sabato 30 gennaio 2016

CHE TIPO DI SCUOLA SCEGLIERE DOPO LA SCUOLA MEDIA ?


“REPUBBLICA – PALERMO”
28. 1. 2016

BREVE GUIDA ALLA SCELTA DELL’INDIRIZZO SCOLASTICO


Tempo d‘iscrizioni scolastiche, in particolare di scelta dell’indirizzo di studi per gli adolescenti che chiudono con la scuola media di primo grado. Genitori (e qualche volta alunni) pongono quesiti di ogni genere, ma la formula d’oro per rispondere non esiste. Bisogna ricorrere a un po’ di buon senso alla luce di pochi, ma chiari, criteri.
Il primo: gli sbocchi professionali sono la conseguenza, non la premessa, di un’opzione oculata. Scegliere un liceo informatico o un istituto alberghiero perché oggi computer e cucine tirano è due volte sbagliato: nessuno sa davvero come sarà il mercato del lavoro tra cinque o sei anni e, soprattutto, nessuno riuscirà a lavorare domani come informatico o come chef se non ha oggi una vera passione in quei campi. Fra le tante disavventure attuali del mondo del lavoro c’è un solo aspetto positivo: i raccomandati saranno sempre meno, i veri competenti avranno sempre più possibilità d’inserimento. E nessuno impara davvero un mestiere se non prova inclinazione sincera verso di esso.
Questo primo criterio ne comporta un secondo: non esiste l’indirizzo migliore in assoluto, ma il più adatto a ciascuna personalità.  E’ ovvio che un liceo classico dia una preparazione più ampia e più approfondita rispetto a un liceo artistico: ma questa considerazione ‘oggettiva’ non può prevalere sull’eventuale attitudine ‘soggettiva’ di un ragazzo verso l’estetica né, ancor meno, sull’eventuale indisposizione verso lo studio delle lingue antiche.
Una volta individuato il tipo di scuola (bypassando considerazioni contingenti quali la distanza dalla propria abitazione o il desiderio di non staccarsi dall’amica del cuore) è bene non angustiarsi cercando l’istituto più ‘in’ o, nell’ambito di un istituto, la sezione più ‘gettonata’. Soprattutto da quest’anno e per i prossimi anni le scuole italiane sono soggette a un turn over davvero imprevedibile: dirigenti scolastici e docenti validi si distribuiscono in maniera ‘random’ tra dirigenti scolastici e docenti meno validi e, in più, trasferimenti di sede e passaggi dal ruolo alla quiescenza mutano gli assetti da un anno scolastico al successivo. Se poi un istituto gode di qualche stabilità del corpo insegnante, il dirigente scolastico (se non è inesperto o se non vuole agire con metodi clientelari) distribuirà in ogni sezione  i professori di differente valore in maniera da evitare le sezioni di serie A e le sezioni di serie C.
 Ma – e siamo a un quarto e ultimo criterio – la decisione ultima dev’essere dei genitori o dell’alunno?  Non stiamo riflettendo su bambini di cinque anni (per i quali la domanda sarebbe superflua) né su giovani di diciotto (per i quali dovrebbe essere superflua per motivi opporti), ma di adolescenti di tredici o quattordici anni nei quali, non solo in questo caso, convivono tratti infantili con elementi di maturità. La responsabilità della scelta non può essere affidata totalmente a loro, ma neppure gli può essere totalmente sottratta. Nella  seconda ipotesi avranno ragione di rinfacciare ai genitori, in caso di fallimento, una decisione subita; nella prima, sempre in caso di fallimento, avranno ragione di rinfacciare la solitudine in cui sono stati lasciati. E’, insomma, un’ottima occasione per continuare  - in molte famiglie per iniziare – a confrontarsi tra genitori e figli con serenità, rispetto e delicatezza: esaminando pro e contra senza imposizioni unilaterali né divieti aprioristici, ma in spirito di complicità. Senza dimenticare che dopo il primo o il secondo anno di scuola secondaria si può sempre cambiare indirizzo: meglio ammettere senza tragedie un piccolo errore che condannarsi, per tutta la vita, a un mestiere ereditato in famiglia o abbracciato per esclusione. Nella difficile arte della vita la propria realizzazione lavorativa è certamente il fattore di gran lunga decisivo.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

domenica 24 gennaio 2016

CI VEDIAMO A BERGAMO VENERDI' 29 GENNAIO E/O SABATO 30 GENNAIO 2016 ?

VENERDI' 29  gennaio 2016, alle ore  18, presso "LA CASCINA",
via Ronco Basso 13, Villa d'Almè (BG), incontro pubblico con
Augusto Cavadi (“filosofo-in-pratica” e consulente filosofico) sul tema:

       UNA SPIRITUALITA’  LAICA  E’ POSSIBILE ?

a partire dal suo recente volume

Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità  
    (Diogene Multimedia, Bologna 2015)

La conversazione sarà introdotta da Fabrizio Longo.

Chi volesse prolungare la serata in maniera conviviale può prenotare (entro e non oltre le ore 22 della sera precedente) una sobria cenetta vegetariana (presso l'annesso ristorante) al costo di euro 18,00 a persona (chiamare o inviare un sms 348.7617725).

Se qualcuno fosse interessato ad approfondire la tematica sarà il benvenuto a un incontro amichevole previsto per il giorno dopo, sabato 30 gennaio 2016. L’appuntamento è per le ore 10,30 presso l'Eremo della Pace, Via Monte Grumello 3, San Paolo d'Argon (BG): dapprima si riprenderanno e approfondiranno dei temi riguardanti la spiritualità 'laica', poi verso le 13 si condividerà un pranzetto autogestito (con ciò che ognuno vorrà portare in tavola a disposizione degli altri) e, successivamente, ci si scambierà delle idee operative su possibili iniziative realizzabili nel territorio  bergamasco. Per ulteriori informazioni chiamare Gianfranco Cortinovis al 348.7617725.




giovedì 21 gennaio 2016

IL RITARDO DEL SUD ITALIA SECONDO EMANUELE FELICE


Blog di “Petite Plaisance”
17.1.2016

Perché il Sud non decolla  ?

    Ci sono dei libri che un cittadino italiano mediamente istruito – soprattutto se vive al di sotto del parallelo di Napoli – dovrebbe assolutamente conoscere: Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino, Bologna 2013), di Emanuele Felice, è uno di questi. Ma, dal momento che non tutti hanno il tempo - né soprattutto la voglia – di leggerlo, proverò a sintetizzarlo (senza tacere la speranza che l’aperitivo svegli un po’ di appetito).
  L’autore esamina, opportunamente, le risposte errate (o, per lo meno, esatte solo parzialmente), raggruppandole in due famiglie principali. All’area “accusatoria” appartengono le tesi di chi punta il dito sui meridionali stessi (o perché tarati geneticamente o perché incapaci di cooperazione sociale); all’area “assolutoria” appartengono le tesi di chi attribuisce il ritardo del Sud al Nord sfruttatore o alla svantaggiosa collocazione geografica rispetto alle risorse naturali (energia idraulica) e ai mercati continentali. Lo smontaggio di queste tesi (e il recupero dei frammenti di verità in esse contenuti per proporre una risposta più convincente) occupa i tre capitoli del volume.

