"Dialoghi Mediterranei"
(Bimestrale dell'Istituto euro-arabo di Mazara del Valllo,
scaricabile gratuitamente in pdf)
1 settembre 2021
CREAZIONISMO E DOGMATISMO
Il piccolo libro Cinque assurdità sull’idea di Dio. Pamphlet antiteologico per creazionisti dogmatici (Calibano, Novate Milanese 2020, pp. 92, euro 10,00), a firma di Giorgio Armato, è come un guanto di sfida lanciato al variegato mondo dei monoteismi creazionistici (ebrei, cristiani di varie confessioni religiose, islamici). Poiché non ho alcun diritto – né alcun dovere – di parlare a nome di qualche chiesa, provo a raccogliere il guanto con atteggiamento non apologetico, ma dialogico: per testimoniare l’efficacia ‘provocatrice’ del pamphlet e, dunque, per confermarne l’opportunità in una fase storico-culturale in cui le grandi domande teologiche sono scomparse quasi del tutto dal dibattito pubblico (se si eccettuano, per il panorama italiano, i contributi di Ortensio da Spinetoli, Franco Barbero, Alberto Maggi, Vito Mancuso, Mauro Pesce e pochi altri).
Le cinque assurdità più una
Preliminarmente: quali le cinque assurdità su cui Armato punta il dito accusatore? Prima. Alla domanda perché esiste qualcosa anziché il nulla, il creazionista risponde: perché l’ha creato Dio. Ma è una risposta “inutile” in quanto sposta ulteriormente la domanda: “Perché esiste Dio?”
Seconda. Affermare che il mondo esiste perché creato da Dio significa ritenere essenziale, irrinunciabile, “il concetto di creazione”. Ma allora perché abbandonarlo proprio nel caso di Dio? Insomma: “Chi ha creato il creatore?”
Terza. Dio si sarebbe rivelato a un solo popolo (gli ebrei, dal cui alveo è nato il cristianesimo) o al massimo anche a un secondo (gli islamici). Ma perché questa scelta “elitaria” e, per giunta, limitata nel tempo (la rivelazione ebraico-cristiana e la rivelazione islamica si sono fermate con la morte dei rispettivi profeti) ?
Quarta (“l’assurdità delle assurdità, una meta-assurdità”). A chi chiede la ragione, il motivo, il senso dei dogmi, “preti e teologi” rispondono: “C’è ma non lo sai”. E - aggiungono – tu, essere umano, non lo saprai mai perché, anche se ci fosse comunicato miracolosamente dall’Alto, non saremmo in grado di capirlo.
Quinta. Per i creazionisti il mondo ha una causa, Dio, che a sua volta non ha nessuna causa (è “causa di se stesso”). Ma, per riprendere d’Holbach, “chi ha detto che l’universo debba essere per forza un effetto e non già una causa esso stesso ? E’ esattamente questa la posizione dei più importanti cosmologi e fisici contemporanei: non cercano e non necessitano di alcuna causa al di là dell’universo stesso”.
Sesta. “E’ assurdo che nonostante queste cinque assurdità si continui a parlare di un dio creatore”: “prendere alla leggera l’ipotesi che dio sia un’invenzione è imperdonabile e, da un certo punto di vista, immorale. Poiché su quest’ipotesi “ – più precisamente: sull’ipotesi alternativa che non sia un’invenzione – “si è costruito tantissimo, si sono investite ogni sorta di energie e risorse, sia materiali che spirituali, spesso a scapito di realtà ben più concrete e urgenti”.
