martedì 29 maggio 2007

SULLA SCONFITTA ELETTORALE


Repubblica – Palermo 29.5.07

Augusto Cavadi

L’EFFETTO BOOMERANG DEL VOTO CLIENTELARE

Che noi, gli sconfitti del centro-sinistra, ci si interroghi sulle ragioni dell’ennesimo scacco elettorale è opportuno. Ma proprio riflettendo un po’ più a fondo si potrebbe scoprire - alle spalle, o meglio alle radici, della contrapposizione fra i due schieramenti - una questione più grave: nell’intero corpo elettorale manca, o difetta gravemente, la convinzione condivisa che vivere in uno Stato di diritto (”il governo delle leggi”) sia meglio che vivere in uno Stato di relazioni intersoggettive (”il governo degli uomini”). Che sia preferibile vivere nella Prussia del mugnaio che cerca (e trova) un giudice a Berlino anziché nella Palermo dove una ragazzina, alle Poste di piazza Sturzo, sorpassa una fila di 18 persone con la candida dichiarazione: “Ma l’impiegata è cugina di mia madre!”.


Sul primo corno dell’alternativa mi ha fatto riflettere in questi giorni un caro e stimatissimo amico liberale, Livio Ghersi,  passandomi dei suoi fogli in corso di pubblicazione: “per ‘Stato di diritto’ si intende quello in cui tutti i governanti e tutti i pubblici amministratori sono sottoposti alla Costituzione ed alle leggi ed ogni potere va ricondotto strettamente alle funzioni che istituzionalmente devono essere esercitate”.

Sul modo opposto di intendere e di gestire la cosa pubblica è stato, invece, illuminante un passaggio dell’omelia che il vescovo di Ragusa, mons. Angelo Rizzo, tenne a Caltanissetta il 7 agosto del 1976 ai funerali dell’on. Calogero Volpe (suo “cugino di sangue”) e che è stata riedita in questi giorni da Davide Romano nel suo La pagliuzza e la trave (La Zisa). Dopo essersi rivolto al politico democristiano defunto per evidenziargli la circostanza d’essere spirato a Roma, proprio in “quel Policlinico Gemelli in cui molti tuoi amici, delle più diverse categorie sociali, da te aiutati per le difficoltà del ricovero, hanno riacquistato la pienezza della salute”, spiega ai presenti che, “a prescindere dalle buone leggi sociali” (cioè: “ove queste mancassero o tardassero a venire”), ogni “deputato - nella sua qualità di servitore del popolo - ha il dovere di spendersi in favore del prossimo bisognoso a misura delle sue possibilità“. E aggiunge un particolare ringraziamento “all’infaticabile dott. Algeri suo fraterno collaboratore più che suo segretario” perché “le decine di migliaia di pratiche passate per quelle mani e regolarmente schedate non sono stati degli anonimi casi pietosi ma hanno avuto un volto e un nome, stabilivano autentiche relazioni umane nel senso più bello della parola”.

Su questa contrapposizione di ottiche ci sarebbe molto da riflettere. Sinteticamente cinque considerazioni. La prima: la politica di abbracci, baci, piccole elemosine occasionali e assunzioni clientelari è mafiogena; perciò chi sostiene che “la mafia fa schifo” dovrebbe attenersi religiosamente  - se per lui questo avverbio ha un senso minimamente accettabile - all’articolo 3 della Costituzione (”tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”). La seconda: le comunità religiose (cristiane o islamiche, induiste o buddiste) potranno contribuire a liberare la Sicilia dai sistemi di potere mafiogeni in mille modi, ma preliminarmente dovranno rinunziare ad atteggiamenti di ostilità, o anche solo di estraneità, rispetto ai princìpi dello Stato democratico. Come fa qualche parroco che, il giorno della cresima, dopo la funzione in chiesa, accompagna i giovani dal sindaco del paese per fargli consegnare una copia della Costituzione italiana. La terza considerazione: in linea teorica, questa battaglia a favore dello Stato di diritto converrebbe al centro-destra quanto al centro-sinistra. Aristotele od Hegel, Croce o Sonnino non sono stati pericolosi estremisti rivoluzionari, ma persone serie e preoccupate  - con tanti, inevitabili errori di valutazione - dell’assetto sociale meno iniquo possibile. Quarta considerazione: sino a quando, di fatto, non si arriverà a convincere la maggioranza della popolazione che la situazione attuale è conveniente a pochi e nell’immediato, ma un boomerang per quei pochi nel lungo periodo e un danno per molti sia ora che in futuro, le elezioni saranno vinte da chi è più bravo nel distribuire arbitrariamente risorse e prebende. Quinta (e ultima) considerazione, con cui ritorniamo all’inizio: se il centro -sinistra vuole vincere un giorno le elezioni deve uscire dall’attuale ambiguità e decidersi se competere col centro-destra   sul piano delle relazioni interpersonali  o provando a incarnare una logica del tutto diversa. Allo stato, invece, c’è un po’ di tutto: il tentativo di promettere favoritismi in caso di vittoria (ma nella partita su come accalappiare il voto di disoccupati, aspiranti consulenti, organizzatori di corsi professionali fantasmagorici, gestori di cliniche private…è difficile che la squadra dilettanti batta la squadra professionisti) così come il tentativo di instaurare un regime davvero trasparente e democratico (ma allora si deve rinunziare ad imbarcare nelle liste chi è convinto che la tessera di partito o di sindacato serva, anche nell’area progressista, ad accelerare le promozioni in banca, a stipulare una convenzione in più o far vincere il concorso per dirigenti scolastici).