NEL 1861 IL SUD BORBONICO STAVA MEGLIO DEL SETTENTRIONE?
  Nel primo capitolo si fa chiarezza sulla situazione di partenza: nei decenni precedenti  all’unificazione italiana il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie avevano imboccato strade diverse, quasi opposte: regime costituzionale e imprenditoria diffusa nel primo, assolutismo monarchico (“la negazione di Dio eretta a sistema di governo” secondo William Gladstone)  e “imprenditori dell’arretratezza” (John Davis) nel secondo. Il divario non è minore, checché ne scrivano gli “storici borboniani”, se si considerano “le infrastrutture di trasporto, finanziarie e sociali che hanno sempre svolto un ruolo fondamentale per attivare la crescita economica”: strade e ferrovie, banche, sistema scolastico e universitario (nella stessa fascia temporale – seconda metà dell’Ottocento – nel regno dei Borboni gli analfabeti erano l’86% della popolazione, laddove nel resto d’Italia – a esclusione di Roma e Veneto – erano il 63%: perfino Spagna col 75% e Russia zarista con il 79%  stavano meglio !). Meno esattamente calcolabile il divario del reddito medio pro capite. Una conclusione plausibile fisserebbe tale divario “tra il 15 e il 25%” a favore del Nord, ben differente dalle stime, più ideologiche che scientifiche, di autori come Pino Aprile nel suo Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali (Piemme, Milano 2010). Se il reddito medio pro capite viene poi confrontato con i livelli di reddito sotto i quali si poteva parlare di povertà totale si hanno dei dati più significativi (e per certi versi più impressionanti): “Al 1861, se nel Centro-Nord  il 37% della popolazione si trovava sotto la linea di povertà assoluta, nel Mezzogiorno tale quota saliva al 52 % (la media italiana era 44). In altri termini, al Sud Italia i poveri erano in percentuale fra un terzo e una metà più numerosi che nel Centro-Nord. Questo vuol dire non solo che nel Mezzogiorno  vi era una quota più alta di indigenti – il che non stupisce, visto che il reddito medio era più basso -, ma anche che tale quota era ben maggiore di quel che ci si aspetterebbe stanti i divari di reddito. Tutto ciò può avere una sola spiegazione: nel Mezzogiorno la disuguaglianza era più alta. Non solo quindi risultava minore il reddito, ma questo si distribuiva in maniera meno equa”. Il divario fra il Centro-Nord e il Sud d’Italia al momento dell’unificazione è confermato da altri indicatori quali la statura (“Al 1861 i centimetri che separavano il Centro-Nord dal Meridione erano 3,2”: 164, 1 cm. contro  160,9, su una media italiana di 162,9), l’aspettativa di vita (circa due anni in meno), il lavoro minorile (che, nel 1861, raggiungeva una media dell’80% al Sud contro il 50% del Centro – Nord). Sinteticamente: “La disuguaglianza si univa alla miseria, dunque, bloccando lo sviluppo: economico, ma anche umano e civile. Come in un cortocircuito, tragico e fatale”.
   Da qui la domanda: “Quali erano le cause di  questo ‘circolo vizioso’ ?” A Giustino Fortunato si deve il binomio “povertà della natura” e “miseria degli uomini”: ma se la prima può aver causato la seconda in alcune regioni (come Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria), per altre regioni (Campania, Puglia e Sicilia) è più convincente l’inverso: è stata “la miseria degli uomini a provocare la povertà della natura”. Già al tempo dei Romani i senatori costruirono i loro latifondi depauperando i piccoli  proprietari spediti a combattere per il mondo. Poi il regime feudale (vigente sino all’inizio del XIX secolo) blindò, con una “disuguaglianza giuridica”, “una diseguaglianza feroce” dei redditi.

