domenica 28 gennaio 2024

Il pope ortodosso Alexey Uminsky rimosso perché critico di Putin


“Adista/Segni nuovi”

3.2.2024

Gli umani, almeno sino a questo stadio evolutivo, non siamo preparati ad affrontare la complessità della vita. Di fronte alle tragedie della storia  - personale e collettiva – preferiamo risposte univoche, secche, nette. O bianco o nero, o destra o sinistra: niente grigi, niente “sì, ma anche…”. Russia versus Ucraina, Hamas versus Israele (e così in cento altri casi): tifoseria contro tifoseria e, se provi a problematizzare, arrivano botte in testa da qua e da là.

Le risposte semplici sono quasi sempre sbagliate ma, dal momento che si prestano a configurarsi come post o sms o tweet…, egemonizzano la rete telematica e il dibattito pubblico. Ma, tra le pieghe di internet, è possibile cogliere anche posizioni diverse dalla semplificazione da osteria. Ad esempio si può scoprire che nel cuore della Russia di Putin e nel cuore dell’Ucraina di Zelensky esistono gruppi di cittadini che, proprio perché amano di più e non di meno la propria patria, si sono subito schierati dal febbraio 2022 contro i propri governi a favore di soluzioni alternative al macello in atto ormai da quasi due anni e che, per altro, ha coinvolto – direttamente o indirettamente – quasi tutto il pianeta.

E’ di questi giorni la notizia che un pope ortodosso, Alexey Uminsky, è stato rimosso dall’incarico ( che ricopriva dal 1993) di rettore della chiesa della Trinità Vivificante a Khokhly, Mosca. La causa ? Varie interviste rilasciate a giornalisti coraggiosi come  Alexei Venediktov: molte sono visionabili  su YouTube in lingua originale

 Sempre su Youtube c’è un’intervista molto bella e completa (arricchita  dai sottotitoli italiani) che ha già ricevuto tre milioni di visualizzazioni (https://www.youtube.com/watch?v=Oa_WFY4UnWI) rilasciata da un altro esponente pacifista del clero ortodosso alla bravissima Katerina Gordeeva.  

  Dall’intervista si apprende che lo ieromonaco è nato in Italia, in Sardegna; che il suo nome originario è Giovanni  Guaita; e che sono stati i suoi studi di storia e civiltà slava ad avvicinarlo sempre più alla cultura russa e alla confessione ortodossa. Non è nuovo a posizioni scomode. Già nel 2021 aveva invitato le autorità russe a far visitare da medici l’attivista politico Alexei Navalny in sciopero della fame per protesta contro i metodi censori e repressivi di Putin. La reazione sul canale televisivo Spas (di proprietà della Chiesa ortodossa russa) era stata durissima: il “criminale in tonaca” veniva minacciato di processo penale. Ciò nonostante, nel febbraio del 2022, dunque appena avviata l’invasione russa dei primi territori ucraini, il prete si era subito espresso pubblicamente: “Non posso sostenere queste azioni militari. Prego per la pace, prego che tutto questo finisca il più rapidamente possibile e che meno persone possibile vengano ferite”.

   Da allora padre Giovanni non si arrende: imperterrito continua a sostenere, in sereno ma fermo dissenso con il patriarcato di Mosca e la maggioranza del clero ortodosso, che   il vangelo di Cristo non può legittimare nessuna violenza. Tanto meno con il pretesto di difendere la fede dalle apostasie moderne e post-moderne della secolarizzazione avanzante. Accusato sui social di essere eretico in teologia, risponde che l’unico peccato imperdonabile, secondo Gesù, è il “peccato contro lo Spirito Santo”: “chiamare bene ciò che, in coscienza, sappiamo essere male e viceversa”. Accusato, inoltre, di essere ingrato verso la patria d’elezione che lo ha accolto, obietta  - ben consapevole dei rischi che corre – che il ritorno della Russia all’isolamento del periodo precedente all’implosione dell’Unione Sovietica è contrario alle radici internazionali della civiltà russa, alla sua vocazione di dialogo interculturale, di ponte fra l’Europa occidentale e l’Asia, di solidarietà planetaria.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

venerdì 19 gennaio 2024

COSA LA CHIESA POTREBBE FARE (E SPESSO NON FA) PER CONTRASTARE IL SISTEMA DI DOMINIO MAFIOSO

 

CHIESA NOSTRA

Nei quarant’anni in cui cerco di decifrare i rapporti fra le Chiese cristiane (in particolare la cattolica in cui mi sono formato) e le mafie (in modo particolare Cosa Nostra) sono stato oggetto di obiezioni di segno opposto perché l’onestà intellettuale mi ha vietato di aderire alla logica del tutto-bianco o tutto-nero. Fuor di metafora: non ho condiviso né il trionfalismo clericale (“la Chiesa è un baluardo contro la mafia”) né lo scandalismo laicista (“la Chiesa è l’alleata più stretta dei mafiosi”). Infatti mi sono convinto che preti e fedeli praticanti non fanno eccezione rispetto alla tipologia dei concittadini siciliani (meridionali): agli estremi dell’arco statistico, da una parte una minoranza di mafiosi o para-mafiosi; dalla parte opposta, una minoranza di attivamente anti-mafiosi; nel mezzo una grande maggioranza che vegeta oscillando fra i due fronti nell’illusione di un’impossibile neutralità.

Secondo Giovanni Falcone è questa maggioranza di incerti, di ignavi, che nel lungo periodo può decidere la partita. Quali strategie si potrebbero attivare per favorire l’esodo di un numero quanto più grande possibile di cattolici da questa area grigia intermedia costituita da equilibristi inetti?

a)     Innanzitutto verso una conoscenza della mafia di ieri e, soprattutto, di oggi che vada al di là degli stereotipi. Una sociologa, Graziella Priulla, quarant’anni fa denunziava in proposito il passaggio dal silenzio al rumore. Da allora sono stati editi per fortuna dei volumi scientificamente rigorosi, ma su registri comunicativi inaccessibili agli uomini e alle donne di strada. Andrebbero dunque individuati e valorizzati i testi che si propongono di occupare lo spazio intermedio fra la ricerca degli specialisti e le risorse della gente comune.  Negli ambienti cattolici circolano questi libri che ‘traducono’ via via i risultati delle indagini accademiche e giudiziarie? Mi pare che il livello d’informazione sulla tematica sia pari a ogni altro settore della società: poco sopra lo zero.  Né i seminaristi, le suore, gli insegnanti di religione, i catechisti e le catechiste costituiscono un’eccezione. I giovani preti, anche se animati da buone intenzioni, non hanno gli attrezzi culturali per leggere il territorio, ma per la mafia è proprio come per l’Aids: solo se la conosci, la eviti.

