mercoledì 27 maggio 2009

Mafia e politica in Campania


Da un lettore affezionato ricevo e, volentieri, pubblico in omaggio alla memoria di Giovanni Falcone:

Ecco come le mafie s’ingrassano con la crisi e la complicità del 30% del ceto politico dominante
La dichiarazione del procuratore della Repubblica di Napoli Giandomenico Lepore, rilasciata alla Commissione parlamentare antimafia, non ha avuto l’eco e la rilevanza che meritava. Nemmeno la parte in cui riferiva che il trenta per cento dei politici campani sono collusi con la criminalità organizzata. La scarsa attenzione dei media si può spiegare almeno in un triplice modo. O il fenomeno dei rapporti fra politici e mafie è oramai così scontato da apparire persino superfluo parlarne nelle prime pagine. O la notizia, per la sua portata, avrebbe richiesto uno spazio e un approfondimento tali che le stesse redazioni televisive e della carta stampata hanno ritenuto di non poter o voler dedicare. O considerare valido quanto affermato nel recente Rapporto di Freedom House secondo cui “La stampa in Italia è ‘parzialmente libera’ a causa delle limitazioni imposte dalle leggi sulla diffamazione, delle intimidazioni della mafia ai giornalisti e della concentrazione proprietaria dei media”.

Cosa può significare - in termini sociali, economici e politici - il fatto che il trenta per cento del ceto politico collude o intrattiene rapporti stretti negli affari con la malavita organizzata?
Poiché non hanno alcuna vocazione ideologica né tanto meno etica, le mafie cercano di puntare di volta in volta sul cavallo vincente. Attraverso un’accurata preselezione, il personale politico con cui entrano in contatto è quello che, in ultima analisi, detiene per intero il potere decisionale della amministrazione pubblica. Se si fanno due semplici conti, non ci vuole molto a capire che il trenta per cento dei politici rappresenta tutta la classe politica che conta. Il sindaco, il presidente della provincia, il presidente della regione, le rispettive giunte. E’ con i rappresentanti di queste istituzioni e gli esponenti di questi organismi - inclini ovviamente al connubio - che il crimine organizzato stabilisce una relazione che ha bisogno di alimentarsi continuamente, non solo delle risorse che saranno destinate alle opere pubbliche e ai servizi - di cui i capi clan si aggiudicano gli appalti più sostanziosi - ma anche di interloquire nelle nomine di primari ospedalieri, nelle raccomandazioni per i concorsi all’Università, nelle candidature elettorali, nelle designazioni degli amministratori degli enti locali, nella realizzazione dei centri commerciali, nelle variazioni dei piani regolatori generali e particolari, così come in ogni campo e piega della società da cui si potranno trarre vantaggi economici, controllo del territorio, consenso dei cittadini.
Ed è proprio sulla ricerca del consenso che mafia e politica spesso si trovano ad utilizzare, in un certo senso, gli stessi mezzi; mezzi che ora possono essere messi in atto con un sottile gioco di intimidazione, di ricatti, di pressione, di clientelismo, ora con la corruzione e la complicità. Quasi ad indicare un terreno comune su cui gli interessi diventano convergenti. Se questo corrisponde, come pare, al quadro tracciato dal procuratore di Napoli è difficile potere avere, per il prossimo futuro, una speranza di cambiamento.
Nonostante siano stati sciolti, fino al 30 giugno del 2008, ben 180 consigli comunali per infiltrazioni mafiose: 80 in Campania, 49 in Sicilia, 41 in Calabria, 7 in Puglia e 3 nel Lazio, Basilicata e Piemonte, parti rilevanti del territorio continuano ad essere controllati dalle cosche e dalle famiglie mafiose. Le organizzazioni criminali continuano ad influenzare i flussi della spesa pubblica procurandosi l’appoggio di una certa stampa e dei media locali – sebbene non necessariamente tale appoggio dipenda da intimidazione o minacce ( questo succede “ quando essi, i giornalisti, cadono sull’endemia depressiva, corruttiva, opportunistica prodotta dal sistema”, sottolineava, a proposito di sistema di informazione, Enzo Roggi, direttore di “Pontediferro” - giornale on line free press di Roma) - e, non di rado, una copertura politica con agganci a livello nazionale. Gli esempi della Campania di qualche mese fa ne sono una dimostrazione.
Non soltanto preoccupa questa situazione, allarma - come ha opportunamente rilevato pochi giorni or sono il Presidente Napolitano - il fatto che l’occupazione dei gangli vitali dell’economia e della società possa divenire ancora più penetrante ed estesa. “Le organizzazioni di stampo mafioso approfitteranno dell’attuale crisi per acquisire il controllo delle aziende in difficoltà con un’invasiva presenza in tutte le regioni del Paese”. E invitava tutti a non abbassare il livello di attenzione che “va mantenuto sempre alto”. Benché i risultati straordinari raggiunti con la cattura di pericolosi latitanti, la disarticolazione dell’organizzazione e la decapitazione di alcune famiglie potenti, la criminalità organizzata (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra) mai come ora può essere pericolosa grazie alla sua grande disponibilità di denaro. Non va dimenticato che nel corso del 2008, mentre gli effetti della crisi mondiale si facevano sentire e il nostro prodotto interno lordo indicava il segno meno (nel 2009 è previsto un – 4,2%) le mafie incrementavano il “loro” Pil di 30 miliardi di euro passando dai 90 del 2007 ai 130 nel 2008. Se si pensa che la sola ‘ndrangheta possiede un patrimonio finanziario pari a 44 miliardi di euro - l’equivalente del 3% del Pil - si può agevolmente immaginare quanto sia alto il rischio per le imprese che si trovano in grave disagio e soprattutto quelle più esposte che facevano già fatica ad ottenere il credito dalla banche. A fronte delle scarse risorse finanziare ed economiche del Paese, l’enorme massa di liquidità da parte della delinquenza organizzata costituisce un ulteriore elemento di turbativa in un sistema di libero mercato sia pure compromesso da bolle speculative che sono esplose in questi mesi. L’azione di contrasto si fa più complessa. Le forze del contro-Stato (sono d’accordo con le considerazioni di Cavadi che esiste, come peraltro viene qui sottolineato, una forte compenetrazione Mafie ed Istituzioni) rispetto allo Stato legittimo potranno avere, in questo momento, la meglio per quanto le forze dell’ordine abbiano fatto e facciano bene il loro dovere, con arresti e repressioni efficaci.
Il passaggio dal “finanziamento iniziale” all’accaparramento dell’azienda, anche sotto forma e con i crismi della legalità, spesso è impercettibile. In questo modo l’ingresso della malavita organizzata nella grande distribuzione commerciale, nell’imprenditoria e nelle attività finanziarie e bancarie può essere facilitato da mille fattori: talvolta determinati da cause per così dire oggettive, altre volte incentivati da motivi ed interessi soggettivi.
Come combattere questo fenomeno e avere qualche possibilità di vittoria? La magistratura e le forze dell’ordine, preposte alla prevenzione e alla repressione, ci dicono che da sola la loro azione non basta. Da Falcone a Borsellino, fino all’attuale capo della Direzione Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, tutti ci dicono, rivolgendosi in primo luogo alla politica, ai giornali, alla televisione, al mondo della scuola, che l’unica cosa che le mafie temono sono gli attacchi sul terreno della comunicazione e dell’azione sociale.
Notiamo purtroppo che c’è una sproporzione fra il “consenso”, preponderante, che ancora riescono a raccogliere la malavita organizzata e quella parte politica che la sostiene e il consenso e l’aiuto, insufficienti, di tutte le altre componenti della società – soprattutto i mezzi di comunicazione – che si dichiarano disposte a dare un supporto robusto e decisivo all’antimafia della repressione e della prevenzione.

