venerdì 26 febbraio 2010

La chiesa cattolica e la mafia


“Repubblica - Palermo”
26.2.2010
COSA PUO’ FARE LA CHIESA CONTRO LA MAFIA
Mercoledì i vescovi italiani hanno pubblicato un documento interamente dedicato al Mezzogiorno. La notizia merita tre o quattro considerazioni. La prima è decisamente positiva: a poco più di vent’anni da un analogo documento, è importante che i vescovi cattolici dichiarino con toni chiari e forti che la questione meridionale non si è dissolta né tanto meno risolta. E che non si tratta di una questione locale, da riservare all’attenzione di antropologi curiosi di etnie arcaiche: l’intero sistema-Paese ne è corresponsabile quanto alle cause, ne paga gli effetti negativi e va coinvolto nelle strategie terapeutiche.

Una seconda considerazione: il giudizio sulla situazione attuale del Meridione non è certo lusinghiero. Di fronte ad uno sviluppo “bloccato”, i vescovi sostengono “la necessità di ripensare e rilanciare le politiche di intervento”, con attenzione particolare ai più deboli, “al fine di generare iniziative auto-propulsive di sviluppo, realmente inclusive”. Ma non si fanno illusioni: nonostante la retorica tracimante da documenti programmatici, comizi e dichiarazioni alla stampa, il ceto politico meridionale razzola male. Secondo la loro spietata diagnosi, “il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province e dei governatori regionali, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici che una democrazia più diretta nella gestione del territorio avrebbe auspicato”.
Altrettanto significativa una terza considerazione: “Il complesso panorama politico ed economico nazionale e internazionale, aggravato da una crisi che non si lascia facilmente descrivere e circoscrivere, ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo”. Ci si chiede, però, se un’analisi di questo genere non dovrebbe implicare una più netta presa di distanza dai governi di centro-destra che “l’egoismo individuale e corporativo” non si limitano a praticarlo (come pure avviene in aree vaste del centro-sinistra), ma lo teorizzano e ne fanno una bandiera programmatica. Non ha molto senso evidenziare la questione meridionale se non si denunzia, con altrettanta decisione, la questione settentrionale: senza l’edonismo, il cinismo, l’anarcocapitalismo, la miopia campanilistica e razzista, la corruzione sistemica del Nord…, la condizione del Sud sarebbe altrettanto grave?
Una quarta considerazione meritano i passaggi del documento della CEI dedicati alle “organizzazioni mafiose, che hanno messo radici in tutto il territorio italiano, hanno sviluppato attività economiche, mutuando tecniche e metodi del capitalismo più avanzato, mantenendo al contempo forme arcaiche e violente ben collaudate di controllo sul territorio e sulla società”. Che la Conferenza episcopale italiana ribadisca che “le mafie sono la configurazione più drammatica del ‘male’ e del ‘peccato’ ”, è certamente da apprezzare. Molto meno, a mio avviso, che essa veda, in queste “strutture di peccato”, “una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione”. Una simile formulazione associa indebitamente illegalità sistemica e ateismo: ma si può dare per scontato che una società meno religiosa sia, per ciò stesso, una società meno etica? E, viceversa, si può dare per scontato che i mafiosi non siano sinceramente cattolici? Penso che la situazione sia molto più complessa. Per sintetizzare brutalmente quanto ho cercato di argomentare recentemente ne Il Dio dei mafiosi, ritengo che la teologia debba riconoscere che la cultura mafiosa sia imbevuta non solo di paganesimo e di religiosità popolare, ma anche di dottrina cattolica ufficiale ed ortodossa. E che dunque il compito più urgente per la comunità dei credenti è di rivedere radicalmente la sua interpretazione del messaggio evangelico in modo da liberarlo dalle scorie che, in venti secoli di dogmatismi e di moralismi, lo hanno reso irriconoscibile. La dottrina cattolica - con l’insistenza su temi assai poco evangelici come l’obbedienza gerarchica, l’intermediazione dei santi, l’enfatizzazione della famiglia, la sessuofobia - si presta troppo bene ad essere utilizzata ideologicamente dalle cosche mafiose. Qualora, invece, riscoprisse e rimettesse al centro i nuclei essenziali del vangelo di Gesù Cristo - la fratellanza, la giustizia, la solidarietà verso i deboli, la libertà di coscienza, il senso critico, la gratuità delle relazioni umane, la dignità della donna, la bellezza del cosmo - essa si renderebbe inutilizzabile da parte delle organizzazioni criminali. Anzi, potrebbe alimentare una vera e propria rivolta collettiva verso i mafiosi, i loro complici, i loro alleati.
Augusto Cavadi

giovedì 25 febbraio 2010

Il documento dei vescovi italiani sul Mezzogiorno d’Italia


La Cei: «Corruzione e mafia, cancro che avvelena l’Italia»
di Luca Kocci
“Manifesto” 25 febbraio 2010