DAL 1861 A OGGI IL DIVARIO FRA NORD E SUD E’ DIMINUITO?
   Appurata una discrepanza al momento dell’unificazione italiana, come mai tale gap è rimasto sino ai nostri giorni? Nel secondo capitolo Felice propone la categoria interpretativa della “modernizzazione passiva” ovvero “l’adattamento delle classi dirigenti e della società meridionali a una modernità imposta dall’esterno, in primo luogo dallo stato centrale, che viene accettata solo fintanto che non mette in discussione gli interessi consolidati”. Per misurare i cambiamenti introdotti dalla modernizzazione (intendendo con questo vocabolo il processo avviato, secondo Hobsbawm dalla “duplice rivoluzione” industriale e francese) si usa lo Hdi (Human Development Index o Indice dello sviluppo umano), una misura che include tre fattori: “risorse, conoscenza e longevità”. La scelta della modernizzazione “passiva” è solitamente effetto di politiche “estrattive” (Acemoglu e Robinson), cioè tese a “estrarre reddito e ricchezza da una parte larga della società, a beneficio di una frazione privilegiata”: all’opposto, insomma, delle politiche “inclusive” che, invece, “tendono a favorire la partecipazione dei cittadini, comprese le classi subalterne”, tutelando ”i diritti di proprietà” nel contesto, più ampio, di “un sistema di legalità efficiente e uguale per tutti” e garantendo “servizi pubblici essenziali che ambiscono a porre tutti i cittadini su uno stesso livello di partenza”. Nel Meridione italiano un esempio tipico di modernizzazione allogena, e dunque condannata a restare incompleta, è stato l’intervento della Cassa per il Mezzogiorno, in virtù della quale – effettivamente – fra gli anni dal 1957  al 1973 il divario fra Sud e Nord d’Italia si accorciò notevolmente. Ma, poiché “la crescita basata sulla modernizzazione passiva appariva un corpo estraneo rispetto all’economia e alla società meridionali”, bastò la crisi petrolifera del 1973 per bloccarla. Nel ventennio successivo si assistette così alla “lunga agonia dell’intervento straordinario” (Cafiero), complice anche una politica clientelare che indirizzava i flussi di denaro pubblico “in misura crescente verso impieghi improduttivi”. I risultati furono (e sono ) disastrosi: uno  “sviluppo senza autonomia” (Trigilia), quando non un generoso finanziamento a favore della criminalità organizzata. Né la situazione è migliorata, dopo Tangentopoli, con la Seconda Repubblica: la cosiddetta “nuova programmazione” (2000- 2006) non ha dato frutti come non li ha dati il sistema di contributi dell’Unione Europea dal momento che le regioni del Mezzogiorno hanno dimostrato, sino ai nostri giorni, “una sconfortante incapacità perfino di utilizzare i finanziamenti comunitari, cioè di spendere le somme formalmente già stanziate”.
  Il quadro non è più confortante se si passa dal piano dell’economia al piano dell’istruzione. Sino al 1911 il divario fra Nord e Sud era notevole perché la gestione delle scuole era affidata ai Comuni, ma quell’anno la legge Daneo-Credaro spostò la competenza (e i relativi costi) dagli enti locali allo Stato: l’operazione comportò il superamento del gap “non perché le istituzioni locali fossero diventate consapevoli delle loro responsabilità, ma perché ne erano state sollevate”. Poiché una “modernizzazione passiva” resta fragile e lacunosa, il divario fra Settentrione e Meridione è rimasto – anzi si è acuito – nell’età repubblicana per tutti quegli altri indicatori che “definiscono l’accesso alla cultura , ma dove le classi dirigenti locali hanno mantenuto un ruolo decisivo: il numero di biblioteche per abitante, di teatri in attività, più tardi anche di cinema, ma soprattutto i libri pubblicati e i giornali stampati in rapporto alla popolazione”. Anche all’interno del sistema scolastico si registra in tempi a noi più vicini una differenza per così dire qualitativa: “un anno di istruzione non ha lo stesso valore al Sud come al Nord: a parità di tempo trascorso sui banchi di scuola, al Sud si impara di meno”.  
    Più consolante la situazione dal punto di vista della salute (in particolare dell’aspettativa di vita): tra il 1891 e il 1981, debellate le malattie infantili e infettive (vaiolo, malaria, colera), il Sud non solo raggiunge i livelli del Nord, ma (per via di vari fattori, fra cui la dieta mediterranea e il minor tasso di inquinamento industriale) li supera. Poiché, però, a partire dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978), è aumentato progressivamente il ruolo delle regioni (finanziatrici della aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere) si è di nuovo aperta una forbice fra il Settentrione (dove le amministrazioni locali sembrano più virtuose) e il Meridione (dove “le istituzioni politiche estrattive hanno usato il loro nuovo potere per distribuire fondi e favori alle rispettive fazioni, seguendo logiche clientelari e nepotistiche”), al punto che “anche riguardo all’aspettativa di vita negli ultimi decenni il Mezzogiorno ha ricominciato a perdere posizioni”.
    Purtroppo la distanza fra Nord e Sud non muta neppure se si considera la condizione delle donne e degli omosessuali: indagini sociologiche e statistiche abbastanza attendibili mostrano come “ancora oggi un cittadino meridionale sia meno libero di vivere la vita che vorrebbe  - si badi bene: secondo quelli che sono i canoni della modernità – rispetto a un cittadino del Centro – Nord”.
    L’insieme delle risultanze acquisite consente di affrontare una questione emblematica: “perché nell’arco della storia postunitaria le mafie non sono state debellate?” Si possono aggregare alcuni spezzoni di risposta. Il fenomeno mafioso “costituisce un aspetto interno alla costruzione dello Stato nazionale italiano, non un semplice fenomeno di banditismo sociale o di pura criminalità” (Bevilacqua). Inoltre esso è abile nel raccogliere il consenso sociale da vari strati sociali, privilegiando il rapporto organico con i ceti dirigenti. E ciò nonostante i gravi danni che comporta, nel lungo periodo, per l’economia delle regioni interessate. Tra queste (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) e le regioni del Nord il  “divario  sembra attenuarsi negli ultimi decenni. Ma non perché il Mezzogiorno sia riuscito a riscattarsi. Piuttosto, perché i suoi mali si sono estesi al resto del paese: sia alle istituzioni nazionali, sia a quelle locali del Centro-Nord, ivi compresi i territori tradizionalmente più avanzati (si veda il caso della Lombardia). Insomma, di male in peggio”.

PERCHE’ IL SUD E’ RIMASTO SINO A OGGI INDIETRO RISPETTO AL NORD ?
    Tirando le fila dei primi due capitoli Felice può infine dedicare il terzo – e ultimo – alla domanda che dà il titolo all’intero volume: “Perché il Sud è rimasto indietro?”. La risposta lombrosiana, con le sue più recenti riedizioni, non regge alle obiezioni storiche e scientifiche: le popolazioni meridionali non costituiscono  una “razza maledetta”, biologicamente e mentalmente inferiore ad altre, anche perché la nozione di “razza” è ingiustificabile. Più plausibili le risposte di chi analizza i fattori etici, sulla scia di Weber, anche se questi vanno strettamente collegati con i fattori politici: il “capitale sociale” di una popolazione può migliorare e quando ciò non avviene, o avviene in misura deludente come nel Mezzogiorno italiano, bisogna attribuire il ritardo alla “struttura di potere” e ai “deprecabili effetti che da tale struttura promanano” (“l’etica particolaristica, le pratiche clientelari, il peso delle organizzazioni criminali”). A Felice non risultano del tutto convincenti le risposte basate sulla posizione geografica del Sud: “nella nostra epoca sempre più sono gli uomini che fanno il proprio destino. La geografia può rappresentare al massimo un’opportunità, che oltretutto bisogna saper cogliere”. Neppure una quarta risposta  - il Sud sfruttato dal Nord – convince l’autore: a suo avviso i dati testimoniano che lo Stato italiano ha spesso investito nel Sud più di quanto vi ha prelevato e che, “ai nostri giorni, le spese dello stato tanto per la sanità , quanto per l’istruzione, sono in rapporto al reddito (e alla contribuzione) maggiori al Sud che al Nord; e sono maggiori le spese totali dello stato per abitante, in tutte le regioni del Sud, di norma di 20 – 30 punti  percentuali sulla media italiana”.
  I meridionali sono stati sì sfruttati, ma non dai settentrionali, bensì “dalle loro stesse classi dirigenti”. E “specie negli ultimi decenni gli sfruttati furono essi stessi complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare”.

LE DUE STRADE CHE IL MERIDIONE ITALIANO SI TROVA DAVANTI
     Al punto in cui siamo, il Sud dell’Italia ha davanti due vie. La prima, più comoda ma più disastrosa, è  di “proseguire lungo lo stesso cammino che è stato percorso negli ultimi quarant’anni: senza cambiare nulla, attendere una manna che si fa sempre più rada; nel frattempo continuare a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli indicatori della modernità, rispetto agli altri paesi avanzati. E’ la prospettiva più probabile, ma non obbligata”. Vi è infatti una direzione alternativa (“più difficile, ma non impossibile”), la strada del “riscatto”: “rifondare la vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando in questo modo un autonomo processo di modernizzazione attiva; una modernizzazione che forse aiuterebbe l’Italia tutta a uscire dalle secche in cui è finita” .
   A giudizio dell’autore un elemento fuorviante, che potrebbe distogliere dall’imboccare la direzione del “riscatto”, sarebbe costituito dall’idea “secondo cui nel Sud Italia tutto sommato si viva bene; o meglio, che la mancata modernizzazione sia una condizione naturale del Mezzogiorno, cui guardare con indulgenza”. Felice individua due padri nobili di questa risposta (Camus e Pasolini), ma li assolve attribuendo a epigoni come Franco Cassano (più o meno in sintonia con le teorie generali di Serge Latouche) la responsabilità di renderla “mistificatoria”. Qui si dovrebbe aprire una discussione che renderebbe davvero troppo lungo questo sunto del libro di Felice: mi accontento di segnalare il dubbio che l’autore identifichi modernizzazione con industrializzazione e ritenga nemici della prima quanti sono avversari, soltanto, della seconda.
Augusto Cavadi

Augusto Cavadi – Perché il Sud non decolla?



