martedì 31 agosto 2021

ANCHE LA VACANZA FILOSOFICA DI CELANO (21 - 27 AGOSTO 2021) SI E' FELICEMENTE CONCLUSA

No, non è vero che chi di noi cerca il vaccino, o il siero, per ammorbidire la pericolosità del covid-19 cerca (secondo l'espressione di alcuni filosofi contemporanei molto più colti di me) "la nuda vita". Come ha notato, nel corso di queste vacanze filosofiche in Abruzzo, Orlando Franceschelli, cerchiamo la vita 'piena': così come, ad esempio, l'abbiamo sperimentata (per unanime consenso della trentina di partecipanti) a Celano dal 21 al 27 agosto 2021. Una vita 'teoretica' perché ci siamo auto-convocati per pensare - per pensare il mondo in generale e il 'mistero' del male in particolare; per pensare eticamente - dunque a partire dal nostro agire attuale e per trasformarlo, migliorandolo, se necessario; per dialogare - per scambiarci dunque in gratuità, senza invidie né timori concorrenziali, i nostri pensieri; per fare l'esperienza della convivenza fra pensanti - dunque per condividere non solo i pensieri, ma anche i sentimenti e le emozioni, il cibo e le passeggiate, la musica e il teatro...
Come abbiamo affrontato il 'male', sia il male 'fisico' (sperimentato soprattutto ma non esclusivamente col nostro corpo) sia il male 'morale' (sperimentato soprattutto, ma non esclusivamente, con la nostra dimensione  spirituale)? 
Elio (Rindone) ha offerto una fenomenologia della condizione umana in base ad opere di Giacomo Leopardi;  io ho cercato di distinguere i mali 'evitabili' (e contestabili) dai mali 'inevitabili' (e a cui adeguare il nostro animo); Orlando (Franceschelli) ha evidenziato le potenzialità e soprattutto i rischi dell'  "antropocene" in cui siamo ormai entrati; Francesco (Dipalo) - alle cui relazioni e audioregistrazioni ho prestato la voce in sua assenza fisica - ha riletto il contributo di Hans Jonas sia sul versante teologico (Il concetto di Dio dopo Auschwitz) sia sul versante etico-politico (Il principio responsabilità).  
Chi fosse interessato troverà molti di questi materiali sul sito www.vacanzefilosofiche.it gestito, con generosità pari a perizia - da Salvo Fricano (Bagheria): è possibile, del tutto gratuitamente, iscriversi agli aggiornamenti continui del sito chiedendo di essere avvertiti del titolo di ogni nuovo post.
 

domenica 22 agosto 2021

SICILIA: UNA “COMMISTIONE DI GRANDEZZA E MISERIA” SECONDO NEWMANN

 



“Il Gattopardo”

Giugno 2021

 

SICILIA: UNA “COMMISTIONE DI GRANDEZZA E MISERIA” SECONDO NEWMANN

 

Nel corso di un viaggio in Sicilia realizzato nel 1833, il prete anglicano J. H. Newman cerca di spiegare per lettera le ragioni del fascino di un’isola  la cui “commistione di grandezza e miseria risulta strana a un inglese” (cito dal volume  Malattia di Sicilia. Il viaggio di Newman in Sicilia 1833). 

Il primo impatto con “questa terra diversa da tutte le altre , proprio perché atta ad agire, come per incanto, sui sentimenti”, avviene nello stretto di Messina: “Mai visto niente che fosse uguale. Era come se venisse steso dinanzi a me un dipinto splendido oltre ogni immaginazione”. Da Messina, percorrendo una costa “bellissima”, a Taormina: “Non ho mai visto niente di più incantevole di questo luogo. Era la realizzazione di tutto ciò che uno legge nei libri riguardo alla perfezione del paesaggio: una valle profonda, ruscelli mormoranti, alberi bellissimi; ma la descrizione non serve a niente; da lontano si sentiva il mare. Quando con l’aiuto di un giorno chiarissimo salimmo al teatro e da lì osservammo la veduta, che cosa potrei dire? Come mai che non mi sia reso conto prima che la natura potesse essere così bella e che avere contemplato  da lì quella veduta fosse l’accesso più vicino a vedere l’Eden stesso, più di quanto io potessi concepirlo possibile ! Oh me felice, valeva la pena sopportare la solitudine del cammino e il logorio del viaggio per vederla”. 

Oggi raggiungere la Sicilia e visitarla è meno faticoso rispetto a un secolo fa. Tuttavia troppe strade in stato di abbandono, troppi collegamenti ferroviari disagevoli. Alcune tratte sul mare sono state addirittura cancellate: Newman racconta infatti di essersi spostato da Messina a Palermo su un vaporetto che gli aveva consentito di ammirare la costa tirrenica da una prospettiva privilegiata. Quando alla poesia dello sguardo straniero corrisponderà la prosa della fatica quotidiana di noi siciliani nel rendere l’isola attraversabile almeno quanto le altre regioni europee?