b)     Considerata nella sua struttura complessiva la mafia appare un soggetto non solo criminale, ma anche politico. Senza il rapporto organico con la politica istituzionale la mafia non è mafia, ma delinquenza o banditismo. Da qui la necessità, su cui ritornava Paolo Borsellino, di usare l’arma della matita nelle urne elettorali. Ecco un altro ambito in cui il mondo cattolico si dimostra o troppo ingenuo o, in altri casi, troppo cinico. Se un candidato in campagna elettorale sbandiera la propria appartenenza ecclesiale come strumento di propaganda e si prodiga in iniziative assistenziali, va per questo sostenuto con i voti dei cattolici? In questi mesi assistiamo allo spettacolo desolante di politici che – dopo aver scontato la pena detentiva per favoreggiamento personale verso persone appartenenti a Cosa Nostra e rivelazione di segreti d’ufficio - invece di dedicarsi al volontariato, come promesso, sono nuovamente attivi nelle competizioni elettorali, forti di una rete di relazioni clientelari radicata nel giro delle parrocchie e dell’associazionismo cattolico. 

c)      Il sistema di dominio mafioso ha anche una dimensione economica. Contrastarlo significa dunque, da una parte, rifiutarsi di finanziarlo (per esempio pagando il pizzo) e, dall’altra, rifiutarsi di essere finanziati (per esempio accettando contributi pubblici preferenziali e donazioni private di origine oscura). Il teologo don Giuseppe  Ruggeri insiste da decenni su questo aspetto: solo una Chiesa povera smetterà di essere oggetto privilegiato di corteggiamento  da parte dei mafiosi e, libera da debiti di gratitudine, potrà alzare la voce  credibilmente nella denunzia della corruzione.

d)     Non pagare il pizzo, rifiutare privilegi economici: impossibile senza un’energia etica. E’ questa la dimensione in cui le Chiese cristiane (ma direi tutte le comunità confessionali presenti in Italia) dovrebbero essere, per così dire, specialiste. Ma è così? Davvero l’etica predicata e praticata nella Chiesa cattolica  è radicalmente alternativa all’ethos mafioso (intriso di sete di potere e di denaro, paternalismo, maschilismo, familismo, campanilismo, specismo, spregio delle bellezze naturali)? Nelle omelie domenicali, nelle confessioni individuali e comunitarie, nella preparazione alla cresima e così via, quanto si insiste sulla necessità di testimoniare, inseparabilmente dal messaggio religioso, i valori antropologici della verità, della giustizia, della libertà?

e)     La mafia – soggetto criminale, economico, politico – non è solo caratterizzato da una propria etica, ma tende a trasmetterla pedagogicamente. Le comunità cristiane sono consapevoli di questa sfida pedagogica e attrezzate a contrastarla per tentare, come ama dire il mio amico don Cosimo Scordato, di “strappare una generazione alla mafia”? Non si tratta di degradare l’educazione al mero contrasto (“anti”), ma di puntare “oltre” la tavola dei valori mafiosi: testimoniando modalità di convivenza comunitaria caratterizzate dal culto del senso critico, dal rispetto della legalità democratica, dall’intolleranza nonviolenta delle sperequazioni socio-economiche, dalla solidarietà soprattutto con i marginali, dalla parificazione dei diritti delle donne, dalla cura per il creato e in particolare per i nostri fratellini animali…

Augusto Cavadi

www.augustocavdi.com

Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/chiesa-e-mafia-lampi-di-verita-fra-ignavia-collusioni-e-ipocrisie/


lunedì 15 gennaio 2024

PAPA FRANCESCO AI DIPLOMATICI IN VISITA DI AUGURI: PREGI E LIMITI DI UN DISCORSO A TUTTO TONDO

 

 Adista Notizie n° 2 del 20/01/2024

Un’etica condivisa nell’epoca post-religiosa

Personalmente dal discorso di papa Francesco Ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno (8 gennaio 2024) ho tratto due o tre considerazioni.

La prima è la radicale laicità del registro comunicativo. Il papa non parla da una cattedra sovra-elevata, in quanto portavoce di un Dio che gli parla mediante un filo diretto ed esclusivo, ma da umano pensante a umani pensanti: i quattro quinti del testo sono dedicati ai temi – intrecciati – della pace, della salvaguardia dell’ambiente e della giustizia internazionale. Se i bravi cristiani di tutte le confessioni, cattolica in primis, vorranno rimproverarlo per non aver detto che l’umanità avrà un futuro solo se si convertirà al cristianesimo, si accomodino pure: dimostreranno di non aver capito per nulla che viviamo in un’epoca postreligionale in cui solo ritrovando un’etica basilare comune si potrà sperare di non affondare irreversibilmente nell’autodistruzione. Solo chi rispetta, con convinzione teorica e coerenza pratica, i «principi razionalmente evidenti e comunemente accettati» della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) ha il diritto morale di dirsi credente, ateo o agnostico. Senza queste fondamenta antropologiche ogni professione religiosa, filosofica o politica è solo una maschera ideologica (perniciosa prima di tutto per chi la indossa ingenuamente).

