giovedì 31 gennaio 2008

DA 120 ANNI A PALERMO


“Repubblica - Palermo”
31.1.08

L’EPOPEA DEI SALESIANI

Proprio il 31 gennaio 1888 (esattamente120 anni fa) moriva in Piemonte don Giovanni Bosco, uno dei santi più popolari della storia cattolica recente. Anche in Sicilia, come in altre 128 nazioni del pianeta, i suoi religiosi (”Salesiani” in omaggio a San Francesco di Sales) e le sue religiose (”Ausiliatrici” in omaggio alla Madonna) aprirono istituti dedicati non solo alla vita liturgica ma anche alla mission specifica: evangelizzare i giovani ed educarli ad una cultura del lavoro responsabile e qualificato. A Palermo questo significò, il 25 marzo del 1902, la fondazione del Collegio “Sampolo”. Verso gli anni Trenta, fu possibile acquistare, a ridosso del viale della Libertà, uno spazio che servisse come Oratorio estivo, prima, e successivamente, verso gli anni Cinquanta, come Scuola per gli alunni ‘esterni’ che, dopo le lezioni, tornavano alle famiglie di provenienza. Nacque così il “Ranchibile”, polo scolastico destinato ai figli delle classi medie ed alte: Liceo Scientifico e solo maschile sino al 1988, da quella data anche Classico ed Economico nonché aperto alle ragazze (come da anni aveva deciso il suo ‘contraltare’, il non meno prestigioso “Gonzaga” dei Gesuiti). In quello stesso periodo, non lontano dal “Ranchibile”, i Salesiani accettano di gestire anche una parrocchia a ridosso di via Marchese di Villabianca: prestando singolare attenzione, anche da qui, alla catechesi e all’animazione dei più giovani.

Come don Bosco, i Salesiani di Palermo sanno di dover privilegiare - o per lo meno di non dover trascurare - i giovani in condizioni di partenza più sfavorevoli: così, subito dopo la prima guerra mondiale, aprono a Santa Chiara, nel cuore di Ballarò, un istituto per orfani da avviare al lavoro di tipografo, falegname, rilegatore, calzolaio e sarto. Molti di questi acquistarono fama meritata sia per preparazione che per correttezza: sino al boom dell’arredamento fabbricato industrialmente, sono state rare le famiglie che non abbiano avuto in casa un armadio o un salotto costruito da un ex-alunno salesiano. Quando, negli anni Sessanta, gli spazi del centro storico risultarono angusti, la formazione professionale - allargata verso nuove specializzazioni tecniche - fu spostata in un nuovo edificio in via Evangelista Di Blasi (l’attuale “Gesù Adolescente”) e i vecchi locali di Ballarò servirono come centro di accoglienza per famiglie disagiate e poi per immigrati, gestito da figure in qualche misura mitiche come don Rocco Rindone e - successivamente - don Baldassare Meli (che, dopo molte battaglie contro la pedofilia nel quartiere, non sentendosi adeguatamente sostenuto dai confratelli, ha lasciato la città e la stessa Congregazione salesiana per andare a fare il parroco nella Diocesi di Mazara del Vallo).
Quante migliaia di cittadini hanno attraversato, per segmenti più o meno significativi della loro vita, questi spazi? Impossibile fare un conto degli alunni, degli insegnanti, dei volontari, degli obiettori di coscienza al servizio militare, dei sostenitori e dei fruitori di così diversificati servizi. Ci sono stati dei momenti - per esempio in occasione delle penultime elezioni regionali - in cui la contesa elettorale fra un ex-alunno dei Gesuiti, Leoluca Orlando, e un ex-alunno dei Salesiani, Salvatore Cuffaro, sembrò acquistare un significato simbolico: quasi di contrapposizione fra due modi alternativi di intendere il rapporto fra la fede personale e l’impegno nel sociale. La realtà, ovviamente, era più complessa: non tutti i Gesuiti si riconoscevano nella ‘laicità‘ di Orlando così come non tutti i Salesiani nel ‘confessionalismo’ di Cuffaro (e, meno ancora, nella spregiudicatezza del suo illustre predecessore Marcello Dell’Utri). I due potenti Ordini religiosi, d’altronde, erano - e restano - affiancati, per saecula saeculorum, in una stessa battuta umoristica: “A Dio, onnisciente, sfuggono solo due cose al mondo: dove trovano tanti soldi per le loro opere i Salesiani e cosa pensa davvero un Gesuita”.
Ma cosa caratterizza, almeno nel ricordo di alcuni ex- alunni, il metodo educativo “preventivo” di don Bosco? Ascoltando varie testimonianze, ritornano con più insistenza due note. La prima, positiva, è di un approccio esperienziale più che dottrinario: detto in parole più semplici, i Salesiani ritenevano che l’esempio dei preti e degli allievi più grandicelli fosse molto più efficace, pedagogicamente, delle prediche. Da qui la prossimità degli educatori a tutti i momenti di vita quotidiana degli educandi (studio, preghiera, ricreazione, attività musicali, sport…). Ma proprio questa vicinanza tradiva, almeno sino ad una ventina di anni fa, una seconda nota caratteristica - e molto meno simpatica - degli ambienti salesiani: la tendenza a controllare, con una occhiutaggine che in qualche caso risultava maniacale, le pieghe della psicologia adolescenziale, soprattutto in relazione al tema della ‘purezza’. Che significava attenzione un po’ ossessiva a quelle che, in situazioni di segregazione monosessuale, venivano considerate le due tentazioni più insidiose: l’amore ’solitario’ e le amicizie ‘particolari’ .
Intanto passano i decenni, nella Chiesa cattolica mutano le mentalità e le sensibilità. Qualcosa, gloriosamente, resiste: come il Cineclub “Don Bosco” che continua a rappresentare, per moltissimi fruitori, l’occasione preziosa di vedere film che i circuiti commerciali boicottano oppure ospitano per pochissimi giorni. Con pregi e difetti, la ventata della secolarizzazione investe anche gli ambienti dei discepoli di don Bosco, rendendoli più disinvolti. Così neanche borghesi di successo, come Alessandro Albanese, il presidente del potente consorzio ASI (Area di sviluppo industriale), nutrono dubbi: e iscrivono i loro figliuoli in quegli stessi corsi che hanno frequentato da studenti.

venerdì 25 gennaio 2008

UN IMPEGNO PER LA COLLETTIVITA’


Centonove 25.1.2008

Qui di seguito una traccia dell’intervento di Augusto Cavadi al seminario di formazione etico-politica organizzato il 29 settembre 2007 dall’Associazione “Donne per Messina”.

