siciliana dell’Associazione. Con leggere differenze di accentuazione, ogni volta si è comunque intrecciato un confronto sulla terapia del dolore, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia: tematiche sulle quali sono stato chiamato ad interloquire, nella qualità di filosofo-consulente, con esperti di medicina, diritto, bioetica e teologia. Dalla triplice esperienza ho tratto alcune considerazioni trasversali, complessive, che, forse, meritano d’essere socializzate. Più precisamente sulla dimensione esperienziale della consulenza filosofica, sulla dimensione politica della medicina e sul ruolo del consulente filosofico come ponte fra la ricerca filosofica accademica e l’opinione pubblica. Approfondendo quest’ultimo argomento proverò a mostrare come il filosofo-consulente possa aiutare operatori sanitari e pazienti a prendere consapevolezza critica di alcune loro idee riguardanti il dolore, il suicidio e il rapporto medico-paziente.

Considerazioni generali sul servizio di un filosofo nei confronti degli operatori sanitari

a) Pensare a partire da una condivisione esperienziale
Una prima riflessione ha riguardato gli aspetti metodologici. In generale il filosofo – e in particolare il filosofo che si predispone al servizio di consulenza – deve, periodicamente, immergersi nel concreto delle problematiche sociali; porsi in ascolto degli interrogativi, ma anche delle intuizioni e degli stessi pregiudizi, di chi è visceralmente implicato in problematiche che nessun testo scritto può rappresentare in misura adeguata. In questo caso - è solo un’esemplificazione particolare di una regola generale – si tratta di registrare opinioni ed umori di uomini e donne che, dalla mattina alla sera, sono a contatto con piaghe fisiche e morali lancinanti verso cui chinarsi per scelta etica o per dovere professionale, ma da cui anche difendersi per salvaguardare un minimo di equilibrio psicologico personale. Solo lasciandosi toccare e attraversare da questi stati d’animo esperienziali, il filosofo-consulente può provare a balbettare qualche indicazione necessariamente (ma non biasimevolmente) ‘astratta’. Pronto non solo a restituire agli operatori sanitari e sociali il frutto delle sue riflessioni sui dati offertigli, ma ad accoglierne nuovamente le reazioni: in un circolo virtuoso fra domande dal quotidiano e attrezzatura filosofica che vede tutti insieme protagonisti della stessa ricerca di senso.

b) Pensare la medicina in prospettiva anche ‘politica’
Una seconda considerazione si è orientata sulla mission del filosofo-consulente: è essa esclusivamente rivolta a chiarire, in colloqui a due o in piccoli gruppi di discussione, opzioni personali (tutti, prima o poi, sperimentiamo modalità di sofferenza particolarmente acute o nella nostra biografia o nella cerchia dei nostri affetti) o non anche opzioni collettive (che riguardano il costume sociale e, almeno in prospettiva, l’assetto legislativo)? Anche da questa angolazione l’esperienza di questi tre incontri di studio mi è risultata istruttiva: il target a cui indirizzare la propria attività filosofica non è sempre circoscrivibile con esattezza. Su alcune questioni, il filosofo può - o forse deve – proporre le sue riflessioni critiche ad un pubblico ‘potenziale’ più ampio rispetto a quanti esplicitamente lo interpellano professionalmente. Per restare in questo caso: il committente è stato un soggetto privato plurale (la Società per le cure palliative), ma esso ha chiesto un apporto di chiarificazione e per se stesso (dunque per agevolare il confronto fra i soci all’interno dell’associazione) e per il resto della popolazione. Ciò che ho colto è stata una sollecitazione – da parte di un’organizzazione privata con intenti pionieristici - a valorizzare la dimensione ‘politica’ (o, se il termine evoca significati equivoci, ‘sociale’) dell’attività filosofica. Che, formulata diversamente, significherebbe assumere con serietà il compito non soltanto di rispondere alle domande che vengono poste dalla società, ma anche di porre alla società le domande che essa - abitualmente – non si pone. Qualcosa del genere è stata raccomandata recentemente in un breve, ma intenso, scritto da Pier Aldo Rovatti (1). Con ragione preoccupato dell’ingenuità con cui non pochi giovani si avvicinano alla professione di consulenti filosofici, egli richiama l’articolata eredità di Michel Foucault per ricordare che “leggere criticamente il presente significa avvicinarsi alla società in cui viviamo e descrivere in modo più circostanziato lo spazio in cui siamo bloccati, il nostro scenario discorsivo” (2). Per aggiungere immediatamente: “Qualsiasi manovra è reale se inizia da qui, da un hic et nunc sociale, politico e culturale”.

c) Il filosofo pratico medium tra il filosofo della pratica e il consultante
Una terza considerazione riguarda un po’ più intrinsecamente il merito delle questioni affrontate nei tre appuntamenti della Società italiana per le cure palliative. Quando ho riflettuto sull’invito ricevuto, mi sono chiesto se (ed, eventualmente, in che cosa) il ruolo del filosofo-consulente si differenziasse dal ruolo del filosofo etico. La presenza fra i partecipanti di illustri esperti in bioetica rendeva la domanda particolarmente pertinente. Questi colleghi avrebbero egregiamente - in ogni caso più competentemente di me – esposto le ragioni a favore di alcune battaglie portate avanti dall’associazione organizzatrice (possibilmente senza tacere le obiezioni rintracciabili nella letteratura sull’argomento e condivise da alcuni dei relatori invitati come da alcuni dei soci presenti). A che, dunque, un filosofo-consulente in quanto tale? La risposta mi è stata, indirettamente, suggerita dalla lettura di un libro molto interessante, tradotto nella nostra lingua qualche anno prima. L’autore, il francese Jacques Pohier, non è un filosofo di mestiere. E’ stato piuttosto un teologo (da frate domenicano è stato anche decano della Facoltà di teologia Le Saulchoir di Parigi) e un esperto di psicanalisi, per poi dedicarsi (dopo i provvedimenti disciplinari del Vaticano nei suoi confronti) all’Admd (un’associazione francese per il diritto ad una morte dignitosa). Ebbene, nel suo testo (3), egli nota più di una volta la “eccessiva medicalizzazione dei problemi legati all’eutanasia volontaria e al suicidio assistito”: “questi non sono problemi di carattere essenzialmente medico, bensì problemi che riguardano la valutazione che ne fa la società e al tempo stesso le scelte del diretto interessato” (4). Tuttavia questa “valutazione” sociale e queste “scelte” individuali non avvengono nel vuoto pneumatico. Da qui la necessità - preliminare ad ogni riflessione teorica e ad ogni battaglia operativa – di facilitare nei cittadini (operatori sanitari, pazienti o elettori) la consapevolezza di essere portatori di idee per così dire inconsce - o, meglio, seguendo il suggerimento di Peter B. Raabe, “irriflesse” (5) - che condizionano tante loro opinioni e tante loro scelte di vita quotidiane. Più precisamente, Pohier suggerisce l’incidenza di almeno tre teorie “implicite”: la “teoria implicita del dolore” (6), la “teoria implicita del suicidio” e “la teoria implicita della relazione medico-paziente” (7). Analizzeremo più sotto alcuni tratti di queste tre teorie “implicite” ma, preliminarmente, non ci interessa stabilire se le concezioni dominanti del dolore, del suicidio e del rapporto terapeutico siano valide, dunque accettabili e meritevoli d’essere perpetuate, o non piuttosto scorrette, dunque bisognose di revisione critica. C’interessa piuttosto notare che lo specifico del filosofo-consulente consiste nell’individuazione e nella messa a fuoco di tali concezioni (sotterraneamente ma resistentemente) operanti nei suoi interlocutori (diretti o indiretti). Una volta, per così dire, scovata questa visione-del-mondo, il filosofo-consulente può affidarla all’esame critico sia del suo ‘pubblico’ (che utilizzerà soprattutto esperienze personali, buon senso, romanzi, film, opere teatrali, canzoni…) sia dei filosofi-speculativi (che utilizzeranno soprattutto i dati della storia del pensiero e gli strumenti della logica). Filosofi-consulenti, filosofi-speculativi e non-filosofi lavoreranno con maggiori probabilità di successo se lo faranno in connessione con la “pratica, nel pieno significato della parola”: intesa come “la fonte e il luogo di un sapere che non può derivare da altro” (8).
Potrei aggiungere - per rendere meno imperfettamente la mia tesi sulla differenza fra una pratica filosofica come la consulenza e una filosofia della pratica come la produzione (articoli, saggi, trattati, lezioni, conferenze, relazioni ai congressi specialistici…) dei bioetici – che il consulente filosofico può facilitare ed arricchire l’esame critico delle opinioni “implicite” da parte del pubblico dei non-filosofi presentando loro delle teorie alternative (per lo più elaborate da filosofi di mestiere, in questo caso presumibilmente dei bioetici) sul significato del dolore, del suicidio e del rapporto terapeutico. Apprendere che esistono prospettive (coerenti e argomentativamente strutturate) altre da cui guardare il mondo in cui siamo immersi è uno degli stimoli più efficaci per prendere consapevolezza del valore, e dei limiti, della nostra stessa angolazione.