Una seconda considerazione riguarda le tematiche concernenti la bioetica. Rispetto agli interventi dei due papi precedenti, qui occupano il posto marginale che meritano nell’ottica di chi guarda, con saggezza, alla complessità delle tragedie in corso. Alcune di queste tematiche non sono neppure nominate esplicitamente, ma vi si fa tacita allusione, come per l’eutanasia («In ogni momento della sua esistenza, la vita umana dev’essere preservata e tutelata, mentre constato con rammarico, specialmente in Occidente, il persistente diffondersi di una cultura della morte, che, in nome di una finta pietà, scarta bambini, anziani e malati») e l’aborto procurato («la via della pace esige il rispetto della vita, di ogni vita umana, a partire da quella del nascituro nel grembo della madre»). Ed è proprio a proposito della vita del “nascituro”, che Francesco aggiunge: «Non può essere soppressa, né diventare oggetto di mercimonio. Al riguardo, ritengo deprecabile la pratica della cosiddetta maternità surrogata, che lede gravemente la dignità della donna e del figlio. Essa è fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre. Un bambino è sempre un dono e mai l’oggetto di un contratto. Auspico, pertanto, un impegno della Comunità internazionale per proibire a livello universale tale pratica». Anche autorevoli femministe, di formazione molto lontana dal mondo cattolico, hanno salutato con plauso questo passaggio. Personalmente non ho un’idea chiara e definitiva sulla questione, ma onestà intellettuale impone che qui si legga solo ciò che è scritto: che il papa condanna la “maternità surrogata” in quanto «mercimonio», effetto di un “contratto” che comporta lo «sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre». Su altre motivazioni (più nobili) non c’è parola. Forse Francesco condanna anche queste fattispecie, ma è certo che non lo fa in questo discorso. Se trovo prudente questo silenzio, non posso non evidenziare un altro silenzio (assai meno apprezzabile): sulla necessità imprescindibile che tutte le agenzie educative (per prima la Chiesa cattolica!) si impegnino a diffondere una cultura della prevenzione delle gravidanze e assicurino, soprattutto alle donne, l’accesso gratuito a tutti gli strumenti contraccettivi.

Una terza considerazione viene suggerita dal passaggio – anche esso mediaticamente enfatizzato in queste ore – sulla Condanna della “teoria del gender”: «Purtroppo, i tentativi compiuti negli ultimi decenni di introdurre nuovi diritti, non pienamente consistenti rispetto a quelli originalmente definiti e non sempre accettabili, hanno dato adito a colonizzazioni ideologiche, tra le quali ha un ruolo centrale la teoria del gender, che è pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali. Tali colonizzazioni ideologiche provocano ferite e divisioni tra gli Stati, anziché favorire l’edificazione della pace». Non è la prima volta che il papa prende di mira questa “teoria”, ma – come nelle volte precedenti – non indica nessun riferimento a istituzioni, libri, studiosi che la sosterrebbero. Così, però, offre un vantaggio immeritato a quelle frange conservatrici, anzi reazionarie, che nella sua stessa Chiesa come in altre Chiese cristiane, lo contestano. Sono infatti intellettuali delle Destre teologiche di orientamento fondamentalista ad aver inventato la categoria “teoria del gender” per fare di molte teorie (alcune convincenti, altre opinabili, altre ancora insostenibili) un unico mazzo da bruciare al rogo. No, caro papa: su questioni delicate o si procede con il cesello o si tace del tutto. Quale bioetico o quale esponente del pensiero femminista, quale teorico del mondo LGBT+ sostiene che si debbano cancellare le “differenze” per renderci tutti «uguali»? In questo territorio culturale – che pur frequento da alcuni anni – ho incontrato esattamente tesi di segno opposto: ognuno di noi è unico e nessuno ha il diritto di omologarlo a una pretesa normalità. Ma, «se sbaglio, mi corriggerete».

Augusto Cavadi co-dirige, con la moglie Adriana Saieva, la “Casa dell'equità e della bellezza” di Palermo. Ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dio dei mafiosi” (2009), "Dio visto da Sud" (2021) e "O religione o ateismo? La spiritualità 'laica' come fondamento comune" (2021)

martedì 9 gennaio 2024

IL CONVEGNO IN PROVINCIA DI BRESCIA SARA' AD APRILE, MA LE PRE-ISCRIZIONI SCADONO IL 28 GENNAIO 2024

 Associazione Liberare l’Uomo

 Convegno primavera 2024 San Felice al Benaco (BS) - 25 / 28 aprile 2024

 DONNA, VITA, LIBERTÀ dal Vangelo, ai Diritti umani, alla Fraternità negata, attraverso un processo di nuova consapevolezza 

Relatori: - Annamaria Corallo - Claudia Fanti - Debora Rienzi - Augusto Cavadi ( + video intervista con Beppe Pavan ) - Marco Campedelli - Paolo Scquizzato - Paolo Zambaldi

 Breve Presentazione del Convegno

 Il Convegno vuole affrontare un tema di grande attualità, che interroga il nostro mondo attuale il cui modello di sviluppo ci sta rapidamente portando a percorsi di disumanizzazione. Per fortuna, contemporaneamente, scopriamo i segni di uno straordinario processo di transizione in atto verso nuovi paradigmi, un vero inedito cambiamento d’epoca, di cui ciascuno può farsi attivo protagonista. Vorremmo chiederci quale sorte ha subito nel corso degli ultimi duemila anni l’Evangelo di Gesù di Nazareth, fonte sempre nuova e sempre attuale di piena umanizzazione, capace di far trasparire il divino nell’umano. Come questa inestimabile ricchezza di vita sia stata progressivamente alterata da sovrapposizioni religiose e culturali, soprattutto a partire da chi se ne è fatto una bandiera, proponendosi come unico portavoce e testimone.

 Alcuni importanti valori evangelici riemergono e sembrano potersi affermare nel mondo laico, dopo secoli di storia, attraverso eventi (ahimè cruenti) che portano ad una maggiore consapevolezza dell’umano: si pensi all’enunciazione de la “Liberté, Égalité, Fraternité” (Libertà, Uguaglianza, Fraternità) all’epoca della Rivoluzione francese e poi dei Diritti Umani, ma oggi vediamo che spesso si tratta di parole disattese a cui non sono seguiti i fatti. Le radici dell’Umano sono più profonde, e ci sono ancora tanti modelli negativi da scardinare, tra i primi il modello patriarcale della società. 

Il motto delle indomite donne iraniane, DONNA, VITA, LIBERTÀ, ci pare metta a fuoco nuovi orizzonti ben più radicali e necessari per un vero cambio di paradigma, sia per il valore pregnante di queste tre parole, sia per l’ordine sequenziale con cui sono proposte. Apriamo così un percorso di ricerca e di approfondimento!

