martedì 27 aprile 2004

UN SECOLO DI GUERRE


Repubblica – Palermo 27.4.04

Augusto Cavadi


Ci sono libri destinati a non diventare inattuali. Purtroppo. La guerra nel Novecento, pubblicato dalla Palumbo per le scuole ma altamente raccomandabile a chiunque voglia leggere la cronaca con una lente critica, è di questi. Tre le sezioni in cui sono suddivisi testi e commenti: Pensare la guerra (pp. 5 – 82), Fare la guerra (pp. 83 – 148), Raccontare la guerra (pp. 149 – 184). In ciascuna sezione, suggestivo intreccio di testimonianze, poesie, analisi storiche, interpretazioni psicoanalitiche, canzoni: né mancano le riproduzioni di quadri celebri come Guernica di Picasso e Il volto della guerra di Dalì. Lo sguardo al XX secolo, il secolo della “guerra totale” (J. Hobsbawm), non è certo rassicurante né il XXI sembra aver migliorato il panorama. Ma resta, nell’intimo di ciascuno, una speranza. Che – anche grazie a governanti meno rozzi - diventi opinione comune la convinzione espressa da Cesare Pavese nella pagina conclusiva del suo romanzo La casa in collina del 1948: “Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto assomiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.


Marianna Marrucci

La guerra nel Novecento
Palumbo
Pagine 184
Euro 8,50

martedì 20 aprile 2004

IL GIRO DEL MONDO IN CINQUE PAROLE


Repubblica – Palermo 20.4.04

Augusto Cavadi 


Tra le novità positive della pratica scolastica contemporanea va senz’altro registrata la tendenza ad abbattere la barriera fra libri per gli studenti e libri per i lettori ‘normali’. Un testo, se bello e istruttivo, lo è per tutti. O per nessuno. Esempio significativo questo volume della rinomata casa editrice palermitana Palumbo dedicato al Multicultarismo che, pensato per gli studenti in procinto di affrontare gli esami di Stato, non sfigurerebbe nella biblioteca di una persona di media cultura. Esso, infatti, raccoglie e commenta materiali di vario genere letterario (saggistica, poesia, romanzo…) intorno a cinque parole-chiave di bruciante attualità: il multicultarismo, la globalizzazione, le migrazioni, il razzismo, l’educazione interculturale. In maniera gradevole – e politicamente corretta – si spazia dalla memoria del passato (cfr. l’articolo di Chiara Valentini, alle pp. 59 – 61, Quando eravamo noi i maghrebini) all’analisi del presente (cfr. l’intervento della scrittrice nigeriana Buchi Emecheta, alle pp. 98 – 99, Il razzismo è un problema dei bianchi).


Donatello Santarone

Multiculturalismo
Palumbo
Pagine 129
Euro 8,26

venerdì 9 aprile 2004

IL MERCATO MONDIALE


CENTONOVE    9.4.04

Augusto Cavadi 


GLOBALIZZAZIONE: IERI, OGGI E DOMANI 

Considerata astrattamente, la globalizzazione non sarebbe certo un male. Che individui e Stati - ospiti provvisori di un granello sperduto nello spazio - entrino in rapporti reciproci di comunicazione e di scambi, invece di chiudersi nei confini angusti dei propri ambiti originari, non può che risultare inevitabile quanto auspicabile. Che cosa, allora, non funziona nella globalizzazione effettiva? Per saperlo, non c’è via migliore che risalire – all’incontrario – il corso del tempo e ricostruire la sorgente remota del problematico presente. E’ quanto tenta, non senza apprezzabili risultati, Alberto Sciortino in un ponderoso volume la cui tesi centrale – sostenuta senza se e senza forse - è già intera nel titolo e nel sottotitolo: Prima della globalizzazione. La genesi del mercato mondiale e le origini del sottosviluppo  ( Edizioni Associate, Roma 2003).