venerdì 25 maggio 2007

L’ABUSO DEL TERMINE


“Centonove” 25. 5. 07
Augusto Cavadi

IL VANDALISMO AUTOLESIONISTICO DEI SEDICENTI ANARCHICI

Anarchia non è sinonimo di caos. Nonostante l’accezione volgare dominante (per cui, davanti ad una situazione di conflittualità generalizzata di tutti contro tutti, ci scappa da dire: “Ma siamo in anarchia totale!”), con questo termine si designa - concettualmente - un’idea di società in cui ogni individuo è talmente consapevole, responsabile e solidale da rendere superfluo ogni apparato istituzionale. Una società, in somma, in cui i cittadini sono talmente maturi da non aver bisogno dello Stato.

Atei come Bakunin o cristiani come Tolstoj, gli anarchici dedicano la vita affinché i princìpi della Rivoluzione francese del 1789 trovino integrale e contemporanea attuazione pratica: non la sola libertà (come nelle società liberali), non la sola uguaglianza (come nelle società comuniste), non la sola fraternità (come nei sogni delle anime belle), ma la libertà e l’uguaglianza e la fraternità insieme.
Questo progetto di società senza Stato (dunque senza gerarchie istituzionali fisse) è realistico o utopistico? Se ne discute da un secolo e mezzo, ci si divide talora vivacemente, se ne discuterà ancora per tanto tempo. Non dovrebbe però essere difficile concordare almeno su un punto: per tutti, anche per quanti non ci riconosciamo nella proposta anarchica, sarebbe un impoverimento disastroso se tale proposta venisse cancellata dallo scenario ideale. Sarebbe come se si spegnesse una stella che indica una direzione verso cui avanzare per uscire dalla barbarie attuale.
Chi potrebbe operare questa cancellazione dell’utopia anarchica dalla faccia della terra? Un regime totalitario efficacemente repressivo. Oppure degli individui stupidi, irresponsabili, che - abusando dell’etichetta ‘anarchia’ - compiano gesti balordi. Inutilmente provocatori. Che alimentano complessi di persecuzione in chi li subisce, reazioni esagerate in chi li strumentalizza e che - comunque - gettano fango su un’ideologia per quale migliaia di uomini e di donne hanno consacrato l’esistenza, cadendo non di rado martirizzati da violenze di destra e persino di sinistra. Gesti autolesionistici, insomma: come, in queste ultime settimane, le scritte intimidatorie contro l’arcivescovo di Genova o le mutilazioni delle statue di papi davanti la cattedrale di Palermo.

mercoledì 23 maggio 2007

LA TARGA FALCONE ALL’ASSOCIAZIONE “EZECHIELE 37"