Per sfrondare l’albero dai rami secchi
Inizierei questo dialogo con Giorgio Armato da filosofo-di-strada e non da teologo (per quanto eretico) sfrondando il quadro degli argomenti che ritengo meno centrali.
a) Sono totalmente d’accordo con la sua quarta assurdità. Nella storia del cristianesimo (nel cui alveo sono nato e cresciuto culturalmente) si sono snodate due vie alterative principali: il credo quia absurdum (“credo proprio perché è irrazionale”) attribuito a Tertulliano e rilanciato nella modernità da Kierkegaard (qui citato alle pp. 49 – 51) e l’intelligo ut credam (“capisco per credere”) che ha trovato in Pascal la formula per me più efficace (“E’ la ragione che mi deve dire quando è il caso di andare oltre la ragione”). Tra queste due vie (considerate in se stesse, non nelle modalità concrete in cui sono state poi percorse dai loro teorici, dal momento che mi pare di rinvenire molte incoerenze in Kierkegaard - che versa fiumi di inchiostro per rendere plausibili i paradossi della fede - come in Pascal, che salta troppe volte oltre la ragione senza un adeguato lasciapassare) non ho avuto mai dubbi: secondo l’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino (anche se da lui stesso spesso disattesa) nessuna fides (fede) senza preambula (accertamenti razionali preliminari) validi.
b) Sono totalmente d’accordo anche con la terza assurdità. La pretesa ebraica di essere un popolo ‘eletto’ nell’accezione esclusiva e – conseguentemente – le pretese cristiana (il “nuovo popolo eletto”) e islamica (Maometto “avendo probabilmente visto nel dio ebraico un’idea vincente ha deciso di riprodurla in forma nuova per il suo popolo”: “ha fatto come Burger King con McDonald’s: ha aperto il proprio business vicino a quello più celebre per attrarre il pubblico. Ed è andata bene pure a lui”) sono pretese “infantili” (“ogni bambino sogna che il suo eroe preferito si metta a parlare co lui”). Sul tema concordo con l’icastica formula di uno dei miei maestri preferiti, Raimundo Panikkar: supporre di avere un rapporto privilegiato con Dio è solo “teologia tribale”. Il prologo del vangelo secondo Giovanni – in linea con la dottrina eraclitea del Logos e della dottrina ebraica della Sapienza – è inequivoco: in Gesù (anche in Gesù, come in altri prima e dopo di lui) “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv. 1, 9).
c) Sulla sesta assurdità sarei d’accordo, ma con importanti precisazioni. La questione teologica è stata di fatto, e rischia di continuare ad essere, una questione ideologica (o, nel migliore dei casi, meramente intellettuale): in questa prospettiva essa ha costituito nel passato, e può continuare a costituire nel presente, un alibi per non assumersi le responsabilità storiche. Bisogna riconoscere, però, che essa è stata vissuta – e può esserlo ancora – come una questione esistenziale: la mia vita è assoluta (soluta ab omnibus= “sciolta da ogni cosa”) o relativa a un Altro, a un Oltre, a un Tu, a un Tutto? La risposta indicata dal messaggio evangelico è di una semplicità disarmante (oltre che di una risonanza universale, comune a molte altre tradizioni sapienziali del pianeta): sei un essere-per-gli-altri. E’ attraverso la compassione sincera, la solidarietà attiva, l’impegno quotidiano e concreto per la liberazione da ogni forma di sofferenza dei viventi che realizzi la tua umanità: questa è la condizione basilare, essenziale, per cercare il senso del tuo esistere. Se vuoi bypassare questa pista di decollo, non vai verso nessun cielo: “se non ami il prossimo che vedi, come puoi dire di amare il Dio che non vedi ?” (I Gv. 4 - 20). Senza la mediazione del “volto dell’altro” (Levinas), la domanda sull’Altro è alienante. Ciò premesso e stabilito fermamente, si ha il diritto morale di assecondare l’inquietudine filosofica di chi non si accontenta di una risposta esistenziale perché vuole capire, ragionare, discutere, confrontarsi. In questa indagine esplorativa a trecentosessanta gradi il pensante non può ignorare che, tra mille ipotesi teoriche, vada esaminata anche l’ipotesi creazionistica. Su questo punto il mio accordo con Giorgio Armato viene meno: non trovo per nulla “assurdo” che non si scarti a priori, come manifestamente insostenibile, l’idea (condivisa da personaggi non proprio ingenui come Agostino, Avicenna, Tommaso, Cartesio, Leibniz, Bergson, Teilhard de Chardin , Ricoeur…) che l’universo empirico non esaurisca l’orizzonte dell’Intero. Un Dio creatore non è certo evidente, ma non è evidente neppure la sua inesistenza. E’ una problematica che va affrontata con i soli mezzi a disposizione di noi mortali: l’intelligenza e il confronto dialettico senza preclusioni dogmatiche di nessun segno.