FILOSOFIA AL SERVIZIO DELLA POLITICA

In questo incontro cercheremo di rispondere, insieme, ad una domanda un po’ insolita: c’è un rapporto fra la filosofia e la politica? Per rispondere occorre precisare, preliminarmente, cosa intendiamo per ‘filosofia’ e cosa intendiamo per ‘politica’. La mia proposta è d’intendere la filosofia non come una disciplina scolastica (la storia delle idee prodotte in Occidente dai greci ad oggi) né come una disciplina universitaria (la proposizione argomentata di nuovi sistemi teoretici), ma in una terza accezione che si accompagna, senza polemica, con le prime due: la filosofia come pratica quotidiana (l’esercizio critico della ragione sulle esperienze personali e sociali). Letteralmente filo-sofia dovrebbe tradursi con “passione per la sapienza” ma, per rendere meglio l’angolazione che vorrei proporre oggi, la tradurrei con “passione per la saggezza”.

Cosa intendere, sempre in via preliminare, dunque ipotetica ed approssimativa, con ‘politica’? Anche qui mi servirebbe una torsione rispetto al linguaggio ordinario: la politica non come tecnica del potere (soprattutto attraverso la gestione degli apparati partitici), bensì come “arte della convivenza”.
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Chiarite le due parole-chiave della riflessione odierna, proviamo a scandagliarle più in profondità una dopo l’altra.
La filosofia come passione per la saggezza: dunque come ricerca del sapere e del saper vivere; come capacità di ben pensare ma anche di agire in conseguenza di ciò che si pensa. Così concepita, la filosofia è una possibilità per tutti (in linea di diritto), ma una prerogativa di pochi (in linea di fatto): non tutti quelli, insomma, che hanno la potenzialità per filosofare, mettono a frutto effettivamente tale risorsa. E perché mai lo dovrebbero? Esaminerei, per farla breve, i cinque motivi principali peri quali, a mio parere, è opportuno coltivare - sia pure non da professionisti - la filosofia. Come potete leggere nelle prime pagine del mio “E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze” (Di Girolamo, Trapani 2006), il primo motivo è il piacere di conoscere: cercare di penetrare con la mente al di là dei veli che nascondono la realtà delle cose, indipendentemente da interessi tecnici o economici, può farci piacere esattamente come guardare con gli occhi un panorama o un bel corpo o un’opera d’arte. Un secondo motivo è più legato alla nostra dimensione lavorativa: la filosofia può aiutarci a riflettere sul senso, sui metodi e soprattutto sugli scopi della nostra attività professionale (di ingegneri, biologi, avvocati o maestre di scuola materna). Un terzo motivo ci tocca non come parlamentari o come operai, per esercitare con più consapevolezza il nostro mestiere, ma come persone: per vivere più consapevolmente la nostra esistenza. Perché amare, perché affrontare le sofferenze, perché impegnarsi anche senza previsione di un ritorno a nostro vantaggio? Ecco alcune domande che la filosofia è solita affrontare per orientarsi nella vita. Un quarto motivo scaturisce dalla nostra condizione mortale: la fragile finitudine del nostro essere ci fa ipotizzare un Tu trascendente, ma si tratta di un’ipotesi plausibile? Le religioni promettono molto, ma molto fanno pagare come prezzo delle loro promesse: la filosofia può accompagnarci nell’assumere posizioni critiche in campo teologico. Infine un quinto motivo - con cui entriamo in pieno nella problematica di questo incontro: la filosofia può sostenerci nel tentativo di agire in politica con responsabilità. Facendoci riflettere (come abbiamo provato insieme nel ciclo precedente sulle ideologie del Novecento) sulle diverse culture politiche, ci può consentire di lavorare per la città non solo con il cuore, ma anche con la testa. Max Weber ce l’ha insegnato: chi vuole agire in politica non deve avere solo ferme convinzioni di principio, ma anche la lucidità di prevedere le conseguenze storiche, oggettive, delle sue decisioni.
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Qualche considerazione sulla seconda parola-chiave: la politica. Gli esperti fanno notare che essa, in Occidente, ha attraversato tre grandi stagioni. Nel mondo greco è stata intesa e praticata come partecipazione al proprio microcosmo (la città, la “polis” appunto). Con il rinascimento e la formazione degli Stati nazionali moderni la politica non è stata più un’autogestione sociale, popolare, della ‘cosa pubblica’ (della ‘res publica’), ma si è andata configurando come il diritto-dovere di un ceto (i governanti) a favore, o a spese, degli altri strati sociali (i governati). Fare politica, da Machiavelli ai nostri giorni, ha significato saper gestire gli apparati dello Stato (soprattutto dei tre poteri fondamentali: legiferare, amministrare, giudicare). Oggi, accanto ed oltre alla politica centrata sullo Stato, si va profilando una terza interpretazione: la politica come impegno diffuso per migliorare la qualità della vita (locale e planetaria). Un impegno che sia, ovviamente, non solo individuale e/o occasionale, ma collettivo e sistematico: come diceva don Milani, affrontare da soli i propri problemi è egoismo, affrontarli con gli altri è politica.

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Dopo aver telegraficamente chiarito cosa intendiamo per filosofia e cosa per politica, possiamo finalmente rispondere - concludendo - alla nostra questione: come la filosofia può avere degli effetti chiarificatori e delle ricadute rafforzative rispetto al nostro agire per il bene della città?
Innanzitutto, direi che la filosofia può agevolare il nostro impegno politico plasmando la nostra soggettività: come ha scritto efficacemente Hadot, sono numerosi quelli che si immergono nella preparazione della rivoluzione sociale, ma rarissimi i capaci di rendersi degni della rivoluzione che vogliono preparare. Ancora: la filosofia può spezzare la cappa della miopia amministrativa ed aprire orizzonti utopici. Edgar Allan A. Poe l’ha saputo esprimere felicemente: chi sogna solo di notte si perde molte cose che si manifestano a chi sa sognare anche di giorno. Ma non vorrei confermare il pregiudizio secondo cui la filosofia serve solo a volare trentamila metri sopra il cielo. Essa, infatti, può svolgere egregiamente un terzo compito: elaborare un metodo di discussione razionale fra i cittadini di diverso orientamento ideale e di diversi interessi materiali. La cattiva filosofia ci può istruire sull’arte del compromesso, ma quella valida sull’arte della mediazione democratica. Pensatori contemporanei come J. Rawls si sono impegnati, lungo tutta l’arco della loro attività, a stabilire le regole migliori per arrivare ad un consenso sociale che non sia più basato sulla minaccia dei più forti nei confronti dei più deboli.