Filippo Piccione

martedì 26 maggio 2009

Ci vediamo a Genova alle 18 di venerdì 29 maggio?


Venerdì 29 Maggio 2009
alle ore 18,00
presso “La Feltrinelli librerie” di Genova
(via XX Settembre, 231/233)
Giusy Randazzo
presenta
il libro di AUGUSTO CAVADI
“E, per passione, la filosofia.
Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze”
(Di Girolamo, Trapani 2008).

domenica 24 maggio 2009

QUESTIONI ETICHE


“Repubblica - Palermo” del 24.5.09

Confessare le corna? Ecco il dilemma

Serena Passarello
DILEMMI ETICI
Edizioni Giunti
pagine141 - euro 9,50

Fare filosofia significa, innanzitutto, accettare le domande che la vita ci getta in faccia. E spesso sono domande che si configurano in forma dilemmatica: dall’ Antigone di Sofocle (vuoi obbedire alla legge dello Stato o alla voce del cuore?) al soldato Piero di Fabrizio de André (vuoi uccidere subito o riflettere col rischio di restare ucciso?). Ma - per questa ragione - un po’ di filosofia dovrebbe rientrare nel bagaglio minimo di ogni persona che non sia disposta a lasciarsi manovrare dalle circostanze.
La palermitana Serena Passarello ha predisposto, proprio per quanti non sono filosofi di professione, un libretto agile, ma documentato e a tratti acuto: Dilemmi etici (che, non a caso, è stato ospitato nella Collana “Filosofia on the road”). Dopo aver sintetizzato il cuore della questione (ci sono casi in cui optare fra due strade è difficilissimo, ma inevitabile), l’autrice evoca alcuni passaggi cruciali della storia del pensiero occidentale; poi mette in scena alcune figure tratte dalla fantasia sia dei filosofi (come la coppia antitetica kierkegaardiana di don Giovanni e del giudice Guglielmo) che di letterati (fra cui Goethe e Dostoevskji). Nella parte conclusiva non poteva mancare l’esame di un dilemma davvero quotidiano: dire o non dire la verità. Per esempio, confessare i ‘tradimenti’ coniugali. Insomma: l’esistenza è tragica, ma è il prezzo che paghiamo per il privilegio di essere liberi.

venerdì 22 maggio 2009

“Gli zingari”


“Repubblica - Palermo ”
22. 5. 09

COMUNE, UNA SCELTA CIVILE PER LA COMUNITA’ ROM

Gli ‘zingari’ e la città di Palermo: una convivenza possibile? E’ solo un esempio dei tanti interrogativi a cui politici e opinione pubblica tendono a dare risposte sempre più semplificate. E, perciò, sempre meno azzeccate. Sbagliato è infatti negare che si tratti di una convivenza difficile: le tradizioni culturali, gli usi e i costumi, i parametri etici di riferimento della gente Rom sono molto differenti dalle consuetudini e dai valori dei siciliani. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto (su cui raramente si riflette) che, proprio come ci siamo siciliani molto differenti da altri corregionali, così i nomadi che fanno sosta (anche per anni) nelle periferie delle nostre città sono attraversati da differenze non meno rilevanti.