Dura condanna delle mafie, definite un «cancro» che «avvelena la vita sociale», e della corruzione della politica. Ma anche autocritica per i silenzi e le omissioni della Chiesa che ancora deve «recepire sino in fondo l’esempio dei testimoni morti per la giustizia». È quanto afferma la Conferenza episcopale italiana che, dopo una gestazione durata un anno, ha pubblicato il documento “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”, interamente dedicato alla questione meridionale.
Il sud appare afflitto da «problemi irrisolti» che rischiano di isolarlo, «tagliandolo fuori dai grandi processi di sviluppo» e «trasformandolo in un collettore di voti» per una classe politica inadeguata, affermano i vescovi. Anche perché «il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle Province e delle Regioni, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente malsani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici» che si sarebbero auspicati.

In questo contesto, proseguono i vescovi, a dispetto dei roboanti annunci del governo, «la mafia sta prepotentemente rialzando la testa». Dagli anni ‘90 «le organizzazioni mafiose, che hanno messo radici in tutto il territorio italiano, hanno sviluppato attività economiche, mutuando tecniche e metodi del capitalismo più avanzato, mantenendo al contempo ben collaudate forme arcaiche e violente di controllo sul territorio e sulla società» nonostante «le sconfitte inflitte dallo Stato attraverso l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura». Inoltre le organizzazioni criminali «avvelenano la vita sociale», «soffocano l’economia» ed esautorano lo Stato, «favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale», dicono i vescovi. Delle vere e proprie «strutture di peccato» contro le quali la Chiesa non sempre ha alzato la voce, come fece Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi nel 1993: tanti uomini di Chiesa, sostengono i vescovi, «sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile», dimenticando le testimonianze di don Pino Puglisi e di don Peppe Diana.
«Il documento della Cei è una buona notizia - dice Augusto Cavadi, teologo ed esperto di rapporti fra cattolicesimo e mafia che ha appena pubblicato *Il Dio dei mafiosi* - ma adesso ne attendo altre due: un documento analogo per condannare la Lega Nord dal momento che, al di là delle motivazioni dei singoli, è un’organizzazione fondata su princìpi anti-evangelici come il fondamentalismo, il razzismo e la derisione della solidarietà; e che i vescovi siciliani rompano il silenzio tombale su quei politici complici acclarati di mafiosi, che pure brandiscono come bandiera elettorale la loro appartenenza ecclesiale». «Il documento della Cei, se accolto con attenzione e responsabilità dai credenti, potrà costituire nuovo stimolo per una coralità maggiore nell’impegno per la costruzione legalità democratica», il commento di Libera di don Ciotti.

lunedì 22 febbraio 2010

Il filmato della conversazione fra me e Corrado Augias

Dalla rubrica “Le storie. Diario italiano” di Corrado Augias, intervista interamente dedicata al mio libro “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Milano 2009) andata in onda su RAI 3 Martedì 9 febbraio.

1/2:

2/2:

domenica 21 febbraio 2010

Il 2010 anno internazionale dei migranti


“Centonove” 19.2.2010

Migranti e così sia

Lo scombussolamento planetario, dovuto ai flussi migratori dal Sud al Nord del mondo, tocca in maniera significativa anche “semiperiferie anomale” (formula suggerita da Umberto Santino) come la Sicilia. Per questo meritano maggiore attenzione di quanto sinora gliene abbiano dedicato i mezzi di informazione le iniziative che si stanno realizzando nella nostra regione, sulla scia dell’anno per i migranti proclamato dalla Commissione per i Migranti delle Chiese d’Europa (CCME), alla quale partecipano il KEK (che raggruppa le Chiese Protestanti ed Ortodosse) e la Conferenza dei Vescovi cattolici europei.
“Viviamo” - ci dichiara Bruno Di Maio, responsabile della sezione palermitana del SAE (Segretariato per le Attività Ecumeniche) - “un momento nel quale in diversi Paesi europei (compreso il nostro) non mancano segnali inquietanti di un clima culturale impaurito che disconosce il valore fondamentale dell’alterità nella formazione di ogni identità; nella convinzione che quest’ultima si costituisca solamente attraverso l’assoluta auto-referenzialità socio-culturale. Attanagliati così dall’incubo dell’incontro con l’altro, subiamo quotidianamente pressanti appelli volti a disegnare apocalittici scenari futuri in cui la “razza” bianca scomparirebbe per lasciare il posto ad un odiato meticciato. Ecco perché le Chiese cristiane intendono essere da lievito e da stimolo alla società, facendo sì che il discorso su immigrazione e interazione con i migranti diventi un tema di crescita civile, sottratto ad ogni tipo di ideologia, al contempo fondato sugli insegnamenti della Bibbia” .
“Si tratta” - aggiunge Valerio Burrascano - “di mettere in pratica un dialogo interreligioso ed un ecumenismo ‘della vita’, fatto di scelte e gesti concreti; un nuovo e diverso atteggiamento dialogante che, senza dimenticare le diversità teologiche e pastorali così come le inevitabili contraddizioni e difficoltà dell’incontro con l’alterità, faccia della diaconia verso i migranti un’espressione concreta della testimonianza cristiana”.

A Palermo, dove da alcuni decenni si tengono con regolarità incontri ecumenici, possiamo segnalare due iniziative autonome che si collocano nella medesima prospettiva europea ora richiamata. La prima (intitolata “La Bibbia e lo straniero”) è stata pensata dal coordinamento delle chiese cristiane: sono previsti tre incontri nei quali i rappresentanti della Chiesa cattolica e delle altre Confessioni cristiane presenti a Palermo (Avventisti, Ortodossi, Valdesi, Metodisti, Anglicani, Pentecostali, Luterani) esporranno come le rispettive Chiese comprendono e mettono in pratica gli insegnamenti della Bibbia riguardanti gli stranieri.
La seconda iniziativa è stata varata dal SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) e dall’Associazione “ActaLibri”. Si tratta di un corso di formazione dal titolo:”Il DIVERSO, L’ALTRO, L’ULTERIORE – Percorsi d’incontro con la stranierità”. “Sappiamo bene” - spiega ancora Bruno Di Maio - “che nuovi ideologismi invitano – soffiando sul fuoco dell’intolleranza e della diffidenza verso l’altro – a ghettizzare chi può apparire diverso, differente, facendo leva su vere o presunte identità culturali e/o religiose da difendere. Di fronte a tali scenari drammaticamente attuali nel nostro paese, il corso di formazione SAE/ActaLibri intende offrire uno spazio di informazione e di riflessione nel quale i principali aspetti del problema vengono affrontati con competenza e metodo, fornendo ai partecipanti gli strumenti critici utili ad una elaborazione personale correttamente fondata”. “La presentazione della situazione reale dell’immigrazione in Europa ed in Italia” - aggiunge Valerio Burrascano - “permetterà di sgomberare il campo da possibili informazioni distorte o tendenziose. Sarà affrontato anche il tema della ‘prossimità non voluta, costrittiva, in cui però si può scoprire che il senza terra nel mio territorio è qualcuno cui sono chiamato ad essere prossimo’. Non mancherà infine un preciso e puntuale riferimento biblico, che ci illuminerà sulla possibilità universalistica insita nella Sacra Scrittura a partire dalla comune Legge per ebrei e gentili”.
La partecipazione di qualificati esponenti del mondo della cultura cittadino e nazionale intende proporre un servizio offerto alla nostra città per sostenerne una più precisa ed efficace collocazione entro un orizzonte europeo, sviluppandone al contempo le peculiari potenzialità di frontiera euro-mediterranea.
Augusto Cavadi