Alcune teorie ‘irriflesse’ che condizionano la pratica medica

a) La teoria ‘implicita’ del dolore
Proviamo adesso, a scopo esemplificativo dei criteri generali sopra accennati, ad analizzare la prima delle tre teorie “implicite” segnalate da Pohier. Egli parte dalla constatazione storica che “gli esseri umani hanno cercato, per millenni, di dare un senso al dolore, di trovare una spiegazione, una ragione, una giustificazione; meglio: di attribuirgli un valore”(9). A suo avviso questa operazione culturale si è presentata in due principali modalità: “individuare un colpevole” (“se soffriamo è perché qualcuno vuole il nostro male”: la “colpa” è “degli ebrei, dei massoni, dei crucchi, degli arabi, dei comunisti, dei capitalisti, dei preti, degli atei, dei giovani, dei vecchi, della civiltà moderna, del passato, della pornografia, del puritanesimo, della cultura scientifica, della cultura prescientifica, dell’illuminismo, dell’oscurantismo, e così via”); oppure “attribuirne a se stessi la causa o la responsabilità” (10) (e quindi vedervi una funzione punitrice o addirittura espiatrice).
Una volta ricostruita la doppia faccia della teoria, irriflessa e dominante, del dolore, che può fare il filosofo-consulente? Mi pare che la via maestra sia invitare il portatore inconsapevole di tale ‘teoria’ a riflettervi criticamente o per riconfermarsi in essa (almeno per quei casi in cui, effettivamente, l’origine di un nostro dolore sia ‘obiettivamente’ rintracciabile in un soggetto esterno che ci ha procurato del male o in un nostro comportamento pregresso autolesionistico); o per destrutturarla e liberarsene (almeno per quei casi in cui, effettivamente, l’origine di un nostro dolore non sia ragionevolmente attribuibile né ad altri né a noi stessi). Questo processo di demistificazione del dolore non è per nulla semplice. Lo stesso Pohier accenna al fatto che l’invenzione del “capro espiatorio” (avrebbe potuto citare in proposito gli studi di René Girard) e il “senso di colpa” non sono prodotti dalle religioni (e, in particolare, dal cristianesimo): dunque non “sarebbe sufficiente sradicare i riferimenti religiosi per sbarazzarsi di tutte queste idee” (11). Al contrario, egli suppone che “la maggior parte delle convinzioni religiose in materia non siano altro che un rivestimento, un involucro e, più in profondità, l’affluente impetuoso ma pur sempre secondario, di un fiume di cui esse non sono la sorgente” (12). Per cui uno smontaggio della teoria “implicita” del dolore – tendente a mostrare che esso è “di per sé degradante in quanto disumanizzante” (13) – potrebbe passare attraverso la critica della teoria cristiana del dolore, ma non dovrebbe arrestarsi ad essa: bisognerebbe, se ci si riuscisse, andare risalire ancora più a monte. Per esempio, sino alla radici antropologiche e psicanalitiche alla cui ricerca sono andati - e continuano a procedere - studiosi del calibro di Freud e di Jung (14).
Si potrebbe aggiungere - andando oltre Pohier – che questa critica (necessaria ma non sufficiente) della versione più diffusa della teoria cristiana del dolore non può in nessun caso arrivare dall’alto e dall’esterno della poltrona del consulente, ma deve essere per così dire stimolata nella mente del consultante. O attraverso la prospettazione di teorie alternative (è l’operazione, ad esempio, di Umberto Galimberti nel suo libro più recente dedicato alle pratiche filosofiche) (16) o, forse più efficacemente, attraverso una revisione teologica della visione cristiana tradizionale (che, utilizzando gli strumenti aggiornati dell’esegesi biblica e della storia della teologia, la liberi da superfetazioni e fraintendimenti accumulatisi nei secoli).