mercoledì 23 gennaio 2008

POLITICA E CHIESE


“Repubblica - Palermo”
23. 1.08

Veglie in chiesa.
Il disagio cattolico

Come spesso all’inizio della messa, anche domenica don Cosimo Scordato ha chiesto ai fedeli della chiesa di san Francesco Saverio all’Albergheria quali avvenimenti della settimana appena conclusasi li avessero colpiti, in bene o in male. Dunque con quali gioie e con quali angustie si riunissero a fare memoria attualizzante della cena del Nazareno. Tra le varie risposte - che in realtà erano formulate come controdomande: perché questo papa, che dovrebbe essere fautore di riconciliazione, è riuscito ancora una volta a spaccare il mondo dei suoi interlocutori, in questo caso il mondo dei docenti e degli studenti della “Sapienza” di Roma ? E perché un Ministro della giustizia si scaglia contro una parte di quella magistratura che dovrebbe proteggere dagli attacchi dei delinquenti e dei fuorilegge? - le più insistenti riguardavano la cronaca siciliana. Più di uno dei presenti si è dichiarato turbato all’idea che, pochi giorni prima, altri cattolici praticanti si fossero potuti riunire in preghiera, in altre chiese, in attesa della sentenza giudiziaria sul presidente della Regione in carica.

“Suppongo - ha risposto il celebrante che è anche docente della Facoltà teologica di Sicilia - che la richiesta a Dio non fosse di un’assoluzione ‘a prescindere’: anche perché, in questo caso, non si potrebbe dire che il Padre eterno sia stato abbastanza disponibile all’ascolto. Probabilmente, secondo lo spirito autentico del Vangelo - che è parola di verità e di giustizia - quei nostri fratelli nella fede avranno pregato perché i magistrati, illuminati dallo Spirito divino, potessero esprimere un giudizio quanto più vicino possibile alla legalità democratica e all’equità. Comunque, quale che possa essere stata l’intenzione di altri, proporrei di chiarirci insieme le possibili motivazioni di questa nostra assemblea eucaristica odierna.
Per quanto mi riguarda - ma ciascuno e ciascuna di voi saprà aggiungere altre intenzioni - riterrei urgente pregare innanzitutto perché l’Onnipotente assista le nostre guide ecclesiali e civili. Le nostre guide ecclesiali affinché svolgano con fermezza la loro missione, ma evitando di identificare la propria causa con la causa del Regno di Dio: evitando di dimenticare che non è la storia dell’umanità in funzione della gloria della Chiesa, piuttosto la Chiesa a servizio della fraternità e della libertà degli uomini. Le nostre guide civili, i nostri politici nazionali e locali: perché, in ogni caso e in particolare nel caso che si dicano cristiani, non nominino il nome di Dio invano; perché evitino - dovendo scegliere fra la famiglia e il potere - di optare per il potere della famiglia; perché sappiano subordinare in ogni momento gli interessi privati al bene pubblico.
Ma sarebbe troppo facile pregare per la conversione degli altri senza auspicare la propria e senza impegnarsi di conseguenza. Infatti non ci sarà nessun miglioramento nei comportamenti del ceto dirigente se noi, come comunità, non chiederemo perdono per le nostre responsabilità. Se non rivedremo radicalmente la nostra tendenza a disinteressarci di ciò che avviene nella comunità ecclesiale, nella società e nelle istituzioni; a mantenerci in una sorta di aurea neutralità, senza renderci conto che non prendere posizione è già una presa di posizione; a non firmare deleghe in bianco senza prenderci la briga, faticosa, di chiedere conto periodicamente ai nostri rappresentanti del loro operato. Solo se ognuno di noi sarà disposto ad investire un po’ di tempo e di energie nel seguire le vicende della cosa pubblica, in modo da farsi dei criteri di giudizio fallibili ma fondati e da poter far sentire conseguentemente la voce individuale e collettiva da parte della base, potremo sperare in uno spiraglio di luce. Che il Signore ci liberi dal peccato, ma anche dalle strutture di peccato che ci immergono un po’ tutti in un pantano di compromessi: in quelle zone grigie che rendono la vita di noi tutti, ma soprattutto dei più deboli, appesantita da sofferenze inutili”.
Anche questa domenica si riconoscevano tra i presenti alla strana omelia diverse persone che non si dichiarano credenti, ma che seguono questi momenti di vita comunitaria nella convinzione che - al di là di ogni peloso confessionalismo - siano occasioni di partecipazione anche etica e civile, di sprono a non scoraggiarsi davanti alla marea montante della sfacciataggine di chi chiama bene l’illecito e stupida l’onestà. Non pare che se ne tornino a casa delusi.

venerdì 18 gennaio 2008

STORIA DI DUE QUACCHERE


Centonove 18.1.2008

NELLE GRINFIE DELL’INQUISIZIONE

I quaccheri, nella variegata e variopinta famiglia delle confessioni cristiane, sono tra i più intransigenti sostenitori del pacifismo e della nonviolenza. Un intrigante documento di questa propensione è costituito dal racconto autobiografico di due donne inglesi del Seicento che una docente dell’Università di Catania - Stefania Arcara - ha tradotto e arricchito di una lunga e dotta “Introduzione”, oltre a sobrie note a piè di pagina. E’ così arrivato nel circuito editoriale, in questi giorni, l’ elegante volume Messaggere di luce. Storia delle quacchere Katherine Evans e Sarah Cheevers prigioniere dell’Inquisizione (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007, pp. 183, euro 20,00), ospitato nella Collana “Oi cristianoi” diretta magistralmente da Sergio Tanzarella. .