La lezione della storia

E che ci dice, in sostanza, la ricostruzione genealogica? Che la globalizzazione è stata, ab ovo, un movimento unidirezionale: dall’Europa (e, successivamente, dal blocco occidentale europeo-statunitense) verso il resto del mondo. Non è stato uno scambio nella reciprocità, ma sempre più un’imposizione del più forte (economicamente, militarmente, politicamente) a spese del più debole. Insomma: che la globalizzazione è stata non un intreccio di civiltà, ma un’occidentalizzazione del pianeta; non un’esperienza di meticciato, ma una fagocitazione del diverso. E’ stata la globalizzazione dei diritti e dei vantaggi di alcuni e dei doveri e degli svantaggi di altri: dunque, la globalizzazione degli interessi privilegiati di pochi e del frutto del lavoro coatto di molti.  L’ambiguità del liberismoSe questi sono i dati – e nessuna persona di buon senso e di media onestà intellettuale può contestarli -  , quali le interpretazioni possibili? L’angolazione privilegiata da Sciortino è economico-sociale. Se accettiamo tale angolazione, penso che s’imponga una prima considerazione critica: dal XV al XX secolo la teoria economica dominante è stata il liberismo. Con variazioni anche notevoli (qui possiamo solo procedere per semplificazioni), è in essa che ha trovato attuazione il modello antropologico individualistico-liberale: in una parola, nel liberismo la Modernità ha riconosciuto la regolazione nel campo dell’agire. Ora, il liberismo è una dottrina che si presenta come molto concreta ma, in realtà, è molto astratta. Si presenta come concreta perché si appella agli impulsi primordiali, agli interessi materiali, alle strategie spontanee degli individui; è, in effetti, astratta perché la storia occidentale l’ha smentita sin dai primi passi. Il racconto di questo libro ce lo conferma: il liberismo è stato, sin dall’inizio e senza interruzione sino ai nostri giorni, poco liberale. Contro le teorie mercantilistiche e protezionistiche, ha sostenuto in linea di principio la libertà d’impresa e la neutralità dello Stato in ambito economico: nei fatti, però, tollerato – anzi, ricercato – l’intervento della politica all’interno come all’esterno degli Stati. Ha affermato la concorrenza e praticato il monopolio; ha affermato la libertà di produrre ciò che si vuole e praticato l’imposizione delle colture più vantaggiose per i colonizzatori; ha affermato la libertà di acquistare ciò che piace e conviene e ha praticato la costrizione a comprare ciò che la madrepatria esportava. Più radicalmente: ha reso merce la soggettività umana e, per evitare scherzi nel mercato del lavoro, ha fatto ricorso alla polizia in patria e agli eserciti all’estero.Questa ambiguità del liberismo liberale, immodificata sino ai nostri giorni, esige dunque d’essere sciolta: questa la scommessa del movimento new global. Ma ci sono tanti, troppi modi per smascherare gli equivoci e fare chiarezza: e non è per nulla ovvio che siano modi, direzioni di marcia, compatibili.  Prudentemente, Sciortino avverte di non voler entrare – almeno in questo libro – nel campo della prognosi: ma la sua rievocazione del passato è troppo ricca e suggestiva per mettere il silenziatore sugli interrogativi riguardo al futuro.Se possiamo permetterci una schematizzazione brutale, potremmo dire che ci sono due modi principali per contestare il liberismo: uno è criticarlo dall’esterno, l’altro dall’interno. Per critica dall’esterno intendo quei progetti socio-politici che ritengono il liberismo fondato su un errore radicale: dunque, come un sistema viziato sin dall’impianto e – perciò – incorreggibile e irreformabile. Con presupposti diversissimi, e con intenti ancor più distanti, il nazi-fascismo e il comunismo leninista sono stati i due più grandiosi tentativi del XX secolo di sradicare il liberismo dei liberali dalla faccia della terra. Che siano stati sconfitti storicamente è probabile: ma questo non significa, automaticamente, che fossero erronei e che non siano riproponibili in un futuro prossimo o lontano. Per critica dall’interno intendo quei progetti socio-politici che ritengono il liberismo dei liberali una promessa tradita, un embrione abortito: dunque un seme da coltivare in modo che giunga a maturazione, andando oltre sé stesso senza rinnegarsi. Con ingenuità talora patetiche, nel XX secolo socialdemocrazia, cristianesimo sociale ed anarchismo hanno costituito – salve tutte le ovvie differenze reciproche -  dei modelli di questo genere. Non è qui il caso di stabilire se sia preferibile  - intellettualmente e politicamente - la critica rivoluzionaria o la critica riformista alla globalizzazione liberista: ma è necessario avvertire che l’alternativa si pone realmente e pone l’urgenza di un’opzione. La dimensione culturale della globalizzazioneNella ricostruzione storica di Sciortino gli aspetti culturali, simbolico – valoriali, dell’espansionismo europeo sono trattati marginalmente. Non si tratta di disattenzione, ma di una scelta consapevole e intenzionale. Lo si legge sin dalle pagine della Premessa:  “la dominazione mondiale dei modelli culturali e di civiltà originati in Europa (persino delle lingue europee) è derivata da questi processi economici (e ha contribuito a rafforzarne gli esiti)” (p. 17). Certo, Sciortino non è uno sprovveduto e sa che intelligenze non spregevoli come Max Weber