b) La teoria ‘implicita’ del suicidio
Una seconda teoria “implicita” che, a parere di Pohier, andrebbe scovata e messa sotto esame riguarda la nozione (comunemente più diffusa) di ‘suicidio’. Infatti, anche se “dal 1791 il suicidio in Francia non è più reato” e la Chiesa cattolica romana “ha ammorbidito (…) la sua disciplina pastorale e liturgica, che da oltre trent’anni consente di celebrare in chiesa il funerale dei suicidi con la liturgia dei defunti e di seppellirli nei cimiteri cattolici” (17) “questi progressi religiosi o civili non hanno modificato granché la tendenza a condannare duramente il suicidio da parte della società”: è “come se l’intransigenza della società civile dell’epoca precedente la Rivoluzione, e quella della Chiesa fino a poco tempo fa, fossero stati sostituiti da un’intransigenza non minore, e forse ancora più efficace perché meno esplicita” (18). Secondo questa teoria, il suicidio è per essenza una patologia: o teologica (ribellione a Dio) o morale (suggello di una vita perversa) o sociale (effetto di emarginazione) o psicologica (conseguenza di squilibri mentali gravi). Che di fatto il suicidio possa essere anche una manifestazione patologica (o, più ampiamente, rottura di un ordine reale o presunto) non c’è dubbio. La questione filosofica (in generale) e di consulenza filosofica (in particolare) è se non ci siano contesti (storico-culturali ed anche socio-esistenziali) in cui il suicidio sia interpretabile sotto altra luce, non lasci intravedere altre dimensioni non meno essenziali, non si riveli - insomma – come “un atto di libertà, un comportamento razionale e ragionevole, degno di lode e di ammirazione, se non addirittura, dal punto di vista morale, nobile e, dal punto di vista religioso, corretto e rispettoso di Dio” (19).
Ancora una volta: non si tratta, per il filosofo-consulente, di denigrare le idee tradizionali (qualora siano operanti nella mente dell’ospite) per soppiantarle, più o meno subdolamente, con le proprie. Più semplicemente, e più onestamente, si tratta di aprire orizzonti più ampi a colui che s’interroga sulle scelte di vita proprie o di persone care o di persone affidate alle sue cure: si tratta insomma non di disintegrare alcune opinioni del visitatore, quanto di relativizzarle. E questa relativizzazione può avvenire, come si è notato sopra a proposito della teoria del dolore, o prospettando punti di vista radicalmente altri (per esempio illustrando alcune convinzioni registrabili nella cultura nipponica) o invitando ad un esame critico della propria cultura. E’ un po’ l’operazione di Jean Baechler in Les Suicides del 1975 (citato dallo stesso Pohier) quando – dopo aver avvertito di non essere interessato a tessere “un’apologia del suicidio” – fa notare in quanto sociologo: “Che il suicidio affermi la libertà, la dignità e il diritto alla felicità mi pare risulti con ogni evidenza dai fatti. E’ interessante notare una contraddizione tipica della moderna civiltà occidentale. Da due secoli a questa parte ha sempre considerato suoi valori primari la libertà, la felicità e la dignità dell’essere umano. Ma per quanto riguarda il suicidio, il comportamento dei più è ben lungi dal conformarsi a tali valori. Il suicidio resta coperto d’infamia, il che significa che i familiari del suicida sono sempre mal visti dal vicinato. L’atteggiamento della Chiesa e dello Stato ha senza dubbio cessato di conferire il marchio esteriore d’ignominia che le istituzioni assegnavano in passato ai suicidi. Ma l’opinione pubblica non si è ancora adeguata (…). In verità, non è la prima volta né l’unico ambito in cui una società contraddice i valori che proclama” (19). In questa direzione di approfondimento si potrebbe andare ancora più a fondo e chiedersi come mai, anche prima del cristianesimo, si rilevi - accanto a teorie che legittimano o addirittura esaltano il suicidio - altre che mostrano contro di esso avversione intellettuale ed etica. Riprendendo e sviluppando uno spunto di Baechler, Pohier osserva che “una società può al limite sopportare che qualcuno ‘non stia alle regole del gioco’ : se il mancato rispetto delle regole del gioco si spiega con la patologia sociale o individuale, constatare e quindi dichiarare che la causa risiede nella patologia consente di considerare questi soggetti come dei ‘bari’ e garantisce l’intangibilità delle regole; ma quando non è possibile chiamare in causa la patologia o recuperare il suicidio all’utilità delle regole del gioco, allora queste sono messe in pericolo” (19).

c) La teoria ‘implicita’ del rapporto medico-paziente
Passiamo, infine, alla visione abituale (e irriflessa) del rapporto ‘giusto’ fra terapeuta e ammalato. Uno stimato presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei medici francese, tale dott. Louis Portes, l’ha saputa sintetizzare con eloquente efficacia: a suo avviso “la relazione medico-paziente” è definibile come “l’incontro fra una fiducia e una coscienza” (20). L’ asimmetria di questa relazione (“la fiducia è il paziente, la coscienza è il medico”) - sorretta a sua volta da “un’altra relazione altrettanto asimmetrica: quella fra un’ignoranza e un sapere, la prima è ovviamente del paziente mentre il secondo è prerogativa del medico” - sembrerebbe indiscutibile: ma lo è davvero?
Mi pare che un filosofo-consulente abbia il compito di problematizzare nei suoi interlocutori (medici, pazienti o responsabili politici che siano) questa lettura così apparentemente evidente e così realmente atavica, possibilmente procedendo in ordine logico e dunque partendo dal dislivello dei saperi su cui si baserebbe la disimmetria dei poteri. La letteratura in proposito (soprattutto dopo Michel Foucault) è ormai sterminata ma non sempre adatta ad uno scambio di opinioni fra professionisti della filosofia e utenti della consulenza filosofica. Perciò può essere di notevole utilità riprendere alcuni passaggi (riportati da Pohier) della prefazione che Édouard Zarifian ha scritto per un volume di Pascal-Henry Keller (21) : “Ogni malato, grazie alla visione personale della propria sofferenza, possiede un sapere della propria malattia diverso dal sapere puramente tecnico del medico. La scoperta di questo ‘sapere del paziente’ richiede impegno da parte del medico. Instaurare una relazione terapeutica è un’impresa complessa che necessita di un’apertura mentale, una disponibilità e un calore umano che a poco a poco permettono al medico di comprendere ciò che il malato esprime realmente”. Se questo è vero (o nella misura in cui è vero) “la concezione del rapporto medico-paziente” può dunque essere ripensata come “relazione fra una coscienza e un’altra coscienza, e anche (…) fra un sapere e un altro sapere, e dunque” - conclude Pohier non senza una sfumatura d’ironia – “fra un’ignoranza e un’altra ignoranza (poiché ciascuno, medico o paziente, ha la propria)” (22).
Demistificato il primato del medico sul paziente dal punto di vista cognitivo, conseguentemente va rivisto il suo potere decisionale dal punto di vista operativo. Va rivisto non nel senso che si possano negare al terapeuta una competenza ed una conseguente responsabilità che l’ammalato ordinariamente non possiede, ma nel senso che tale patrimonio di conoscenze e di esperienze legittima soltanto un’autorità concepita, etimologicamente, non quale sovranità arbitraria a vantaggio di chi la esercita bensì come capacità di ‘accrescere’ il benessere dei soggetti su cui si ha giurisdizione. Nel campo della sanità questo ribaltamento di prospettiva (qualora fosse riconosciuto ragionevole ed accettato dagli interlocutori interessati) significherebbe non “chiedersi ciò che è permesso o vietato alle altre persone (medici, infermieri, familiari, parenti, eccetera) in materia di lotta contro il dolore, di consenso o rifiuto delle cure, di eutanasia volontaria e di suicidio assistito”, bensì, al contrario, “fare della persona interessata (malato, anziano o infermo) il centro di gravità di tutto il sistema” (23). Significherebbe, in altri termini, “chiedersi quali sono i diritti degli esseri umani sulla fine della loro vita, perché i diritti e i doveri delle altre persone si definiscono a partire dai diritti di coloro che, essendo i diretti interessati, si trovano al centro del sistema” (23).
In realtà, come è stato notato autorevolmente, “nell’ambito della medicina, il dialogo non rappresenta una semplice introduzione o una preparazione alla cura. E’ già una forma di assistenza e prosegue nel trattamento successivo che deve portare alla guarigione. Il tutto si esprime anche nel termine tecnico ‘terapia’ che deriva dal greco. Therapeìa significa servizio” (24). Se è così, il consenso informato (”una formula che viene usata soprattutto per garantire il medico e l’istituzione verso proteste o richieste di risarcimenti da parte dei malati”) dovrebbe costituire solo una tappa di un processo più lungo che miri a “valorizzare la piena partecipazione del soggetto: alla conoscenza, alla terapia, alla prevenzione” (25).

