Normalità
e guerra
Di fronte a fatti come quelli accaduti a Bruxelles
il 22 marzo scorso, tutti proviamo disorientamento e smarrimento: chiunque di
noi poteva trovarsi in quel dato aeroporto, o in quella data stazione della
metropolitana; e se non direttamente noi, potevano esserci nostri figli, nostri
cari amici, nostri conoscenti.
Noi fragili umani, tuttavia, abbiamo anche un punto
di forza: siamo esseri razionali. Comprendiamo quindi che abbandonarsi
all'angoscia e alla paura serva soltanto a farci stare peggio. E' proprio nelle
difficoltà che bisogna fare affidamento sulle nostre capacità razionali,
cercando di farne l'uso migliore.
Per quanto mi riguarda, gli sforzi rivolti a
trovare il giusto orientamento includono naturalmente l'ascolto delle persone
abituate a ragionare in pubblico muovendo da una formazione culturale affine
alla mia e, quindi, avvezze ad utilizzare un linguaggio che posso
immediatamente comprendere, perché è il mio stesso linguaggio.
Mi riferisco a persone (purtroppo, non ne sono
rimaste molte in circolazione) che hanno un orientamento ideale liberale, hanno
studiato lungamente il pensiero di Benedetto Croce traendone proficui
insegnamenti, hanno un approccio al mondo umano di tipo storicista, pur
difendendo il meglio dell'eredità dell'illuminismo.
Ha scritto il professor Paolo Bonetti: «Siamo in
guerra, piaccia o non piaccia questa parola, e, come accade in tutte le guerre,
bisogna realisticamente adottare misure che limitano necessariamente le nostre
piccole libertà quotidiane» (si veda l'articolo di Bonetti "La demagogia della libertà e della privacy",
in "Legno Storto Blog" del 23 marzo 2016). Il mio giudizio è che
Bonetti abbia ragione nell'invitare l'opinione pubblica a meditare sul fatto
che qualcosa è successo e sta ancora succedendo; e, dunque, anche il nostro
abituale tenore di vita, quella che consideravamo la nostra normalità
quotidiana, devono necessariamente subìre degli adattamenti, in relazione alle
misure stabilite dalle competenti Autorità per garantire la sicurezza
collettiva. Dissento, invece, da Bonetti circa la parola "guerra".
Ogni parola ha un suo significato proprio e non va utilizzata impropriamente.
C'è poi una precisa lezione della Storia, che non si può ignorare: la
dichiarazione formale dello stato di guerra si traduce, sul piano interno, in
uno stato d'eccezione. Questo comporta non soltanto che per un periodo si
mettano tra parentesi le garanzie costituzionali, ma legittima, in concreto,
misure restrittive della libertà personale come: perquisizioni personali e
domiciliari; intercettazioni ed altre forme di controllo della corrispondenza e
degli altri mezzi di comunicazione interpersonale; aumento dei casi in cui si
può procedere al fermo di polizia e della sua durata, prima che si possa avere
assistenza legale.
Per andare alla sostanza della questione: la
dichiarazione formale dello stato di guerra produce automaticamente esiti
illiberali.
Ci sono forze interne "non innocenti" che
enfatizzano apposta la circostanza che saremmo in guerra, per arrivare ai
provvedimenti dello stato d'eccezione. Sono le eterne, classiche, forze
illiberali, che tanti nomi hanno assunto in passato, ma che vogliono sempre la
medesima cosa: fare fuori i dissenzienti, i rompiscatole, i critici del potere.
Vogliono un bel blocco d'ordine, in cui chi governa abbia carta bianca e chi si
è arricchito possa godersi in pace la sua ricchezza.
Non mi riferisco unicamente a forze di ispirazione
reazionaria; la guerra è una manna dal cielo anche per gli spiriti
rivoluzionari e giacobini. I diritti dell'uomo e del cittadino dovevano essere
il portato della Rivoluzione Francese; ma proprio la dichiarazione di guerra
all'Austria ed alla Prussia consentì ai rivoluzionari di stabilire lo stato
d'eccezione interno. Così furono messi tra parentesi gli ideali della
rivoluzione del 14 luglio 1789 e si ebbe la seconda rivoluzione, del 10 agosto
1792: con lo stabilirsi del Terrore.
Del resto, la stessa Rivoluzione Russa del 1917 non
si è innestata come diretta conseguenza degli sconvolgimenti determinati dalla
prima guerra mondiale?
Un altro liberale italiano odierno, memore della
lezione crociana, Corrado Ocone ha scritto: «Abbiamo perso il senso del tragico
della vita, e quindi anche della stessa libertà» (si veda l'articolo di Ocone
"Come combattono le società libere",
nel giornale quotidiano "L'intraprendente", del 24 marzo 2016). Vero
e ben scritto: le libertà di cui godiamo, i loro istituti, le loro garanzie
giuridiche, non sono fatti scontati, acquisiti una volta per tutte. Tutto ciò
che è umano è precario e si può perdere. Ci sono voluti secoli di lotte per
arrivare agli odierni ordinamenti liberaldemocratici e per difenderli e
consolidarli si sono combattute guerre dolorosissime e rovinose: ultima la
seconda guerra mondiale, contro il nazi-fascismo.
Non sono d'accordo però con Ocone quando scrive: «L'attacco
alla libertà viene questa volta dall'esterno, da una "cultura altra"
che eravamo convinti di poter integrare».