Omaggio al cantastorie Pino Veneziano


“Repubblica-Palermo”
21.2.2010

IL CANTASTORIE DI SELINUNTE

Augusto Cavadi

Il volto è asciutto, duro, intensamente mascolino. Ma nel fondo degli occhi c’è qualcosa di tenero e di ridente, non solo quando è fotografato con la chitarra in mano e Luis Borges accanto. Così il “cuntastorie” siciliano Pino Veneziano (1933 - 1994) è raccontato dalle foto del libro Di questa terra facciamone un giardino a cura di R. Pollina e U. Leone (Coppola editore, Trapani 2009, pp. 74, euro 15,00, con CD incorporato). E così lo raccontano i versi delle sue canzoni: schietti e doloranti, talora persino violenti. Soprattutto quando gridano la rabbia dei braccianti (nativi di ieri, immigrati di oggi) contro i loro sfruttatori: “Vulemu tuttu chiddu chi facemu! /Vulemu tuttu chiddu ch’è nostru! Lu vostru?/ Vi lu lassumu:/ tantu è nenti!”. I curatori del “tributo a Pino Veneziano” si augurano che la sua indignazione al cospetto di ingiustizie antiche e di malaffari recenti possa diventare il grido di protesta della “sua” Selinunte, “offesa dal tentativo di cementificazione incombente” che “reclama di potere mantenere ciò che ha: il suo mare e la sua costa dove vengono a riprodursi le tartarughe marine, la pesca tradizionale delle sardine, la sua vegetazione, i suoi templi e le sue tradizioni agricole e marinare”.

Ma chi è stato questo conterraneo e contemporaneo di Ignazio Buttitta e di Ciccio Busacca, “picaro e gitano, dalla vita tormentata come quella di Rosa Balistreri”, che solo alle soglie dei quaranta anni poté imbracciare la sua prima chitarra? Che mette sulle labbra di straccioni in corteo per la casa parole di fuoco e di tenerezza (”Vulemu la casa! /Picchì l’omu senza casa, / l’acidduzzu senza nidu,/ lu babbaluci senza scorcia, / lu cunigghiu senza tana,/ su comu li pisci senza lu mari”)? Il ritratto emerge, quasi mosaico, da sette contributi: da Vincenzo Consolo (che, fra l’altro, nota “l’ironia del caso” per cui Pino, “autenticamente popolano”, portava lo stesso cognome del colto e grande poeta dialettale cinquecentesco Antonio Veneziano, l’autore de La Celia, dalla vita tormentata anch’egli, che ebbe la ventura di essere stato compagno di prigionia in Algeri di don Miguel de Cervantes”) a Gaetano Savatteri (a giudizio del quale la voce di Veneziano “fa affiorare l’incanto delle notti stellate, la risacca del mare, le poche case affacciate sulla spiaggia, la forza selvaggia di una natura che prendeva il sopravvento perfino sulle rovine antiche”) e ad Ascanio Celestini (secondo cui il “cantante-artista” siciliano non “fece musica”, ma volle “fare attraverso la musica”). E poi ancora le testimonianze di Rocco Pollina, anch’egli musicista e cantautore, che evoca “il suo dialetto siciliano tagliente come un coltello”; del compagno di lavoro al ristorante sul mare, Gaspare Giglio detto Jojò, che ricorda le visite di Danilo Dolci e di suoi illustri ospiti come Primo Levi; di Enrico Stassi, regista dello spettacolo teatrale dedicato alla vita di Pino Veneziano; di Piero Nissin, ‘produttore’ dell’unico disco (Lu patruni è suverchiu) inciso da Pino ed edito con una Nota di copertina firmata dal poeta Ignazio Buttitta (”Pino, alla potenza della voce, aggiunge la forza drammatica. Un catastorie che fa politica, e la sublima con la poesia. Gli argomenti sono la verità cantata da popolano a popolano, senza inganni. I padroni non sono necessari, le guerre nemmeno; le case sono necessarie: perché un coniglio senza tana, un uccello senza nido, sono come i pesci senza mare, dice”); di Umberto Leone, promotore dell’Associazione dedicata al suo amico scomparso di Selinunte, “un pezzo di colonna, una roccia di quel mare. La continuazione dell’arte e della sapienza di tanta bellezza”. Ed è proprio Leone a rievocare le esibizioni improvvisate dell’amico - dalla “faccia da gitano che sembrava scolpita dal libeccio e dallo scirocco” - davanti a “Lucio Dalla (quando cantava Itaca) e Fabrizio De André (quando cantava Amico fragile), il quale ultimo lo volle come spalla al suo primo concerto in Sicilia”.
Il libro è corredato da un cd in cui i testi e le musiche di Veneziano sono interpretati da vari artisti: Peppe Barra, Roy Pace, Umberto Leone, Palermo Art Ensemble, Etta Scelfo, Sud Sound System, Pippo e Rocco Pollina, Enrico Stassi, Officina Zoè, Moni Ovadia, Clara Salvo, Matilde Politi, Gabriele Zampigno & KSM, Mondorchestra, Michela Musolino. In una delle canzoni-poesie più note, l’autore consegna il nocciolo della sua travagliata lezione: “Chissa è ‘na terra ca nni duna aranci,/ chissa è ‘na terra ca nni duna vinu,/ si nni po’ fari un beddu jardinu,/ ma cca cu havi li guai si li chianci”. Come a dire: la natura è stata generosa con i siciliani, ma i siciliani non lo sono con sé stessi. Affrontano le difficoltà della vita con pazienza, ma individualisticamente: non sanno mettersi insieme, reagire collettivamente. Non sanno rispondere politicamente alle disgrazie inevitabili né alle malefatte evitabilissime. Certo, sarebbe storicamente scorretto attribuire questa incapacità di aggregazione politica a chi sa quale malformazione genetica dei siciliani: come ha ricordato più volte Umberto Santino, ci sono state nella storia momenti di grande mobilitazione popolare (come i Fasci siciliani di fine Ottocento o le lotte per la terra a metà Novecento). La reazione dei potenti, fiancheggiati quasi sempre dalle armi dello Stato e dei mafiosi, è stata però così dura da far marcire in galera i più attivi, costringere i più svegli a fuggire via e incidere a lungo nella memoria e nella psiche delle generazioni successive.