Augusto Cavadi
Filosofo consulente
Palermo
www.augustocavadi.eu

Recapito dell’autore:
Via G. Carducci 3 - 90141 Palermo acavadi@alice.it

Sintesi:

Come il filosofo consulente può collaborare con medici e infermieri impegnati nelle cure di fine vita? Tre le condizioni preliminari: porsi in ascolto degli interrogativi di chi è visceralmente implicato in problematiche laceranti; entrare nell’ottica di chi vede, al di là dei problemi esistenziali personali, le opzioni collettive, politiche; porsi come medium tra il filosofo (che si occupa teoreticamente di questioni etiche) e il consultante (portatore di teorie etiche implicite). Per esempio i non-filosofi hanno teorie irriflesse sia sul significato del dolore; sia sulla legittimità del suicidio; sia su quali dovrebbero essere i rapporti fra medico e paziente.
Compito del filosofo da consulenza non è di contestare queste teorie implicite ogni volta che non le condivida né di tentare, più o meno subdolamente, di sostituirle con proprie teorie. Piuttosto egli deve aiutare l’interlocutore a prendere consapevolezza di ciò che pensa, a problematizzare tali idee, a metterle in confronto con altre concezioni. L’obiettivo finale è diffondere non le idee ritenute ‘vere’ dal filosofo, bensì un processo di consapevolezza critica in quanta più gente possibile.

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How can the Consultant philosopher cooperate with physicians and hospital attendants engaged in the terminal treatments? Three are the preliminary conditions: understanding who is viscerally involved in such painful problems; considering who sees, beyond his existential and personal problems, collective options and politics; behaving as a medium between the philosopher (who theoretically cares about ethical questions) and the consultant (who promotes ethical and implicit theories). For example, not-philosophers do have “unreflected” theories about the meaning of pain; about the legitimacy of suicide; about the relationships between the physician and the patient.
The Consultant philosopher’s task is neither challenge these implicit theories whenever he does not agree with them nor try, more or less deviously, to replace them with his theories. He must help his interlocutor in being conscious of his thoughts, thinking over them and comparing them with alternatives, instead. The main goal is not to spread the thoughts the philosopher considers as true, but to make as many people as possible critically conscious.

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Parole chiave: filosofia, dolore, suicidio, medico, paziente.

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Note:

1. ROVATTI P. A. La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Cortina, Milano 2006
2. ROVATTI P.A., La filosofia, cit., p. Ivi, p. 35.
3. POHIER J., La mort opportune. Les droits des vivants sur la fin de leur vie, Edition de Seuil, Paris 1998; trad. it. (da cui sono tratte le citazioni) La morte opportuna. I diritti dei viventi sulla fine della loro vita, Avverbi, Roma 2004.
4. POHIER J., La morte, cit., p. 233.
5. RAABE P.B., Philosophical counseling: theory and practice, Greenwood, London 2001; trad. it. (da cui cito) Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006, p. 202
6. POHIER J., La morte, cit., p.. 59.
7. POHIER J., La morte, cit., p. 152.
8. POHIER J., La morte, cit., p. 212.
9. POHIER J., La morte, cit., p. 72.
10. POHIER J., La morte, cit., pp. 72 – 73.
11. POHIER J., La morte, cit., p. 73.
13. POHIER J., La morte, cit., p. 74.
14. POHIER J., La morte, cit., p. 76.
14. “Quella della colpa è un’esperienza archetipica con la quale ciascun essere umano deve confrontarsi” (CAROTENUTO A., Soggettività e senso di colpa in AA.VV., Al di là del senso di colpa? Gli interrogativi del dopo-Freud, a cura di A. Lambertino, Città Nuova, Roma 1991, p. 29).
16. GALIMBERTI U., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 22 – 26.
17. POHIER J., La morte, cit., p. 152.
18. POHIER J., La morte, cit., p. 139.
19. POHIER J., La morte, cit., pp. 152 - 153.
20. POHIER J., La morte, cit., p. 153.
21. POHIER J., La morte, cit., pp. 167.
22. KELLER P.H., La Médecine psychosomatique en question: le savoir du malade , Jacob, Parigi 1997.
23. POHIER J. , La morte, cit., p. 168.
24. POHIER J., La morte, cit., p. 164.
25. GADAMER H., Ueber die Verborgenheit der Gesundheit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1993; trad. it. (da cui cito), Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano 1994, p. 137.
26. BERLINGUER G., Etica della salute, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 82.

Bibliografia:
MICCIONE D., La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007
POLLASTRI N. , Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007.
CAVADI A., Quando ha problemi chi è sano di mente. Introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003
SESINO L., “Ho bisogno di pensare”. Consulenza filosofica e Cure Palliative in “Rivista italiana di cure palliative”, 2006, 4, pp. 45 – 50.
CAVADI A., Poco filosofi o troppo psicoterapeuta? Le tribolazioni di una nuova professione, “Janus”, 2006, 24, pp. 119 - 124.

sabato 19 luglio 2008

DISAGIO SOCIALE, FESTEGGIAMENTI, RELIGIONE E POLITICA


“Repubblica - Palermo”
19.7.08

LA RELIGIONE DI UN SINDACO

Il fatto è noto (il sindaco Cammarata non partecipa alla processione della patrona della città e non grida “Viva Palermo e santa Rosalia”), anche per gli echi polemici e i commenti - di segno opposto - suscitati. Se può servire una riflessione un po’ più distaccata dall’emotività del momento, proporrei di distinguere due aspetti che mi pare siano stati indebitamente intrecciati.