Il gioco si fa serio
Liberato il campo da alcuni equivoci preliminari, restano da affrontare le questioni più impegnative, cui si riferiscono la prima, la seconda e la quinta ‘assurdità’ del testo in esame. Se dobbiamo discuterne seriamente bisogna a mio avviso chiarire due premesse che nelle pagine di Armato sembrano assodate a-problematicamente.
Prima premessa: la domanda ontologica (sull’essere di ciò che esiste) è radicalmente altra dalla domanda descrittiva (su come si sia originato ed evoluto – o involuto o sviluppato a fasi alterne di evoluzione e involuzione – l’universo empiricamente accessibile). Lo ha espresso meravigliosamente l’astrofisica (notoriamente atea) Margherita Hack: noi scienziati studiamo l’universo che osserviamo così come esiste. Se qualcuno vuol chiedersi perché mai esista un universo osservabile, sappia che sta andando oltre la scienza. Per Hack oltre la scienza c’era solo la fede (che a lei non interessava); per me oltre la scienza c’è anche la filosofia (che a me interessa molto). Ciò che è certo è che nessuno scienziato ha mai potuto affermare qualcosa di scientificamente plausibile sull’origine radicale dell’universo perché o non c’è mai stato un passaggio dal nulla all’essere o, se ci fosse stato, non sarebbe oggetto possibile di ispezione ipotetico-sperimentale.
Personalmente trovo incontrovertibile l’intuizione di Parmenide (ripresa ai nostri giorni da Gustavo Bontadini e dal suo discepolo ‘ribelle’ Emanuele Severino) : dal nulla assoluto non può emergere l’essere né l’essere può davvero transitare nel nulla assoluto. Se ‘qualcosa’ esiste davvero, esiste da sempre e per sempre. La vera questione verte sui caratteri di questo ‘qualcosa’ di ingenerato e di imperituro: è solo ‘qualcosa’ o, a modo suo, anche un ‘qualcuno’?
Ma qui si delinea la necessità di una seconda premessa: la filosofia non ha nessuna competenza sulla questione della longevità dell’universo. Esso è eterno? Ha avuto un inizio cronologico? Avrà un termine cronologico? Non ritengo che l’ontologia offra elementi per rispondere: solo le scienze naturali potranno, se e quando lo potranno, pronunziarsi con competenza. Il rimando da effetto (figlio) a causa efficiente (genitori) che sia a sua volta effetto di altra causa efficiente (i nonni) sino a risalire ai primati, dai primati ai microbi, dai microbi alla polvere di stelle…non interessa l’ontologo.
Ma se non è competenza del metafisico stabilire l’età dell’universo, lo è invece interrogarsi sulla sua consistenza ontologica: sul suo grado di realtà. Ciò che vediamo è che, nell’orizzonte sperimentabile, ogni cosa è connessa con tutto il resto: gli enti non esistono se non in una rete di enti interconnessi. La domanda metafisica è: questa rete di enti contingenti (che forse ha avuto un inizio temporale o che probabilmente è sempiterna) è essa stessa contingente (esiste, ma potrebbe anche non esistere)? Francamente non vedo come si potrebbe rispondere negativamente. Se un bicchiere di vetro è fragile, moltiplicato all’infinito (nel tempo e nello spazio) darà mai un set di bicchieri di vetro infrangibili?