Le due amiche (”predicatrici, profetesse, visionarie, indomite viaggiatrici”) ardono dal desiderio di convertire alla loro confessione religiosa persino gli africani e così partono da Plymouth alla volta di Alessandria d’Egitto. Ma, dopo uno scalo a Livorno, dovranno fare una seconda tappa a Malta. L’accoglienza nell’isola è principesca: il console inglese le invita a casa e le presenta a parenti ed amici. Purtroppo fanno parte della cerchia anche dei Gesuiti che non gradiscono lo zelo missionario delle due protestanti e le denunziano al tribunale dell’Inquisizione. Che, ovviamente, le sottopone a processo. Un processo un po’ strano, in verità: le imputate, con fierezza, sostengono di essere state incaricate da Dio stesso di convertire dalle false credenze e dai costumi immorali il resto dell’umanità, a cominciare proprio dai…giudici dell’Inquisizione. Gli estenuanti, ripetuti interrogatori sono per Katherine e Sarah l’occasione di esporre il “credo” della chiesa fondata da George Fox cui appartengono: un “credo” che recupera l’essenziale del messaggio cristiano (compresa la possibilità per le donne di esercitare - come sottolinea Adriana Valerio nella sua Premessa - il dono della profezia), che valorizza la luce naturale dell’intelligenza (meritandosi, come ricorda Pier Cesare Bori nella sua Postfazione le lodi di pensatori quali Voltaire, Emerson, James, Weber) e che rifiuta, con fermezza, quei dogmi che la chiesa cattolica ha ritenuto di poter formulare, nel corso dei secoli, a partire dal dato biblico originario. L’esito del processo è scontato. Alle prigioniere viene posta innanzi l’alternativa: “Se prenderete il nostro sacramento, potrete avere la vostra libertà, altrimenti il Papa non vi rilascerà neanche per milioni d’oro, ma perderete le vostre anime e anche i vostri corpi”. La risposta, però, è altrettanto scontata: “Il Signore si prende cura delle nostre anime e i nostri corpi sono liberamente offerti al servizio del Signore. (…) Il Signore non ha affidato la responsabilità delle nostre anime al Papa, né a voi”. La reazione diventa sempre più dura, sino alle minacce più feroci: “Sarai frustata, squartata e bruciata questa notte a Malta, insieme alla tua compagna”. Con questo decorso, ci si sarebbe aspettato il peggio. Imprevedibilmente, però, l’Inquisitore alla fine le lascia partire per la madre patria (dove arrivano passando, tortuosamente, per l’Italia, la Spagna e il Marocco).
Chiuso il libro, è difficile dimenticare le protagoniste (anche se il genere letterario della loro scrittura, zeppo di citazioni bibliche implicite e di stereotipi leggendari, è ormai lontano dai nostri gusti): costituiscono quasi una sintesi di tutto l’anticonformismo che si poteva sperimentare nel loro ambiente. In una società maschilista, sono donne attivamente intraprendenti; contro la chiesa ufficiale anglicana, aderiscono ad una comunità cristiana minoritaria ed anti-istituzionale; a differenza dei loro persecutori, si appellano alla “mansuetudine” dei nonviolenti (”Cristo non era un persecutore, non imprigionò mai nessuno, né fece mai soffrire nessuno”). Quando un frate dell’Inquisizione ordina di mettere i ceppi ai piedi di Sarah , come sottolinea Arcara nel suo saggio, “lei lo affronta con un disarmante gesto di non-violenza, chinando il capo: ‘Non solo i miei piedi, ma le mani e il collo offro per la testimonianza di Gesù′, tanto che l’ira dell’uomo si placa”. Quando, dopo aver spiegato che i cattolici “giudicavano dannati tutti coloro che non erano della loro fede”, viene loro chiesto se condividessero lo stesso giudizio nei confronti dei non appartenenti alla “Società degli Amici”, rispondono: “No, we had otherwise learned Christ”. Quando apprendono che stanno per arrivare, nell’isola in cui sono recluse, “venti navi provenienti dalla Francia e dalla Spagna per unirsi ai Cavalieri di Malta nella guerra contro i Turchi”, una di loro avverte l’esigenza interiore di “profetizzare contro di loro”: “Non andate ad assassinare, ad uccidervi l’un l’altro. Cristo non è venuto per distruggere la vita, ma per salvarla”. Purtroppo l’appello rimane inascoltato: i prodi guerrieri cristiani “tornarono con grande perdite e la loro gioia si trasformò in dolore, la loro allegria in lutto”. Come spesso sarebbe accaduto, anche quella volta la crociata contro l’impero del Male si risolse in un boomerang fallimentare.

martedì 15 gennaio 2008

NOBILTA’ E CARITA’


REPUBBLICA – PALERMO
15.1.2008

IL CLUB DELLE NOBILDONNE FRA I POVERI DELL’ALBERGHERIA

Chi ha il privilegio di visitarla, in occasione della celebrazione di qualche matrimonio, ne rimane incantato. E’ la così detta Cappella delle Dame, all’interno di un complesso barocco in via del Ponticello, fra l’Università di via Maqueda e il mercato di Ballarò. Una recentissima, lussuosa pubblicazione a cura di Raffaella Riva Sanseverino e Angheli Zalapì (Oratorio delle Dame al Giardinello, Abadir, San Martino delle Scale - Palermo 2007, pp. 207) ne indaga la storia, la struttura architettonica, l’apparato decorativo. Le due autrici principali sono coadiuvate dai contributi di Maria Concetta Di Natale (che illustra alcune opere d’arte in relazione alla committenza nobiliare) e di Cosimo Scordato (che, con la solita eleganza, propone una lettura estetico-teologica dell’iconografia).