Il primo aspetto è l’assenza del primo cittadino considerata in sé stessa. Se devo essere franco, mi pare un passo avanti verso la civiltà. Segna infatti la discontinuità con una tradizione di commistione fra politica e religione, fra Stato e chiesa, fra istituzioni pubbliche e devozioni private di cui c’è bisogno sempre più impellentemente. Infatti un’amministrazione più laica significa un’amministrazione più ‘amichevole’ nei confronti di tutti i cittadini: anche dei cittadini a-religiosi o di religioni diverse dal cristianesimo (pensiamo alla presenza di palermitani islamici e induisti) o di chiese cristiane diverse dal cattolicesimo (pensiamo alle decine di migliaia di cristiani protestanti di vari indirizzi). E, ne sono sicuro, più simpatica anche ai cattolici adulti, consapevoli, che non vogliono identificare la loro professione religiosa con nessun campanile (memori anche di quanto i mafiosi siano affezionati al “cattolicesimo municipale” come supporto ideologico di una criminalità politica senza idee e senza sentimenti).
Un secondo aspetto della questione, da distinguere bene dal precedente, tocca i motivi della scelta di Cammarata. Legata, pare, alla volontà di non esporre il fianco alle dimostrazioni rumorose dei senza-tetto palermitani. In linea di principio, non si dovrebbero che deplorare delle manifestazioni di protesta in grado di minare incontri collettivi solenni e più o meno intensamente partecipati dai concittadini. Ma va subito aggiunto che, sempre in linea di principio, chi vive un disagio clamoroso - come la mancanza di un alloggio - dovrebbe avere, in democrazia, diversi canali per far sentire la propria voce e ottenere giustizia. Di fatto avviene così? O non si preferisce prendere spunto da alcuni casi (che ci sono) di senza-casa che in vario modo tentano di speculare sul proprio disagio per criminalizzare intere famiglie, con genitori disoccupati senza loro colpa e bambini esposti ai quattro venti? Le proteste nel giorno del festino sono un’anomalia: ma un’anomalia che risponde ad un’altra anomalia. Entrambe - le urla di chi non riesce a farsi ascoltare altrimenti e la sordità di chi non ascolta se non quando si urla in occasioni cruciali - sono il sintomo di una città malata: di una città dove chi ha, cerca (già col voto) di ampliare i propri privilegi; e chi non ha, o ha poco, trova difficile lavorare per i propri diritti (talora votando per i partiti sbagliati, talora votando per quelli giusti che però contano sempre meno in fase deliberativa, talaltra ancora astenendosi colpevolmente dal votare) viene emarginato e ghettizzato implacabilmente.
Palermo sarà una città civile quando il sindaco non sarà aspettato perché salga su una scala a gridare verso un simulacro, ma sino al giorno prima del festino - e dal giorno immediatamente ad esso successivo - sarà nel suo ufficio a ricevere i cittadini in più gravi condizioni, a consigliarsi con i propri collaboratori e a controllare che le risposte politiche concordate con la sua giunta si traducano, in tempi certi, in fatti concreti ed evidenti. Sarà il modo migliore per onorare l’incarico - indubbiamente impegnativo - ricevuto dalla maggioranza degli elettori e, se si trattasse per caso di un cristiano credente e praticante, il modo migliore per testimoniare la sua fede nel messaggio evangelico.

mercoledì 16 luglio 2008

LA RINASCITA DELLA POLITICA


“Repubblica - Palermo”
16.7.08

RICOSTRUIRE LA POLIS OBIETTIVO DEI PROGRESSISTI

“L’incredibile scomparsa dalle istituzioni della sinistra che ha perso quasi 3 milioni di voti alle ultime elezioni politiche insieme all’insoddisfacente risultato del PD e alla piena vittoria della destra è stato un evento traumatico che ha colpito in profondità chi da anni, da una vita, è impegnato/a in politica per migliorare la società, combatterne le ingiustizie, schierarsi dalla parte dei più deboli, rivendicare diritti, allargare gli spazi di democrazia e partecipazione, costruire relazioni e occasioni di libertà“: esordisce così un documento firmato da una decina di palermitani, iscritti o elettori di Rifondazione Comunista, che tocca sia questioni interne al partito (che qui non ci interessano) sia tematiche più ampie che, invece, appaiono di notevole rilevanza per tutta l’area progressista e - direi - per qualsiasi organizzazione partitica. Infatti il breve testo, caratterizzato da diversi passaggi accorati che non fanno parte del politichese e che rivelano il genere femminile della maggior parte degli estensori (coordinati da Daniela Dioguardi, parlamentare uscente), tocca due o tre nodi nevralgici di metodo.

Il primo punto riguarda la saggezza di distinguere, biblicamente, il tempo per parlare dal tempo per tacere. L’efficacia dell’agire dipende anche dalla capacità di prepararsi all’azione nel silenzio e di intercalare, al ritmo frenetico delle scelte operative, degli spazi (apparentemente inutili) in cui “mettere in discussione se stessi e leggersi dentro”: di fronte alla estrema gravità di certe sconfitte elettorali, sarebbe consigliabile concedersi “una pausa di riflessione vera, un volerci/saperci ascoltare e contemporaneamente un andare fuori di noi e ascoltare l’esterno”. Da troppi anni questo invito a predisporre occasioni apposite, programmate, di consapevolezza critica e di progettazione meditata è caduto nel vuoto: c’è sempre una scadenza elettorale, una congiuntura internazionale o una polemica locale a cui dare la precedenza.
Ma se i partiti rinunziano ad essere laboratori di inventività pratica, a che cosa si riducono? Ecco un secondo nodo affrontato da questo documento, schietto e coraggioso come da molto tempo non capitava di leggerne. E la risposta, presa in prestito dal Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil, è dura ma lucida: “I partiti sono organismi….. costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”. Risposta tanto più significativa perché non viene da persone che hanno deciso di ritirarsi a vita privata, bensì da cittadini e cittadine che non vogliono rassegnarsi alla diagnosi letale e cercare - insieme a chi ha a cuore le sorti del Paese - una terapia. A cominciare dal ripristino di una democrazia interna non solo formale ma sostanziale: perciò dalla contestazione testarda, puntuale, faticosa di ogni “pratica autoritaria di demonizzazione/emarginazione del dissenso”. Che credibilità può avere un partito (o un’associazione o una università o una chiesa), quando chiede maggiori spazi di partecipazione democratica alla gestione dello Stato, se al proprio interno incoraggia invece il “conformismo”, il leaderismo, il carrierismo di chi sa fiutare - stagione per stagione - chi ha in mano i bottoni di comando?
La democrazia interna ad un’organizzazione partitica non costituisce comunque il test decisivo per l’elettore medio: e qui il documento sfiora un terzo, importantissimo, aspetto (che, a per la verità, avrebbe meritato un maggiore risalto). Che un partito non stabilisca le candidature centralisticamente, che rispetti alcuni criteri di rotazione e di non-comulabilità degli incarichi o che non ammetta deroghe sulla trasparenza dei tesseramenti sono questioni ‘oggettivamente’ rilevanti, ma al padre di famiglia o alla giovane inoccupata risultano ’soggettivamente’ troppo raffinate. Possono intrigare chi ha la pancia a posto. Un partito deve dare risposte - per quanto graduali e perfettibili - agli interessi reali degli elettori reali. Non si tratta di optare fra valori e interessi: ma di mostrare come in concreto la convenienza utilitaristica del rispetto dei principi etici (legalità, equità, solidarietà…). Questo obiettivo appartiene alla rosa dei compiti essenziali di qualsiasi partito (che non sia la struttura di copertura degli interessi di un’azienda privata). L’unica differenza ammissibile può essere tra chi risponde in maniera tattica per evitare di stravolgere il sistema nel lungo periodo (è la legittima posizione degli schieramenti conservatori) e chi risponde in maniera strategica sapendo spiegare perché, passo dopo passo, si sta mutando il sistema complessivo dei rapporti di forza (è l’irrinunciabile posizione degli schieramenti progressisti - a cui per altro essi hanno dimostrato di saper allegramente rinunciare).
Ma - tocchiamo qui un quarto, ultimo tema - per potere illustrare una politica concretamente indirizzata verso una società più equa e solidale, occorre che l’elettorato sia in grado di recepire un linguaggio diverso dal linguaggio dominante. In un clima culturale saturo di individualismo ed arrivismo, di esaltazione delle fortune economiche e mediatiche tanto improvvise quanto immeritate, i cittadini sono ancora in grado di intendere un progetto di ‘polis’ in cui il bene comune è più gratificante per tutti i singoli di qualsiasi altra condizione di privilegio, di sfruttamento, di guerra di tutti contro tutti? Ecco dunque aprirsi un campo immenso - e abbandonato - all’azione dei partiti: formare i propri dirigenti, militanti e simpatizzanti sarebbe già tanto (ed è - abbiamo visto - compito serenamente disatteso), ma sarebbe ancora poco. Occorrerebbe avere una politica culturale: che non significa necessariamente indottrinamento ideologico ma, più saggiamente, cura del modo di vedere la vita da parte del più ampio bacino dei potenziali elettori. Occorrerebbe, facendo tesoro di una delle lezioni più preziose del femminismo, capire ciò che il materialismo capitalistico ha, paradossalmente, capito da più tempo: che bisogna non solo fare i conti con le viscere e le tasche della gente, ma anche “lavorare sull’immaginario e sul simbolico, riuscendo a fare presa e ad orientare il desiderio e la ricerca di felicità, insita negli esseri umani”. Immani industrie del condizionamento mentale lavorano per convincere lettori ed ascoltatori che la felicità sia direttamente proporzionale all’acquisizione “della ricchezza, del successo e del potere”: chi insinua il dubbio, suggerendo l’ipotesi alternativa che “la felicità e la pienezza provengano dallo spendersi in relazione vera, non strumentale, con le/gli altre/i per un mondo più giusto e solidale”? Strappare un posto al consiglio comunale o avere dieci tesserati in più in una fabbrica del Sud sono traguardi degni di essere perseguiti. A cosa servono, però, se, per dirla con la Arendt, non ci impegniamo contestualmente nel rivitalizzare “un’eredità che non è più capace di parlarci in modo diretto e indiscutibile, ma che per continuare ad avere senso ha bisogno di essere interpretata, trascritta in nuovi concetti, simboli e metafore” ?