  
  
 



giovedì 14 gennaio 2016

CI VEDIAMO LUNEDI' 18 GENNAIO 2016 A BOLOGNA ?

Lunedì 18 gennaio alle ore 20:15, a Bologna, presso il Refettorio Chiesa dell'Annunziata via S. Mamolo 2, una cenetta autogestita dai partecipanti sul tema del mio libro Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, Bologna 2015). 
Interventi programmati di Anna Maria Rais, Fabrizio Mandreoli, Angela Chiaino.




SERATA SPECIALE DI FILOSOFIA
'TEORIE E PRATICHE DELLA CONVIVIALITÀ'
Refettorio della Chiesa dell'Annunziata, via San Mamolo 2 Bologna
Lunedi 18 gennaio 2016, ore 20.15
Presentazione del libro Augusto Cavadi
Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità. Diogene Multimedia (Bologna 2015)
Augusto Cavadi (Palermo, 1950) Vive e opera a Palermo dove svolge sia attività professionale (docente di filosofia, storia ed educazione civica nei licei;
pubblicista per “Repubblica- Palermo”; filosofo consulente per singoli e gruppi) sia attività di volontariato culturale.
L'attività di volontariato culturale la realizza, principalmente, tramite la Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ da lui fondata nel 1992 per offrire - ai cittadini interessati ad impegnarsi contro la mafia e per la partecipazione democratica - delle occasioni di maturazione intellettuale e morale.
Ha sintetizzato:
* le sue
idee filosofiche in tre testi: E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze (Di Girolamo, Trapani 2008), Filosofia di strada. Il filosofare-in-pratica e le sue pratiche (Di Girolamo, Trapani 2010) e Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, Bologna 2015)
* le sue idee teologiche in tre testi: In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani (Falzea, Reggio Calabria 2008); Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Milano 2009);Il Dio dei leghisti (San Paolo, Milano 2011)
* le sue
idee politiche in due testi: Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee (Cittadella, Assisi 2000); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, Trapani 2012)
* le sue idee pedagogiche in un testo: Strappare una generazione alla mafia. Per una pedagogia alternativa (Di Girolamo, Trapani 2007)
* le sue idee sul
sistema mafioso e le strategie di opposizione critica ad esso in due testi: Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito (Dehoniane, Bologna 2001); La mafia spiegata ai turisti (Di Girolamo, Trapani 2008 e ss.: presso lo stesso editore sono disponibili le traduzioni in lingua spagnola, francese, inglese, tedesca, russa, giapponese, svedese, esperanto).
Che cosa
babel tribu propone i seminari di antropologia conviviale, serate di incontro, in un'atmosfera conviviale, su temi di interesse antropologico in senso lato.
Dove
Dopo 5 anni di convivialità domestica, babel tribu ha trovato ospitalità nel refettorio della Parrocchia dell'Annunziata a Porta (via) San Mamolo n.2.
Quando
Gli incontri avranno cadenza quindicinale/mensile, prevalentemente nella serata del lunedì.
Come
Gli incontri avranno inizio alle 20 e 15 condividendo cibi e bevande portati dai partecipanti. Dalle 21 alle 22 ci saranno gli interventi programmati di presentazione del tema della serata. Dalle 22 alle 23 interventi liberi dei partecipanti sul tema della serata.
Convivialità condivisa
I partecipanti sono invitati a portare cibi (preferendo quelli confezionati e a lunga conservazione) e bevande (preferendo quelle analcoliche). Alimenti e bevande in eccesso rispetto al consumo nella serata saranno donati a persone in difficoltà economica.
Indicazioni stradali
Gli incontri avverranno nel refettorio della Parrocchia dell'Annunziata a Via San Mamolo n.2
La sede degli incontri è raggiungibile con la circolare n.33 dei viali di circonvallazione e dall'autobus n. 29 (sino alle 20 e 30 anche con la circolare n.32).
E' VIETATO PARCHEGGIARE NEL PIAZZALE ESTERNO ALLA CHIESA. LE AUTO SONO SOGGETTE A RIMOZIONE!!!!!
E' possibile parcheggiare un numero ridotto di auto nel cortile interno, dando la precedenza alle auto che trasportano persone a ridotta capacità motoria e alle auto di supporto alla logistica.
 

martedì 12 gennaio 2016

Se l’amore è folle, eterno e impossibile


“Centonove” 7.1.2016

COME DIFENDERSI DALL’AMORE ETERNO
Giuseppe Ferraro insegna filosofia morale alla “Federico II” di Napoli, ma è tra quei docenti che – pur operando con convinzione all’interno delle istituzioni – non intende restarne prigioniero. Egli vuole mettere alla prova la filosofia offrendola nei luoghi “estremi” come i quartieri popolari della sua Napoli o le strutture carcerarie. Il titolo del suo sito – www.filosofiafuorilemura.it - dice già da solo l’essenziale: curiosandovi dentro si può apprendere tanto altro.
In molti testi ha raccontato le sue incursioni filosofiche in territori apparentemente inospitali rispetto a qualsiasi sollecitazione filosofica, ma recentemente ha pubblicato un libro  (Imparare ad amare , Castelvecchi, Roma 2015, pp. 188, euro 17,50)  in cui le esperienze personali di filosofo-in-pratica restano sullo sfondo per dare rilievo alla focalizzazione teoretica di quel sentimento, l’amore appunto, che è evocato dal nome stesso filo-sofia.  Il titolo potrebbe dare adito a equivoci, come se si trattasse di un manuale del perfetto latin lover: in realtà è una citazione di Nietzsche, a giudizio del quale è doveroso – inevitabile – che ci facciamo discepoli dell’arte di amare.
Ma quale amore è in questione? Ferrara lo raffigura con pennellate volutamente paradossali: “folle, eterno, impossibile”. “Folle” nel senso che è oltre qualsiasi “ragione” calcolante; “eterno” nel senso che, quando lo si vive, si esce dalla dimensione temporale (“l’amore vero non finisce. E se finisce, non è mai stato vero”); “impossibile” nel senso che non si accontenta di ciò che è ‘normalmente’ praticabile ma si espone a realizzare l’imprevedibile, l’inedito.
 Così concepito, l’amore è  “il” tema della filosofia perché coincide con l’interrogativo sul “vivere”: chi non ama, mima la vita e non la sperimenta davvero nella sua pregnanza. Per questo anche la storia della letteratura si lascia scandire dai modelli di amore che si succedono: Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta, Anna Karenina, la Catherine di Cime tempestose, La principessa di Clèves di madame La Fayette, la Fermina de L’amore al tempo del colera, Federico e Madame Arnoux de L’educazione sentimentale…In queste pagine l’analisi dei testi si intreccia con la critica sociale: nessuno ama fuori dai condizionamenti ambientali in cui si trova a vivere, ma gli amori trasgressivi spezzano le pareti imposte dalla società e anticipano, profeticamente, altri stili amorosi. In questo senso  - anche in questo senso –  l’amore è politicamente rilevante: è “l’intima utopia del mondo della vita”.
Ovviamente non potevano mancare le pagine dedicate alle teorie filosofiche dell’amore (Platone in primis) , ma sono presenti anche molte considerazioni dedicate a Freud e alla psicanalisi: tutte senza pedanteria erudita, tutte rivolte a decifrare il difficile segreto dell’esistere. E’ infatti un libro scritto come se parlato, quasi una ripresa della pratica greca (su cui ha attratto l’attenzione degli storici il grande Pierre Hadot) di usare i testi come appunti provvisori fra un colloquio orale e il successivo. Ed è molto vicino alla Grecia antica anche per il coraggio di affrontare quelle domande esistenziali da cui molti filosofi contemporanei  - specie se sono soltanto ottimi, o discreti,  professori di storia delle filosofie altrui –  prendono le distanze, quasi con vergogna. Ma se la filosofia snoba gli interrogativi che angustiano le donne e gli uomini che non sono filosofi di mestiere, perché stupirsi che le donne e gli uomini della strada vogliano restare estranei al mondo dei filosofi?
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