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Dal primo contributo, di Vincenzo Consolo

“Si sono perse le voci, e per sempre, dei poeti e dei cantori popolari di Sicilia, così come d’ogni altra regione o plaga di questo nostro paese, di questo nostro mondo d’oggi, assordato dai clamori imperiosi della violenza e della stupidità. Voci, quelle, umane e melodiose che davano voce ai sentimenti e ai pensieri di un popolo, un popolo che gioiva, soffriva dell’esistenza, soffriva della storia. Una catena sonora, quella popolare della Sicilia, che affondava l’origine sua nel più remoto tempo, nel tempo greco degli aedi e dei lirici. ‘La discendenza del canto popolare siciliano dalla musica greca dell’epoca classica è una proposizione indiscutibile’ scrive il musicologo Ottavio Tiby. Greco sì, il canto popolare siciliano, su cui però è passata la nenia lenta e profonda del deserto, del canto arabo vogliamo dire. il ‘borghese’ Alessio Di Giovanni, di Cianciana, per aver sentito una notte un carrettiere cantare il malioso canto che iniziava con il distico ‘ Lu sunnu di la notti m’arrubbasti:/ ti lu purtasti a dòrmiri cu tia’, si convertì al radicalismo dialettale, a scrivere tutte le sue opere, poesie e romanzi, in siciliano. Canto arabo dunque, andaluso e gitano, che dall’Andalusia moresca passò in Sicilia e nel Napoletano, parole e suoni, quelli del canto popolare siciliano, che di generazione in generazione si tramandavano e si ricreavano, una musica popolare che fecondava e rinnovava la musica dotta “.

venerdì 19 febbraio 2010

Antonio Silvio Salanitri su “Il Dio dei mafiosi”


Mensile “Espero” - Febbraio 2010

PRESENTATO A TERMINI IMERESE L’ULTIMO LIBRO DI AUGUSTO CAVADI

Giorno 15 gennaio scorso, presso la libreria caffè Punto 52 a Termini Imerese, il consueto gruppo di lettura - in una edizione un po’ rivisitata - ha discusso con l’autore Augusto Cavadi e il teologo Vitaliano Cirrincione del libro Il Dio dei Mafiosi, edizioni San Paolo.
Chi vi ha partecipato ha potuto godere, in uno stile schietto e diretto, dell’interpretazione autentica dell’opera, ma di questo momento non si vuole qui provare a dare un resoconto, rispettandone la dimensione spazio-temporale dell’hinc et nunc. Si vuole, invece, cogliere l’occasione per parlare ancora e riflettere su un tema piuttosto inconsueto (così come trattato nel libro “Il Dio dei mafiosi”), partendo dall’opera stessa.
Dire, come usualmente accade, se si tratti di un bel libro o meno non pare che sia il giusto metro: un libro di questo tipo non si misura con il metro della “bellezza” ma con quello dell’utilità. Il libro è uno strumento valido e non privo di aspetti rivoluzionari, che finisce con l’arricchire preziosamente la cassetta degli strumenti di tutti coloro che vogliono meglio comprendere la fenomenologia mafiosa e che si occupano di pedagogia della legalità.