domenica 13 luglio 2008

IL “FESTINO” DI PALERMO


“Repubblica - Palermo”
13.7.08

SANTA ROSALIA IN FUGA DALLA CITTA’

L’onniscienza di Dio ha dei limiti. Infatti neppure il Padreterno sa quante siano davvero le Congregazioni di suore nel mondo, che cosa pensa un gesuita quando ti sta parlando e da dove attingano tanti soldi i Salesiani. Ma una missiva da Torino, a firma di certo don Pierluigi Zuffetti e a nome dell’Associazione Missioni “Don Bosco”, mi ha aperto uno spiraglio almeno sul terzo enigma. L’intraprendente Onlus salesiana, infatti, ha predisposto una lettera ‘tipo’ da inviare non (come sono solite le altre organizzazioni benefiche sia religiose che laiche) a ridosso delle festività natalizie, bensì - per evitare l’affollamento dei concorrenti - in date differenziate secondo le varie città italiane di destinazione. Più precisamente: in occasione della festa del santo Patrono locale. Mi si invita ad essere generoso con i successori di don Bosco sparsi per il mondo, con una precisazione che dalle nostre parti risuona singolarmente opportuna: “Sappiamo che nonostante la volontà di aiutare, spesso non se ne hanno le possibilità (il cuore è grande ma il portafoglio è sgonfio). La preghiamo dunque di pensare ad un’altra forma di sostegno come l’adesione al 5 x 1000 a favore della nostra associazione”.

Ma l’invito a elargire contributi spontanei non appare il motivo principale della missiva, la quale invece è incentrata sulla domanda se conosco Rosalia e se ho riflettuto abbastanza “sul significato del giorno dedicato a questa Santa”. Per rinfrescarmi la memoria, oltre ad una ’santuzza’ stile ottocentesco allegata, una scheda laterale a colori (ovviamente la sezione della pagina che muta secondo le città e le date) riepiloga le tappe principali della storia della Patrona principale di Palermo. Beh, proprio della ’storia’ no: con onestà si avverte che “il racconto scritto della sua vita raccoglie tradizioni orali” e che cinque lunghi secoli di oscurità separano la sua (presunta) esistenza nel XII secolo dal ritrovamento in una fossa di Monte Pellegrino dei suoi (presunti) resti mortali. nel XVII secolo. E che avrebbe fatto Rosalia, secondo la tradizione? Si sarebbe ritirata, come sappiamo tutti, in una grotta (o in due, se prima davvero è mai passata dal minuscolo e freddoso antro presso S. Stefano Quisquina) in “una vita solitaria e contemplativa” visitata solo da angeli celesti che “la adornavano di rose e fiori odorosi”.
Edificato dalla pia leggenda, riporto lo sguardo dalla scheda biografica verso la lettera-standard spedita da Torino, ogni volta identica, ma qui l’occhio incontra delle righe che mal si conciliano con il profilo della regale fanciulla: “Il Santo Patrono è qualcuno che, in passato, ha vissuto nelle stesse strade che oggi noi percorriamo, in mezzo alla gente. Qualcuno che si è preso a cuore questi luoghi ed ha avuto cura delle persone che vi abitavano. Se noi lo ricordiamo, a distanza di anni e anche di secoli, è proprio per il suo forte legame con la città“. A questo punto, vengo raggiunto da un’illuminazione - non so quanto divina - che mi produce un’ipotesi interpretativa istruttiva: ecco quale potrebbe essere l’origine di tutti i nostri mali cittadini! Dalla Santa Patrona ad oggi, chi dovrebbe stare “in mezzo alle gente”, si eclissa con troppa facilità. Chi sparisce perché attratto dalla vocazione all’eremitaggio; chi si volatizza perché ha perduto le elezioni e ha trovato cose più interessanti da fare che guidare l’opposizione democratica; chi si eclissa perché le elezioni le ha vinte ma, essendo una persona navigata, ha cose più divertenti da fare che amministrare una città caotica…Già una ventina d’anni fa lo storico del cristianesimo, don Francesco Michele Stabile, l’aveva notato con pacata lucidità: “Una proposta di vita cristiana prevalentemente ascetica ed eremitica si prolunga quasi fino al novecento e sottolinea, nel modello devoto di santa Rosalia eremita, nobile e taumaturga, la fuga dalla città, luogo di crisi e la salvezza della città come dono che viene dall’alto, più ancora che come impegno dell’uomo insieme agli altri uomini nel cammino verso Dio. Prevale l’invocazione e l’attesa del miracolo come dono risolutore da parte del santo protettore”.
Nella sua accorata letterina, il mittente salesiano mostra di non nutrire particolare fiducia nei confronti dei politici: “Probabilmente - mi scrive - anche lei si imbatte quotidianamente nei problemi del traffico, respira aria inquinata, perde tempo e pazienza a causa dei disservizi e, se ha figli, non è tranquillo sapendoli in giro la sera…Tutti i giorni sentiamo i politici che discutono su questa o quella priorità, ma siamo sicuri che sia il solo modo di affrontare la complessità di un centro urbano?”. L’interrogativo è un po’ retorico perché subito dopo aggiunge: “Secondo lei, un Santo Patrono potrebbe darci una mano? Rivolgendoci a Lui, attraverso la preghiera, possiamo chiedere il suo aiuto per cambiare le cose che non funzionano”. Ma se davvero dobbiamo “guardare al Santo Patrono come ad un ispiratore”, temo che nel nostro caso il modello ideale di comportamento non sarebbe molto incoraggiante. Già mi immagino Rosalia che, silenziosamente, ci replica: “Avete visto che ho fatto io non appena raggiunta l’età della ragione? Me ne sono scappata da Palermo e dai palermitani. Ho subito capito che ci sono poche speranze di cambiamento. Sino a quando i miei concittadini non si convinceranno a darsi una smossa - e non capiranno che la peste arriva per caso ma resta e si diffonde per connivenze ed omertà - non ci saranno santi che potranno aiutarli”.