sono state più sfumate nella valutazione della base strutturale (economica) dei processi storici. Ma, per diradare i dubbi, egli precisa alla nota 3 di p. 146: “Weber ipotizza un rapporto tra i due fenomeni, quello economico e quello religios-culturale, del tutto opposto a quello che qui si sostiene”.Non vedo bene come si coincili questa convinzione di Sciortino con la citazione che – sembrerebbe con assenso – egli riporta in esergo al volume, traendola da Culture and Iimperialism di Edward W. Said: “Proprio come nessuno di noi è estraneo o esterno alla geografia, nessuno di noi è del tutto libero dalla lotta sulla geografia. La lotta è complessa e interessante perché non riguarda soltanto soldati e cannoni ma anche idee, forme, immagini e immaginazioni”.Lungi da me,comunque, la presunzione di voler dirimere – e per giunta a colpi di citazioni - la questione che vede Sciortino opporsi a Weber, ma – per chi come me non ha rinnegato del tutto la formazione cristiana – il racconto di Sciortino pone domande inquietanti. Inquietanti se la religione è stata solo un paravento ideologico per coprire motivazioni essenzialmente economiche, ma direi ancor più inquietanti se la religione è entrata in questo processo come fattore costitutivo e determinante. Mi limito ad un esempio fra i molti possibili. A p. 113 si legge: “Se nel XVI secolo la presenza europea in Africa aveva ricevuto una spinta notevole dal moltiplicarsi della richiesta di schiavi da adibire alle piantagioni del continente americano (…), nel XVII secolo (…) questa spinta si intensificò. Lo sfruttamento della tratta degli schiavi rimase a lungo un monopolio portoghese, anche per la quota diretta verso le colonie spagnole d’America, grazie alla concessione (l’asiento) accordata ai sovrani di Spagna. Ma gli alti profitti attiravano altre nazioni. Fiamminghi e genovesi furono tra i primi a ricevere l’asiento in alternativa ai portoghesi. Seguirono, nel secolo XVII, inglesi e francesi. I porti di nantes, Bordeaux, Saint-Malo, Liverpool, Bristol e Plymouth si specializzarono nel traffico negriero. Quando nel XVII secolo la domanda asssunse dimensioni più massicce, nei diversi paesi europei i commercianti fecero a gara per accaparrarsene il monopolio”. Davanti a notizie del genere, l’idea che stiamo parlando di sovrani e di mercanti cattolici, luterani, calvinisti, anglicani – comunque cristiani – non può non spiazzare: ma è questo il cristianesimo? O, per lo meno: ma tutto questo come è conciliabile col vangelo di Gesù di Nazareth?Anche qui penso che si possano sottolineare le questioni più che risolverle. Sul piano storico, tornano in mente delle fulminanti intuizioni di Nietzsche: c’è stato un solo cristiano nella storia ed è morto su una croce. O la considerazione di Geza Vermes , professore emerito di studi giudaici all’università di Oxford, a conclusione del suo volume raffinatissimo La religione di Gesù l’ebreo. Una grande sfida al cristianesimo (Cittadella, Assisi 2002): la religione di Cristo e quella che oggi si autodefinisec cristiana, sebbene “non siano del tutto scollegate, esse sono così radicalmente diverse nella forma, nello scopo e nell’orientamento, che sarebbe storicamente rischioso derivare la seconda direttamente dalla prima e attribuirne i cambiamenti a un’evoluzione dottrinale in linea diretta” (p. 265).Sul piano politico, o più semplicemente pratico,  questo significa che tutte le chiese cristiane devono avviare una severa autocritica o – per usare il linguaggio teologico – intraprendere un cammino di penitenza e di conversione. Non solo per il passato (ad un indio sudamericano viene attribuita un’amara constatazione: “Quando siete arrivati voi europei, avevate la fede e noi la terra: ora ci avete regalato  la fede e vi siete presi tutto il resto”), ma anche per il presente: il cristianesimo sta facendo abbastanza contro le nuove schiavitù? O non si stanno saldando – ancora una volta – i vari cristianesimi (dal cattolicesimo di facciata e strumentale di Berlusconi al fondamentalismo protestante, sincero e perciò ancor più pericoloso, di Bush) in una “battaglia di civiltà” che risveglia i lati più oscuri dell’islamismo?Leonardo Boff racconta, in un suo libro recente, un episodio di cui sarebbe bene non perdere la memoria. Nel 1985 il capo indigeno della Bolivia, Ramiro Reynaga, in occasione della visita del papa nel suo paese, gli consegnò una lettera in cui diceva: “Noi, indios delle Ande e dell’America, abbiamo deciso di approfittare di questa sua visita per restituirle la sua Bibbia, perché in questi cinque secoli essa non ci ha dato né amore, né pace, né giustizia. Per favore, Santità, riprenda la sua Bibbia e la restituisca ai nostri oppressori, perché loro hanno bisogno dei suoi precetti morali più di noi. Dall’arrivo di Cristoforo Colombo sono stati imposti all’America, con la forza, una cultura, una lingua, una religione e valori propri dell’Europa. La spada spagnola che di giorno attaccava e uccideva il corpo degli indios, la sera diventava croce per attaccare l’anima india”. Il papa – conclude il racconto del teologo della liberazione - non poté rispondere niente e fece l’unica cosa dignitosa che poteva fare: pianse. Per gli errori del passato non resta che piangere. Ma per gli errori del presente, il papa, i cattolici, i cristiani in genere potrebbero fare molto di più.