Se noi, enti contingenti, nuotiamo in un universo di enti contingenti, abbiamo due principali scenari: l’assurdismo (di cui Nietzsche e Sartre mi sembrano i maestri insuperati) o una qualche forma di teismo. O tutto nasce senza ragione, vive senza uno scopo, muore senza un motivo (Sartre) per cui in principio non era il Senso, il Logos, ma l’Assurdo, il Non-Senso (Nietzsche) oppure la totalità degli enti galleggia grazie a un Fondo/Fondamento che ne costituisce la ragion d’essere radicale: non grazie a un Super-ente, un Entissimo causa sui (“causa di se stesso”, formula auto-contraddittoria e inintelligibile), ma a un Essere-in-sé ontologicamente differente da ogni essente ipotizzabile. L’Essere necessario starebbe a tutti gli enti passati, presenti e futuri non come la prima zattera rispetto alle barche, alle navi e ai sommergibili, ma come il mare rispetto a ogni imbarcazione passata, presente o futura (di cui costituisce la condizione di possibilità ‘trascendentale’: la ragion d’essere e il supporto perenne).
Modelli del rapporto fra Essere necessario ed enti contingenti
Che relazione possiamo ipotizzare fra Essere necessario ed enti contingenti? Davanti alla gamma di proposte offerte dalla storia delle idee e delle civiltà c’è l’imbarazzo della ‘scelta’ (operata – si auspica – in base non a proprie paure e desideri, ma a considerazioni teoretiche per quanto possibile ‘disinteressate’). Per esaminarle, però, bisogna spazzar via il campo dalla dicotomia spirito / materia. L’Assoluto su cui indaghiamo è Essere e, in quanto tale, precede ogni eventuale differenza fra ciò che esiste immaterialmente e ciò che esiste materialmente.
Una prima prospettiva: il monismo. L’Essere è Sostanza e gli enti ne sono i ‘modi’ (Spinoza): un unico Diamante poliedrico dalle innumerevoli facce. E’ la prospettiva ‘panteistica’ che alcuni ritengono la versione “cortese” dell’ateismo: “Caro Dio, tu esisti. Ma coincidi pari pari con l’universo sperimentabile”.
Una seconda prospettiva: il dualismo demiurgico. L’Essere si articola, intrinsecamente e dunque da sempre, in due sfere: la sfera delle Idee (o Forme o Essenze o Tipi o Modelli) e la sfera della Chora (o Materia informe, indeterminata, plastica, oscura) (Platone). Fra queste due dimensioni dell’Essere nessun contatto, nessuna relazione, tenace parallelismo. Solo l’ipotesi – speculativa ma formulata miticamente - di un Terzo attore (il Demiurgo, l’Artigiano, il Plasmatore) può spiegare l’universo in cui di fatto, innegabilmente, viviamo e di cui siamo parte (cosciente): Egli ha manipolato la Chora in maniera che essa riproducesse, per quanto imperfettamente, i Modelli ideali eterni e ingenerati. Da qui l’impasto di intelligibilità e di tenebre di cui sono costituiti gli enti di cui possiamo avere sensazione (‘sensibili’), a cominciare dal groviglio di luce e ombra che noi stessi siamo.
Una terza prospettiva: il creazionismo radicale. Può considerarsi un’elaborazione ulteriore del dualismo demiurgico. Probabilmente per una lettura esegeticamente scorretta della Bibbia e comunque per esaltare il ruolo del Demiurgo, lo si è identificato con l’Essere ‘necessario’ (= necessariamente esistente) e gli si è attribuita non solo la plasmazione della Chora ma l’origine (temporale o eterna) della sua stessa esistenza. La formula abitualmente adoperata dagli stessi sostenitori della teoria è depistante: creatio ab nihilo (“creazione dal nulla”). Non si può non pensare all’atto magico di un Essere che, sforzandosi di pensare fortemente il mondo, riesce a farselo comparire davanti. In realtà gli enti non possono derivare dal nulla, ma solo dall’Essere, per cui la formula meno imprecisa sarebbe: productio alicuius rei secundum suam totam substantiam, nullo praesupposto (“produzione di qualche cosa secondo l’interezza del suo essere, senza presupporre nulla”) tranne l’Essere creante. Dunque: productio ex nihilo sui (cioè dal non-essere-ente-di-quell’ente), ma non ex nihilo causae efficientis et finalis (cioè dal Nulla assoluto perché, invece, deriva da un Essere che ne è causa efficiente radicale e fine ultimo) (san Tommaso d’Aquino).