“Repubblica - Palermo” 23.5.07

Augusto  Cavadi

QUEGLI  “ANGELI CUSTODI”  ACCANTO  AI  TESTIMONI


Anche se nell’immaginario collettivo vengono confusi, “testimoni di giustizia” e “collaboratori di giustizia” hanno poco in comune. I primi, infatti, sono cittadini che spontaneamente offrono la propria testimonianza alle forze dell’ordine e alla magistratura per individuare i colpevoli di reati (generici e mafiosi); mentre i secondi (volgarmente denominati “pentiti”) sono membri di organizzazioni criminali che, per le ragioni più varie, decidono di dissociarsi e di collaborare con gli organi inquirenti. Nonostante le differenze radicali, ‘testimoni’ e ‘collaboratori’ sono accomunati spesso da uno stesso destino: lo Stato si preoccupa di dare loro una nuova identità, una nuova residenza e una qualche forma di sussistenza economica. Per far questo è obbligato a strapparli dal loro ambiente e non di rado dagli affetti familiari: con conseguenze sempre dolorose, talora persino tragiche. La vicenda di Rita Atria  - suicidasi alla notizia della strage di via D’Amelio perché a suo parere con Borsellino scompariva l’unico volto umano che le veniva offerto da uno Stato anonimamente burocratico - resta esemplare. Senza contare le dichiarazioni giornalistiche di altri ‘testimoni’ che, delusi dalla protezione ricevuta in cambio del loro operato civico, sostengono che  - se avessero previsto il seguito - si sarebbero astenuti dal mettersi a disposizione del potere giudiziario. Due anni fa il Gruppo Abele di Torino ha pubblicato una raccolta di studi sull’argomento presentata da Gian Carlo Caselli e l’anno scorso Alessandra Dino, attenta sociologa palermitana, ne ha curato un’altra con le edizioni Donzelli.

Solo se si è al corrente di questo quadro nazionale si può apprezzare sino in fondo la missione di un’associazione toscana, “Ezechiele 37″, che da anni si dedica proprio ad alleviare  - nei modi più efficaci e discreti che le sono consentiti -  la condizione di solitudine sociale e affettiva di quanti sono costretti, in varie regioni italiane, a vivere nella clandestinità. Una missione che rivela lungimiranza strategica e notevole sensibilità umana e che la Scuola di formazione etico - politica “G. Falcone” ha deciso di premiare con la consegna della VII Targa, assegnata ogni anno a singoli o gruppi che si siano distinti nella lotta al sistema mafioso con particolare intelligenza e lontano dalla ribalta mediatica. Nel corso della cerimonia (che si è svolta ieri sera nella chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria e che ha incluso dei momenti artistici con il cantastorie Antonio Tarantino e la lettura di testimonianze dal vivo ad opera dell’attrice Rosalia Billeci) si è anche realizzata una conversazione pubblica con Francesco Forgione nella qualità di presidente della commissione parlamentare antimafia. Gli organizzatori hanno voluto infatti cogliere l’occasione per accendere i riflettori su una problematica scottante: sia perché riguarda la quotidianità di persone che hanno dato sino ad ora un contributo decisivo al parziale smantellamento del sistema mafioso sia perché condiziona, incoraggiando o scoraggiando, le opzioni di quanti   - innocenti o colpevoli -  saranno posti davanti al bivio se schierarsi dalla parte dello Stato o meno.

sabato 19 maggio 2007

IL SALONE DEL LIBRO


Repubblica – Palermo 19.5.07

Augusto  Cavadi


A TORINO LA SICILIA IN OMBRA 

Al Salone del libro di Torino la Sicilia non è stata assente. Sin dalla festa di anteprima, Camilleri è stato citato  - e recitato - come uno degli autori più ammirati dal pubblico negli ultimi venti anni. Non pochi gli editori, più o meno giovani, che hanno esposto le novità (tra cui Sellerio, Flaccovio e Di Girolamo) e gli autori invitati ad incontrare i lettori (tra gli altri Gaetano Savatteri, Giovanni Ventimiglia, Silvana La Spina e Roberto Alajmo). C’è stato anche  - impreziosito da libri antichi, stampe e disegni della Fondazione “Ignazio Mormino” - il Banco di Sicilia.

Eppure. Eppure è stata una presenza monca. A differenza di altri anni, in cui la Sicilia è stata  rappresentata anche istituzionalmente da uno stand dell’amministrazione regionale, quest’anno l’assessorato alla pubblica istruzione e ai beni culturali non ha predisposto nessuna partecipazione. Così mentre il Friuli Venezia-Giulia o l’Umbria, la Sardegna o la Campania, il Piemonte o il Veneto hanno moltiplicato giornalmente le offerte di conversazioni, proiezioni, spettacoli musicali e degustazioni per promuovere la produzione libraia delle rispettive aree di provenienza, la Regione siciliana si è fatta notare per la sua assenza. Già: e non è un modo di dire. Infatti, dopo tanti anni di partecipazione (pur con le disfunzioni ed i limiti che da queste colonne ho avuto modo di segnalare l’anno scorso), non pochi visitatori si aspettavano di trovare lo stand e chiedevano - invano - dove si trovasse. Hanno potuto ripiegare sugli spazi (per la verità non esaltanti né per l’estetica dell’allestimento né per la vivacità delle iniziative culturali) della provincia regionale di Siracusa e della città di  Porto Empedocle (la Vigara del Commissario Montalbano).