Ma quali vicende umane e quali ideali di vita hanno originato, e mantengono tuttora in piedi, questo prezioso contenitore? Il nocciolo è un’associazione di nobildonne che, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, decidono di aggregarsi a scopi sia di edificazione religiosa personale che di servizio nei confronti degli strati più indigenti del quartiere Albergheria. Nasce così (secondo l’erudito settecentesco Antonino Mongitore, proprio nel 1608, esattamente quattro secoli fa) la “Congregazione di Maria Santissima dell’Aspettazione al parto”, formata da dame sposate o nubili che, pur restando nei ruoli sociali di appartenenza, si danno una struttura organizzativa di tipo monacale: con una Superiora, due Assistenti o “congiunte” (di “man destra” e di “man sinistra”: inutile aspirare alla carica, almeno un tempo, se si era nobili per meno di “quattro quarti”…), una “Secretaria”, una Tesoriera, una Maestra del coro e così via.
Dal punto di vista storico va notato subito - come fa Leonardo Urbani nella presentazione del volume - che, per una lettura a più livelli della città antica, “la comprensione del fenomeno religioso delle Congregazioni e delle maestranze” consente di apprezzare, accanto alle “superbe architetture monumentali”, “l’importanza delle vanelle, di piazzette, di piccoli episodi urbani e di tutto quello che viene con una parola definito tessuto minore”.
Ma procediamo con ordine.
Sono gli anni della Controriforma cattolica: artigiani ed artisti (come segnare con precisione il confine?) vengono mobilitati per magnificare la gloria di Dio e di quella Chiesa romana che se ne autoproclama l’unica legittima rappresentante in terra. Ma non basta: a contrastare le possibili infiltrazioni protestanti d’Oltralpe, sono altrettanto necessarie delle strategie di apostolato religioso e di impegno assistenziale.
Palermo, sede di un vicerè spagnolo, non vuole sottrarsi alla chiamata alle armi: clero, nobiltà e alta borghesia si coalizzano per fare la loro parte. Quando viene iniziata la costruzione dell’Oratorio si è in una fase in cui la città “trasforma i suoi modelli culturali tardomedievali, modifica radicalmente gli elementi architettonici per incrementare quella comunicazione urbana, che sempre più andava diventando un elemento indispensabile nella divisione gerarchica delle parti della città per la identificazione degli uomini e dei luoghi”. Se si sfoglia il volume manoscritto con l’Elenco delle cariche dal Seicento ad oggi, scorrono sotto gli occhi i cognomi più prestigiosi dell’intera isola: dalla Principessa di Bonfornello alla Principessa di Butera, dalla Principessa di Rosolini alla Principessa di Cerami, dalla Principessa Lanza alla Marchesa dell’Alimena, dalla Duchessa di Camastra a Donna Anna Maria Paternò ed Alliata… Quando, all’alba del XIX secolo, la corte borbonica di Napoli, per sfuggire alle truppe napoleoniche, si rifugia a Palermo, il titolo di Superiora viene assegnato addirittura a Sua Maestà Maria Carolina: da allora, sino al crollo della dinastia sabauda, saranno le regnanti in carica (tra cui Margherita di Savoia dal 1878 ed Elena Petrovich di Montenegro dal 1900) ad avvicendarsi. Dall’avvento della Repubblica italiana ad oggi è ritornato il turno di signore della nobiltà palermitana: da Carolina Valguarnera, duchessa della Verdura, a Maria Giulia de Spuches, duchessa di Santo Stefano Notarbatolo, alla contessa Maria Felice Boscogrande Riva Sanseverino sino all’attuale Superiora Agata Orlando Riva Sanseverino.
Ma non ci lasci abbagliare da nomi e titoli altisonanti: come attestano i contratti, le ricevute, le relazioni tecniche conservate in questi quattro secoli, la costruzione dell’Oratorio e del complesso architettonico che lo ospita (inclusivo di un delizioso giardino abitato - all’interno di “una bordura di asparago” - da “un enorme albero di alloro, un fico, un nespolo, un pesco, un albero di limoni, due varietà di gelsomino, una pianta di glicine, rose rampicanti e tanti papiri”) ha coinvolto maestranze di ogni ceto sociale. Il quadro che emerge è di “un contesto cittadino” che appare “una grande azienda articolata e complessa”. Sì, la Palermo testimoniata dalla storia di simili realtà è stata anche questo: una “città azienda” in grado di fornire servizi e di dare lavoro ai suoi cittadini, “fronteggiando assieme con le aziende agricole e commerciali, soprattutto marittime, le sue esigenze per la produzione e il consumo”. Purtroppo questo “insieme di produttori e di consumatori, preciso nell’agire ed efficiente nel produrre”, si rivelerà dal Seicento ad oggi sempre “più statico ed autoreferenziale”, anche per la mancata erezione - o per la prematura decadenza - delle “cattedrali del nuovo ordine capitalistico”: “la borsa, la banca nazionale e il cambio dei mercanti”. Il parassitismo economico delle associazioni mafiose farà il resto.
L’Oratorio è a due passi da Casa Professa, quartier generale dei Gesuiti siciliani: questo spiega perché l’assistenza spirituale delle congregate venga abitualmente affidata a un presbitero del medesimo Ordine (per tradizione, come è noto, non refrattario a curare anime catapultate in contesti familiari potenti e danarosi). Gli ultimi tre, compreso l’attuale, sono nomi celeberrimi in città: padre Giuseppe Cultrera (già preside al “Gonzaga”), padre Guglielmo Neri (importatore in città di “Gioventù studentesca”, da cui si sarebbe sviluppata “Comunione e liberazione”) e, infine, l’evergreen padre Angelo La Rosa (il cui candore ed il cui entusiasmo, persistenti tuttora nonostante l’età non più giovanissima, fecero sospettare che fosse nato - per riprendere un’espressione del suo confratello padre Giuseppe Valentini - “esente dal peccato originale”).
Sin dall’origine, le congregate - in omaggio all’aspetto della Madonna verso cui focalizzano la devozione: una madre in attesa di partorire - si sono prefissate di concentrare le loro energie nel “soccorrere e assistere le partorienti in condizioni di povertà“: ancor oggi, per Natale e per Pasqua, secondo quanto scrive nella Premessa l’attuale Superiora, è “consuetudine distribuire nel rione dell’Albergheria i canestri, con i corredini per i neonati, ai quali le Dame si sono sempre dedicate con tanto amore e grande maestria”. E non solo a donne italiane, ma anche ad immigrate da paesi extra-europei. Non è facile calibrare il giudizio davanti a tradizioni del genere. Da una parte, infatti, va ammirata la volontà istituzionale di non limitarsi ad una mera cura della propria interiorità e della vita liturgica, manifestando gesti che hanno il significato simbolico di un’attenzione al territorio; dall’altra, però, non ci si può sottrarre all’impressione sgradevole di trovarsi davanti ad un’impostazione ‘assistenzialistica’ e un po’ maternalistica che si preoccupa della ‘beneficenza’ sorvolando sui nodi della giustizia sociale. Le attuali socie della Congregazione sembrano averne consapevolezza e, in linea con l’evoluzione in atto nel variegato mondo cattolico, dichiarano di provare a tradurre “la pratica di autentici valori di fede, di carità e di devozione” in “un rinnovato contesto religioso e sociale”. Il che significa, ad esempio, allargare la sollecitudine verso le partorienti indigenti al più ampio orizzonte di “opere di aiuto alla vita”, come i soccorsi in aiuto delle popolazioni kosovane. Né va sottovalutata l’esplicita intenzione di salvaguardare - insieme al patrimonio morale - il bene monumentale. Dopo gli ingenti danni causati dai bombardamenti nel corso della seconda guerra mondiale, le congregate si sono più volte autotassate per realizzare interventi di restauro e di manutenzione e, in anni a noi più vicini, hanno coinvolto nel progetto anche altre associazioni nazionali (come il FAI: Fondo per l’ambiente italiano) e locali (come il Club Rotary Palermo Est). Questa cura per uno spazio circoscritto, che vuole esemplificare in concreto una più ampia “sensibilità verso i valori inalienabili dell’arte di tutti i tempi”, ha reso possibile dal 1995 ai ragazzi dell’Associazione “Famiglie Persone Down” di adottare l’oratorio nell’ambito del progetto cittadino “Palermo apre le porte”. No, non si tratta di iniziative clamorose: ma forse la moltiplicazione capillare, dal basso, di questi segnali potrà gradualmente tradursi in istanza politica e svegliare dal sonno intellettuale quelle amministrazioni locali che non si accorgono neppure delle potenziali risorse, anche economiche, nascoste nei tesori artistici di cui è zeppa la nostra isola. Il fatto di essere stati risparmiati dall’ondata dell’industrializzazione capitalistica più galoppante può avere avuto, per noi, insieme a molti svantaggi, qualche vantaggio: ma non sarebbe, in fin dei conti, un gran risultato adagiarci su “una condizione di ‘modernità inerziale’, un rallentamento generale affiorante proprio in questo ultimo scorcio di anni”.