E’ però vero: il creazionismo radicale lascia inevase troppe obiezioni, a cominciare dal perché l’Essere, in sé autosufficiente, renda partecipe altri della sua consistenza ontologica. La risposta ‘classica’ è : per generosità (Bonum diffusivum sui est= “il Bene è di suo espansivo”). Ma, se così fosse davvero, come spiegare il mare perenne di sofferenza che accompagna, sempre e dovunque, i viventi (soggetti alla lotta per la sopravvivenza, alle malattie, alla morte) ? La ricerca sul tema è in piena attività. Giorgio Armato, nei limiti impostisi di un testo agile per non-specialisti, non poteva darne conto; ma, a beneficio di lettori più pazienti, bisogna almeno segnalare alcune piste di indagine metafisica.
Vito Mancuso, ad esempio, ha rilanciato in Italia una quarta prospettiva: il pan-en-teismo. Esso “pensa Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio. Non sostiene però, a differenza del panteismo, che la somma di tutte le cose esaurisca la divinità di Dio annullando la trascendenza, né che l’essere creato non goda di una sua autonomia annullandone la libertà. Secondo il panenteismo il mondo contiene Dio, ma non è Dio, non è l’assoluto, esiste una dimensione che lo trascende; e tale trascendenza, tale rifiuto di identificare Dio con il mondo, è anche ciò che rende possibile pensare l’autonomia del mondo” . Probabilmente non siamo lontani dal Giordano Bruno (citato da Armato a p. 83) per il quale il Deus in omnibus (l’unico conoscibile) non escludeva un Deus super omnia (irrimediabilmente inconoscibile). Sicuramente siamo molto vicini a tutti quegli autori, di varie aree culturali del pianeta, accomunati dal post-teismo che Claudia Fanti e Ferdinando Sudati stanno facendo conoscere in Italia nella Collana dell’editrice Gabrielli intitolata Oltre la religione .
A mò di conclusione (poco conclusiva)
Non so con quanto successo, ma con queste brevi note mi riproponevo tre obiettivi:
a) evidenziare l’opportunità di un pamphlet , come queste Cinque assurdità sull’idea di Dio, che scuota i credenti nel monoteismo creazionistico ‘tradizionale’ dal sonno dogmatico. In genere, essi lo accolgono da bambini e se lo portano dietro non come ipotesi di ricerca iniziale ma come approdo di una ricerca mai iniziata che li esonera dalla fatica intellettuale e dal travaglio esistenziale;
b) restituire del creazionismo una visione meno approssimativa di come possa risultare da qualche passaggio di questo pamphlet: è una teoria con una sua dignità teoretica e una sua plausibilità argomentativa;
c) informare i lettori meno aggiornati sulle discipline filosofico-teologiche (non tutti possiamo seguire tutto lo scibile umano!) che il creazionismo, anche in versione corretta e in nessun tratto parodistica, presenta aspetti critici e punti deboli. Anche chi come me, a differenza di Armato, non lo giudica “assurdo”, ne vede i forti limiti ed è spinto a non fermarsi nell’interrogazione. Una simile problematicità può essere considerata incompatibile con una fede ‘cristiana’ (soprattutto ‘cattolica’). Non, però, con una fede ‘gesuana’ il cui criterio discriminante - almeno stando ai vangeli – non è l’ortodossia, bensì l’ortoprassi: “Non chiunque mi dice ‘Signore Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7, 21) , dunque colui che ha dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da vestire agli ignudi, ospitalità agli stranieri … ( cfr. Matteo 25, 31 – 46). Possiamo concederci il lusso di fare teologia e filosofia, ma solo se - prima, durante e dopo – ci impegniamo almeno altrettanto nella liberazione degli impoveriti del pianeta (cominciando, senza fermarci ad essi, dai disgraziati della porta accanto).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com