Abbiamo cercato di capire a cosa sia stata dovuta questa defaillance, ma ci sono state date risposte ipotetiche. Pare che l’assessorato si sia dimenticato di istruire le pratiche burocratiche necessarie e che la stessa presidenza dell’associazione degli editori siciliani si sia dimenticata di attivarsi per prevenire la … dimenticanza. Incontrando il pubblico, Moni Ovadia ha raccontato  la storiella del politico che pretende di entrare ad una mostra d’arte pur avendo dimenticato a casa la carta d’identità e che, all’obiezione dell’addetto (”Poco fa non abbiamo fatto entrare neppure Picasso, finché non ci ha dimostrato chi fosse”) ha candidamente risposto: “Va bene, mi ha convinto. Ma, scusi,  Picasso chi è?”. L’aneddoto è ambientato in Unione Sovietica: ora che quel regime non c’è più, non ci resta che sperare intensamente nell’impossibilità che il suo raggio d’applicazione si estenda anche in aree geo-politiche distanti dagli Urali.

Per il momento, possiamo limitarci ad un’amara constatazione. Qualche tempo fa l’amministrazione regionale scriveva come didascalia sotto splendide vedute naturalistiche dell’isola: “Sicilia. Tutto il resto è in ombra”. Almeno in questa occasione il messaggio che si sta lanciando è il paradossale rovesciamento di quello slogan pubblicitario: “Sicilia. Tutto il resto è in luce”.

venerdì 18 maggio 2007

LE SUORE DI CAMILLERI


Centonove 18.5.07

Augusto Cavadi

IL MARTIRIO DELLE SORELLE

Qua e là, soprattutto in riviste religiose a diffusione nazionale, si continua a polemizzare con la tesi  - ventilata più che affermata - di Camilleri nell’ultimo romanzo Le pecore e il pastore: che dieci giovani suore si sarebbero lasciate morire, in pochi anni, nel loro convento di Palma di Montechiaro dopo aver offerto la propria vita a Dio in cambio della guarigione del vescovo di Agrigento, mons. Peruzzo, vittima di un attentato mafioso. Per contestare l’ipotesi letteraria dello scrittore siciliano viene citata una nota ufficiale della Curia agrigentina firmata da don Carmelo Petrone, portavoce dell’attuale vescovo: “E’ falso affermare che alcune suore si sono lasciate morire di fame e di sete. La morte di quelle suore è avvenuta per cause naturali come la malattia, la tisi o altro. Per capire certe parole come ‘offrire la vita ‘ bisogna entrare in una logica cristiana altrimenti si sbaglia totalmente bersaglio. Alcune monache di quel tempo sono ancora in vita e raccontano con semplicità il senso di quella offerta e di quella preghiera. Rimane l’atto di fede che fa offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo sulla croce e farlo diventare motivo di salvezza e di redenzione per l’umanità!”.

Ma questa nota chiude davvero la discussione o - forse senza volerlo - la riapre ad un livello più profondo e più impegnativo? In sintesi si sostiene che la morte delle dieci suore non è stata una forma di suicidio religioso. Esse hanno semplicemente offerto la loro vita, la qualità e la durata della loro esistenza, a Dio: il quale, se lo avesse voluto, avrebbe potuto accettare come sacrificio a lui gradito le loro malattie, e la loro morte, in unione al Crocifisso.

Allora, per fare il punto. Che queste dieci suore siano decedute negli anni immediatamente successivi al loro ‘voto’ è un dato storico che nessuno smentisce. Ciò che si può discutere, perché mancano prove documentarie e testimonianze, è la ragione del loro decesso: è stato - come suggerisce la Curia - un intreccio casuale, e un po’ grottesco, di malattie ed accidenti del tutto indipendenti dalla loro dedizione interiore? E’ stata - come ipotizza Camilleri - una loro consapevole, esplicita volontà di immolazione (tradottasi in astensione dal cibo e dalle cure) accolta dall’Onnipotente? E’ stata - come si potrebbe ulteriormente ipotizzare - una sorta di condizionamento psichico inconscio che, proprio in conseguenza della loro disponibilità ad immolarsi al posto dell’amato pastore, ne ha abbassato le difese fisiche nei confronti delle malattie? 