 ISCRIZIONI E NOTE PRATICHE 

PER MOTIVI ORGANIZZATIVI, AI FINI DELLA PARTECIPAZIONE AL CONVEGNO È RICHIESTA LA COMPILAZIONE INDIVIDUALE DEL MODULO DI PRE-ISCRIZIONE ONLINE ENTRO IL 28 GENNAIO 2024 (un modulo per ogni persona che vuole partecipare) CLICCANDO SUL SEGUENTE LINK: https://forms.gle/hku2x1dhq2ru649f6

 ALLA SUDDETTA PRE-ISCRIZIONE VERRÀ IN SEGUITO RICHIESTA LA CONFERMA E IL VERSAMENTO DELLA QUOTA DI PARTECIPAZIONE 

 PER ESSERE ISCRITTI AL CONVEGNO OCCORRE :

- LA CONFERMA DELLA PRE-ISCRIZIONE ( QUANDO VI SARÀ RICHIESTA DA NOSTRA MAIL ) 

-IL VERSAMENTO DI UN “CONTRIBUTO DI PARTECIPAZIONE” DI € 70,00 A PERSONA, € 105,00 PER LE COPPIE CHE PARTECIPANO INSIEME

 La struttura che ci ospiterà per il Convegno dispone di 80 posti letto, ma vi sarà la disponibilità di altre strutture ricettive nelle vicinanze per altri 30 posti letto circa. Le camere saranno assegnate in base all’ordine di arrivo delle pre-iscrizioni e ad eventuali particolari esigenze. Il pagamento della pensione completa dovrà essere effettuato autonomamente presso la struttura ospitante.

 Per informazioni o problemi scrivere al seguente indirizzo mail org.liberare@gmail.com oppure chiamare il n. di cellulare dell’Associazione 338 1104831 

STRUTTURA OSPITANTE Casa per ferie “Al Carmine” sul lago di Garda” Via Carmine, 11 - 25010 San Felice del Benaco (BS) https://www.carminesulgarda.it/ - Tel. +39 335 7051860 – info@carminesulgarda.it

 Ricevuta una risposta positiva occorre perfezionare l’iscrizione con il versamento del ‘Contributo di Partecipazione’ di 70,00 € a persona (o di 105,00 € a coppia), tramite bonifico bancario sul C/C dell’Associazione Liberare l’Uomo: IBAN: IT68 G030 6912 0701 0000 0001 285 Banca Intesa San Paolo – Filiale 50394 Treviso - Viale IV Novembre, 82/C – 31100 Treviso (TV) 

COSTI NELLA STRUTTURA DEL CONVEGNO € 177,00 a persona in camera doppia con bagno pari a € 59,00/giorno/persona con pensione completa € 192,00 a persona in camera singola con bagno pari a € 64,00/ giorno/persona con pensione completa Tassa di soggiorno € 1,00 al giorno a persona ( da pagare in contanti al termine del soggiorno ) Pasto a menù fisso € 16,00 ( per eventuali partecipanti esterni )

 Alcune informazioni:

  orario d’arrivo: giovedì 25 aprile, pomeriggio/orario di partenza: pomeriggio del 28 aprile;

  la biancheria del letto e del bagno è compresa; 

 il menù di pranzi e cene non sarà alla carta, ma quello proposto dalla casa ( primo, secondo, contorno, frutta/dolce, acqua naturale e gasata ); 

 per usufruire di menù alternativo per celiaci o per altre gravi intolleranze alimentari occorre segnalare (con un’apposita mail e sulla scheda di iscrizione) e concordare in anticipo con l’organizzazione, che sentirà la struttura ospitante;

  colazione, pranzo e cena saranno serviti per tutti, interni ed esterni alla struttura, presso la sala ristorante della casa per ferie “Al Carmine”

lunedì 8 gennaio 2024

FASCISMO E GUERRE MONDIALI SONO ALLE NOSTRE SPALLE? L'ESORTAZIONE DI UN ESPERTO

 Dal blog www.volerelaluna.it di TOMASO MONTANARI riporto alcuni passaggi del suo post: "2023-2024: tra guerre e fascismo incombente, non essere ciechi al futuro".

Mai come in questi ultimi mesi ho sentito acuta la tentazione di una fuga nella vita privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare sanguinoso della guerra in nome dei “valori dell’Occidente”, di fronte al fascismo di nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente divorziato dal buon senso, si ha l’impressione che davvero tutto, e anche e soprattutto la parola, sia vano. Ma è una tentazione alla quale bisogna resistere. Pensando a chi, prima di noi, è passato, anche personalmente, attraverso ben altre prove. E pensando a chi, dopo di noi, ha il diritto di ascoltare parole di verità, e di vita. In questo senso, il passaggio simbolico tra un anno che si chiude e uno che si apre appare fecondo di significati, e di impegni: è il momento in cui riannodare il filo che lega passato e futuro. Un filo di consapevolezza e di lettura del mondo. (...)

Così, ho ripreso in mano un libro che da troppo tempo non rileggevo (...) : I sommersi e i salvati, di Primo Levi (1986). In questo cannocchiale prospettico sento un uomo della generazione dei miei nonni che parla a me, per essere inteso dai miei figli. Un uomo che parla a fatica, sapendo di essere poco ascoltato e temendo di non essere inteso: «L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. […] Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge». Levi non era pessimista, era realista: l’arrivo al potere della mia generazione, dei nati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, ha significato il definitivo distacco dall’esperienza e dall’eredità morale della generazione della guerra e dei lager. Con noi lo dico con vergogna, e con dolore sono tornati il fascismo e la guerra. E ora ci interroghiamo con angoscia sul futuro che prepariamo ai nostri figli.

Rileggere Levi oggi significa ritrovare argomenti, forza e lucidità per ricominciare a leggere in pubblico i segni di questi nostri tempi, per denunciare pubblicamente un futuro nerissimo prima che possa essere troppo tardi per fermarlo. Quando oggi qualcuno tenta di dire, nel discorso pubblico, che il fascismo può tornare a governare l’Europa, che la guerra può tornare a straziare le nostre città e i nostri corpi; quando qualcuno prova a indicare i sintomi premonitori del male che torna, la reazione prevalente è di screditarlo come una cassandra (dimenticando che Cassandra diceva il vero). Si risponde che il passato è incommensurabile al presente; che la democrazia è solida; che parlare di fascismo non crea consenso, o simpatia; che abbiamo a che fare con buffoni, non con boia; che la guerra qui è impensabile; che l’atomica mai sarà usata… e così via.