venerdì 11 gennaio 2008

LA SCUOLA


“Repubblica - Palermo”
11.1.08

LE ASSUNZIONI DEI DOCENTI CON IL CRITERIO CLIENTELARE

Alcuni anni fa, quando Piero Grasso era ancora a capo della Procura della Repubblica di Palermo, ebbi modo di chiedergli - nel corso di un seminario pubblico - come mai il CSM permettesse che l’organico dei magistrati in Sicilia fosse ampiamente deficitario (soprattutto in sedi ‘calde’ come Trapani e Gela). Più che una risposta, per la verità, ricevetti una contro-domanda: “Come mai voi docenti, sia delle scuole superiori che delle facoltà universitarie, ci mandate degli aspiranti magistrati che non sanno scrivere correttamente?”

La sua risposta mi colpì al punto che la riproposi, come tema di riflessione, ai colleghi del liceo in cui insegnavo. Me ne ricordai, tempo dopo, ascoltando la battuta di un professore di diritto impegnato a spiegare, ad un visitatore inglese, perché nelle nostre università si evitassero le prove scritte e si eccedesse nelle orali: “E’ per ragioni di democrazia. Se dovessimo selezionare in base agli scritti, l’80% dei candidati sarebbe escluso in partenza”. E me ne sono ricordato in queste ore leggendo che all’ultimo concorso per magistrati solo 319 su 4.000 hanno superato la prova, così che decine di posti disponibili sono rimasti vuoti.
A ben riflettere, per il Meridione italiano si tratta di un dato paradossale. Quando l’economia si fondava sull’abbondanza delle materie prime, sulle industrie e sulle infrastrutture pesanti, arrancavamo rispetto al Nord: ora che l’economia si smaterializza e la conoscenza tende a prevalere su altre modalità produttive, ci facciamo sorpassare dai Sud del mondo perché India e Cina esportano cervelli, rielaborano saperi, vendono informazioni. Insomma: non è mai l’ora opportuna per salire sul treno giusto.
Non oso appellarmi alle responsabilità soggettive degli insegnanti sia perché so, per ripetute esperienze pregresse, che molti di loro sciorinano in questi casi una lista stucchevole di giustificazioni; sia, soprattutto, perché certe situazioni ormai sclerotizzate possono spezzarsi solo con interventi sistemici, strutturali, politico-legislativi. Alla radice dei quali sarebbe evidente - e proprio per questo improbabilmente realizzabile - rinnovare i meccanismi di reclutamento del personale docente. La logica degli Scolastici medievali, almeno in certe circostanze, è di una lucidità inesorabile: nessuno può dare ad altri ciò che non ha in sé. Se i professori arrivano sulle cattedre universitarie per clientelismo o, nella migliore delle ipotesi, per cooptazione accademica e sulle cattedre scolastiche attraverso canali assai scarsamente selettivi, perché stupirsi della loro incapacità di (o della loro scarsa propensione a) impegnarsi molto nell’insegnamento e pretendere altrettanto in sede di verifiche finali?
Forse due esemplificazioni possono illustrare l’enormità della questione. La prima: in questi anni stanno andando in pensione i primi professori assunti 30 anni fa dall’amministrazione provinciale di Palermo per il Liceo linguistico. Non solo da alcuni aspiranti esterni, ma persino da qualche docente interno, fu allora chiesto che si accedesse in ruolo mediante una qualche forma di concorso pubblico per titoli ed esami: ma invano. Il concorso fu bandito e poi rimandato a data da destinarsi: dopo tre decenni non si è trovato ancora il momento adatto per svolgerlo. E, intanto, gli incaricati temporanei (ovviamente prescelti sulla base di criteri del tutto familistico-amicali) sono stati stabilizzati per anzianità di servizio. La seconda esemplificazione: un laureato in giurisprudenza mi ha raccontato di aver affrontato, a distanza di poche settimane, sia il concorso per insegnante di diritto sia il concorso per magistrato. La prima volta venti concorrenti in un’aula, vociare ininterrotto per cinque ore, ampia consultazione di volumi e volumetti d’ogni risma, pizzini che circolavano senza impedimenti sotto lo sguardo impassibile dei tre incaricati alla sorveglianza; la volta successiva, cinque concorrenti per ogni aula, silenzio tombale, possibilità di consultare esclusivamente le copie dei codici preventivamente controllate e siglate dalla commissione, vigilanza ininterrotta di un carabiniere su ogni candidato all’opera. Perché stupirsi se nel primo caso si è avuta una marea di idonei (equamente divisa fra chi restava lo stesso disoccupato per mancanza di cattedre e chi le andava ad occupare per novecento euro al mese) e nel secondo caso il numero dei vincitori (con stipendi mediamente doppi rispetto agli insegnanti) è risultato inferiore ai posti messi a concorso?
Ecco, a ben pensarci, i vuoti di organico in magistratura potrebbero colmarsi facilmente: basterebbe che, per una o due tornate, il numero dei docenti assunti nelle scuole risultasse la metà dei posti a concorso. E che gli emolumenti mensili raddoppiassero di conseguenza.

martedì 8 gennaio 2008

UN IMPRENDITORE CHE SI RIBELLA


“Repubblica - Palermo” 8.1.08
Augusto Cavadi

IL FU ANTONINO MICELI TAGLIEGGIATO DAL RACKET

Per il movimento antimafia siciliano è un momento positivo. Ad evitare di sciuparlo possono aiutarci la lucidità delle analisi e la memoria del passato, anche recentissimo: la signoria di Cosa nostra e delle altre cosche mafiose sulla vita sociale ed economica è ancora solidamente radicata e chi prova a contrastarla dev’essere disposto a pagare prezzi alti. Questo ce lo dobbiamo ricordare a vicenda non per scoraggiarci, ma per evitare di scambiare una guerra civile tuttora in corso con una passeggiata domenicale. Pagare prezzi alti non significa necessariamente - per fortuna - rimetterci la vita; significa però essere disposti ad accettare rivolgimenti esistenziali, trasferimenti radicali e, quel che più pesa, incomprensioni da parte di quegli organi dello Stato che per primi dovrebbero attivarsi con efficienza ed efficacia. Un “testimone di giustizia”, l’imprenditore gelese Antonino Miceli, ha provato a raccontare la sua esperienza in un libro un po’ naif, ma proprio per questo schietto e avvincente: Io, il fu Nino Miceli.