Se sul piano dei fatti storici dobbiamo sospendere il giudizio, non così avviene sul piano culturale. La Curia di Agrigento, in linea con la teologia cattolica tradizionale, afferma che “in una logica cristiana” le suore avrebbero potuto “offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo”. Questo significa che Gesù Cristo ha voluto soffrire per amore dell’umanità; che Dio, suo padre,  ci ha perdonato in virtù dei patimenti del figlio; che il dolore non è poi un fattore così negativo dell’esperienza umana perché può essere comunque valorizzato come “motivo di salvezza e di redenzione”. Da almeno quarant’anni, però, la teologia cristiana si interroga sulla sensatezza di questa interpretazione che rischia di far apparire Gesù di Nazareth un masochista, Dio Padre un sadico e i credenti cristiani dei rinunciatari autolesionisti. Si è così appurato che questa teoria teologica della “soddisfazione vicaria” (Gesù che soffre al posto dell’umanità peccatrice e così salda il debito infinito verso l’Eterno) non è così tradizionale come si suppone: non ha solide basi nella Scrittura, risale all’XI secolo d. C. (al Cur deus homo di sant’Anselmo d’Aosta), risente della mentalità giuridicista del medieove latino, va radicalmente ripensata e riformulata per dare ai credenti del XXI secolo una ben differente visione del dolore fisico e del diritto/dovere di combatterlo a livello individuale e a livello sociale. 

Che di questo dibattito teologico, nella nota della Curia agrigentina,  non ci sia traccia, è un ‘peccato’ (almeno di omissione…). La comunità dei cristiani non è certo obbligata a restare in silenzio quando la cronaca si occupa di questioni religiose, ma nell’intervenire  darebbe prova di sapienza evangelica se non pestasse sempre nello stesso mortaio: se utilizzasse le provocazioni del mondo culturale ‘laico’ per far correggere e migliorare il suo modo umano di interpretare la fede.

Qua e là, soprattutto in riviste religiose a diffusione nazionale, si continua a polemizzare con la tesi  - ventilata più che affermata - di Camilleri nell’ultimo romanzo Le pecore e il pastore: che dieci giovani suore si sarebbero lasciate morire, in pochi anni, nel loro convento di Palma di Montechiaro dopo aver offerto la propria vita a Dio in cambio della guarigione del vescovo di Agrigento, mons. Peruzzo, vittima di un attentato mafioso. Per contestare l’ipotesi letteraria dello scrittore siciliano viene citata una nota ufficiale della Curia agrigentina firmata da don Carmelo Petrone, portavoce dell’attuale vescovo: “E’ falso affermare che alcune suore si sono lasciate morire di fame e di sete. La morte di quelle suore è avvenuta per cause naturali come la malattia, la tisi o altro. Per capire certe parole come ‘offrire la vita ‘ bisogna entrare in una logica cristiana altrimenti si sbaglia totalmente bersaglio. Alcune monache di quel tempo sono ancora in vita e raccontano con semplicità il senso di quella offerta e di quella preghiera. Rimane l’atto di fede che fa offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo sulla croce e farlo diventare motivo di salvezza e di redenzione per l’umanità!”.

Ma questa nota chiude davvero la discussione o - forse senza volerlo - la riapre ad un livello più profondo e più impegnativo? In sintesi si sostiene che la morte delle dieci suore non è stata una forma di suicidio religioso. Esse hanno semplicemente offerto la loro vita, la qualità e la durata della loro esistenza, a Dio: il quale, se lo avesse voluto, avrebbe potuto accettare come sacrificio a lui gradito le loro malattie, e la loro morte, in unione al Crocifisso. Allora, per fare il punto. Che queste dieci suore siano decedute negli anni immediatamente successivi al loro ‘voto’ è un dato storico che nessuno smentisce. Ciò che si può discutere, perché mancano prove documentarie e testimonianze, è la ragione del loro decesso: è stato - come suggerisce la Curia - un intreccio casuale, e un po’ grottesco, di malattie ed accidenti del tutto indipendenti dalla loro dedizione interiore? E’ stata - come ipotizza Camilleri - una loro consapevole, esplicita volontà di immolazione (tradottasi in astensione dal cibo e dalle cure) accolta dall’Onnipotente? E’ stata - come si potrebbe ulteriormente ipotizzare - una sorta di condizionamento psichico inconscio che, proprio in conseguenza della loro disponibilità ad immolarsi al posto dell’amato pastore, ne ha abbassato le difese fisiche nei confronti delle malattie?  Se sul piano dei fatti storici dobbiamo sospendere il giudizio, non così avviene sul piano culturale. La Curia di Agrigento, in linea con la teologia cattolica tradizionale, afferma che “in una logica cristiana” le suore avrebbero potuto “offrire la propria sofferenza o il proprio morire per unirlo all’offerta di Cristo”. Questo significa che Gesù Cristo ha voluto soffrire per amore dell’umanità; che Dio, suo padre,  ci ha perdonato in virtù dei patimenti del figlio; che il dolore non è poi un fattore così negativo dell’esperienza umana perché può essere comunque valorizzato come “motivo di salvezza e di redenzione”. Da almeno quarant’anni, però, la teologia cristiana si interroga sulla sensatezza di questa interpretazione che rischia di far apparire Gesù di Nazareth un masochista, Dio Padre un sadico e i credenti cristiani dei rinunciatari autolesionisti. Si è così appurato che questa teoria teologica della “soddisfazione vicaria” (Gesù che soffre al posto dell’umanità peccatrice e così salda il debito infinito verso l’Eterno) non è così tradizionale come si suppone: non ha solide basi nella Scrittura, risale all’XI secolo d. C. (al Cur deus homo di sant’Anselmo d’Aosta), risente della mentalità giuridicista del medieove latino, va radicalmente ripensata e riformulata per dare ai credenti del XXI secolo una ben differente visione del dolore fisico e del diritto/dovere di combatterlo a livello individuale e a livello sociale.  Che di questo dibattito teologico, nella nota della Curia agrigentina,  non ci sia traccia, è un ‘peccato’ (almeno di omissione…). La comunità dei cristiani non è certo obbligata a restare in silenzio quando la cronaca si occupa di questioni religiose, ma nell’intervenire  darebbe prova di sapienza evangelica se non pestasse sempre nello stesso mortaio: se utilizzasse le provocazioni del mondo culturale ‘laico’ per far correggere e migliorare il suo modo umano di interpretare la fede.