Ecco, rileggiamo allora Levi: «Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto». Queste parole del 1986, non vi sembrano oggi più sinistre e minacciose? In un mondo che ha conosciuto Trump alla Casa Bianca e Putin al Cremlino, che vede Israele sull’orlo di commettere un genocidio, che vede l’Italia in mano a un partito di matrice fascista, che vede l’Europa dominata dalla xenofobia e da destre estreme, queste parole di quarant’anni fa non vi paiono ancora più terribilmente profetiche? «Pochi paesi – continuava Levi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni». L’argomento, tanto speso anche nei media italiani, che qualcuno avrà pur votato i nuovi fascisti giunti al governo nei vari paesi, il nostro compreso, non è certo un’attenuante, semmai un’aggravante: «Sia ben chiaro è ancora Levi che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le belle parole del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina». Polonia, Ungheria, Brasile, Argentina non devono forse insegnarci qualcosa? E gli stessi Stati Uniti d’America non sono un monito terribilmente allarmante su quanto veloce potrebbe essere lo scivolamento in uno scenario distopico?

Nel punto di congiunzione tra passato e presente, è esattamente qua che dobbiamo guardare: e un segnale strettamente molto più strettamente di quanto non si pensi legato al ritorno dei fascismi è l’onda nera del terribile amore per la guerra che ha contagiato anche i commentatori più ‘moderati’ dei paesi occidentali, il nostro per primo: «la guerra mondiale voluta dai nazisti e dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero essere temute come tali», ammoniva Levi. Oggi terribilmente inascoltato.

Ma si dice, e lo si dice anche nel mondo più tiepidamente antifascista, o meglio a- fascista –, si sbaglierebbe a temere un ritorno del fascismo: “cosa pensate, che le camicie nere tornino a sfilare sulla via dell’Impero”? In fondo si aggiunge Meloni, Lollobrigida, La Russa sono più grotteschi e ridicoli, che pericolosi. Forse rivedere il Grande dittatore di Chaplin gioverebbe a costoro: non erano forse ridicoli e grotteschi anche i capi di un secolo fa? E poi, insegna Levi, «bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel tempo. […] Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora, si comportarono e si comportano […] negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal ‘buon senso’, l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed auto catalitiche. Qui sorge la domanda d’obbligo: una contro domanda. Quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei?». Per provare a rispondere a questa domanda dobbiamo leggere le parole e le decisioni di quelli che oggi governano, e capire dove intendono andare. Mi è stata annunciata, ma non mi è ancora dato di leggerla, una querela del ministro Lollobrigida per un articolo in cui ho scritto che chi parla di “sostituzione etnica” usa le parole e i pensieri di Adolf Hitler e di Benito Mussolini: se sarò chiamato a risponderne in tribunale, sarà una buona occasione per fare in pubblico quell’esercizio di discernimento dei tempi che Primo Levi, col suo stile asciutto e reciso, ci supplica di non smettere di fare.

Il Governo Meloni ha presentato una riforma che di fatto distrugge la Costituzione antifascista del 1948 ed è funzionale al comando di uno solo: davvero non corriamo pericoli? Lo stesso Governo sta costruendo un lager per migranti in Albania, un’idea distopica e apparentemente folle: che però rischia di diventare reale. Dobbiamo irriderla, o cogliere il terribile segnale di pericolo che essa contiene? (...) Non è evidente che la distruzione della dignità dello straniero, del migrante, oltre ad essere mostruosa in sé, annuncia che la stessa cosa verrà presto fatta a tutte e a tutti coloro che si sentono al sicuro? In I sommersi e i salvati Levi ricorda: «Non che della strage mancassero i sintomi premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli tedeschi) erano i parassiti dell’umanità, e dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi. Ma, appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare verità di comodo».

Ecco, sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri», constatava lucido Levi: che forse anche per questo decise di farla finita poco dopo averlo scritto. Provare ad ascoltarlo, provare a non ignorare sintomi e segnali di pericolo è l’unico modo di onorare insieme il sacrificio dei nostri padri e di amare davvero i nostri figli. Potremmo non avere molto tempo, per farlo.

Tomaso Montanari

2023-2024: tra guerre e fascismo incombente, non essere ciechi al futuro

TOMASO MONTANARI - volerelaluna.it - 29/12/2023

 

Sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri»

 

Mai come in questi ultimi mesi ho sentito acuta la tentazione di una fuga nella vita privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare sanguinoso della guerra in nome dei “valori dell’Occidente”, di fronte al fascismo di nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente divorziato dal buon senso, si ha l’impressione che davvero tutto, e anche e soprattutto la parola, sia vano. Ma è una tentazione alla quale bisogna resistere. Pensando a chi, prima di noi, è passato, anche personalmente, attraverso ben altre prove. E pensando a chi, dopo di noi, ha il diritto di ascoltare parole di verità, e di vita. In questo senso, il passaggio simbolico tra un anno che si chiude e uno che si apre appare fecondo di significati, e di impegni: è il momento in cui riannodare il filo che lega passato e futuro. Un filo di consapevolezza e di lettura del mondo. Un esercizio di discernimento, che possa aiutarci a prendere coscienza intera dell’inferno dei viventi che ci si spalanca davanti, e quindi a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (così, notoriamente, il Marco Polo delle Città invisibili di Italo Calvino).

Nella sua Lettera ai giudici (che è un giudizio sulla guerra fondato sulla Costituzione, e sul Vangelo), don Lorenzo Milani scrive che «la scuola siede tra il passato e il futuro, e deve averli presenti entrambi». In queste ore, tutti noi sediamo tra passato e futuro, tra un anno finito e uno da iniziare: come Giano, dio delle soglie, abbiamo un volto rivolto al passato e uno al futuro, e riusciamo per qualche tempo a vederli entrambi. Questa è la scuola che dobbiamo frequentare: la scuola di un passato che ci aiuti a costruire un futuro diverso.

Così, ho ripreso in mano un libro che da troppo tempo non rileggevo, e che è stato pubblicato quando avevo quindici anni, la stessa età che ha oggi mio figlio minore: I sommersi e i salvati, di Primo Levi (1986). In questo cannocchiale prospettico sento un uomo della generazione dei miei nonni che parla a me, per essere inteso dai miei figli. Un uomo che parla a fatica, sapendo di essere poco ascoltato e temendo di non essere inteso: «L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. […] Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge». Levi non era pessimista, era realista: l’arrivo al potere della mia generazione, dei nati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, ha significato il definitivo distacco dall’esperienza e dall’eredità morale della generazione della guerra e dei lager. Con noi lo dico con vergogna, e con dolore sono tornati il fascismo e la guerra. E ora ci interroghiamo con angoscia sul futuro che prepariamo ai nostri figli.