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com


* La foto, di A.C., riproduce un tratto della Cala Rossa presso Terrasini (Pa)

mercoledì 18 agosto 2021

IL CASTELLO UTVEGGIO CHE , DAL MONTE PELLEGRINO, DOMINA SU PALERMO

“Il Gattopardo”

Luglio 2021

 

IL CASTELLO UTVEGGIO CHE DOMINA SU PALERMO

Da qualsiasi quartiere di Palermo – e sin dalle navi che vi approdano – è impossibile non notare il rosa (cangiante secondo la luce solare) del  Castello Utveggio che, dal Primo Pizzo di Monte Pellegrino, domina la città e l’intero golfo. Quando ero giovane, durante la Fiera del Mediterraneo, un fascio luminoso roteante lo strappava, un po’ magicamente,  alle tenebre serali. Una struttura del genere evoca dame e cavalieri, giostre e duelli, menestrelli e trovatori: insomma, atmosfere medioevali. Ma dalle nostre parti, si sa, non tutto è come appare. Non senza un pizzico di delusione, nativi del luogo o turisti che vi giungono da lontano scoprono (ad esempio leggendo le pagine Palermo da riscoprire non solo in TV di Melinda Zacco) che si tratta di una sorta di falso d’autore. Fortemente voluto dal cavaliere Michele Utveggio (in società con i costruttori Collura) è stato infatti inaugurato, dopo solo cinque anni di lavori, nel 1934: meno di un secolo fa. 

Ma nacque sotto una cattiva stella. Per quanto collocato sul “più bel promontorio del mondo” (almeno secondo il giudizio generoso di Goethe) non ebbe fortuna né come albergo né come casinò. La Seconda guerra mondiale – che lo vide, successivamente, sede di contraerea italiana, tedesca e statunitense – ne completò il degrado. Fu solo negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso che l’edificio, espropriato dall’amministrazione regionale, venne restaurato per diventare sede del Servizio segreto civile (SISDE) e poi di un altisonante Centro Ricerche e Studi Direzionali (CERISDI), una sorta di scuola di eccellenza per formare la classe dirigente dell’Isola. Forse troppo occupati a preparare le magnifiche sorti del futuro, i responsabili non hanno saputo però, nel presente,  mantenere in vita l’istituto. Che è stato tristemente chiuso nel 2016.

Non mancano annunzi e promesse di un rilancio. E sarebbe davvero incoraggiante che, a vegliare su Palermo, non fosse un simbolo di insuccessi e fallimenti. 

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

 

sabato 14 agosto 2021

LA BATTAGLIA DI PALERMO DELL'8 LUGLIO 1960: ALLORA (E SEMPRE ? ) RESISTENZA


 IL FASCISMO NON E’ MORTO. L’ANTIFASCISMO (FORSE) NEPPURE.

In una democrazia liberal-democratica è lecito che un sottosegretario del governo proponga di dedicare nuovamente il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini, cancellando così i nomi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a cui è attualmente intitolato, o che un altro esponente della Lega si dichiari favorevole a chiamare nuovamente piazzale dei Partigiani, a Roma Ostiense, piazzale Adolf Hitler ? In democrazia ogni cittadino  ha diritto di avanzare proposte: decisivo è capire se tutti gli altri hanno gli strumenti culturali per ‘reagire’, con l’assenso o con il dissenso, a tali proposte.

Tra questi strumenti basilari, la memoria storica. Non è la prima volta che l’anima antifascista della nostra Repubblica venga minacciata da soggetti un po’ originali. Anzi, nell’estate del 1960, a Roma il democristiano Fernando Tambroni varò addirittura un governo nazionale sostenuto dagli eredi di Mussolini (il Movimento sociale italiano): ma le ferite erano ancora aperte e molte piazze reagirono. La repressione fu feroce: a Genova, a Reggio Emilia, a Roma stessa caddero manifestanti ( “inermi cittadini” !) appartenenti a varie categorie sociali. E anche a Palermo, a Catania, a Licata, (“all’indomani di una fase piuttosto infelice” – come scrive Giuseppe Carlo Marino – “ che aveva visto i neofascisti per la prima volta ‘sdoganati’ in Italia, ovvero al governo della Regione insieme ai comunisti e ai socialisti nel corso della cosiddetta ‘operazione Milazzo’ ”) si ebbero “straordinarie e spontanee giornate di popolare mobilitazione” di cui un testimone, Angelo Ficarra, tenta di non far disperdere la memoria in un piccolo, ma emozionante, libretto: 8 luglio 1960.La battaglia di Palermo, ANPI, Palermo 2021.

  Un’operazione necessaria, la sua, anche a giudizio di Finella Giordano che firma la Prefazione: infatti “quel segmento della memoria storica precipuamente legata ad eventi straordinari delle lotte del popolo siciliano, nel tempo negata e rimossa dalla coscienza popolare, dalla società civile, dalla storiografia”, merita di essere recuperato e restituito. Soprattutto oggi – aggiungerei – in cui un numero crescente di politici ed elettori siciliani (immemori del passato) si sta, paradossalmente,  accodando a quella Lega che ha costruito le sue attuali fortune sulle critiche (talora fondate, talora capziose, sempre velenose) a tutta la popolazione meridionale. 