giovedì 17 maggio 2007

Due seminari a Messina: sabato 19 e lunedì 21

L’Associazione “Donne per Messina” organizza due seminari sul tema “Le parole della politica”. Il primo (”Liberalismo, comunismo, socialdemocrazia, dottrina sociale cattolica”) avrà luogo sabato 19 dalle 15 alle 18; il secondo (”Fascismo, conservatorismo, anarchismo, ambientalismo”) si terrà lunedì 21 dalle 15 alle 18. Entrambi gli incontri (per i quali è necessaria l’iscrizione al 339.7714099) saranno condotti da Augusto Cavadi.

martedì 8 maggio 2007

FILOSOFIA DELLE VISCERE


Repubblica – Palermo 8.5.07

Augusto Cavadi

L’ETICA DEL CUORE

In questa silloge di prose e liriche l’autrice sintetizza formazione filosofica e vena poetica in una sorta di “filosofia delle viscere” alla Maria Zambrano. Vari gli spunti, o i pretesti, di questi excursus: il velo (“tutto ciò che ci tocca profondamente viene avvolto da un velo, battesimale o nuziale o infine sudario”); l’acqua (nella sua inestricabile “doppiezza”: “sereno gioco di raggi e suoni o triste, oscura profondità”); il fuoco (anch’esso segnato, “come ogni elemento naturale nel mito”, da “duplice valenza: purifica o danna, scalda e protegge o distrugge”); l’aria (che è elemento fisico appena palpabile, ma anche “Psyche, anima, e Pneuma, soffio vitale”); la terra (che “possa divenire un locum amoenum piuttosto che un’orribile cava di rifiuti dipenderà dalle scelte di ciascuno di noi, dalle nostre pressioni sui potenti, da una assunzione di responsabilità etica prima che politica”). Queste divagazioni sono comunque collegate, come perle, da un filo conduttore: l’intreccio inestricabile di “Eros e Logos” o, se si preferisce, “il cuore, la testa e le mani”.

D. MUSUMECI

Devota come un ramo

Ila-Palma

pag. 70

euro 6

sabato 5 maggio 2007

LA BIBBIA E PROVENZANO


Dal sito web www.cdbitalia.it

PRIMO PIANO
5 maggio 2007

Scovano Bernardo Provenzano e gli trovano sei o sette bibbie attorno. Forse i giornalisti confondono titoli, ma insomma: di vangeli, breviari e libri devozionali, comunque, si tratta. La coscienza del credente dovrebbe restarne turbata: o, per lo meno, interpellata. Mi hanno riferito lo slogan con cui un prete calabrese (di cui non conosco il nome) ha sintetizzato il compito delle chiese davanti alle mafie: annunciare (il vangelo), denunciare (i colpevoli), rinunciare (ai privilegi dell’omertà).
Già solo il primo dei tre doveri meriterebbe un’enciclopedia a parte. Perché Provenzano può non avvertire alcuna contraddizione, anzi neppure frizione, fra la sua efferatezza criminale e la sua religiosità? Diciamolo in maniera brutalmente succinta. Come ha documentato, più di altri, l’esegeta Giuseppe Barbaglio, il volto del Dio biblico è duplice, un “Giano bifronte”: misericordioso, paziente, pacifico; ma anche vendicativo, iroso, violento. Come recita un recente titolo del magistrato Roberto Scarpinato su “Micromega” (riprendendo suggestioni di altri), un Dio “padre” ma anche un Dio “padrino”.
Questa ambiguità, inevitabilmente, si risolve in sede ermeneutica. O si rimuovono i passi, le tonalità, le sfumature dell’amore libero e liberante di Dio: ed è la strada della tradizione ecclesiastica, attenta a raccogliere ogni spunto che legittimi le gerarchie, gli ordinamenti, le sanzioni. Oppure si rimuovono i passi, le tonalità, le sfumature della sovranità antropomorfica di Dio: ed è la strada dei credenti che non venerano le Scritture come un feticcio, ma vi si ispirano ad essa come un documento della ricerca (mai conchiusa) di un popolo in cammino. Ognuno di noi, anche inconsciamente, fa le sue scelte ermeneutiche. Provenzano ha fatto la sua.