Non meno sbagliata, d’altronde, è la risposta (propugnata dagli schieramenti conservatori, se non francamente reazionari) di chi riconosce l’oggettività del problema, ma tende a eliminarlo: negando ai Rom e ai Sinti (molti dei quali sono ormai in Sicilia da generazioni e vivono in maniera itinerante o perché non riescono ad acquistare casa o perché lavorano nel mondo dei circhi, delle giostre, dei giochi di strada) qualsiasi diritto civile. E’ la solita risposta delle fasce arretrate, mentalmente chiuse, della popolazione: la risposta di chi maschera paura del diverso e incertezza sulla propria identità con atteggiamenti violentemente prevaricatori.
Pochi sanno che proprio Palermo è una città dove, da almeno cinque anni, si tentano vie nuove, al di là della faciloneria buonista e della drammatizzazione aggressiva. Decine di operatori, per lo più giovani uomini e donne appartenenti all’Arci, hanno infatti progettato e realizzato un programma di iniziative organiche mirate a rapportarsi con le famiglie dei nomadi del Parco della Favorita in maniera adulta. Responsabile, ma anche responsabilizzante. Il racconto di queste buone prassi, che hanno visto il coinvolgimento più o meno convinto ed efficace di varie istituzioni pubbliche (a cominciare dall’Assessorato comunale alle attività sociali che ha finanziato le iniziative dell’Ufficio Rom ), è affidato ad un dossier che è stato presentato e distribuito nel corso di un incontro pubblico svoltosi ieri presso la facoltà di lettere. E non è di poco conto che hanno aperto l’incontro Santino Spinelli (un rom, saggista e cantautore, che tra l’altro insegna all’università di Chieti), Nazzareno Guarnieri (anche lui rom abruzzese che presiede una federazione nazionale di gruppi Rom e Sinti) e Hasan Salihi, musicista kossovaro. Quest’ultimo, che è anche rappresentante del campo nomadi di Palermo, presenterà per l’occasione l’associazione per la promozione della cultura Rom “Phralipe” (’Fratellanza’) a cui ci si potrà rivolgere per commissionare prodotti di artigianato e di gastronomia tipici, nonché ovviamente spettacoli di musica e danza (come quello che costellerà le diverse fasi della manifestazione cittadina).
Come si potrebbe tradurre in lingua italiana il termine ‘rom’? Molto semplicemente: ‘uomo’. Ed è un nome in cui potrebbe riassumersi il criterio di base per le difficili scelte politiche ed amministrative che riguardano queste persone, la cui colpa principale è di essere troppo diversi da quanti abbiamo deciso di autoproclamarci ‘normali’. Difficili scelte, certamente: in ogni caso preferibili alla linea - sin qui seguita da diverse amministrazioni palermitane - di volgere altrove lo sguardo senza dire né sì né no. Gli si è concesso “provvisoriamente” (da vent’anni !) di occupare uno spazio pubblico a ridosso degli impianti sportivi della città: da lì non li si è più ‘cacciati’ (come chiedono con ossessiva ricorrenza alcuni gruppi ‘fascisti’, se non altro per dimostrare a sé stessi di esistere), ma - trattandosi di una zona protetta in quanto riserva naturale orientata - non li si è neppure regolarizzati, predisponendo quei servizi idrici ed igienici essenziali ad una vita decorosa, anche per i bambini che continuano a nascere e a crescere tra le fogne a cielo aperto e le colline d’immondizia. Come in tanti altri casi, siamo riusciti a trasformare una possibile risorsa di arricchimento e di pluralismo in una ferita al tessuto sociale della città. Forse da oggi l’amministrazione cittadina (che ha già dato più volte segnali di attenzione grazie ad alcuni funzionari più sensibili) sarà invogliata ad imboccare finalmente la strada di una soluzione meno precaria. E più civile.

lunedì 18 maggio 2009

Legalità e istituzioni


“Repubblica - Palermo”
9.5.2009

LA VITA ILLEGALE NELLE ISTITUZIONI

Quando si va in giro, soprattutto nelle scuole, a confrontarsi sul tema della legalità, una delle obiezioni più ricorrenti è formulata quasi con le stesse parole: “Ma se è lo Stato a violarla per primo…”. Un’affermazione vera e falsa nello stesso tempo (ma, per fortuna, non dallo stesso punto di vista). Se, infatti, per Stato si intendono quei politici, quei magistrati, quei funzionari pubblici che - anche a rischio della pelle - rispettano e fanno rispettare le regole, si tratta di un’obiezione qualunquistica che serve solo a mascherare la propria indolenza e la propria rassegnazione civica. Non così, però, se ci si riferisce ad altri esponenti dello Stato - né meno numerosi né meno influenti - che, contando sulla disinformazione e sulla distrazione dell’opinione pubblica, infrangono le norme più chiare, certi che dalle violazioni non potranno derivare conseguenze spiacevoli. Anzi, in alcuni casi, la fama di disinvolto trasgressore accrescerà il prestigio sociale e il consenso elettorale: “quello sì che è uno con le palle…”.

La cronaca nazionale non è certo avara di esemplificazioni eloquenti, ma neppure nel microcosmo della nostra provincia si fatica a trovarne. Una delle più recenti è stata segnalata da un’interrogazione “a risposta scritta” che il consigliere dell’Ars Giuseppe Lupo (forse l’unico siciliano chiamato da Franceschini nella direzione del PD) ha rivolto all’assessore per la famiglia, le politiche sociali e le autonomie locali: perché l’attuale sindaco di Alimena - in barba alle disposizioni legislative vigenti - ha nominato cinque e non quattro assessori (percettori ovviamente di relativa indennità economica)? Il caso è ’scoppiato’ già a marzo, grazie ad una lettera ‘aperta’ - indirizzata al prefetto e alle massime autorità regionali e nazionali - dei cinque consiglieri comunali di minoranza del Comune palermitano: in essa sono indicate con chiarezza le normative regionali che vietano cinque assessori in giunte che amministrano cittadine con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti e con 12 consiglieri comunali in tutto. Viene riferita la risposta del sindaco - che si appella allo Statuto comunale - ma si obietta che “nessun atto di carattere amministrativo possa derogare ad una norma imperativa di legge”. Si annunzia, infine, la decisione di astenersi - in attesa che le autorità preposte intervengano a ripristinare la legalità - da ogni attività legata al loro ruolo istituzionale.
Non sappiamo, al momento, quale sarà la risposta dell’assessore regionale competente né se si arriverà alla rimozione del sindaco per “grave e persistente violazione della legge”. Sappiamo, però, che un intervento dall’interno dell’amministrazione pubblica - senza il ricorso ormai quasi di routine agli organi giudiziari - sarebbe un segnale promettente: un piccolo passo verso l’autoriforma della politica, in mancanza della quale è davvero da ipocriti lamentare l’azione di supplenza della magistratura. Conseguentemente - e non sarebbe un segnale irrilevante - i cittadini, specialmente le giovani generazioni, avrebbero un argomento in meno per legittimare la convivenza con le illegalità ‘private’ nascondendosi dietro l’alibi delle numerose illegalità ‘istituzionali’.