sabato 9 gennaio 2016

"MOSAICI DI SAGGEZZE": IL COMMENTO (E LE CRITICHE) DI ALBERTO G. BIUSO

www.disciplinefilosofiche.it 
(1.1.2016)



Recensione a: Augusto Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna, 2015, pp. 357. (Alberto Giovanni Biuso)

 L’obiettivo di questo libro, ampio nel respiro e ricchissimo di citazioni, consiste nel «recuperare gli elementi costitutivi di una spiritualità filosofica. Nella convinzione che essa abbia qualcosa da offrire a chi non si riconosca – o in tutto o in parte – nelle proposte spirituali di origine confessionale né di matrice sapienziale orientale né di impianto psicologico né di stampo New Age» (p. 49). L’Autore è convinto che negli anni Dieci del XXI secolo sia maturo il tempo per risvegliare una spiritualità esplicitamente filosofica, che si ponga in relazione con le forme di spiritualità cristiana, orientale e psicologica senza però confondersi in nessun modo con esse. Ma che cosa si intende qui con il termine spiritualità? «Saggezza, trasformazione di sé, attività pratica» (p. 114) e poi «convinzione, passione, amor, slancio, ricerca. Di cosa? Di luce, quiete interiore, saggezza. I Greci direbbero che è questione di filia nei confronti della sofia. Di filosofia, appunto» (p. 294).
Tra i numerosi argomenti  – anche di natura operativa – affrontati dal libro, mi sembrano di particolare rilevanza l’ontologia, la morte, il tempo.
Uno dei fondamenti dell’attività filosofica, comunque la si declini, consiste infatti nell’indagine su «ciò che è in quanto è» (p. 146), sulla realtà e sulla verità degli enti, degli eventi e dei processi. Di tale realtà è parte costitutiva la fine di tutto ciò che ha avuto un inizio, in particolare la fine dei viventi, che è inscritta nel fatto stesso di essere nati: «Come ripeteva sant’Agostino, l’uomo nasce e di questo, essenzialmente, muore (incidenti, guerre, malattie sono occasioni secondarie)» (p. 260). Ne segue che una delle espressioni più chiare e radicali della saggezza filosofica consiste nell’accettare il proprio invecchiamento e soprattutto nel «rinunziare all’impresa […] di accrescere quantitativamente il tempo a propria disposizione per dedicarsi, invece, a intensificarlo qualitativamente» (p. 181). In questo modo si potrà affrontare  – come suggerisce Edgar Morin – il buio e l’incertezza dell’esistere senza tuttavia cedere alla disperazione, cercando piuttosto «di imparare la lezione del nichilismo come antidoto al delirio dell’onniscienza antropocentrica» (p. 143).
Costruito su una molteplicità di fonti e prospettive – in particolare sugli Esercizi spirituali e su altre opere di Pierre Hadot – c’è tuttavia in questo progetto qualcosa che lascia perplessi. La centralità continuamente ribadita del fattore biografico nella valutazione di una filosofia è infatti un evidente errore. I filosofi hanno ciascuno i propri lati oscuri, le loro miserie, esattamente come tutti gli altri esseri umani. Il significato della loro opera non può consistere nel rimuovere questo limite, e neppure nel comportarsi in modo sempre coerente con le proprie concezioni su una molteplicità di ambiti, ma sta nella capacità di elaborare con analiticità e rigore tali concezioni, affinché l’orizzonte di vita e di conoscenza di chi le incontra ne venga ampliato e fecondato. Lo stesso Cavadi ricorda giustamente che «per esprimere questa dimensione gratuita e disinteressata dell’attività filosofica i Greci avevano a disposizione un aggettivo specifico: “teoretico”» (p. 17). È significativo che il capitolo concettualmente più interessante del libro sia quello dal titolo “quando la filosofia era anche una spiritualità” poiché in esso, sempre sulla scorta di Hadot, si mostra (in particolare alle pp. 65-67), che la filosofia, in quanto tale, è il culmine di ogni spiritualità, qualunque concetto e pratica si intenda con tale parola.
La filosofia di per sé, se svolge il proprio ruolo con il necessario rigore teoretico e non con cangianti e impressionistici tratti esistenziali, con elevazioni spirituali, con soluzioni di angosce psichiche o con proposte di miglioramenti del mondo, è il tentativo di una riflessione scientifica che indaghi la realtà delle cose. Ha ragione Heidegger quando – nella sua magistrale analisi del Sofista platonico – individua uno dei più consistenti danni prodotti dal cristianesimo sulla filosofia greca nel fatto che da tale influsso «l’idea della ricerca fu completamente offuscata da generiche tendenze spirituali e l’idea della filosofia subì l’egemonia di esigenze culturali ben precise, fino a diventare una creazione che soddisfa in senso eccellente tali esigenze e che può a buon diritto essere chiamata “filosofia profetica”. […] Di questo fenomeno di decadenza della filosofia  – altri vi scorgono un progresso – è fondamentalmente responsabile il cristianesimo e ciò non deve sorprendere, dal momento che la filosofia è stata associata con il bisogno di elevazione dell’anima». Heidegger tuttavia supera i limiti della cristianità e ci avverte di un fondamentale e ulteriore problema: «L’altra faccia di tale stanchezza del domandare e di tale esaurimento della passione per il conoscere è nel contempo la tendenza a pretendere dalla filosofia o addirittura dalla scienza qualcosa come un appiglio, a cercare sostegno in essa per l’esistenza spirituale, oppure a congedarla qualora essa non lo conceda. Questa tendenza a cercare rifugio rappresenta un fraintendimento fondamentale dell’indagine filosofica» (M. Heidegger, Il «Sofista» di Platone, [Platon Sophistes (1925), Vittorio Klostermann, 1992]; trad. di A. Cariolato, E. Fongaro e N. Curcio, Adelphi 2013, § 39, pp. 281-284).
Un autentico lavoro filosofico è già esistenza filosofica; non ha bisogno di rinviare ad altre forme della comprensione del mondo e dell’abitare in esso. La filosofia può e deve confrontarsi con ogni altra espressione del bisogno umano di significato, permanendo sempre però nella sua identità di coglimento concettuale della vita. È dalla radicalità di tale comprensione che può scaturire la padronanza dell’esistenza. Si può dire infatti che filosofia è guardare la Medusa e far sì che sia lei a pietrificarsi.

http://www.disciplinefilosofiche.it/recensioni/32-recensione-a-augusto-cavadi-mosaici-di-saggezze-filosofia-come-nuova-antichissima-spiritualita-diogene-multimedia-bologna-2015-pp-357-alberto-g-biuso/

mercoledì 6 gennaio 2016

DAL RICONOSCIMENTO DELLE UNIONI CIVILI, LIBERA NOS DOMINE !