Augusto Cavadi

venerdì 4 maggio 2007

LA CONSULENZA FILOSOFICA


“Centonove”  4. 5.07

Augusto Cavadi

ALLA    RICERCA  DELLA  MENTE   UMANA

Chi è il consulente filosofico? I mass media, quando ne parlano, sono stregati dal confronto con lo psicoterapeuta e difficilmente vanno al di là di questa - falsa - opposizione. In realtà la nuova figura professionale non è nata per far concorrenza agli strizzacervelli: intende offrire una vasta gamma di servizi, ben al di là di quei pochi casi in cui può risultare più efficace delle terapie. Il filosofo-consulente (o, più genericamente, il filosofo-pratico) si propone di inventare luoghi, occasioni e metodi per far pensare la gente: per coinvolgere nel gioco della ricerca filosofica quanti - singoli, gruppi, famiglie, associazioni - ne avvertono l’esigenza, pur senza essere dei filosofi di mestiere.

Mi rendo conto che questa definizione non…definisce molto: è una sorta di indice che allude ad un direzione, più che indirizzare verso un punto preciso. Chi ne voglia sapere di più ha ormai una ricca bibliografia in italiano, ma si tratta quasi sempre di testi che - per tematiche e linguaggio - risultano più accessibili agli esperti di filosofia che non ai potenziali ‘clienti’ della consulenza filosofica. Solo da poche settimane è finalmente disponibile nelle librerie un breve, efficace manuale (Davide Miccione, “La consulenza filosofica”, Xenia, Milano 2007, euro 6.50) che spiega davvero  ai non-addetti ai lavori che cosa possono chiedere alla consulenza filosofica. L’autore, giovane e brillante dottore di ricerca presso l’Università di Catania nonché consigliere nazionale dell’associazione “Phronesis”, dedica il primo capitolo a raccontare l’origine di questa professione d’aiuto, il suo sviluppo nel mondo, la sua diffusione in Italia.

In un secondo capitolo, poi, inserisce la consulenza filosofica nel più ampio panorama delle “pratiche filosofiche” sperimentate attualmente in varie parti del globo (compreso il nostro Paese): il “dialogo socratico”, i “caffé filosofici”, i “seminari di gruppo”, la “filosofia con i bambini”, la “filosofia per le aziende e le organizzazioni”, “festival, vacanze, cene” e altro ancora.

Il terzo capitolo è più indicato per chi voglia accostarsi alla “consulenza filosofica” non solo come consultante (o fruitore o visitatore o ospite) ma anche, ipoteticamente, come futuro consulente. Vi si tratteggiano, infatti, alcune delle principali fondazioni teoriche delle pratiche filosofiche: dai tedeschi Gerd B. Achenbach, Steffan Graefe, Gunther Witzany, Eckart Rushmann agli israeliani Shlomit Schuster e Ran Lahav, dal francese Marc Sautet al canadese Peter Raabe, dallo statunitense Lou Marinoff a vari esponenti argentini (Roxana Kreimer) e spagnoli (José Barrientos Rastrojo, Luis Cencillo, Monica Cavallé).

Alle proposte italiane di riflessione teorica sulla consulenza filosofica e più in generale sulle pratiche filosofiche è, poi, dedicato il quarto capitolo. Si esaminano criticamente i contributi di Neri Pollastri (Firenze), Andrea Poma (Torino), Romano Màdera (Milano  ), Luigi Vero Tarca (Venezia), Augusto Cavadi (Palermo), Moreno Montanari (Ancona) , Umberto Galimberti (Milano), Alessandro Volpone (Bari), Lodovico Berra (Torino), Paola Grassi (Milano), Luciana Regina (Torino). Non mancano, infine, le indicazioni tecniche su alcuni siti internet da cui partire per l’esplorazione ulteriore di questa “enorme e frastagliata” offerta culturale, esistenziale e politica.