Augusto Cavadi

PER UN VASO DI FIORI IN PIU’…


“Repubblica - Palermo”
17.5.2009

UN VASO DI FIORI IN PIU’

Finalmente una buona notizia. Avete sofferto da troppo tempo l’illegalità - in qualche caso l’alegalità: vivere non contro le regole, ma come se le regole non ci fossero neppure - sistemica a Palermo e dintorni? Non sopportate più di vedere abusivamente edificare, o ampliare con superfetazioni, senza posa villette a mare (dalla Bandita all’Addaura), appartamenti in città (da Ballarò a Passo di Rigano), magazzini e garage (un po’ dappertutto)? Ritenete intollerabile che l’amministrazione comunale tartassi in misura crescente i cittadini che pagano per l’immondizia o per l’acqua, lasciando indisturbati i furbi che evadono totalmente? Trovate indecente che strade e piazze e spiagge e sentieri in aree alberate siano sommersi da rifiuti d’ogni risma senza che mai venga elevata una sola contravvenzione (a meno che si tratti di un turista veneto chino a raccogliere sacchetti di immondizia abbandonati e colto in flagrante nell’atto di gettarli in pattumiera in ore non previste dal regolamento)? Trovate vergognoso che a tutte le ore di giorno “lavoratori socialmente utili” siano impegnati a giocare a carte nelle anticamere delle biblioteche pubbliche, o ad arrostire braciole appetitose in angoli ameni dei sobborghi, per vincere la noia di chi è condannato all’inerzia? Ritenete di cattivo gusto che ditte che godono di concessioni municipali per le affissioni si prestino a tappezzare la città di manifesti elettorali - di tutti gli schieramenti politici - che poi vanno nascosti (sempre con soldi pubblici) perché irregolari?

Ebbene, sappiate che è scoccata l’ora della rinascita. Ad un noto avvocato civilista è arrivata un’ingiunzione perentoria che, finalmente, inverte la tendenza dominante e lascia intravedere una nuova stagione di pulizia e trasparenza. Egli ha infatti 30 giorni di tempo per rimediare ad una grave trasgressione del regolamento cimiteriale (già sanzionata con una pena pecuniaria di 55,60 euro): togliere il secondo vaso di fiori furtivamente, dolosamente, perversamente aggiunto sulla tomba della madre. L’autorizzazione parlava chiaro: “numero 1 vaso in marmo bianco con 1 o 2 fori”, non certo numero 2 vasi con un foro ciascuno (anche se in metallo, non in marmo; anche se poggiati, non murati; anche se incollati col silicone, non separati). Eh, no! Quando è troppo è troppo. Come sosteneva, saggiamente, il principe Antonio de’ Curtis, “ogni limite ha una pazienza”. Dove crede di vivere il nostro avvocato cassazionista, a Reggio Calabria o a Napoli? Palermo avrà pure avuto qualche momento di distrazione amministrativa, soprattutto nei camposanti e dintorni, dove alligna il monopolio informale di alcuni fornitori di beni e servizi mortuari (tutti auto- esentati da ricevute fiscali, ovviamente); dove stenti a trovare qualcuno che, dai fiorai occasionali ai posteggiatori improvvisati, esercita la propria attività nel rispetto delle normative vigenti; dove non puoi transitare neppure a piedi perché i marciapiedi sono intasati di macchine posteggiate (le zone rimozione hanno il difetto di raggiungere presto il ‘tutto esaurito’). Ma da oggi non è più così. L’occhio vigile delle autorità competenti - quelle stesse che non hanno ascoltato, dopo anni di denunzie anche da queste colonne, la protesta dei cittadini infastiditi dagli altoparlanti della cappella cattolica che impone a tutti i visitatori l’ascolto forzoso di tre messe per ogni domenica e per ogni altra festa di precetto - non lascerà più scampo a questi delinquenti che, come se nulla fosse, raddoppiano la modica quantità floreale consentita per legge.
In preda a questa furia giustizialista, però, il Comune dovrebbe evitare di esagerare. Nella diffida in questione si ingiunge anche al destinatario di sistemare il terreno, a “schiena d’asino”, per un corretto drenaggio. Alla più ovvia delle obiezioni (”Ma non è compito della Gesip?”), il funzionario dell’Ufficio tecnico comunale ha risposto nella meno ovvia delle maniere: “Sì, è vero: la Gesip è inadempiente, ma noi sollecitiamo anche voi clienti perché avete un dovere di sorveglianza sul sito e dunque anche di sollecitare la Gesip a rispettare gli impegni”. In altri termini: noi, che siamo l’istituzione pubblica che affida alla Gesip i lavori, non riusciamo a farli lavorare abbastanza; dunque dovete darvi da fare, se non volete diventare corresponsabili, anche voi contribuenti… Capisco la voglia di legalità, ma trasformare i cittadini in poliziotti mi sembra davvero un po’ troppo.

Augusto Cavadi

sabato 9 maggio 2009

In solidarietà con il Laboratorio Zeta di Palermo


“Centonove”
8 maggio 2009

GENERAZIONE ZETALAB

Spesso dietro - anzi dentro - i fatti di cronaca si celano significati più profondi. L’episodio, apparentemente minore, dello sfratto inviato al “Laboratorio Zeta” di Palermo rientra fra questi casi emblematici. Esso si può leggere, infatti, dalla prospettiva del codice civile: ed è una prospettiva di competenza degli avvocati e, in ultima analisi, della magistratura, la quale soltanto potrà stabilire se l’uso di certi locali di via Boito 7, di proprietà dell”Istituto Autonomo Case Popolari, debba restare ai soci del centro sociale che li gestiscono da quasi dieci anni o piuttosto passare ad un’altra associazione (”Aspasia”) di cui nessuno può, sino a prova contraria, mettere in dubbio la legittimità d’intenti. Ma la stessa vicenda dell’ingiunzione di sgombero può essere letta da una prospettiva sociale: ed è una prospettiva che interpella la responsabilità dell’opinione pubblica, dei dirigenti politici e degli amministratori. Sì, perché Palermo soffre - non meno di altre metropoli europee - la questione giovanile: e non può permettersi di azzerare, con un colpo di spugna, uno dei pochi tentativi riusciti di affrontarla.