6.1.2016

DALLA LEGGE CIRINNA’  LIBERA NOS, DOMINE !

    Anch’io ho ricevuto, come chi sa quante centinaia di navigatori in rete, l’invito a “Un’ora di guardia”. In un primo momento sono rimasto perplesso: in difesa di cosa, e a fronte di quale minaccia, mi si chiede di dedicare un’ora? E come potrei esercitare questa vigilanza armata? E’ bastato scorrere un po’ il messaggio per ricevere l’illuminazione: mi si chiedeva di dedicare un’ora di “guardia”  - usando “l’arma” della preghiera alla Madonna e a tutti i santi  - per chiedere alle forze celesti di evitare l’approvazione della legge Cirinnà che sarà presentata in Senato il 26 gennaio.
   A questo punto mi è venuta la curiosità di andare a  capire di cosa  tratti questa legge che, secondo l’appello ricevuto, riguarderebbe non una mera questione politica, ma addirittura “la lotta eterna fra il Bene e il Male”. Scopro così che, a parere di esperti come Stefano Rodotà, è un timido e incompleto tentativo (imposto dall’Unione europea) di adeguare la legislazione italiana agli standard del mondo civile in fatto di convivenze, in generale, e tra persone dello stesso sesso  in particolare. Ciò che viene maggiormente criticata è la cosiddetta stepchild adoption, ossia l'adozione del bambino che vive in una coppia dello stesso sesso, ma che è figlio biologico di uno solo dei due.
    Si capisce bene perché, come ogni  proposta di legge, anche questa ovviamente possa essere valutata da angolazioni opposte con argomenti etici, giuridici e di buon senso. Si capisce molto meno  - da parte di cittadini laici e anche di numerosi cattolici democratici – perché questa discussione debba essere appesantita da riferimenti teologici e trasformata in guerra di religione. Solo un’ignoranza notevole può infatti supporre, e lasciar intendere, che dai tempi di Gesù a oggi il cristianesimo abbia conosciuto un unico modello di matrimonio e di famiglia: basti pensare che, per i primi mille anni della storia cristiana, i fedeli vivevano il matrimonio non come “sacramento” istituito dal Cristo ma secondo i riti e le norme del gruppo etnico di appartenenza (ebraico, greco, romano, barbaro e così via). E’ solo con la Scolastica dei primi secoli del secondo millennio che le chiese romano-cattolica e greco-ortodossa teorizzano il vincolo matrimoniale, pur con differenze fra esse stesse (gli ortodossi ammettono un secondo matrimonio dopo l’eventuale fallimento del primo), nei termini attuali (per altro radicalmente contestati, poco dopo, dalla riforma protestante e dallo scisma anglicano).
    L’insistenza con cui alcune frange retrograde del mondo cattolico ritornano sulla paradigmaticità della “sacra famiglia” ha, poi,  qualcosa di umoristicamente paradossale. Anni fa lo fece notare, nel corso di un’omelia, il noto teologo italiano Giampeiro Bof: “Secondo la dogmatica ecclesiale Giuseppe non era un vero padre, Maria non era una vera moglie e Gesù non era un figlio naturale. Infatti Giuseppe era un padre solo ‘putativo’, cioè supposto tale; Maria era una moglie ‘ufficiale’ che, però,  non conviveva col marito more uxorio; Gesù stesso è stato concepito con modalità differenti dal rapporto sessuale ‘ordinario’  ”: modalità che, in linguaggio medico, si direbbero ‘eterologhe’ ”. Con tali riferimenti esemplari – che superano le fantasie più ardite – ci si aspetterebbe che i cattolici, se proprio volessero scomodare l’immaginario teologico, fossero i più predisposti a comprendere che l’amore, come la vita, ha mille volti. E tutti, come le molteplici sfaccettature dell’unico poliedro, rifrangono qualcosa  del mistero ineffabile della Sorgente divina.

Augusto Cavadi
(Socio dell’Associazione Teologica Italiana)

http://www.nientedipersonale.com/2016/01/06/dalla-legge-cirinna-libera-nos-domine/

martedì 5 gennaio 2016

LA CRISI ECONOMICA SECONDO FILIPPO DI FORTI


“Repubblica – Palermo”
3.1.2016

LA CRISI NON E’ SOLO ECONOMICA

Filippo Di Forti è stato tra i pionieri della psicoanalisi a Palermo: radicato in una solida formazione filosofica, spesso e volentieri si è affacciato dalla porta del suo studio per analizzare anche i fenomeni sociali (a cominciare dalla mentalità dei mafiosi). In Cos’è questa crisi. Riflessioni di uno psicoterapeuta fenomenologo (Solfanelli, Chieti 2015, pp. 160, euro 13,00)  egli affronta la situazione storica che stiamo attraversando da una prospettiva caratterizzata da un pregio che ne costituisce, al tempo stesso, il limite. Il pregio è di sottolineare la poliedricità della crisi che è economica e sociale, ma anche politica, culturale ed etica. Nel tentativo di mettere a fuoco tutti questi aspetti, l’autore corre il rischio della frammentarietà dell’impianto e di una certa superficialità nelle analisi settoriali. Questi limiti non azzerano comunque il merito principale del volume: “rilanciare la lettura che Enzo Paci proponeva di Husserl con parole semplici da comunicare anche ai non addetti ai lavori”, dunque l’urgenza di ripensare le scienze e le tecniche alla luce della centralità del soggetto umano rispetto ai suoi prodotti. Per evitare – secondo l’espressione di Ferrarotti ripresa da Di Forti – di ridurci “a un popolo d’ informatissimi idioti che sanno tutto e non capiscono nulla”.