Posso sbagliare, ma nell'espressione "cultura
altra" mi sembra di cogliere un senso di superiorità, un guardare
dall'alto in basso, una "puzza sotto il naso", per usare
un'espressione colorita che un napoletano può subito intendere. Ci leggo lo
stesso atteggiamento di un importante collaboratore del settimanale "Il Mondo" quando era diretto da
Pannunzio, Vittorio De Caprariis (1924-1964). Nel suo
saggio "L'Italia
contemporanea. 1946-1953", De Caprariis difese la scelta italiana di
aderire all'Alleanza Atlantica (NATO), ma con un surplus di natura politico-ideologica:
«quello che sfuggiva alla sinistra della DC, dossettiana o gronchiana che
fosse, era che il patto era più politico che militare: proprio perché l’Italia
era un paese non-atlantico ma mediterraneo, una certa visione del suo sviluppo
e destino esigeva che lo si disincagliasse moralmente, psicologicamente e
politicamente dal Mediterraneo e lo si rendesse omogeneo ai paesi dell’area
atlantica, e la nuova alleanza sarebbe stata strumento efficace di ciò» (si
veda il terzo volume degli Scritti di De Caprariis, "Momenti di storia italiana nel '900",
Messina, Edizioni P&M, 1986, p. 226).
Non c'è vergogna nell'essere un Paese del
Mediterraneo. Bisogna essere consapevoli della ricchissima storia di questo
piccolo mare, ed anche un po' orgogliosi di farne parte. Non esistono più tanti
popoli che pure furono economicamente fiorenti e culturalmente interessanti,
quali i Fenici (con i loro discendenti Cartaginesi), o gli Etruschi: ma la loro
eredità è stata assorbita in noi. Il Mediterraneo fu il "Mare nostro"
degli antichi Romani. Attraverso il Mediterraneo, la storia di molti popoli
europei si è strettamente intrecciata a quella dei popoli adenti all'Islam. I
quali tutti vantano culture ragguardevoli e meritano rispetto. Cito una fonte
al di sopra di ogni sospetto: uno scrittore statunitense di origine ebraica,
Noah Gordon. Nel romanzo "Medicus" (titolo originale "The
Physician"), si narra di un inglese vissuto agli inizi dell'undicesimo
secolo. Il quale, per imparare l'arte medica, si recò ad Ispahan, in Persia;
mentre a Londra ancora non si sapeva cosa fosse un ospedale, ad Ispahan si
studiava medicina nella madrassa (università) con insegnanti del livello di Ibn
Sina (Avicenna) e gli studenti facevano pratica medica nell'adiacente maristan
(un vero e proprio ospedale, in senso moderno).
Il rapporto fra culture diverse non può essere di
tipo gerarchico, da superiore ad inferiore. Nella differenza c'è l'opportunità
di un arricchimento reciproco.
In conclusione espongo, in sintesi, i punti di
orientamento che personalmente intendo seguire.
1) E' profondamente sbagliato teorizzare uno scontro
di civiltà, in questo caso fra Cristianità ed Islam.
2) Al contrario, il mondo islamico, sia nella sua
componente maggioritaria sunnita, sia nella sua componente sciita, possiede
intelligenze ed energie positive che sono indispensabili per battere, sul piano
spirituale-ideale, oltre che sul piano politico e militare, i fondamentalisti
ed il loro nichilismo.
3) Non è interesse dei Paesi occidentali e
dell'Unione Europea soffiare sul fuoco dello scontro politico in atto
all'interno dei Paesi islamici in Medio Oriente e nel Nord Africa.
4) Al contrario, attraverso una seria riforma del
Consiglio di Sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), bisogna
costruire un nuovo ordine internazionale, facendo in modo che i più importanti
Paesi di tradizione islamica (Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita) siano
valorizzati e corresponsabilizzati nella costruzione di questo nuovo ordine
mondiale.
5) La cosiddetta globalizzazione non ha effetti
soltanto per quanto attiene ai rapporti economici e finanziari. Ha contribuito
a far sì che il pianeta sia diventato sempre più piccolo e interconnesso. Ciò
determina crisi soprattutto nei Paesi più legati alle proprie tradizioni:
perché tutto sembra mescolarsi ed ogni precedente certezza viene di colpo messa
in discussione. Dobbiamo imparare tutti a gestire la globalizzazione. Il modo
migliore per farlo è quello di consentire uno sviluppo economico quanto più
diffuso possibile.
6) Al contrario, se la ricchezza mondiale si
concentra in pochi Stati, è inevitabile che questi attraggano i disperati di
tutto il mondo, con una miscela esplosiva di rancore e di odio.
7) Il nostro attuale livello di civiltà è una
conquista molto recente. Ad esempio, la condizione delle donne vedeva una loro
netta subordinazione anche nei rapporti civili, come attesta il Codice Civile
napoleonico del 1804. Di conseguenza, invece di trattare dall'alto in basso
altre società non europee, bisognerebbe considerare che nel loro caso si tratta
di processi storici non ancora compiutamente maturati.
8) Non bisogna mai dimenticarsi che l'Occidente
industrializzato non ha realizzato il paradiso in Terra. Scriviamo nelle
Costituzioni che tutti hanno diritto al lavoro, ma nelle economie di mercato
capita o che quantità molto rilevanti di popolazione siano in stato di
disoccupazione, ovvero che tanti lavoratori siano economicamente sfruttati con
salari di mera sopravvivenza. Non dimentichiamoci, inoltre, del disagio
giovanile, dell'uso di massa di sostanze stupefacenti, di un fin troppo
fiorente mercato del sesso che fa pensare alla degradazione della dignità umana
piuttosto che alla sua esaltazione in una più compiuta libertà.
9) Anche i nostri amici islamici possono aiutarci a
costruire un mondo più equilibrato, ossia migliore.
Palermo, 24 marzo 2016
Livio Ghersi