Per completare la lettura, basta un click qui:

https://www.zerozeronews.it/fascismo-e-dintorni-o-fascismo-di-ritorno/


giovedì 12 agosto 2021

LA "DEEP PHILOSOPHY" RACCONTATA DA MASSIMILIANO BAVIERI E COMPAGNI

 

AA.VV., Il gruppo Deep Philosophy. Storia, teoria, tecniche, a cura di R. Lahav, trad. it. M. Bavieri, Loyev Books, Hardwick 2019, pp. 114, euro 10,00

 

Per chi di noi ha contribuito, nei primissimi del XXI secolo, a importare la “consulenza filosofica” in Italia, Ran Lahav ha costituito un punto di riferimento e, a questo titolo, è stato anche invitato a tenere un seminario sull’argomento a Roma. Nei venti anni successivi ognuno di noi ha coltivato i semi iniziali in direzioni differenti che lo hanno indotto o a preservare la pratica professionale della consulenza filosofica in senso achenbachiano da contaminazioni esterne o ad integrarla in una costellazione più ampia di pratiche filosofiche o ad abbandonare del tutto l’idea originaria di consulenza filosofica per sostituirla con altre modalità (ugualmente extra-accademiche) di filosofia-in-pratica. Lahav sembra collocarsi in questa terza tendenza e questo agile volumetto a più mani, tradotto in italiano da Massimiliano Bavieri, sembra attestarlo in maniera inequivoca. Esso viene infatti dedicato alla Deep Philosophy, “un modo contemplativo di filosofare che viene praticato” da un gruppo nato in un borgo (Brado) nei pressi di Torino a conclusione di un “ritiro” svoltovi nel settembre del 2017 (p. 1). Nel primo capitolo è lo stesso Lahav a illustrarne sinteticamente i “cinque pilastri” (p. 6): l’ “anelito alla realtà”  (p. 7) grazie al quale siamo proiettati, estaticamente, fuori da noi per cogliere ciò che è davvero, e che merita di essere riconosciuto e amato; la “profondità interiore” (p. 8) ossia il grado di coinvolgimento esistenziale con cui tendiamo ad esperire la dimensione fondamentale della realtà; il “pensare ‘da’ (dare voce)” (p. 9) ossia l’atteggiamento per cui ci accostiamo a ciò che conta mediante la vigilanza intellettuale, ma per così dire pensando “dalla” realtà (ascoltando il suo modo di risuonare nella mia profondità interiore) e non soltanto su “di” essa;

“filosofia” e dunque con l’intento non soltanto di “sperimentare la realtà” (come i poeti e i mistici), ma anche di “comprenderla” elaborando “idee filosofiche” (p. 10); “insiemità” ossia in assetto comunitario con lo scopo che  il proprio pensiero  divenga “parte di un orizzonte più ampio, di una polifonia più ricca, di una realtà più completa” (p. 12).

Nel secondo capitolo Michele Zese, tramite il racconto di uno dei primissimi ‘ritiri filosofici’, ne espone una struttura tipica: si sceglie un brano filosofico; lo si legge e rilegge a voce alta per comprenderlo (“lettura interpretativa”); si focalizza qualche passaggio ritenuto più significativo (“centratura”); ci si concede un’ora di silenziosa “contemplazione” in gruppo (la “ruminatio” della tradizione monastica cristiana) in cui ciascuno è invitato a collegare idee e intuizioni con “un’esperienza personale avuta di recente” ; infine si restituisce al gruppo il risultato di questo collegamento fra pensieri e vita vissuta “per mezzo di frasi brevi e concise, nella procedura che noi chiamiamo «parlare prezioso» ” (p. 20). A completamento delle sessioni canoniche principali si svolgono anche “sessioni sperimentali” quali “una passeggiata contemplativa” scandita dalla lettura di “paragrafi tratti da L’unico e la sua proprietà del filosofo tedesco Max Stirner” o anche la drammatizzazione di un testo filosofico, a riprova che “vi sono molti modi in cui si può essere coinvolti e trasformati da un testo filosofico” (p. 23). 

Un commento esplicativo sulla struttura di una sessione tipica è offerto da Francesca D’Uva nel terzo capitolo. Di particolare rilevanza, almeno a mio parere, la sottolineature che le tecniche adottate(lettura interpretativa con eventuale “mappa delle idee”, “ruminatio”, “parlare prezioso”) sono funzionali alla possibilità per ciascuno dei partecipanti di avere “profonde intuizioni”: ‘profonde’ nel doppio senso di originare dalla profondità dell’io e di cogliere aspetti non superficiali della Totalità in cui siamo immersi. Un possibile arricchimento è dato dall’integrazione della “fase contemplativa” (p. 31) con esercizi silenziosi pensati “per far giungere al linguaggio le profonde intuizioni che ogni partecipante ha sperimentato”: ad esempio “scrivere un paio di versi poetici” o  “la realizzazione di un disegno” (pp. 31 – 32). Come in assetti del genere è possibile, a sessione conclusa, una “meta-conversazione” che consenta di “far conoscere al conduttore le reazioni dei partecipanti e aiutare il gruppo Deep Philosophy a pensare al futuro sviluppo delle sue attività” (p. 32). 