Per questione giovanile intendo, molto semplicemente, ciò che ciascun genitore, insegnante, educatore sperimenta quotidianamente: ogni generazione stenta, un po’ più della precedente, a socializzare. O, per lo meno, a socializzare in maniera costruttiva e con finalità progettuali. Tutta una serie di strumenti elettronici ed informatici - sulle cui potenzialità positive sarebbe da ipocriti tacere - comportano, come effetto collaterale indesiderato, una sorta di pedagogia dell’isolamento: si è fortemente tentati di difendere il proprio guscio individuale accontentandosi di rapporti virtuali che aggravano la propria solitudine proprio perché danno l’illusione di uscirne. L’accesso a mille canali per comunicare (dai cellulari ad internet) maschera l’incapacità del contatto diretto, personale: o, per lo meno, la mancanza del gusto di incontrare l’altro nella concretezza della sua fisicità. Il risultato è deprimente: fasce giovanili sempre più consistenti pendolano fra la noia e il sogno di entrare in qualche fattoria televisiva, sprecando meravigliose potenzialità di vita intensa (per sé) e feconda (per gli altri).
il Laboratorio Zeta ha costituito - e non solo per i più giovani - un esperimento di aggregazione in contro-tendenza. Come tutti gli esperimenti umani, ha conosciuto successi e fallimenti, pregi e difetti, adesioni e critiche: ma è stata, ed è, una realtà viva, autenticamente viva. Lo possono attestare quelle centinaia, anzi migliaia di cittadini che lo hanno frequentato: per anni, per mesi o anche solo per una sera di musica. Dal
 2001 uno stabile abbandonato è stato restituito alla fruizione pubblica, divenendo laboratorio di
sperimentazione culturale e di partecipazione sociale e politica: uno spazio frequentato da persone in 
prima linea nelle lotte per il diritto alla casa, la difesa dei beni
 comuni, i diritti dei migranti, la denuncia del sistema di potere
affaristico-politico-mafioso…
 Gratis, o a costi bassissimi, sono stati offerti alla città spettacoli 
teatrali, presentazioni di libri e di video, concerti, rassegne
cinematografiche, seminari, dibattiti, mostre fotografiche e
pittoriche, corsi di informatica, corsi di italiano per stranieri, 
l’accesso ad una biblioteca con più di 2000 volumi.
 Come se ciò non bastasse, il centro sociale di via Boito è diventato un punto di riferimento, stabile o di 
passaggio, per centinaia di migranti di ogni nazionalità che hanno
 collaborato alla trasformazione e alla gestione degli spazi,
 sperimentando una forma di accoglienza lontana da logiche 
paternalistiche ed assistenziali. In una lettera aperta un nutrito gruppo di intellettuali ed operatori sociali tiene ad esternare preoccupazione e solidarietà: “Tutti noi abbiamo vissuto
il Laboratorio Zeta.
 Lo 
abbiamo attraversato ed ha attraversato le nostre vite.



 Con lo Zetalab abbiamo
contribuito alle battaglie per la libertà ed i diritti degli 
esclusi, promuovendo centinaia di iniziative. 
In otto anni di storia lo
 Zeta ha restituito uno spazio pubblico nel quale la dimensione locale 
e le dinamiche globali sono state raccontate ed intrecciate in un unico vissuto”.
Solo alcuni giorni fa un migliaio di cittadini - anche a nome di tanti altri che il lavoro, l’età, la malattia, la disinformazione hanno tenuto lontano dalla manifestazione - sono scesi in piazza per chiedere all’amministrazione di dare una decisa inversione di marcia alla lenta agonia di Palermo oppure di gettare la spugna e passare ad altri il timone. Oggi il sindaco, la giunta, le autorità pubbliche che possono interagire con l’amministrazione comunale hanno la possibilità di dare un segnale: in attesa di inventare il nuovo, contribuire a non spegnere un lumicino fumigante che sinora ha reso meno buia la notte della nostra città.

Augusto Cavadi

venerdì 8 maggio 2009

Le donne siciliane si raccontano


“Repubblica - Palermo”
8 maggio 2009

DALLA PSICOLOGA ALLA MILITANTE
QUEL CHE LE DONNE DICONO

Che ne è della condizione femminile in Sicilia? Ci sono molti modi per rispondere, ma il più semplice è dare la parola ad alcune donne siciliane. Come ha fatto la sociologa Maria Coppa in un agile, prezioso volumetto (Mi ricordo…Storie di vita di donne siciliane, Aracne, Roma 2008) con lo scopo di “riavvolgere quel file rouge che si è snodato, spesso sotterraneamente, nella realtà palermitana degli ultimi 30 anni, con l’apporto degli strumenti della ricerca sociologica qualitativa”. “Ci sono, secondo me, tre tipi di donne: le ‘bambole’ che si appoggiano agli uomini, che da sole non sono capaci di far niente; quelle che assumono il modello ‘maschile’ per realizzarsi e diventano anche peggio degli uomini; infine, quelle che vogliono realizzarsi restando se stesse, utilizzando cioè la propria sensibilità, senza cambiare, senza diventare qualcos’altro, mantenendo inalterate quelle caratteristiche (rispetto altrui, tenerezza, comprensione) che dovrebbero essere qualità di tutto il genere umano e non appannaggio delle sole donne”: così T.P., una docente universitaria palermitana in pensione, sintetizza la sua visione nel corso del racconto della propria “storia di vita”. E’ uno dei sette racconti che non pretendono di essere più che un frammento di un mosaico ancora tutto da costruire: ma un frammento che evoca, soprattutto nei lettori che le hanno vissute, delle atmosfere - non certo prive di confusioni e di contraddizioni, eppure vive e palpitanti - che, lontane di anni, sembrano invece remote di secoli. E’ vero che il ritmo della storia si è accelerato e che in trent’anni la società è cambiata quanto, sino agli anni ‘70, nei trecento anni precedenti!