Rileggere Levi oggi significa ritrovare argomenti, forza e lucidità per ricominciare a leggere in pubblico i segni di questi nostri tempi, per denunciare pubblicamente un futuro nerissimo prima che possa essere troppo tardi per fermarlo. Quando oggi qualcuno tenta di dire, nel discorso pubblico, che il fascismo può tornare a governare l’Europa, che la guerra può tornare a straziare le nostre città e i nostri corpi; quando qualcuno prova a indicare i sintomi premonitori del male che torna, la reazione prevalente è di screditarlo come una cassandra (dimenticando che Cassandra diceva il vero). Si risponde che il passato è incommensurabile al presente; che la democrazia è solida; che parlare di fascismo non crea consenso, o simpatia; che abbiamo a che fare con buffoni, non con boia; che la guerra qui è impensabile; che l’atomica mai sarà usata… e così via.

Ecco, rileggiamo allora Levi: «Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto». Queste parole del 1986, non vi sembrano oggi più sinistre e minacciose? In un mondo che ha conosciuto Trump alla Casa Bianca e Putin al Cremlino, che vede Israele sull’orlo di commettere un genocidio, che vede l’Italia in mano a un partito di matrice fascista, che vede l’Europa dominata dalla xenofobia e da destre estreme, queste parole di quarant’anni fa non vi paiono ancora più terribilmente profetiche? «Pochi paesi – continuava Levi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni». L’argomento, tanto speso anche nei media italiani, che qualcuno avrà pur votato i nuovi fascisti giunti al governo nei vari paesi, il nostro compreso, non è certo un’attenuante, semmai un’aggravante: «Sia ben chiaro è ancora Levi che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev’essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all’inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le belle parole del caporale Hitler, lo hanno seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, sono stati travolti dalla sua rovina». Polonia, Ungheria, Brasile, Argentina non devono forse insegnarci qualcosa? E gli stessi Stati Uniti d’America non sono un monito terribilmente allarmante su quanto veloce potrebbe essere lo scivolamento in uno scenario distopico?

Nel punto di congiunzione tra passato e presente, è esattamente qua che dobbiamo guardare: e un segnale strettamente molto più strettamente di quanto non si pensi legato al ritorno dei fascismi è l’onda nera del terribile amore per la guerra che ha contagiato anche i commentatori più ‘moderati’ dei paesi occidentali, il nostro per primo: «la guerra mondiale voluta dai nazisti e dai giapponesi è stata una guerra suicida: tutte le guerre dovrebbero essere temute come tali», ammoniva Levi. Oggi terribilmente inascoltato.

Ma si dice, e lo si dice anche nel mondo più tiepidamente antifascista, o meglio a- fascista –, si sbaglierebbe a temere un ritorno del fascismo: “cosa pensate, che le camicie nere tornino a sfilare sulla via dell’Impero”? In fondo si aggiunge Meloni, Lollobrigida, La Russa sono più grotteschi e ridicoli, che pericolosi. Forse rivedere il Grande dittatore di Chaplin gioverebbe a costoro: non erano forse ridicoli e grotteschi anche i capi di un secolo fa? E poi, insegna Levi, «bisogna guardarsi dall’errore che consiste nel giudicare epoche e luoghi lontani col metro che prevale nel qui e nell’oggi: errore tanto più difficile da evitare quanto più è grande la distanza nello spazio e nel tempo. […] Molti europei di allora, e non solo europei, e non solo di allora, si comportarono e si comportano […] negando l’esistenza delle cose che non dovrebbero esistere. Secondo il senso comune, che Manzoni accortamente distingueva dal ‘buon senso’, l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge; ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed auto catalitiche. Qui sorge la domanda d’obbligo: una contro domanda. Quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei?». Per provare a rispondere a questa domanda dobbiamo leggere le parole e le decisioni di quelli che oggi governano, e capire dove intendono andare. Mi è stata annunciata, ma non mi è ancora dato di leggerla, una querela del ministro Lollobrigida per un articolo in cui ho scritto che chi parla di “sostituzione etnica” usa le parole e i pensieri di Adolf Hitler e di Benito Mussolini: se sarò chiamato a risponderne in tribunale, sarà una buona occasione per fare in pubblico quell’esercizio di discernimento dei tempi che Primo Levi, col suo stile asciutto e reciso, ci supplica di non smettere di fare.

Il Governo Meloni ha presentato una riforma che di fatto distrugge la Costituzione antifascista del 1948 ed è funzionale al comando di uno solo: davvero non corriamo pericoli? Lo stesso Governo sta costruendo un lager per migranti in Albania, un’idea distopica e apparentemente folle: che però rischia di diventare reale. Dobbiamo irriderla, o cogliere il terribile segnale di pericolo che essa contiene? Ha scritto Primo Levi (stavolta in Se questo è un uomo, 1947): «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Non è forse chiaro che i segni premonitori di un ritorno del morbo ci sono tutti? Non è evidente che la distruzione della dignità dello straniero, del migrante, oltre ad essere mostruosa in sé, annuncia che la stessa cosa verrà presto fatta a tutte e a tutti coloro che si sentono al sicuro? In I sommersi e i salvati Levi ricorda: «Non che della strage mancassero i sintomi premonitori: fin dai suoi primi libri e discorsi, Hitler aveva parlato chiaro, gli ebrei (non solo quelli tedeschi) erano i parassiti dell’umanità, e dovevano essere eliminati come si eliminano gli insetti nocivi. Ma, appunto, le deduzioni inquietanti hanno vita difficile: fino all’estremo, fino alle incursioni dei dervisci nazisti (e fascisti) di casa in casa, si trovò modo di disconoscere i segnali, di ignorare il pericolo, di confezionare verità di comodo».

Ecco, sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo distogliere lo sguardo dalla realtà. «Al futuro siamo ciechi, non meno dei nostri padri», constatava lucido Levi: che forse anche per questo decise di farla finita poco dopo averlo scritto. Provare ad ascoltarlo, provare a non ignorare sintomi e segnali di pericolo è l’unico modo di onorare insieme il sacrificio dei nostri padri e di amare davvero i nostri figli. Potremmo non avere molto tempo, per farlo.