Sulle “procedure per lo studio dei testi”  (p. 42) filosofici in queste pratiche si sofferma, nel quarto capitolo, Massimiliano Bavieri. Alle indicazioni fornite dai co-autori dei capitoli precedenti egli aggiunge alcune precisazioni. Per esempio che, nel corso della “lettura interpretativa”, è lecito – se “si rimanga colpiti da interpretazioni date da uno o più lettori precedenti” – “entrare in risonanza non solo col testo, ma anche con le parole degli altri partecipanti alla sessione “ (p. 47). Oppure che i testi solitamente scelti appartengono a “quelli che noi chiamiamo ‘filosofi trasformativi’, perché invitano il lettore a cambiare atteggiamento nei confronti della vita. I loro scritti realizzano ciò che Kierkegaard chiama ‘comunicazione esistenziale’, che è un parlare e uno scrivere che incoraggia il lettore a lasciarsi alle spalle – o almeno a modificare – i suoi atteggiamenti inautentici, così che possa essere creato spazio affinché trovi espressione una realtà più profonda, includente anche una concezione di fondo della vita e della realtà. Questo tipo di comunicazione è opposta a quella oggettiva, in cui si ha a che fare solo con ciò che può essere descritto e misurato” (pp. 52 – 53).

 Alla focalizzazione della nozione, centrale in questa modalità di praticare filosofia, di “profondità interiore” è dedicato il quinto capitolo, a firma di Kirill Rezvushkin. Egli prova a illustrare questa categoria come “punto d’incontro di diverse prospettive complementari”: la “prospettiva autobiografica personale” (p. 55), la “prospettiva della nostra attività di gruppo” (p. 58), le “prospettive delle teorie filosofiche” (p. 59) e le “prospettive religiose e psicologiche” (p. 65). Tra le considerazioni più significative (almeno a mio sommesso avviso) disseminate in queste pagine: “la psicologia e la religione” non hanno l’esclusiva del potere di “trasformare le persone” (p. 57); se ci si riunisce con l’intento di “trovare accesso “ a una dimensione interiore” che “sia fonte di vitalità”, si sperimenta una “interazione”  molto diversa che “nelle fredde discussioni accademiche” (p. 58); cosa ognuno intenda per “profondità interiore” lo si può esprimere mediante “metafore” più che “in un modo che sia razionale e analitico” (p. 62); nella ricerca filosofica della ‘profondità’ possono riuscire di sostegno sia la psicoterapia (se dobbiamo risolvere “esperienze traumatiche” pregresse, p. 66) sia le tradizioni religiose (quando non pretendono di includere le esperienze spirituali in angusti limiti confessionali). A bilancio concluso, chi sperimenta – almeno per qualche ora – la profondità interiore porta con sé un nuovo “senso della realtà e del tempo” (p. 70). 

   Sulla sottolineatura della ‘preziosità’ che impregna i vari momenti di una sessione di Deep Philosophy  è imperniato il contributo di Stefania Giordano (corrispondente al sesto capitolo). L’autrice precisa che tale pratica non si prefigge il  compito di  “curare problemi psicologici o di alleviare l’angoscia, perché secondo noi la vita non ruota intorno alla questione della malattia e della salute”; né di “trovare cure per problemi personali, ma di cercare fugaci raggi di luce in una foresta buia – di trovare l’elemento prezioso all’interno della nostra vita” (p. 74). E aggiunge: “E’ chiaro che, a differenza del counseling filosofico, noi non cerchiamo di individuare meccanismi o modelli psicologici, né di modificare – al fine di migliorarlo – un modello emotivo o comportamentale” (p. 78). (L’autrice mostra qui una nozione di “counseling filosofico” tipica dell’associazione Sicof cui appartiene e ben diversa dalla  “consulenza filosofica” - come perimetrata dalla nostra associazione professionale Phronesis -  che è distante da intenti terapeutici almeno quanto la Deep Philosophy).

    Nel penultimo capitolo Sebastian Drobny tematizza la “polifonia filosofica” che costituisce il “modo principale di interagire gli uni con gli altri”  (p. 83) in una sessione di pratica filosofica: “come i musicisti jazz che suonano insieme, le diverse voci filosofiche non suonano le une contro le altre, ma, piuttosto, le une con le altre, in ‘insiemità’. Ascoltandosi a vicenda, i partecipanti sono ispirati a creare le proprie melodie in armonia con gli altri” (p. 84).  Questo “significa che vada tutto bene e che ogni idea sia buona” (p. 85)? Non necessariamente. Si tratta solo di sospendere provvisoriamente, nel corso di una sessione, il diritto/dovere filosofico di ‘polemizzare’ con gli argomenti di altri. (Forse già l’esposizione della propria visione filosofica può essere sufficiente per vivacizzare il quadro, senza esplicitare la “critica” delle idee altrui). Solo così ognuno si alleggerirà dalla preoccupazione che gli amici possano osservare con “occhi giudicanti”, valutare una sua idea “immatura o difettosa” e, dunque, solo così  - restando “fianco a fianco” - “i pensieri scorrono liberamente. Sviluppandosi l’uno dall’altro, senza che l’atmosfera contemplativa venga interrotta” (p. 91). 