Prendono la parola donne di indubbia personalità, ma dai percorsi esistenziali più variegati: dalla militante comunista che si trova a diventare per due legislature di seguito sindaco di un Comune ad altissima intensità mafiosa (e sperimenta l’isolamento dei concittadini impauriti dai Brusca e dai loro complici) alla psicologa-scrittrice che, a 25 anni, si trova a fondare a Roma una casa editrice incandescente come la Samonà - Savelli (e a giudizio della quale alle donne non dovrebbe interessare “il fare politica per ottenere il potere”, quanto tendere a diventare “esseri politici”); dalla casalinga (che rimprovera i cristiani di aver schiacciato la figura della donna in contraddizione con l’esempio rivoluzionario di Gesù stesso) alla pittrice e naturopata (che rinunzia all’impiego in banca dopo aver constatato che in quell’ambiente “volgare, fatto di battute e di doppi sensi”, la mattina i colleghi maschi “salutavano le gambe, non le persone”, soppesando le donne “per il corpo fisico, non per quello che eri, o che dicevi”). Nel racconto della settima, ultima, interlocutrice riemerge un motivo toccato già in testimonianze precedenti: l’attitudine femminile a cercare la consapevolezza delle proprie scelte. M.V.C, insegnante e pittrice, a un certo punto dichiara: “Sento che ogni giorno si fanno delle scelte, anche nelle piccole cose quotidiane, anche quando compro qualcosa. Per ogni azione mi chiedo: ‘Questo cambia il senso della mia vita?’. Spesso compravo delle cose inutili, adesso credo che siamo malati, facciamo quello che gli altri vogliono, come nell’abbigliamento, ci lasciamo condizionare dalle ‘mode’. Credo proprio che in questo periodo nessuno viva una buona ‘qualità‘ della vita”. Ed anche questa consapevolezza dei gesti quotidiani è ‘politica’.
“Come pratica politica le donne sono molto avanti, ma come storia scritta c’è poco, soprattutto in Sicilia e questo lo abbiamo rilevato anche come UDI, confrontandoci con il ‘femminismo’ nazionale. C’è una grossa capacità di fare, ma poca capacità di raccontare. E’ il problema della parola”: così D.D., docente in pensione ed ex deputata al Parlamento italiano. E’ una constatazione, ma può diventare una proposta di lavoro per i prossimi mesi.

Augusto Cavadi

mercoledì 6 maggio 2009

Identikit della mafia


AA. VV., R…esistere. Appunti di viaggio dal Campo Scuola a Palermo , Filca Cisl, Roma 2009, pp. 33 - 40.

Augusto Cavadi
L’identikit della mafia

Il mio desiderio sarebbe di offrire una chiave di lettura - una griglia interpretativa - che vi consenta di raccogliere in una visione d’insieme le esperienze, i racconti di vita, le testimonianze che avete ascoltato e che continuerete ad ascoltare in questi giorni. I fatti, le azioni, sono importanti, anzi essenziali: ma abbiamo bisogno anche di qualche schema mentale per ordinarli e, così, capirli più a fondo.

Comincerei come una domanda che sembra facile facile ed è invece assai complicata: cos’è davvero la mafia? Dico subito che mi riferisco alla mafia nel senso preciso, concreto, delimitato: a “Cosa nostra” e alle altre associazioni criminali che ruotano in Sicilia attorno a “Cosa nostra”. Non sto parlando della mafia come etichetta generica, come sinonimo di delinquenza e malaffare: no, se usiamo la parola mafia per indicare ogni forma di malavita, allora tutto il male del mondo, da Adamo ed Eva, è mafia. E se tutto è mafia, nulla lo è veramente. Se tutto è mafia, essa c’è sempre stata e sempre ci sarà: quindi non possiamo che arrenderci e tornarcene ognuno al calduccio di casa nostra. La criminalità c’è sempre stata e, tuttora, la si può registrare sotto tutti i regimi politici: ma non tutto è mafia.

Inizierei a precisare che la mafia di cui oggi parliamo ha avuto una data di nascita, almeno approssimativa: il 1861, l’anno in cui si è costituito il regno d’Italia. Prima che si unificasse il nostro Paese, prima che nascesse lo Stato italiano, avevamo il brigantaggio, avevamo varie forme di banditismo, avevamo certamente cosche che esercitavano soprusi: ma questi fenomeni vengono, giustamente, definiti dagli storici “pre-mafiosi”. La mafia, invece, ha una sua specificità: essa è inconcepibile senza il rapporto “dialettico” con lo Stato. Preciso subito cosa intendo, in questo caso, con l’aggettivo “dialettico”. Potrei cavarmela dicendo che la mafia ha un rapporto di amore-odio con lo Stato, con le istituzioni pubbliche: ma voglio essere più chiaro. Nei mass-media la mafia viene spesso dipinta come l’Anti-Stato: ma questa è una definizione sbagliata o, per lo meno, incompleta. I criminali comuni sono anti-Stato, ‘fuori’ e ‘contro’ le strutture statuali: la mafia, invece, cerca prima di tutto di entrare ‘dentro’ lo Stato, di farsi Stato. Quando le riesce di infiltrarsi nei gangli dello Stato non chiede di meglio! Quando trova una situazione “morbida”, quando s’interfaccia con persone disposte a colludere, la mafia non è l’avversaria dello Stato. Magari fosse sempre così netta la contrapposizione! Magari potessimo vedere con chiarezza due squadre in campo , lo Stato da una parte e l’anti-Stato dall’altra, in modo da poter scegliere senza difficoltà da che parte stare! E’ solo se trova una resistenza “dura” (non solo Falcone e Borsellino, ma tantissime altre figure che nella storia - prima e dopo di loro - hanno resistito) che la mafia diventa “anti-Stato”. Essa si fa nemica di quei pezzi di Stato, di quegli uomini delle istituzioni, che non si lasciano né corrompere né intimidire. perché trova uno Stato che non si fa intimidire, non si fa corrompere.

Ma questa associazione criminale che è la mafia, a quali finalità specifiche mira? Il denaro e il potere. Il denaro, come tutte le bande di delinquenti del mondo; ma anche, più specificamente, il potere. Ciò che la distingue dalla delinquenza generica è proprio la ricerca di rapporti stabili, consolidati, strutturati con il potere politico. Su questo la mafia non fa scelte ideologiche: ai tempi del re era monarchica; durante il fascismo si è infiltrata nel partito fascista, perché quest’ultimo deteneva il potere; poi è diventata repubblicana; poi democristiana; poi berlusconiana…Un proverbio siciliano recita: “Cumannari è meglio che futtiri”, l’esercizio del potere è un piacere più intenso delle scopate.