Storia di una ribellione al pizzo. Il titolo allude - come è facile intuire - alla necessità, per ragioni di sicurezza, di mutare residenza e identità anagrafica: “Prima c’era una vita borghese, ora c’è un’altra esistenza nella quale io ho imparato a dimenticare me stesso, sono un uomo senza vero passato, penso solo al presente e al futuro, e tuttavia sono un uomo soddisfatto della scelta fatta, anche se mi ha sconvolto la vita. Anzi, questa avventura mi ha insegnato a conoscere meglio me stesso e gli altri esseri umani nei loro peggiori istinti, mi ha consentito di valutare uomini e cose. Quanto profondamente potere e denaro possono incidere sulle relazioni interpersonali. Questa storia mi ha insegnato che da soli è impossibile vivere, ma in compagnia si fa una fatica sovrumana”.
La mafia, vista e annusata da così vicino, non suggerisce al protagonista solo considerazioni filosofiche ed etiche di sapore schopenhaueriano (come non ricordare i due porcospini che sentono freddo e si avvicinano ma, avvicinandosi, si pungono e si respingono?). Egli affronta anche gli aspetti politici e legislativi della sua vicenda, aspetti che riguardano dunque l’intera categoria delle persone soggette a misure protettive analoghe: e qui emergono contraddizioni normative e intralci burocratici. Alla fine arriva anche il risarcimento economico che consente a Miceli di aprire una nuova attività commerciale: a dodici anni dall’inizio del calvario, dopo aver fatto i conti con uno “Stato debole con i forti, debole con la mafia, ma forte con i deboli”, che preferisce relegare il sistema di dominio mafioso a questione periferica e passeggera. Come osserva amaramente Tano Grasso nella argomentata prefazione, “la questione non riguarda solo uno schieramento politico, è trasversale, attraversa tutti i partiti” e ha origine dalla “ossessione elettorale” che induce a fare non le battaglie giuste, ma quelle che - sulla base dei sondaggi - si suppone accrescano il consenso immediato. “Non è così che si realizza una moderna democrazia”: “imporre come tema nazionale la questione della lotta alla mafia” può pure, sul momento, non strappare gli applausi di un’opinione pubblica distratta o collusa, ma “nella prospettiva di un paese libero dalle mafie si acquisisce forza, prestigio e anche voti, ben consolidati”.

RIQUADRO
Antonino Miceli racconta le proprie vicissitudini di concessionario di automobili di Gela che, dopo aver subito intimidazioni e incendi dolosi, collabora con la magistratura, ottiene la condanna degli estortori ma è costretto a rifugiarsi con la famiglia in una località segreta e a mutare identità. Il libro (Io, il fu Nino Miceli. Storia di una ribellione al pizzo, Edizioni Biografiche, pagine 166, euro 14) è impreziosito da una Prefazione di Tano Grasso che è stato molto vicino al protagonista in qualità sia di collega sia di commissario straordinario del governo per la lotta al racket e all’usura.

mercoledì 2 gennaio 2008

SE SI HANNO PROBLEMI


LA LUCE DEL FARO
Gennaio 2008

Che cos’ è la consulenza filosofica?
di Augusto Cavadi

Nessuno di noi vive per molto tempo senza dover fare i conti con qualche problema serio. Per uno sarà il rapporto con i colleghi d’ufficio, per un’altra la qualità del suo matrimonio, per un altro ancora la prospettiva della pensione e della vecchiaia…In alcuni casi - per la debolezza della propria struttura psichica o per l’intreccio perverso di circostanze particolarmente sfavorevoli - sembra quasi di non farcela. Sono i casi in cui non controlliamo più le nostre emozioni, ci sembra di non avere più una volontà che regga le nostre scelte quotidiane, la nostra soggettività si scinde in due o tre o più personalità…Quando è così, il ricorso ad uno psicoterapeuta (cioè di uno psicologo autorizzato a curare pazienti con una metodologia riconosciuta, per esempio con la psicoanalisi) può riuscire di grande aiuto, anzi talora può risultare indispensabile.

Ci sono altri casi, però, in cui ricorrere ad uno psicoterapeuta può essere inutile se non addirittura dannoso. Mi riferisco a tutte le volte in cui siamo travagliati per questioni vere, oggettive: ma non perché siamo ‘malati’, bensì proprio perché siamo ‘normali’. Se scopro che mia moglie ha da anni una relazione sentimentale segreta con un’altra persona, non è patologico che soffra né che mi chieda se - e a quale prezzo - continuare a vivere con lei. Se sono incinta e il medico mi comunica che il bambino che attendo è gravemente malformato, non è da matti restarne sconvolta né chiedermi se decidere lo stesso di partorire o meno.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma il succo è intuibile: quando ci assale un dubbio esistenziale, perché correre da un medico dell’anima? Perché non provare ad usare la propria testa? Perché illudersi che ci sia una “cura” per ogni angoscia e non supporre che ogni dramma è una sfida alla nostra intelligenza e alla nostra saggezza?
So già qual è l’obiezione più immediata: da solo non ce la faccio. Ho bisogno di qualcuno con cui confrontarmi, dialogare, riflettere insieme, valutare i vantaggi e gli svantaggi di una scelta. Conosco l’obiezione, ma anche la risposta: non hai un’amica, un parente, un ex-professore, un prete di cui ti fidi e con cui parlare e pensare? Può darsi che tu sia abbastanza fortunato da avere, nella cerchia delle tue conoscenze, una persona saggia con cui accompagnarti nella ricerca: una ricerca che, comunque, deve rimanere tua. Senza deleghe a guru, più o meno interessati al tuo portafoglio. Se invece non hai questa fortuna - o se non hai ragioni sufficienti per avere fiducia in questa persona, per esempio perché si tratta di un prete cattolico e tu sei buddista o ateo o agnostico - da alcuni anni si è aperta un’altra possibilità: puoi chiedere appuntamento ad un filosofo-consulente.
Il nome di questa professione non deve spaventarti. Come si può andare da un avvocato senza avere la laurea in legge o da uno psicoterapeuta senza aver letto neppure un libro di psicologia, così si può andare dal consulente filosofico anche senza aver mai sentito parlare della filosofia. L’essenziale è sapere che vai da un professionista che ha il compito di ascoltarti e di discutere con te in modo da darti la possibilità di uscire dalla logica del “paziente” e di accompagnarti verso un’attitudine di protagonismo consapevole. In poche parole: che ha il compito di riflettere insieme a te e, a partire da ciò che pensi attualmente, rimettere in discussione sia il problema concreto che ti angustia sia la tua visione generale della vita.
Comunque, se vuoi saperne di più, puoi leggere un libretto di poche pagine, ma chiaro e luminoso, scritto da Neri Pollastri: Consulente filosofico cercasi, Edizioni Apogeo, Milano 2007, pagine 120, euro 8,00.