Augusto Cavadi

sabato 2 gennaio 2016

OMOSESSUALI E GENITORI ? UNO SCAMBIO DI OPINIONI RAGIONATE


Considerazioni inattuali sulla genitorialità omosessuale 


Vorrei chiudere un anno piuttosto triste per la riflessione politica e sociale con alcune osservazioni su un tema piuttosto dibattuto e sul quale anche le istituzioni si apprestano a darsi delle regole. E’ probabile che non tutti apprezzino quanto dirò. Ben vengano le osservazioni critiche, a patto che non siano solo anatemi o mere dichiarazioni di diversa opinione prive di ragioni a sostegno: di partiti contrapposti ce ne sono anche troppi, è l’ora che il conflitto si spinga fino alla comprensione delle strutture che sostengono le opinioni.

Diversamente da molti cattolici conservatori, ritengo che chiunque sia sentimentalmente legato a un’altra persona e voglia condividere con lei la propria vita abbia il diritto di vedere riconosciuta la propria unione dalle istituzioni dello stato in cui vive, con pari dignità e diritti di cittadinanza, a prescindere dalla nazionalità, dalla razza, dal ceto e anche dal sesso dei membri della coppia.

Sempre diversamente da molti cattolici conservatori, ma anche da alcuni psicologi senza cognizioni critico-epistemologiche, non ritengo per niente necessario che “ogni figlio debba avere un padre e una madre”: sono cioè certo che un bambino possa crescere con le cure solo di una madre, o solo di un padre, o anche solo di uno zio o di un gruppo di affezionati assistenti non congiunti, in assenza di padre e madre. La riuscita o meno dipende da condizioni socioculturali che oggi rendono forse un po’ più difficile la crescita “extra-familiare”, come sempre avviene nei cambiamenti della cultura umana, ma certo non impossibile.

Tuttavia, diversamente da molti sedicenti progressisti, non ritengo neppure che la genitorialità sia un diritto universale di cui dovrebbe godere qualunque coppia sentimentalmente legata, anzi, mi appare molto chiaro come in alcuni casi una tale pretesa sia del tutto priva di senso. Tra quei casi ci sono appunto quelli delle coppie omosessuali.

Con qualche inevitabile semplificazione assertiva, cercherò di spiegare perché.

La ragione concreta per cui nel mondo umano esistono le coppie è che esse generano figli e che questi, diversamente dalla maggior parte dei “cuccioli” di altri esseri viventi, impiegano un tempo lunghissimo per diventare autonomi: ciò ha reso necessaria una “stabilizzazione” della coppia, “stabilizzazione” che, nel corso dei millenni di cultura umana, ha prodotto fenomeni spirituali quali il sentimento e l’amore di coppia. Senza la lunga gestazione dei figli, un legame stabile di coppia forse non sarebbe neppure mai nato, o comunque non sarebbe oggi egemone, perché si basa su un progetto esistenziale comune – crescere i propri figli – terminato il quale almeno fino a non molto tempo fa ci si ritrovava o ormai legati quanto bastava per non desiderare di cambiare partner, oppure stanchi e anziani quanto bastava per non poterlo fare neanche desiderandolo.

Questo significa che la coppia stessa esiste come fenomeno umano solo perché “funzione” dei figli.

È tuttavia vero che in tempi recenti le cose sono repentinamente cambiate. Da almeno cinquant’anni, nelle società materialmente più avvantaggiate, è del tutto possibile per un genitore crescere figli senza il supporto dell’altro genitore e – soprattutto – già da oltre un secolo non mancano coppie formatesi sulla base di progetti diversi dalla procreazione: coppie di scienziati,  artisti, animatori sociali e politici, professionisti, che si scelgono e si amano con il progetto condiviso di affermare “valori” e realizzare “cose”, assieme, nel mondo, e non di fare figli.

Tuttaciò non toglie però il fatto che la coppia, in quanto tale, poggi ineludibilmente su un progetto comune. Quel che cambia, con la modernità, è che si apre la possibilità di mantenere i contenuti spirituali della coppia (sentimento, legame, amore) poggiandoli però su una base materiale diversa: non più “crescere figli”, ma “fare cose importanti per i figli degli altri” (e anche per i padri e le madri). Perché il progetto esistenziale su cui poggia la coppia è poi la ragione nascosta a seguito della quale ci si innamora “di quella” persona, tra le mille che incontriamo: perché proprio lei ci appare la più adatta per realizzate assieme il nostro progetto di vita. Che questo di solito non ci sia pienamente consapevole ma passi solo attraverso la sfera del sentimento non cambia la sostanza del discorso.

È vero che, qualche volta, ci si sbaglia: il perfetto genitore dei nostri figli, o il fantastico partner per il nostro progetto di vita da scienziati, risulta a posteriori inaffidabile, inadeguato, perfino indecente. Ma questo fa parte del gioco umano: non abbiamo la sfera di cristallo, mai.

Ed è vero anche che, qualche volta, le cose vanno storte: il partner ideale per la nostra esistenza artistica diventa lentamente ma inesorabilmente cieco e non può più supportarci, oppure il genitore ideale dei nostri figli scopre di essere sterile. Qui siamo di fronte a deficit imprevisti e imprevedibili, a malattie che si manifestano, o si scoprono, quanto ormai è tardi. Talvolta arrivano a causare la fine del sentimento e della coppia stessa, altre volte le fanno rivedere progetti, più spesso fanno assumere la consapevolezza della patologia e spingono a provare a curarla.

L’ultima situazione, però, è completamente priva di senso nel caso di una coppia omosessuale, che non è malata, bensì diversa: la sua diversità consiste proprio nel non essere una coppia procreatrice, di non esserlo fin dall’inizio, mancandole – di principio e non per accidente – le caratteristiche necessarie. Il sentimento che lega una tale coppia, perciò, o è semplicemente distorto (frutto cioè  dell’errore umano elencato prima, che ci fa vedere il partner giusto laddove invece oggettivamente non lo è), oppure non può che scaturire da tutt’altro progetto, così come da altro scaturisce quello che lega coppie di artisti, scienziati e via dicendo.

Detto diversamente: se uno dei due membri di una coppia omosessuale prova un sentimento genitoriale ha semplicemente sbagliato partner: deve cercarne uno dell’altro sesso, uno cioè adatto a realizzare il progetto procreativo. E, forse, deve anche interrogarsi sulla sua omosessualità, per capire se sia vera, cosa la sostanzi.

Ciò significa che rincorrere la genitorialità ha, per una coppia omosessuale, tutta una serie conseguenze nefaste:

  • fa perdere la consapevolezza della diversità della coppia rispetto a quelle eterosessuali, spingendola a scimmiottarle invece che a realizzarsi in modo originale e congruo;
  • fa perdere anche senso e ragioni del sentimento che la lega assieme;
  • rende la coppia dipendente e al tempo stesso sfruttatrice (spesso con scambio economico mercantile) di terzi, i fornitori del “servizio” procreativo;
  • la rende perciò anche parassitaria delle esistenti situazioni di degrado (bimbi abbandonati, povertà o assenza di scrupoli emotivi di chi “vende” il servizio, ovvero il proprio figlio, ecc.), invece che farne un agente del loro superamento;
  • torna a dare una parvenza di legittimità alla categoria della patologia per l’omosessualità, perché solo quella categoria permette di riconoscere bisogno ineludibile una cosa irrealizzabile di principio.