E come fa la mafia ha perseguire i suoi due obiettivi principali, l’arricchimento illecito e il dominio sul territorio? Direi: con la carota e con il bastone. Con la persuasione e con le minacce. Con una strategia culturale e con l’uso della violenza fisica. Anche questa è una differenza importante rispetto alla criminalità comune: la mafia prima cerca di comprare i suoi complici (avvocati, magistrati, imprenditori, pubblici ufficiali, politici, giornalisti, medici… ) e poi, solo se non ci sono altri mezzi di persuasione, ricorre alla violenza militare. Ecco perché se, in un determinato periodo, non ci sono morti di mafia, non vuol dire necessariamente che le cose vadano meglio: può significare, al contrario, che la mafia governa senza resistenze, gestisce il potere senza insubordinazioni. Può significare che la gente obbedisce senza neppure bisogno di minacce. Può voler dire che la sua politica culturale territoriale ha funzionato: essa è riuscita a far condividere il suo codice culturale, la sua mentalità, l’insieme dei suoi ‘valori’. Questo è davvero terribile: la mafia trionfa indisturbata quando ottiene che l’ambiente circostante partecipi con convinzione dei suoi stessi principi filosofici. La mafia non vuole il Far West. Preferisce di gran lunga che la gente pensi: “Meno male che ci siete voi, altrimenti staremmo peggio…”. La mafia “educa” le nuove generazioni fin dall’infanzia: è possibile parlare di una vera e propria pedagogia mafiosa.

Proviamo, dunque, a tirare le fila di questo identikit (sommario) della mafia: essa non è una cosa enorme e invincibile, la “piovra” descritta in molti film. In realtà è un club di soggetti che si riconoscono in un’identica mission. Gli inscritti a questa società segreta mafiosi sono 5 mila: cinque mila su cinque milioni di siciliani. Non il 10%, non l’1%, ma l’1 per mille dei siciliani. Perché si mettono insieme? Non solo per il potere né solo per il denaro, ma per entrambi questi scopi. E come vogliono raggiungerli? Con la violenza esercitata e minacciata, ma solo quando non riescono ad affascinare l’opinione pubblica con l’insieme di ‘valori’ che propongono. Solo così si può spiegare un fatto su cui troppo spesso si sorvola: ad appoggiare la mafia non sono solo i poveri che non hanno da mangiare. Dobbiamo smettere di dire che la mafia nasce solo perché c’è la povertà: la povertà c’era anche in Veneto, in Irlanda, ma lì non si è creata la mafia. Tra i miei allievi, in trent’anni di insegnamento, mi è capitato anche di avere figli di mafiosi e, in qualche caso, persino giovani che sono diventati mafiosi da adulti: vi assicuro che non erano né tra i meno bravi a scuola né tra i meno ricchi.

Molti di voi vengono dal Settentrione d’Italia: vorrei dunque spendere qualche parola sulla vastità dell’influenza che esercita la mafia nel nostro intero Paese. Spesso l’idea che la mafia sia dappertutto – anche al Nord - viene usata in senso sbagliato: dire che “la mafia è a Roma e a Milano” rischia di essere un modo per togliere responsabilità ai siciliani. La testa della mafia è in Sicilia, ma questa testa ha bisogno di appoggi politici a tutti i livelli (locale, regionale, nazionale). Questo spiega perché la mafia ha diramazioni nel resto dell’Italia e anche fuori dall’ Italia. Perché la mafia mette le bombe in via dei Georgofili a Firenze o alla chiesa del Velabro a Roma? Perché vuol far capire che la sua dimensione non è ‘provinciale’, localistica. Qualche anno fa il presidente dell’ABI (Associazione Banchieri Italiani) ha detto che se le banche dovessero rifiutare i soldi del riciclaggio, l’intero sistema bancario italiano avrebbe un crollo. La più grande industria italiana non è la Fiat, ma la criminalità organizzata: mafia, ‘ndrangheta e camorra.

Ma forse abbiamo detto abbastanza su cos’è la mafia: spendiamo qualche altro minuto per accennare a ciò che potremmo fare, insieme, per contrastarla. Come sconfiggere la mafia? In un libretto che, dal 1992 ad oggi, è stato più volte riedito e ristampato - Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito, edito dalle Dehoniane di Bologna - ho provato a individuare cinque armi principali per combattere contro la mafia:

1) Le armi intellettuali: la conoscenza, l’aggiornamento e l’approfondimento. Le cosche nel Sud hanno la capacità di convincere le persone che stanno facendo il loro bene: “Noi meridionali siamo tutti vittime del Nord”. Questa argomentazione viene utilizzata come una delle legittimazioni dell’autogoverno mafioso. Bisogna combattere la mafia con l’intelligenza: la nostra prima arma di difesa è l’informazione. La mafia che passa attraverso la televisione è una mafia edulcorata, quasi pericolosa, perché favorisce l’immedesimazione nei protagonisti che vengono rappresentati nei film, nelle fiction. È necessario attingere ad altre fonti: leggere qualche libro serio, documentarsi su qualche rivista seria o su qualche sito web serio.

2) Le armi dell’etica: perché non è facile resistere alla mafia. Prima di sparare la mafia cerca di sedurre, di comprare, di offrire carriere… Scegliere di resistere significa scegliere una vita meno comoda di quella che si può avere con l’appoggio dei mafiosi. È una scelta che in questa terra si deve fare molto presto: verso i 15, 16 anni. Combattere la mafia a volte significa dover pagare, non necessariamente con la vita, ma con la fine di amicizie, con l’isolamento, talora con l’allontanamento dalla propria casa (come quanti decidono di testimoniare contro la mafia). Dire ‘no’ alla mafia comporta la rinunzia ai privilegi e ai vantaggi della collusione: per questo esige una grande libertà interiore!

3) Le armi politiche. Abbiamo il voto. Finché i mafiosi e gli amici dei mafiosi ricevono i voti non si va avanti. Bisogna votare quelli che non sono in odore di mafia: e ce ne sono in quasi tutti gli schieramenti.