STORIA DI DUE DONNE


Mezzocielo
Gennaio – Febbraio 2008

MA CHI SONO I QUACCHERI?

Due donne inglesi del XVII secolo hanno vissuto avventure eccezionali che sarebbero cadute nel dimenticatoio se le due protagoniste non ne avessero lasciato traccia scritta. E il lettore italiano sarebbe rimasto escluso dal loro racconto, così avvincente, se una ricercatrice dell’Università di Catania - Stefania Arcara - non si fosse impegnata a tradurlo e ad arricchirlo di una lunga e dotta “Introduzione”, oltre a sobrie note a piè di pagina. E’ così arrivato nel circuito editoriale Messaggere di luce. Storia delle quacchere Katherine Evans e Sarah Cheevers prigioniere dell’Inquisizione (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2007, pp. 183, euro 20,00), elegante volume ulteriormente impreziosito da una “Premessa” di Adriana Valerio e da una “Postfazione” di Pier Cesare Bori.

Le due amiche (”predicatrici, profetesse, visionarie, indomite viaggiatrici”) ardono dal desiderio di convertire alla loro confessione religiosa persino gli africani e così partono da Plymouth alla volta di Alessandria d’Egitto. Ma, dopo uno scalo a Livorno, il capitano della nave le informa che dovranno fare una seconda tappa a Malta. L’accoglienza nell’isola fu principesca: il console inglese le invita a casa e le presenta a parenti ed amici. Purtroppo fanno parte della cerchia anche dei Gesuiti che non gradiscono lo zelo missionario delle due protestanti e le denunziano al tribunale dell’Inquisizione. Che, ovviamente, le sequestra e le sottopone - con una tempestività che la magistratura statale non avrebbe mai dimostrato, almeno sino ai nostri giorni - a processo. Un processo un po’ strano, in verità: le imputate, con fierezza, sostengono di essere state incaricate da Dio stesso di convertire dalle false credenze e dai costumi immorali il resto dell’umanità, a cominciare proprio dai…giudici dell’Inquisizione. La detenzione, durata complessivamente tre anni, prevede anche periodi “in una cella nera che aveva solo due piccoli buchi per far passare la luce e l’aria”: ma le due donne resistono coraggiosamente, sostenute - almeno questa è la loro certezza - dalla “gloria del Signore” che vince, col suo splendore, l’oscurità materiale ed emotiva in cui sono forzatamente immerse.
Gli estenuanti, ripetuti interrogatori sono per Katherine e Sarah l’occasione di esporre il “credo” della chiesa fondata da George Fox cui appartengono: un “credo” che recupera l’essenziale del messaggio cristiano e rifiuta, con fermezza, quei dogmi (purgatorio, venerazione dei santi e delle immagini sacre, transustanziazione eucaristica…) che la chiesa cattolica ha ritenuto di poter formulare, nel corso dei secoli, a partire dal dato biblico originario. L’esito del processo è scontato. Alle prigioniere viene posta innanzi l’alternativa: “Se prenderete il nostro sacramento” - cioè se accetterete la comunione con il pane e il vino consacrati durante la messa - ” potrete avere la vostra libertà, altrimenti il Papa non vi rilascerà neanche per milioni d’oro, ma perderete le vostre anime e anche i vostri corpi”. La risposta, però, è altrettanto scontata: “Il Signore si prende cura delle nostre anime e i nostri corpi sono liberamente offerti al servizio del Signore. (…) Il Signore non ha affidato la responsabilità delle nostre anime al Papa, né a voi”. La reazione diventa sempre più dura, anzi crudele. Sino alle minacce più feroci: “Sarai frustata, squartata e bruciata questa notte a Malta, insieme alla tua compagna. Per quale ragione siete venute a insegnare a noi?”.
Con questo decorso, ci si sarebbe aspettato il peggio. Imprevedibilmente, però, l’Inquisitore - anche senza i “tre o quattromila talleri” di cauzione richiesti - alla fine le lascia partire per la madre patria (dove arrivano passando, tortuosamente, per l’Italia, la Spagna e il Marocco).
Chiuso il libro, è difficile dimenticare le protagoniste (anche se il genere letterario della loro scrittura, zeppo di citazioni bibliche implicite e di stereotipi leggendari, è ormai lontano dai nostri gusti): costituiscono quasi una sintesi di tutto l’anticonformismo che si poteva sperimentare nel loro ambiente. In una società maschilista, sono donne attivamente intraprendenti; contro la chiesa ufficiale anglicana, aderiscono ad una comunità cristiana minoritaria ed anti-istituzionale; a differenza dei loro persecutori, si appellano alla mansuetudine dei nonviolenti; in un’epoca di formalismo barocco nei comportamenti, osano denudarsi il petto in pubblico per simboleggiare la corruzione idolatrica; a differenza del mondo intellettuale accademico, non parlano latino (”Non ci abbasseremo a scrivere a sciocche e asine che non conoscono il latino”, argomenta un frate per spiegare il suo rifiuto a contestare per iscritto le teorie teologiche delle due prigioniere). Si potrebbe aggiungere, forse, che, in un clima moralistico, vissero con qualche consapevolezza un’amicizia omosessuale : almeno a giudicare dal fatto che, per formulare la volontà di non essere divise in carcere l’una dall’altra, tra tante citazioni possibili viene prescelta proprio una frase evangelica (”Il Signore ci ha unite e guai a coloro i quali ci separeranno”) che si riferisce al rapporto di coppia.
Insomma: ce n’era abbastanza per l’Inquisizione del XVII secolo, ma anche per mettere in crisi i lettori del XXI. O, almeno, quanti di loro sono ancora intrappolati in “modi, culti, maniere, forme, costumi, tradizioni, osservanze e fantasticherie” che non hanno né fondamento biblico né giustificazione razionale.