Dovrebbero essere le coppie omosessuali stesse, pertanto, a opporsi a chi si batte per un presunto loro diritto alla genitorialità, perché ne va della dignità della loro diversità. E personalmente ne conosco diverse che si oppongono, ma evidentemente non sono abbastanza, visto che il tema viene portato avanti rivendicativamente a livello anche politico e che a breve il nostro Parlamento potrebbe votare una legge che, in buona sostanza, istituzionalizza questo non senso. Ovviamente – com’è normale nella nostra ridicola realtà politica – senza una discussione che meriti di essere chiamata tale ma solo avanzando a spallate tra partiti contrapposti.

Personalmente, da frequentatore di omosessuali fin dall’adolescenza e da critico della famiglia – origine delle più profonde e sofferte problematiche esistenziali che l’uomo porta con sé, oltre che luogo ove avvengono il maggior numero di violenze – è proprio da “coppie diverse” che mi attendo una spinta e una lungimiranza per superarla. Sentire anche da loro riprendere, per giunta in modo incongruo, il tema del “diritto alla genitorialità” è profondamente sconsolante.

Neri Pollastri (sul suo blog www.filosopolis.wordpress.com)



Perché non sono d’accordo

Neri caro, per brevità non riprendo i molti punti su cui concordo con te e vado dritto al punto di dissenso: per me sarebbe bene che uno Stato democratico prevedesse anche per gli omosessuali la possibilità di diventare genitori. Conosco le ragioni contrarie alla mia opinione (tra l’altro il quotidiano “La Sicilia”, anni fa, contrappose in una stessa pagina le interviste a Rosario Crocetta, attuale presidente della Regione – gay e contrario – e a me, eterosessuale e favorevole): ma non mi convincono. Un passaggio decisivo del tuo ragionamento mi pare questo: “se uno dei due membri di una coppia omosessuale prova un sentimento genitoriale ha semplicemente sbagliato partner: deve cercarne uno dell’altro sesso, uno cioé adatto a realizzare il progetto procreativo. E, forse, deve anche interrogarsi sulla sua omosessualità, per capire se sia vera, cosa la sostanzi”. Francamente mi chiedo come possa scrivere una cosa del genere uno che, come te, conosce e frequenta coppie omosessuali: per chi è tale, è forse possibile optare fra un partner del proprio sesso e uno del sesso opposto? Sappiamo che non è così e che dunque l’alternativa che ventili è irrealistica. Né mi pare che la tua tesi sia rafforzata dalla precisazione successiva: se uno avverte il desiderio di essere padre (o madre), perché dovrebbe mettere in dubbio la propria omosessualità? Si tratta forse di sentimenti che si escludono? Conosco molte coppie che si mettono insieme per attrazione reciproca, che a un certo stadio della loro storia decidono di fare un figlio e che – sperimentando l’impossibilità fisica di realizzare questa decisione – continuano la relazione di coppia senza pentimenti e senza ripensamenti.


Posta la pari opportunità giuridica per coppie omo- ed etero-sessuali, ad entrambe suggerirei piuttosto (ma sarebbe appunto una “persuasione morale”) di ricorrere alla procreazione fisica solo come extrema ratio:  prima si dovrebbe esplorare e verificare l’ipotesi dell’adozione di bimbi già nati e abbandonati. Se il sentimento della paternità/maternità è autentico – e non è il travestimento della propria tendenza al possesso e alla proprietà – può esercitarsi altrettanto bene con minori già partoriti da genitori irresponsabili o sfortunati.
Nella speranza di aver portato qualche argomento e poche opinioni in libertà, approfitto anche di questo medium per augurarti uno splendido 2016.


Augusto Cavadi



Resto contrario. E spiego meglio perché

Caro Augusto, Buon 2016 anche a te! Le tue osservazioni mi servono a precisare le cose che scrivevo.

Sì, a me pare proprio che omosessualità e genitorialità siano cose che si escludono. Perché non ci si innamora “della persona”, bensì di ciò che essa dischiude nella realizzazione della nostra vita, quindi se sono attratto solo da persone con cui palesemente non posso realizzare un progetto esistenziale come la procreazione, allora questa non è compatibile con il mio orizzonte emotivo-sessuale. D’altronde, prova un po’ a prendere una coppia omosessuale desiderosa di genitorialità, mettila su un’isola deserta e guarda se la loro attrazione è o non è incompatibile con la procreazione… La realtà, come sempre, mi pare assai più istruttiva di tanti discorsi su astratti diritti…
Concordo con te che non si possa con ciò imporsi di farsi attrarre dal sesso che non ci attrae: l’universo del desiderio si sottrare alla volontà, al massimo può essere obbligato, ma non è una bella cosa.


Non concordo invece con l’idea che due sentimenti contraddittori ed esclusivi non possano che rimanere tali: i desideri non sono “puramente naturali”, anzi, se lo fossero non sarebbero mai né contraddittori, né esclusivi; sono, invece, prodotti da condizionamenti culturali, svelando i quali cambiano consistenza, si trasformano in altro. L’idea dell’assoluta priorità del sentire e della sua totale indipendenza dal cosiddetto “razionale” è il cancro culturale delle nostre società individualistico-emotiviste, è il cosiddetto “errore di Cartesio”, è l'”ama e non pensare” delle riviste di “folk psychology”.


Tagliando le cose con l’accetta, io penso che ci siano molti omosessuali con sentimenti per i loro partner coerenti alla loro omosessualità e altri invece che non li hanno coerenti. Questo creerebbe loro insormontabili sofferenze sulla summenzionata “isola deserta”; non trovandosi su quella ma in un consesso sociale, chiedono a questo un aiuto per fare quello che non potrebbero, come tutti gli altri, fare da soli. Esattamente come fanno i soggetti portatori di handicap. Con ciò squalificando la dignità di quella coppia per la quale si battono. E uno stato che, di fronte a questa confusione emotiva, invece che preoccuparsi di dissiparla, l’accetti e le vada incontro legiferando sulla base di diritti astratti concretamente irrealizzabili a meno dell’affiancamento di altri non sensi (ne elencavo altri nel mio intervento) è a mio parere uno stato inadeguato e pericoloso.
Forse capirai adesso perché il tema mi appassioni: non perché abbia niente contro gli omosessuali né perché tema il loro (fingere di) essere genitori mi preoccupi, ma perché questo è un esempio di abdicazione dell’intelligenza e del pensiero di fronte a (pericolosi) dogmi della cultura contemporanea, qual è quello della priorità e intangibilità del desiderio. Esistono a profusione “desideri sbagliati”, com’è secondo me la genitorialità in una coppia omosessuale, di fronte ai quali non è questione di dar loro una risposta né di appellarsi al “diritto individuale”, bensì è questione di favorire la comprensione delle ragioni (e anche delle cause) per cui sono sbagliati, e poi vedere se ne nascono “desideri giusti”.


Per inciso, questo, in primo luogo e fondamentalmente in modo essenziale, è il compito e il lavoro di un filosofo consulente.


Neri Pollastri