sabato 5 luglio 2008

Lunedì 7 luglio alle 19, se non hai di meglio…


Per il ciclo “Parole al tramonto”
il Circolo Canottieri Trinacria
(Lungomare Cristoforo Colombo 5159,
zona Addaura,
venendo da piazza Valdesi subito prima del Telimar)
lunedi 7 luglio
alle 19,00
invita alla presentazione del libro di Augusto Cavadi
“La mafia spiegata ai turisti”
pubblicato in 6 lingue
(italiano inglese spagnolo
francese tedesco e giapponese)
dall’editore Crispino Di Girolamo (Trapani).
Insieme all’autore, interverranno
Maurizio Barbieri e Marcella Alletti.
Modererà il dibattito Nuccio Vara.

venerdì 4 luglio 2008

ESEMPI DA SEGUIRE


Centonove 4.7.08

LA FAMIGLIA LOGAN E IL VOLONTARIATO ECOLOGICO

La vicenda, minima ma emblematica, la racconta un mio caro amico sul numero in edicola del mensile “Espero”. La riprendo perché convinto che meriti d’essere conosciuta ben oltre i confini del comprensorio madonita dove il coraggioso periodico è scritto e diffuso. Robert Logan, anni fa, passa dalla spiaggia di Campofelice di Roccella e se ne innamora. Al punto da decidere, con moglie e figlia, di preparare i bagagli e di trasferirsi dal Connecticut in quella zona del palermitano. Ma la permanenza più lunga, al di là del periodo estivo, riserva un’amara sorpresa: il litorale, dall’autunno alla primavera successiva, diventa un immondezzaio a cielo aperto. A quel punto la famigliola ha davanti un bivio: rifare le valigie e tornare negli Stati Uniti oppure tradurre in pratica la convinzione che gli spazi pubblici vanno curati come o più, non certo meno, delle proprietà private. Così, fra lo stupore degli indigeni, si ripete quasi ogni giorno una scena di toccante efficacia: i tre stranieri si muniscono di guanti, rastrelli e sacchetti per ripulire la spiaggia dai rifiuti che vi lasciano i visitatori (per lo più siciliani). Un giorno per un quarto d’ora, un altro per mezz’ora, un altro ancora per due ore.

Interrogato, Robert offre una fenomenologia pressoché esauriente della strafottenza insulare: “I bambini mangiano il gelato e buttano la carta a terra; le mamme cambiano i pannolini e li lasciano dove capita; i giovani bevono birra e rompono le bottiglie sulla spiaggia; i gestori dei lidi, dopo aver fatto soldi grazie al mare, smontano le cabine e lasciano i chiodi sulla sabbia; persino i fuochi d’artificio lasciano un tappeto di sporcizia…” . Richiesto, poi, delle ragioni del suo volontariato ecologico, risponde con disarmante candore: “Io pulisco la spiaggia perché me lo dice il mio cuore e penso che, facendolo, manifesto il mio rispetto per Dio, per me e per gli altri”.
Non meno istruttive le risonanze ambientali dell’insolito ’straordinario’ gratuito della famiglia Logan. Mentre il sindaco si dichiara “mortificato” per non essere riuscito ad attivare una pulizia ‘normale’, istituzionale, i vicini di casa - guardandosi bene dall’affiancarsi ai tre idealisti - scuotono il capo sconfortati e fanno professione di fatalismo filosofico: “Tanto, si sa, è stato sempre così e non cambierà mai nulla”. Ma siccome siamo nella terra di Pirandello, non può mancare la nota grottesca: lo scorso anno, un solerte vigile urbano ha colto il buon Robert nel momento in cui gettava l’enorme sacco dei rifiuti raccolti in spiaggia in un cassonetto; la differenza di lingua non ha facilitato la comunicazione fra in due e, insomma, il tutore dell’ordine era proprio deciso a multare il ‘turista’ la cui versione dei fatti gli risultava incredibile…La storia si ripete con monotona circolarità: colpevole in Sicilia non è chi la sporca, fisicamente o moralmente, bensì chi osa denunziare la sporcizia. Fosse pure col gesto, silenzioso ma non per questo meno eloquente, di chi prova a fare pulizia nei pochi metri quadrati in cui ha scelto di vivere.

martedì 1 luglio 2008

COS’E’ LA FELICITA’?


“La luce del faro”
Luglio 2008

Si può essere felici in una società malata?

Nel numero precedente ho avuto modo di presentare, sia pur per sommi capi, la nuova professione del consulente filosofico. Oggi vorrei provare ad esaminare una delle domande più ricorrenti che il filosofo si sente porre da chi bussa alla porta del suo studio per una conversazione: si può essere felici?
Poiché la parola ‘felicità’ è una delle più abusate, inflazionate ed equivoche, bisogna innanzitutto chiarire di volta di volta cosa significhi per noi.