  L’ultimo capitolo, redatto da Sergey Borisov, è dedicato alla pratica individuale della recollection, termine inglese che vorrebbe evocare il duplice significato di “ricordo”, ma “anche di ‘trovare di nuovo’ (re-collecting) se stessi, ossia di ritrovarsi dopo essersi persi nelle attività della vita quotidiana” (p. 101). Si tratta, molto semplicemente, di ritagliarsi degli spazi giornalieri di ‘raccoglimento’ (parola che mi sembrerebbe una soddisfacente traduzione di recollection) in cui ascoltare “interiormente tutte quelle profonde intuizioni che possono sorgere dentro di noi, o agitarsi nella mente. Per facilitare questo processo, si può leggere con cura un breve testo di una recente sessione contemplativa, o recitare più volte una frase, copiata su carta in precedenza, oppure ci si può sedere a fare contemplazione per alcuni minuti, oppure si può scrivere una frase lentamente e con cura, e così via. In seguito – per esempio alla fine della giornata – le intuizioni che saranno sorte nella mente vengono messe per iscritto. Al termine della settimana, le recollection possono essere inviate a un compagno – il ‘lettore’ – che, a sua volta, può rispondere, commentando in modo non giudicante” (p. 102).

  Al termine della lettura di questo dossier , insieme all’ammirazione per un’ennesima modalità di sperimentare “la svolta pratica della filosofia” (come direbbe Davide Miccione), possono sorgere perplessità e interrogativi. Al primo di questi ( può un’attività filosofica seguire un metodo di ricerca pre-stabilito?) mi pare che gli autori rispondano in maniera confortante: gli elementi essenziali della Deep Philosophy non vanno abbracciati come “dogmi. Essi servono come indicatori della direzione generale verso cui ci stiamo dirigendo insieme, e sappiamo che in futuro potrebbero cambiare, mano a mano che proseguiamo nel nostro cammino”. Più che “punti di arrivo”, dunque, si tratta di “semi” destinati “ad un ulteriore arricchimento e sviluppo” (così Lahav a p. 12). Se metodo c’è, va inteso e adottato in maniera flessibile, elastica, creativa.  Ad una seconda perplessità (può una pratica filosofica mettere fra parentesi la dialettica delle idee su una determinata tematica?) i co-autori rispondono in maniera indiretta (dunque non del tutto inequivoca e soddisfacente). “Nella filosofia tradizionale,” – leggiamo ad esempio a p. 84 – “è normale che vengano analizzate idee e sviluppati argomenti a favore o contro idee di altri filosofi”: sarebbe stato meglio, allora, asserire in maniera più esplicita che questa pratica contemplativa non ha l’intento di sostituire tutte le altre modalità di filosofare nelle quali il confronto, l’esame critico, la confutazione, l’auto-correzione, la “lotta amorevole” (per riprendere Karl Jaspers) sono momenti non solo legittimi, ma addirittura costitutivi e ineliminabili. A una terza riserva - devo ammettere - non ho trovato, nei vari contributi raccolti in questo volume, elementi sufficienti per rassicurarmi. Le pratiche meditative producono spesso “un senso di abbondanza e di completezza” (p. 61), “un forte sentimento esistenziale di autenticità, accompagnato da un senso di felicità” (p. 64): chi le vive, si aspetta tali stati d’animo e li persegue intenzionalmente. Ma questa attesa e questo risultato come si conciliano con l’inquietudine incessante dell’indagine filosofica? Non può darsi che la meditazione in “profondità” – dalla profondità del nostro essere e sulla profondità della totalità dell’essere che ci circonda –,  invece di regalarci pace e letizia, ci sollevino dubbi angoscianti e ci facciano intravedere abissi di insensatezza? Mi torna qui, inaggirabile, l’avvertenza hegeliana sulla filosofia che non dev’essere consolatoria a tutti i costi. Per queste perplessità mi sentirei più in sintonia con i colleghi che percorrono pionieristicamente il sentiero della “filosofia profonda” se presentassero il loro metodo come una modalità sì di aprirsi “alla realtà, alla sua abbondanza e ai suoi molteplici aspetti” (p. 100), ma intendendo per “realtà” anche la storia in cui siamo immersi, con il suo carico di sofferenze e di cattiverie.  Essi vivono la loro pratica filosofica nell’alveo degli “esercizi spirituali” su cui tanto ci ha insegnato Hadot. A me questa tradizione dice molto, ma a patto di intendere la spiritualità come sistole e diastole, inspirazione ed espirazione, moto centripeto e moto centrifugo: ritorno al proprio intimo, ma inseparabilmente proiezione nel sociale. Nei vari contributi non ho trovato, neppure en passant, un riferimento – diretto o indiretto – all’impegno politico. L’invito a interrompere il cieco attivismo, tipico non solo del capitalismo iperproduttivistico ma anche della militanza diuturna contro di esso, ritagliandosi, da soli o in buona compagnia, degli spazi di meditazione, mi risulta opportuno, anzi necessario. Purché (alla scuola di  Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Kant, Hegel, Marx, Levinas, Popper…) il distanziamento dalle convulsioni della cronaca quotidiana non venga mai assolutizzato, separato dalla memoria della sofferenza dei viventi e dalla progettazione lucida  di possibili rimedi. Spiritualità in senso laico, integrale, filosofico è – a mia meditata convinzione – fioritura della nostra soggettività in tutte le possibili direzioni: dunque anche nella relazione con l’altro, specie se il peso delle ingiustizie gli ha oppresso il petto e tolto la voce.  Solo a queste condizioni la dimensione contemplativa della vita eviterà il rischio di essere privilegio di pochi benestanti e diventerà il diritto/dovere di tutti i mortali che vogliano vivere in “profondità” la breve esistenza terrena.