A lettura conclusa, gli interrogativi aperti sono  - come nella sana tradizione filosofica - più numerosi delle risposte acquisite. Non c’è dubbio, comunque, che almeno un punto risulta ben chiaro: la filosofia non è solo lo studio di ciò che illustri pensatori hanno scritto prima di noi, ma anche  - e forse soprattutto -  la capacità da parte nostra (quale che sia la nostra attività professionale) di produrre idee sull’uomo, sul mondo, sulla storia e di saperle confrontare con le idee altrui. Sviluppando questa dimensione ‘attualizzante’ dell’esercizio filosofico si può raggiungere un duplice scopo: liberare la filosofia dal ghetto in cui si è autoreclusa riducendosi ad archivio di sé stessa e  - guadagno molto più rilevante - liberare la società dallo stato di ottusa, rassegnata indifferenza con cui permette a pochi furbi (saldamente insediati nelle poltrone che contano) di condizionare la vita di tutti.

giovedì 3 maggio 2007

SCIENZA E LAICITA’


Repubblica – Palermo 3.5.07

Augusto Cavadi 

LA LAICITÀ IN CHIAVE PALERMITANA 

Quando un vocabolo suona gradevole ci si riserva il diritto di adottarlo. Nel significato originario? Se lo si rintraccia con facilità, bene; altrimenti gli se ne appioppa uno nuovo. Tutto nostro. Risultato: più il termine alla moda si diffonde e meno risulta funzionale all’intesa fra le persone. E’ quanto sta accadendo alla parola ‘laicità‘: indica un valore  - o un grappolo di valori - talmente prezioso che difficilmente si trova un masochista disposto a rinunziarvi. Laico ci tiene ad autodefinirsi il cattolico rispetto a preti, frati e suore; ma anche il protestante rispetto all’insieme dei cattolici; ancor più il cristiano illuminato (cattolico o protestante che sia) rispetto ad esponenti di altre religioni monoteistiche (come ebraismo e islamismo) esposte al fondamentalismo. Per non parlare, ovviamente, dell’ateo che si proclama laico a miglior diritto di chiunque professi una qualsiasi religione storica (sia pur in versione illuminata).
Vi sono dunque molti modi di dirsi laico: e non tutti compatibili fra loro. Nella babele di significati che si incrociano attualmente, si può prendere a prestito da Massimo Cacciari una delle definizioni più serie: “Laico può essere il credente come il non credente. E così entrambi possono essere espressione del più vuoto dogmatismo. Laico non è colui che rifiuta o, peggio, deride il sacro, ma, letteralmente, colui che vi sta di fronte: discutendolo, interrogandolo, mettendosi in discussione di fronte al suo mistero. Laico è ogni credente non superstizioso capace di discutere faccia a faccia col proprio Dio. Non assicurato a Lui, ma appeso alla Sua presenza-assenza. E così è laico ogni non credente che sviluppi senza mai idolatrare il proprio relativo punto di vista, la propria ricerca, e insieme sappia ascoltare la profonda analogia che la lega alla domanda del credente. Quando comprenderemo con questa ampiezza il significato della laicità, allora, e soltanto allora, essa potrà essere il valore sopra il quale ricostruire la nostra dimora.”   Su questo argomento  è in calendario per le ore 16 di giovedì 3 maggio, nell’Aula magna della Facoltà di lettere e filosofia, una conversazione pubblica sul tema “Scienza e laicità” con il filosofo della scienza Edoardo Boncinelli ed il teologo Carmelo Torcivia. E’ previsto l’intervento, al dibattito, di diversi intellettuali cittadini.Da questo fervore di iniziative è lecito attendersi, al di là dei dettagli, dei criteri di orientamento generale: non per arrivare unanimamente alle stesse conclusioni (ipotesi forse poco auspicabile, di certo poco probabile), ma per capire  dove stanno effettivamente le differenze di opinione senza lasciarsi intrappolare dagli equivoci. Infatti solo se sono chiare le posizioni, si può dissentire costruttivamente. Nella società multiculturale cresce l’urgenza di una sorta di galateo metodologico, a partire (senza limitarvisi) dal dialogo fra cattolici e cittadini di altre orientamenti, se è vero - come ha recentemente sostenuto Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose - che, per chi crede nella mitezza dello scambio, “questi   sono, per usare un linguaggio biblico, ‘giorni cattivi’:  non si riesce a comprendere non tanto il fatto che vengano ribaditi principi che per la tradizione della chiesa non possono essere taciuti né sminuiti, ma il  modo, lo stile che sembra prevalere in questo confronto tra cattolici e laici”.