Felicità, infatti, può essere intesa almeno in due accezioni principali: la beatitudine definitiva di chi ha raggiunto la méta e il benessere provvisorio di chi è ancora in cammino. A rigor di logica, è difficile dare torto a sant’Agostino quando diceva (mille e settecento anni fa) che se la felicità non è totale e definitiva non può essere vera felicità: infatti chi può essere davvero felice se gli manca qualcosa o se ha continuo timore di perdere quello che ha? Se mi manca qualcosa, penserò continuamente non alle 99 cose che ho, ma a quell’unica che non ho. E se ho anche 100 cose, ma non ho la garanzia assoluta di possederle per sempre, sarò continuamente in ansia per l’eventualità che mi se ne tolgano 1, 10 o tutte e 100.
Poiché però della Felicità in questo primo senso (pieno e indefettibile) non abbiamo esperienza in questa vita (almeno, personalmente non ne ho), credo sia più saggio ripiegare sulla felicità con la “f” minuscola, la felicità “in progress”, intesa – modestamente – come condizione di benessere dell’homo viator. E’ la felicità cui allude Eugenio Montale in Ossi di seppia: “Felicità raggiunta, si cammina/per te su fil di lama./ Agli occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina;/ e dunque non ti tocchi chi più t’ama” (Felicità raggiunta). Per quanto rara, questa felicità fragile è sperimentabile in questo mondo: e solo di essa possiamo parlare con cognizione.
Come mettersi in cammino verso di essa? Partirei , come trampolino di lancio, da un invito di Pindaro, ripreso da Nietzsche: “Diventa ciò che sei!”. Come lo capisco io, questo invito equivale a : “Diventa in atto, quanto più pienamente possibile, ciò che sei in potenza. Evita di restare un abbozzo incompiuto. Non voler diventare più di quello che puoi (dimenticare il limite umano, mortale è tracotanza); ma neppure meno. Più in concreto: “Coltiva quelle tue risorse virtuali che, opportunamente sviluppate, ti consentiranno quella costellazione di esperienze intrinsecamente significative che insieme, come tesserine di un unico mosaico, possono fare la tua felicità“.
Quali sono queste risorse segrete che, opportunamente messe a frutto, possono provocare nel nostro animo quello stato sorprendente, e in qualche modo spiazzante, che chiamiamo felicità? Ognuno conosce le proprie.
Come orientamento comune, in generale, possiamo concordare sul fatto che si è felici nella misura in cui non si reprimono le proprie potenzialità di conoscenza (”tutti gli uomini, secondo Aristotele, per natura desideriamo sapere più che possibile”); non si frustra il nostro bisogno di essere amati e di amare (secondo Bertrand Russell, “essere oggetto d’amore è una causa potente di felicità, ma l’uomo che chiede l’amore non è colui al quale viene concesso”); non si mortifica il diritto di scegliere “come mestiere la propria passione” (M. Merleau-Ponty), se è vero - come scrisse una volta Primo Levi - che “l’amore per il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra”. Ma felicità è anche dare corso alle proprie esigenze di libertà e di giustizia: come vivere felici se non abbiamo il diritto di cercare strade nuove, anche a costo di sbagliare e pagare i nostri errori? E come vivere felici in un assetto sociale dove chi ha, ha sempre di più, e chi non ha - o ha di meno - si impoverisce di giorno in giorno?
Ma il paradosso che viviamo è proprio questo: da una parte vorremmo sperimentare una certa felicità in terra, dall’altra non vogliamo affrontare i rischi di chi cerca verità, amore, lavoro, libertà e giustizia. Preferiamo stare in panchina a maledire il destino o il governo, Dio o i genitori. Insomma: preferiamo costruirci una infelicità a misura nostra.

L’AMORE NON SOLO PER GLI UOMINI


“Repubblica - Palermo”
1.7.08

La città degli animali perduti

E’ comprensibile che in questi afosi fine-settimana ognuno di noi, se può, corra a cercare un po’ di refrigerio al mare o tra i boschi. Eppure, non tutti quelli che potrebbero permetterselo ne approfittano. Per esempio, se vi trovate a passare dal viale che entra alla Favorita dalla Fiera del Mediterraneo ed entrate al “Rifugio del cane”, vi troverete due o tre ragazzi che con le mani imbrattate, con le tute da lavoro infangate, tentano l’impossibile: accudire a centinaia di animali abbandonati. Animali da nutrire, da lavare, da curare, da liberare dagli escrementi. E, come se ciò non fosse abbastanza gravoso per pochissimi volontari (soprattutto nel periodo estivo, quando inqualificabili ‘padroni’ si alleggeriscono dei loro cani per poter partire in vacanza senza preoccupazioni superflue), questi ragazzi devono lavorare non solo gratuitamente, ma autotassandosi. La loro attività, infatti, non gode più del sostegno economico comunale e i contributi spontanei dei cittadini risultano molto al di sotto del necessario.

Come si potrebbe raccogliere l’appello silenzioso che il gesto di questi giovani , semplice e discreto, lancia a noi tutti?
Nell’immediato si tratta di non lasciarli soli. Se qualcuno può e vuole, mettendosi accanto a loro per aiutarli fisicamente a distribuire vaschette di acqua o a iniettare fiale di medicinali. O, per lo meno, portando cibo da cuocere o croccantini pronti per il consumo o anche solo dei giornali vecchi per rigovernare gli spazi.
Ma, ad un livello più ampio, si tratta di interrogarsi sulla quantità e sulla qualità degli interventi pubblici: come funziona il ricovero comunale? Che trattamento è riservato ai randagi che vengono rastrellati per le strade? Si sta attuando una strategia di sterilizzazione preventiva? Se un cittadino si imbatte in un animale ferito - o se si ammala l’animale di un cittadino che versa in cattive condizioni finanziarie - esiste un ambulatorio pubblico e gratuito cui rivolgersi (come avviene in altre città italiane)?
Può darsi che, in un momento in cui i tagli governativi ai servizi sociali colpiscono duramente le persone, ogni preoccupazione per gli ‘altri animali’ risuoni come un lusso inopportuno se non proprio come una beffa. Ma è davvero così? A ben riflettere, in moltissimi casi gli animali domestici fanno parte del mondo affettivo degli umani, soprattutto dei soggetti anziani o soli: prendersene cura significa salvaguardare un minimo di qualità della vita di tali soggetti. Inoltre - ma questa è una considerazione più difficile da condividere perché la sua validità è riscontrabile solo in prospettiva, nel lungo periodo - una città rispettosa dei viventi (appartenenti alla flora e alla fauna) promuove il rispetto reciproco anche fra i concittadini. Ne sanno qualcosa quei genitori mafiosi che, per iniziare i piccoli ad una certa mentalità, li invitano a maneggiare le armi per colpire uccelli o animali selvatici, in modo da abituarli a spargere sangue innocente. In questi mesi Adelphi ha tradotto una lettera stupefacente di Rosa Luxemburg (Un po’ di compassione), a proposito di un povero bufalo maltrattato da un soldato sotto i suoi occhi di prigioniera politica, corredata dal commento di Karl Kraus. Questi ha una frase fulminante e ‘profetica’ (siamo nel 1920, tredici anni prima dell’avvento del nazismo): “Fino a quando le valchirie tedesche e ungheresi guarderanno con ammirazione all’addestramento militare dei bufali, anche gli uomini non saranno al sicuro dall’essere ridotti a bestie da soma”. Nello stesso libretto, sempre sul tema della “compassione” per gli animali, c’è “il brano più lancinante dell’opera di Kafka” seguito da un commento di Elias Canetti che scrive : “La posizione eretta rappresenta il potere dell’uomo sugli animali, ma proprio (…) questo potere è anche la sua colpa, e solo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angosciante potere dell’uomo”. Un terzo brano, infine, a firma di Joeph Roth, descrive un macello tecnologico dei nostri tempi (in cui, con ossessiva metodica quotidiana, vengono “sacrificati” migliaia di manzi e vitelli, “senza contare pecore, agnelli, capre, capretti e cavalli”) e solleva l’interrogativo sul vegetarianesimo. Ma questo sarebbe un discorso a parte.