 

Augusto Cavadi 

www.augustocavadi.com

 

La recensione è stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista “Phronesis” ed è scaricabile gratis al link: https://www.phronesis-cf.com/numero-4-luglio-2021/


* La foto riproduce un quadro in cui Confucio consegna a Lao Tze il bambino Buddha.

martedì 10 agosto 2021

IL CLIMA E' IMPAZZITO? NO, E' L'ESSERE UMANO CHE SI STA SUICIDANDO. L'APPELLO DI JONATHAN SAFRAN FOER

COME SALVARE IL MONDO (SE SI E' ANCORA IN TEMPO...)


“Il tempo per fermare il riscaldamento globale sta scadendo”: così, parola più parola meno,  titolano in queste ore i più diffusi quotidiani occidentali. E’  la sintesi allarmistica di qualche solitaria ragazzina ecologista o di qualche grossa organizzazione mondiale ambientalista? No. Si tratta, invece, del succo del primo volume del VI Rapporto di Valutazione del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici istituito dall’ONU. Un volume che non lascia dubbi sulla necessità di agire subito per ridurre le emissioni: "Sono i dati più accurati di sempre e indicano che è colpa delle attività umane". 

Quali attività? In Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, Milano 2019) – uno di quei testi che dovrebbero essere assolutamente letti da cittadini mediamente evoluti – l’autore, Jonathan Safran Foer,  riferisce due cifre (illustrando alcune ragioni della differenza): per la Fao gli allevamenti di bestiame inciderebbero per il 14,5  % , per il Worldwatch Institute , invece,  per “almeno” il “51 percento delle emissioni annuali di gas serra a livello globale” (p. 253).

Al di là dei dettagli tecnici, resta indubitabile una verità: dall’era industriale in poi (diciamo da tre secoli a oggi) si è rotto un equilibrio plurimillenario fra gli esseri umani cacciatori e allevatori, da una parte, e gli altri animali, dall’altra. Tale rottura implica, nell’immediato, sofferenze inenarrabili per esseri viventi e senzienti che vengono concepiti, partoriti e allevati in condizioni di schiavitù totale solo per essere macellati e consumati (da una parte privilegiata degli abitanti del pianeta); in prospettiva, sempre più incombente, implica letteralmente il suicidio dell’umanità. Sul primo aspetto della questione Foer ha scritto l’efficacissimo Se niente importa. Perché mangiamo gli animali (Guanda, Milano 2010), libro che ha aiutato molti di noi a concretizzare in maniera meno generica l’intento di privilegiare nettamente l’alimentazione vegetariana e vegana  rispetto al consumo (oltre tutto dannoso per la salute) delle carni. 

In questo nuovo testo egli si sofferma, invece, sulla seconda questione: una crisi ambientale destinata ad acuire le lotte intestine fra i mortali e ad accelerare l’estinzione della razza umana. Rinunzio a sintetizzare la ricchezza dei contenuti, ma non ad avanzare due considerazioni. Innanzitutto l’autore non si limita alla diagnosi dei mali, ma si sbilancia a suggerire delle terapie. Inoltre questa pars construens   non viene delineata con toni retorici, esagerati, fondamentalistici: Foer infatti confessa quanto sia già per lui difficile impegnarsi – personalmente e quotidianamente - per evitare una tragedia che probabilmente colpirà i suoi figli e i figli dei suoi figli più che se stesso. Propone, dunque, una strategia minimale (anche se, già in queste dimensioni, ardua da perseguire): se non si riesce a eliminare del tutto il consumo (e lo spreco !) di prodotti di origine animale, che ci si proponga di ricorrervi solo nell’ultimo pasto della giornata (a “cena”). Mangiare carne, uova, latte, formaggi anche ogni giorno – ma non dall’alba al tramonto, non tre o quattro o cinque volte al giorno – dimezzerebbe la necessità degli allevamenti intensivi e, di conseguenza, ridurrebbe notevolmente i gas serra.  