 2023-2024:
tra
guerre
e
fascismo
incombente,
non
essere
ciechi
al
futuro
TOMASO
MONTANARI
-
volerelaluna.it
-
29/12/2023
Sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno
tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo
distogliere
lo
sguardo
dalla
realtà.
«Al
futuro
siamo
ciechi,
non
meno
dei
nostri
padri»
Mai
come
in
questi
ultimi
mesi
ho
sentito
acuta
la
tentazione
di
una
fuga
nella
vita
privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare
sanguinoso
della
guerra
in
nome
dei
“valori
dell’Occidente”,
di
fronte
al
fascismo
di
nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente
divorziato
dal
buon
senso,
si
ha
l’impressione
che
davvero
tutto,
e
anche
e
soprattutto
la
parola,
sia
vano.
Ma
è
una
tentazione
alla
quale
bisogna
resistere.
Pensando
a
chi,
prima
di
noi,
è
passato,
anche
personalmente,
attraverso
ben
altre
prove.
E
pensando
a
chi,
dopo
di
noi,
ha
il
diritto
di
ascoltare
parole
di
verità,
e
di
vita.
In
questo
senso,
il passaggio
simbolico
tra
un
anno
che
si
chiude
e
uno
che
si
apre
appare
fecondo
di
significati,
e
di
impegni:
è
il
momento
in
cui
riannodare
il
filo
che
lega
passato
e
futuro.
Un
filo
di
consapevolezza
e
di
lettura
del
mondo.
Un
esercizio
di
discernimento,
che
possa
aiutarci
a
prendere
coscienza
intera
dell’inferno
dei
viventi
che
ci
si
spalanca
davanti,
e
quindi
a
«cercare
e
saper
riconoscere
chi
e
cosa,
in
mezzo
all’inferno,
non
è
inferno,
e
farlo
durare,
e
dargli
spazio»
(così,
notoriamente,
il
Marco
Polo
delle
Città invisibili
di
Italo
Calvino).
Nella
sua
Lettera ai giudici
(che
è
un
giudizio
sulla
guerra
fondato
sulla
Costituzione,
e
sul
Vangelo),
don
Lorenzo
Milani
scrive
che
«la
scuola
siede
tra
il
passato
e
il
futuro,
e
deve
averli
presenti
entrambi».
In
queste
ore,
tutti
noi
sediamo
tra
passato
e
futuro,
tra
un
anno
finito
e
uno
da
iniziare:
come
Giano,
dio
delle
soglie,
abbiamo
un
volto
rivolto
al
passato
e
uno
al
futuro,
e
riusciamo
per
qualche
tempo
a
vederli
entrambi.
Questa
è
la
scuola
che
dobbiamo
frequentare:
la
scuola
di
un
passato
che
ci
aiuti
a
costruire
un
futuro
diverso.
Così,
ho
ripreso
in
mano
un
libro
che
da
troppo
tempo
non
rileggevo,
e
che
è
stato
pubblicato
quando
avevo
quindici
anni,
la
stessa
età
che
ha
oggi
mio
figlio
minore:
I
sommersi
e
i
salvati
,
di
Primo
Levi
(1986).
In
questo
cannocchiale
prospettico
sento
un
uomo
della
generazione
dei
miei
nonni
che
parla
a
me,
per
essere
inteso
dai
miei
figli.
Un
uomo
che
parla
a
fatica,
sapendo
di
essere
poco
ascoltato
e
temendo
di
non
essere
inteso:
«L’esperienza
di
cui
siamo
portatori
noi
superstiti
dei
Lager
nazisti
è
estranea
alle
nuove
generazioni
dell’Occidente,
e
sempre
più
estranea
si
va
facendo
a
mano
a
mano
che
passano
gli
anni.
[...]
Si
affaccia
all’età
adulta
una
generazione
scettica,
priva
non
di
ideali
ma
di
certezze,
anzi,
diffidente
delle
grandi
verità
rivelate;
disposta
invece
ad
accettare
le
verità
piccole,
mutevoli
di
mese
in
mese
sull’onda
convulsa
delle
mode
culturali,
pilotate
o
selvagge».
Levi
non
era
pessimista,
era
realista:
l’arrivo
al
potere
tra
guerre
e
fascismo
incombente,
non
essere
ciechi
al
futuro
TOMASO
MONTANARI
-
volerelaluna.it
-
29/12/2023
Sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno
tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo
distogliere
lo
sguardo
dalla
realtà.
«Al
futuro
siamo
ciechi,
non
meno
dei
nostri
padri»
Mai
come
in
questi
ultimi
mesi
ho
sentito
acuta
la
tentazione
di
una
fuga
nella
vita
privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare
sanguinoso
della
guerra
in
nome
dei
“valori
dell’Occidente”,
di
fronte
al
fascismo
di
nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente
divorziato
dal
buon
senso,
si
ha
l’impressione
che
davvero
tutto,
e
anche
e
soprattutto
la
parola,
sia
vano.
Ma
è
una
tentazione
alla
quale
bisogna
resistere.
Pensando
a
chi,
prima
di
noi,
è
passato,
anche
personalmente,
attraverso
ben
altre
prove.
E
pensando
a
chi,
dopo
di
noi,
ha
il
diritto
di
ascoltare
parole
di
verità,
e
di
vita.
In
questo
senso,
il passaggio
simbolico
tra
un
anno
che
si
chiude
e
uno
che
si
apre
appare
fecondo
di
significati,
e
di
impegni:
è
il
momento
in
cui
riannodare
il
filo
che
lega
passato
e
futuro.
Un
filo
di
consapevolezza
e
di
lettura
del
mondo.
Un
esercizio
di
discernimento,
che
possa
aiutarci
a
prendere
coscienza
intera
dell’inferno
dei
viventi
che
ci
si
spalanca
davanti,
e
quindi
a
«cercare
e
saper
riconoscere
chi
e
cosa,
in
mezzo
all’inferno,
non
è
inferno,
e
farlo
durare,
e
dargli
spazio»
(così,
notoriamente,
il
Marco
Polo
delle
Città invisibili
di
Italo
Calvino).
Nella
sua
Lettera ai giudici
(che
è
un
giudizio