4) Le armi dell’economia. Significa sia boicottare l’economia illegale (che deriva ad esempio dal commercio di prodotti contraffatti, di stupefacenti) sia favorire l’economia legale. La legge “Rognoni-La Torre” ha toccato il portafogli dei mafiosi. Con “Addio Pizzo” il boicottaggio alle tasche della mafia si allarga: da azione giudiziaria diventa strategia popolare. Si evitano i negozi in mano ai mafiosi (e non è facile: spesso, poiché riciclano denaro sporco, possono permettersi i prezzi più bassi !) e si favoriscono le ditte ‘pulite’ che si rifiutano, pubblicamente, di pagare il pizzo. . Questo tema andrebbe approfondito a parte. Ai piccoli imprenditori i mafiosi chiedono poco, magari solo 50 euro al mese: il pizzo ha prima di tutto una valenza simbolica, perché pagarlo significa accettare controllo del territorio da parte delle cosche. Ma come convincere i commercianti a ribellarsi? Ad alcuni bastano gli ideali morali per scegliere di essere contro la mafia, ma ad altri no: è necessario far vedere che una società più equa è una società più conveniente per tutti. È importante far riuscire a far coincidere gli ideali con gli interessi. Quando a Tano Grasso – che vendeva scarpe a Capo d’Orlando – vennero a chiedere il pizzo, disse: “Tornate tra una settimana”. Nel frattempo parlò con gli altri commercianti della zona e disse: “Mettiamoci d’accordo: se sono solo io a non pagare, mi ammazzano, come l’anno scorso hanno ammazzato a Palermo Libero Grassi. Se dobbiamo dire no, lo dobbiamo dire tutti insieme”. Infatti Libero Grassi è stato assassinato dagli estortori perché, quando aveva detto in tv che avrebbe continuato a rifiutarsi di pagare il pizzo, l’allora Presidente di Confindustria aveva dichiarato ai giornalisti: “Non capisco di che parli il mio collega. Qui a Palermo nessuno di noi è vittima del racket: magari avrà incontrato qualche criminale locale…”. Il male vince sempre, quando i ‘buoni’ non fanno nulla.

5) Le armi dell’educazione. Bisognerebbe, come dice il mio amico don Cosimo Scordato, riuscire a strappare almeno una generazione alla mafia: da 150 anni essa riesce a passare il testimone alle nuove generazioni. Bisogna costruire una pedagogia alternativa, lavorare sul territorio, con i bambini, con i ragazzi, con i loro genitori, per invertire la disaffezione all’impegno e l’attitudine a girarsi dall’altra parte. Questa non è una battaglia facile: l’educazione è importantissima, ma poi c’è il mistero - o l’enigma - della libertà. L’insegnamento a parole può servire, ma deve tradursi anche in testimonianza di vita. Ed è qua che molti docenti, anche ‘democratici’ e ‘progressisti’, si tradiscono: non si comportano in maniera differente rispetto ai colleghi reazionari, conservatori o qualunquisti.

E’ davvero ora di chiudere. Due o tre considerazioni globali che servono, però, ad introdurre la testimonianza successiva.
Prima considerazione: sconfiggere la mafia è possibile se ci mobilitiamo NOI, QUI, ORA. L’orizzonte dell’antimafia non può continuare ad essere visto come straordinario. Non possiamo permettercelo. Va bene fare la fiaccolata per ricordare Giovanni Falcone il ventitrè maggio, ma solo se è espressione di un lavoro che si distende per ogni singolo giorno dell’anno. Ormai è appurato: in alcuni casi, sono gli stessi mafiosi che promuovono le manifestazioni antimafia! Le intercettazioni ci aiutano a capire queste dinamiche. È logico che la mafia abbia convenienza a far concentrare l’attenzione in un solo momento all’anno , se questo distrae da un impegno costante, continuo, quotidiano…
Seconda considerazione: all’onestà di riconoscere, con vergogna, che la Sicilia è la terra della mafia, dobbiamo coniugare l’orgoglio di ricordare che è anche la terra dell’antimafia. Non serve a nessuno, tranne che ai mafiosi, cancellare la memoria dei martiri che ci hanno preceduto: la storia dell’antimafia scorre antica come la storia della mafia. E, ad essa, strettamente intrecciata.
Terza considerazione: sono convinto che il movimento anti-mafia può raggiungere dei risultati solo se, oltre ad agire, riflette anche sull’azione. Bisogna creare e ricreare incessantemente nuovi equilibri individuali e collettivi: non basta studiare e scrivere libri, ma nemmeno il lavoro eroico di chi opera sul campo, sui vari campi. Bisogna sintonizzare le diverse sensibilità, far confluire in un flusso unitario e sinergico azione e riflessione. Per questo motivo, con altri amici, nel 1992 ho fondato un’associazione di volontariato culturale che si chiama “Scuola di formazione etico- politica Giovanni Falcone”: voleva essere - vorrebbe essere ancora - un’oasi in cui i militanti ogni tanto si rifugino per riposarsi, per meditare, per aggiornarsi. Credo molto all’interscambio fra chi spende la vita nella pratica e chi la spende nello studio, ma come servizio alla pratica e non come fuga dalla storia: penso che vi sia facile immaginare quanto sia contento, oggi, di incontrare un gruppo di operai e sindacalisti animati dal mio stesso desiderio di coniugare azione, informazione e riflessione critica. I formatori che vi accompagnano hanno accettato di acquistare e distribuire a ciascuno di voi una copia del mio libretto La mafia spiegata ai turisti: qualcuno, fermandosi alla copertina volutamente ironica, pensa che si tratti di una pubblicazione umoristica. Invece è serio, frutto di tanti incontri con ospiti da tutto il mondo (per questo l’abbiamo pubblicato in sei lingue) e mi auguro di cuore che vi possa accompagnare come strumento per prolungare un po’ l’eco di queste giornate palermitane.

martedì 5 maggio 2009

L’Africa di Alberto Sciortino


“Repubblica - Palermo”
3.5.09

Alberto Sciortino
L’Africa in guerra
BALDINI CASTOLDI DALAI
Pagine 441
Euro 18,50

Alberto Sciortino è uno di quei rari, e preziosi, intellettuali palermitani che intreccia in circolo virtuoso analisi teoriche e pratica sociale. Come coordinatore per conto dell’organizzazione non governativa siciliana Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) di vari progetti di sviluppo nel continente nero si è incontrato da decenni con le centinaia di guerre che, nel silenzio abituale dei massmedia italiani, vengono là combattute, non di rado con la regia di grandi potenze occidentali. Da qui l’idea di studiarne le radici storiche, le modalità effettive (saccheggi, schiavismo, abusi sessuali, razzia di aiuti umanitari, reclutamento militare di minori) e le prospettive attuali. Il frutto è un libro, denso ma fruibilissimo, davvero molto bello, non solo tipograficamente (L’Africa in guerra. I conflitti africani e la globalizzazione), di cui un esergo di A. Mbembe fornisce la chiave di lettura: “La guerra in quanto economia generale non oppone più necessariamente tra loro coloro che dispongono di armi. Oppone, di preferenza, chi dispone di armi e coloro che ne sono privi”.
Augusto Cavadi