PER COMPLETARE LA LETTURA DELLA BREVE RECENSIONE, CLICCA QUI:

Come evitare che il mondo bruci lentamente

(La foto rappresenta una scultura di Adriana Saieva nella Casa Dam'Arte di Palermo)

domenica 8 agosto 2021

ROGER LENAERS E' DECEDUTO DOPO UNA VITA LUNGA, OPEROSA, INTENSA. A LUI IL MIO GRAZIE.

 

SE NE E’ ANDATO UN GESUITA RIVOLUZIONARIO

 

E’ abitudine diffusa usare il termine ‘gesuita’ per indicare, in un’accezione prevalentemente negativa, una certa tipologia di uomini. Se restiamo sul registro umoristico, tutto ci è lecito. Ma se, invece, vogliamo esprimerci con serietà, non possiamo trascurare un dato di fatto inoppugnabile: la Compagnia di Gesù, fondata nel Cinquecento da sant’Ignazio di Loyola, è stata in questi cinque secoli una fucina di ‘religiosi’ di ogni genere: implacabili inquisitori e difensori degli Indios in America Latina; manipolatori di coscienze infantili e scienziati di livello internazionale; teologi tradizionalisti ferocemente anti-moderni e teologi ultra-progressisti anticipatori del futuro. Di quest’ultima genia, alcuni nomi sono noti anche fuori dai confini della Chiesa cattolica: Teilhard de Chardin, Henry de Lubac, Karl Rahner…Meno noto, ma a mio sommesso parere non meno degno di nota,  è p. Roger Lenaers, gesuita belga nato nel 1925 e deceduto il 5 agosto appena trascorso. La stampa  e gli altri mezzi di informazione hanno quasi unanimemente bypassato la notizia (in Rete c’è solo un trafiletto accorato nel blog di don Franco Barbero) che ne sintetizza efficacemente il profilo: “A 96 anni ci mancherà ancora, ma ci restano le sue preziose opere. La sua impresa teologica, rivolta al superamento della chiesa medievale, è quanto di più costruttivo si possa immaginare per una svolta che permetta alla chiesa di riconciliarsi con il Vangelo e con la società moderna. Mentre scuote fortemente l'albero dei dogmi cristiani e cattolici, enuncia con chiarezza l'esigenza di esprimere la fede oggi in nuovi linguaggi”.

PER COMPLETARE LA LETTURA DEL (BREVE) ARTICOLO, BASTA UN CLIC:

la-grandezza-sconosciuta-del-gesuita-roger-lenaers/

venerdì 6 agosto 2021

LA SICILIA DEL PRIMO DOPOGUERRA IN UN ROMANZO BREVE DI SANTO LOMBINO

6.8.2021

 

NE’ LUNA NE’ SANTI

 

La vita è complicata un po’ dovunque. Ma ci sono territorio in cui lo è un po’ di più. La Sicilia è una di queste. Dopo le opere di Pirandello, Sciascia e Camilleri, lo attesta anche questo romanzo (breve) di Santo Lombino (Né luna né santi, Navarra, Palermo 2021, pp. 143, euro 12,00) ambientato nel Primo dopoguerra (1920 – 21) a Torrebruna, un Comune realisticamente immaginato dell’entroterra isolano. Attraverso la narrazione autobiografica, diaristica, del giovane protagonista (il venticinquenne Francesco Marretta) apprendiamo dell’assassinio del parroco; dell’imputazione di un giovane reduce, delle fasi del processo con la sfilza di testimoni d’ogni rango. 

La conclusione – che ovviamente non va svelata nella recensione di un giallo – è affidata a un sogno, probabilmente più veritiero di tante evidenze empiriche diurne. Ma è una conclusione inconclusa: al lettore il diritto, a cui per altro non può sottrarsi, di scegliere tra alcune ipotesi delineatesi nel corso del racconto. Un po’ come è avvenuto per tanti delitti – eccellenti o meno (ma le vittime non hanno tutte uguale dignità?) – nella storia anche recente della Sicilia, di cui è stato possibile qualche volta individuare gli autori materiali ma quasi mai i mandanti segreti.

L’interesse del testo va comunque al di là del registro criminale, estendendosi all’ambito storico-antropologico: come afferma Bernardo Puleio nella Postfazione, “appare vera e vivida la vita del paese come se noi fossimo in grado di vedere dinanzi ai nostri occhi i personaggi, molti dei quali veramente vissuti, che l’autore ci propone. Viene realizzata, sapientemente e con naturale fusione, una ricostruzione in cui, ai documenti d’archivio che rappresentano le storie e le presenze anche della gente comune nei quartieri e nelle strade del paese, si somma la memoria visiva dei ricordi autoptici vissuti in prima persona dall’autore”.

Quanto al registro linguistico, non si può non concordare con il parere di Nicola Grato che, nella Prefazione, nota: “Pacata e sobria appare la lingua adoperata da Lombino, in alcuni luoghi del racconto questa assume caratteristiche fiabesche per il suo carattere principalmente orale”. E “corale”.