sulla
guerra
fondato
sulla
Costituzione,
e
sul
Vangelo),
don
Lorenzo
Milani
scrive
che
«la
scuola
siede
tra
il
passato
e
il
futuro,
e
deve
averli
presenti
entrambi».
In
queste
ore,
tutti
noi
sediamo
tra
passato
e
futuro,
tra
un
anno
finito
e
uno
da
iniziare:
come
Giano,
dio
delle
soglie,
abbiamo
un
volto
rivolto
al
passato
e
uno
al
futuro,
e
riusciamo
per
qualche
tempo
a
vederli
entrambi.
Questa
è
la
scuola
che
dobbiamo
frequentare:
la
scuola
di
un
passato
che
ci
aiuti
a
costruire
un
futuro
diverso.
Così,
ho
ripreso
in
mano
un
libro
che
da
troppo
tempo
non
rileggevo,
e
che
è
stato
pubblicato
quando
avevo
quindici
anni,
la
stessa
età
che
ha
oggi
mio
figlio
minore:
I
sommersi
e
i
salvati
,
di
Primo
Levi
(1986).
In
questo
cannocchiale
prospettico
sento
un
uomo
della
generazione
dei
miei
nonni
che
parla
a
me,
per
essere
inteso
dai
miei
figli.
Un
uomo
che
parla
a
fatica,
sapendo
di
essere
poco
ascoltato
e
temendo
di
non
essere
inteso:
«L’esperienza
di
cui
siamo
portatori
noi
superstiti
dei
Lager
nazisti
è
estranea
alle
nuove
generazioni
dell’Occidente,
e
sempre
più
estranea
si
va
facendo
a
mano
a
mano
che
passano
gli
anni.
[...]
Si
affaccia
all’età
adulta
una
generazione
scettica,
priva
non
di
ideali
ma
di
certezze,
anzi,
diffidente
delle
grandi
verità
rivelate;
disposta
invece
ad
accettare
le
verità
piccole,
mutevoli
di
mese
in
mese
sull’onda
convulsa
delle
mode
culturali,
pilotate
o
selvagge».
Levi
non
era
pessimista,
era
realista:
l’arrivo
al
potere
2023-2024:
tra
guerre
e
fascismo
incombente,
non
essere
ciechi
al
futuro
TOMASO
MONTANARI
-
volerelaluna.it
-
29/12/2023
Sull’orlo di questo anno terribile che si chiude, mentre se ne apre un altro che si annuncia non meno
tremendo, penso che almeno questo dobbiamo impararlo: non dobbiamo
distogliere
lo
sguardo
dalla
realtà.
«Al
futuro
siamo
ciechi,
non
meno
dei
nostri
padri»
Mai
come
in
questi
ultimi
mesi
ho
sentito
acuta
la
tentazione
di
una
fuga
nella
vita
privata, e nello studio: la tentazione del silenzio. Perché di fronte al dilagare
sanguinoso
della
guerra
in
nome
dei
“valori
dell’Occidente”,
di
fronte
al
fascismo
di
nuovo trionfante, di fronte a un senso comune che pare aver irrimediabilmente
divorziato
dal
buon
senso,
si
ha
l’impressione
che
davvero
tutto,
e
anche
e
soprattutto
la
parola,
sia
vano.
Ma
è
una
tentazione
alla
quale
bisogna
resistere.
Pensando
a
chi,
prima
di
noi,
è
passato,
anche
personalmente,
attraverso
ben
altre
prove.
E
pensando
a
chi,
dopo
di
noi,
ha
il
diritto
di
ascoltare
parole
di
verità,
e
di
vita.
In
questo
senso,
il passaggio
simbolico
tra
un
anno
che
si
chiude
e
uno
che
si
apre
appare
fecondo
di
significati,
e
di
impegni:
è
il
momento
in
cui
riannodare
il
filo
che
lega
passato
e
futuro.
Un
filo
di
consapevolezza
e
di
lettura
del
mondo.
Un
esercizio
di
discernimento,
che
possa
aiutarci
a
prendere
coscienza
intera
dell’inferno
dei
viventi
che
ci
si
spalanca
davanti,
e
quindi
a
«cercare
e
saper
riconoscere
chi
e
cosa,
in
mezzo
all’inferno,
non
è
inferno,
e
farlo
durare,
e
dargli
spazio»
(così,
notoriamente,
il
Marco
Polo
delle
Città invisibili
di
Italo
Calvino).
Nella
sua
Lettera ai giudici
(che
è
un
giudizio
sulla
guerra
fondato
sulla
Costituzione,
e
sul
Vangelo),
don
Lorenzo
Milani
scrive
che
«la
scuola
siede
tra
il
passato
e
il
futuro,
e
deve
averli
presenti
entrambi».
In
queste
ore,
tutti
noi
sediamo
tra
passato
e
futuro,
tra
un
anno
finito
e
uno
da
iniziare:
come
Giano,
dio
delle
soglie,
abbiamo
un
volto
rivolto
al
passato
e
uno
al
futuro,
e
riusciamo
per
qualche
tempo
a
vederli
entrambi.
Questa
è
la
scuola
che
dobbiamo
frequentare:
la
scuola
di
un
passato
che
ci
aiuti
a
costruire
un
futuro
diverso.
Così,
ho
ripreso
in
mano
un
libro
che
da
troppo
tempo
non
rileggevo,
e
che
è
stato
pubblicato
quando
avevo
quindici
anni,
la
stessa
età
che
ha
oggi
mio
figlio
minore:
I
sommersi
e
i
salvati
,
di
Primo
Levi
(1986).
In
questo
cannocchiale
prospettico
sento
un
uomo
della
generazione
dei
miei
nonni
che
parla
a
me,
per
essere
inteso
dai
miei
figli.
Un
uomo
che
parla
a
fatica,
sapendo
di
essere
poco
ascoltato
e
temendo
di
non
essere
inteso:
«L’esperienza
di
cui
siamo
portatori
noi
superstiti
dei
Lager
nazisti
è
estranea
alle
nuove
generazioni
dell’Occidente,
e
sempre
più
estranea
si
va
facendo
a
mano
a
mano
che
passano
gli
anni.
[...]
Si
affaccia
all’età
adulta
una
generazione
scettica,
priva
non
di
ideali
ma
di
certezze,
anzi,
diffidente
delle
grandi
verità
rivelate;
disposta
invece
ad
accettare
le
verità
piccole,
mutevoli
di
mese
in
mese
sull’onda
convulsa
delle
mode
culturali,
pilotate
o
selvagge».
Levi
non
era
pessimista,
era
realista:
l’arrivo
al
potere