PER COMPLETARE LA LETTURA E IL CORREDO ICONOGRAFICO, BASTA UN CLIC QUI:


https://www.zerozeronews.it/noir-fra-sepolcri-imbiancati-con-sentori-di-pirandello-e-sciascia/

lunedì 2 agosto 2021

LA MONTAGNA DI FILOSOFIA A POLIZZI GENEROSA SECONDO MARIA D'ASARO

"Il punto quotidiano"

25.7.2021

LA MONTAGNA DI FILOSOFIA SECONDO MARIA D'ASARO

 L’aggettivo “Generosa” il comune di Polizzi (in provincia di Palermo a 920 metri di altezza, all’interno della suggestiva cornice del Parco delle Madonie) lo ebbe nel 1234 da Federico II, favorevolmente colpito dall’ottima accoglienza ricevuta dai polizzani e dalla ricchezza del territorio. Col Regio Decreto del 1863, il titolo è divenuto ufficialmente parte integrante e distintiva del nome della cittadina. Tra le tante bellezze di questo suggestivo borgo madonita, in una valle a 1600 metri di altezza, c’è il più raro “albero di Natale” del mondo: l’Abies nebrodensis, conifera endemica delle Madonie, di cui si conservano pochi esemplari. L’abete delle Madonie, per le sue particolarità, è stato dichiarato dalla Società Botanica Italiana “pianta simbolo”dell’isola.

Polizzi Generosa, paese d’origine del celebre stilista Domenico Dolce,  ha dato i natali a Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952): giornalista, scrittore, docente universitario e critico letterario, persino candidato al Nobel per la Pace per le sue  concezioni artistiche e politiche illuminate e cosmopolite.

Proprio la Fondazione “G.A. Borgese” – istituita nel 2002 per promuovere e valorizzare l’opera artistica, letteraria, giornalistica e politica dell’illustre concittadino – nei giorni scorsi ha promosso la seconda edizione de “Una montagna di… filosofia”. L’evento culturale, con la sapiente regia del professore Augusto Cavadi,  filosofo “pratico” e tanto altro ancora, ha visto una quarantina di persone confrontarsi sui temi della salvaguardia dell’ambiente, sulle linee essenziali del Taoismo, sulla cosiddetta ideologia “gender”, sull’attualità della Divina Commedia, a 700 anni  dalla morte di Dante.

A detta dei partecipanti, l’iniziativa culturale, ricca di momenti particolarmente toccanti, è stata anche quest’anno intensa e coinvolgente. Eccone una rapida sintesi:

Gli incontri sono iniziati con una passeggiata filosofica, condotta da Augusto Cavadi, dal tema “La montagna come metafora della filosofia”, momento che ha suscitato varie e suggestive risonanze individuali. Alla passeggiata filosofica è seguito il contributo di Maurizio Pallante sui temi della cosiddetta “decrescita felice”: lo studioso ha sconfessato sia l’equazione aumento del PIL uguale crescita del benessere, che l’identificazione tra merci e beni, suggerendo di non farsi irretire dalle sirene del cosiddetto “sviluppo sostenibile”. La riflessione sui limiti del paradigma economico della crescita è continuata poi sabato mattina nel corso di una delle tre “colazioni al bar”, condotta ancora da Pallante. Le altre due “colazioni con i filosofi” sono state introdotte rispettivamente da Giorgio Gagliano, che ha illustrato con passione e competenza le linee essenziali del Taoismo, evidenziandone la valenza universale e i punti di contatto con altre tradizioni sapienziali, e da Augusto Cavadi, che ha dibattuto sulle questioni legate alla distinzione fra il “sesso” (biologico) e il “genere” (sia percepito soggettivamente che agito socialmente).

Il professor Maurizio Muraglia ha poi affascinato il gruppo con una relazione sulla profonda umanità dell’Alighieri che, con l’autenticità delle sue passioni di uomo del Trecento, le  sue travagliate vicende personali e soprattutto col suo metaforico viaggio ultraterreno dall’Inferno del male al Paradiso del bene,  riesce ancora ad interessarci e ad avvincerci, prospettando percorsi di riflessione e di saggezza.

Convegnisti e polizzani hanno quindi fruito delle magistrali esecuzioni musicali di Giorgio Gagliano, filosofo e anche appassionato ed esperto maestro di violino e pianoforte, che ha letteralmente incantato l’uditorio con brani di Bach e Paganini.

Il convegno filosofico si è concluso con spunti di riflessioni proposti da chi scrive sulla base del testo di Jonathan Safran Foer “Possiamo salvare il mondo prima di cena”. Senza fanatismi ideologici, sono state messe sul piatto della discussione comunitaria alcune proposte ecologiche operative, alimentari e non, per diminuire in modo significativo l’impatto inquinante patito dal nostro martoriato pianeta.

Si conferma ancora una volta davvero “generosa” la nostra Polizzi, grazie alla cui ospitalità  la filosofia è andata a braccetto con la voglia di pensare, di mettersi in gioco, di fare scelte lungimiranti e consapevoli. E ha fatto rima con acribia, compagnia e persino con allegria…

Maria D’Asaro