Come precisa lo stesso Autore in una nota tecnica, il libro si presta ad una lettura verticale tramite “finestre di approfondimento”; ma può rinvenirsi anche un piano di lettura orizzontale (testimoniato da una corposa bibliografia) nel quale possono individuarsi numerosi omaggi e richiami di opere e autori che prima e insieme all’Autore hanno trattato l’argomento, emergendo, dalle pagine del libro, una “coralità” sinfonica, ricca di voci, pensieri, esperienze, aneddoti, espressione di una significativa e positiva solidarietà.
L’analisi è svolta con il rigore logico del filosofo e la competenza del teologo, e il risultato ne guadagna in termini di linearità e semplicità: che cosa intendiamo per mafia? Qual è la visione mafiosa del mondo? Esiste una teologia dei mafiosi? Quale potrebbe essere una teologia “oggettivamente” antimafiosa? Sono queste le domande che Augusto Cavadi si pone, e a cui offre possibili risposte che, pur nella loro essenzialità, sono ricche di declinazioni. Si parla di registri tetri e drammatici contrapposti a quelli della speranza, della solarità; di visioni solipsistiche contrapposte a quelle conviviali e della fratellanza; di strutture gerarchiche e autoritarie contrapposte a formazioni democratiche ed egualitarie; del familismo amorale, della trascendenza senza immanenza, di sovranità accessibile solo per mediazione, della redenzione per soddisfazione vicaria, di ortodossia “tribale”. Riprendendo affermazioni dell’Autore, si potrebbe dire che il suo intento sia quello di contribuire – anche se in misura limitata – a un processo di riforma teologica e istituzionale che renda sempre meno possibile che una società a stragrande maggioranza cattolica partorisca Cosa nostra e stidde, ndrangheta, camorra e Sacra corona unita.
Rimangono di competenza del lettore alcune possibili domande, e tra queste: a chi si rivolge il libro? Perché l’esperienza mafiosa fa propria una teologia? E’ giustificato proporre una revisione della teologia cattolico-mediterranea (così la definisce l’Autore) sol perché presenta tratti preoccupantemente simili a quella mafiosa? Alla prima domanda ritengo che si possa rispondere: ai mafiosi, perché potrebbero prendere coscienza delle implicazioni contenute nel loro modello culturale; agli abitanti della “zona grigia”, che potrebbero prendere spunti per decidere in maniera più netta da che parte stare, appellandosi ad una spiritualità incarnata, trascendente ma anche immanente; ai teologi ufficiali e ai preti di quartiere che coraggiosamente potrebbero trarre spunto, o semplice occasione, per una riflessione inedita sulle conseguenze di lungo effetto, anche psicologiche, dei propri catechismi. Alla seconda domanda si potrebbe rispondere dicendo che i mafiosi sono uomini, e in quanto tali non sfuggono al bisogno di relazione con il divino, secondo il proprio modello culturale. Ma si potrebbe anche aggiungere che la necessità coincide con il bisogno strumentale di approvazione sociale: anche il fenomeno mafioso ha bisogno dei propri sostenitori, di consenso. E tra le immagini della “subcultura” in cui la mafia attinge la propria acqua ve ne sono alcune che si prestano particolarmente ad uno scambio osmotico, ad una relazione di asservimento di tipo parassitario: quelle prodotte da certi temi della teologica cattolica tradizionale. Alla terza domanda potrebbe rispondersi che se la teologia cattolica non potesse attingere altrimenti e altrettanto autorevolmente dalle proprie origini, non sarebbe certo giusto sottoporsi ad una rivisitazione sol perché strumentalmente depredata da una possibile teologia mafiosa. Ma se è possibile, come ritiene l’Autore, che il pensiero cristiano sia portatore di altri modi di essere, allora si potrebbe spezzare la catena secondo cui il “vangelo risulta tradotto e interpretato in una cultura – quella meridionale – che, a sua volta, è stata tradotta e interpretata dal sistema di potere mafioso. Perchè se è vero che la teologia cattolica non è mafiogena, è altrettanto vero che essa contribuisce alla concreta configurazione di questa mafia, contribuendo alla strutturazione del particolare contesto culturale nel quale la mafia si è di fatto costituita, e dal quale mutua parassitariamente simboli, credenze e pratiche”.
Ovviamente non poche cose potrebbero ancora essere dette, ma per concludere una senz’altro…con l’Autore: “sono convito che pensare sia una forma d’azione in se stessa, nonché una condizione imprescindibile per dare nerbo e direzione a tutte le altre forme d’azione, individuali e collettive”.

Antonio Silvio Salanitri

domenica 14 febbraio 2010

Bruno Vergani su “Il Dio dei mafiosi”


Buongiorno, Augusto.
Ho scritto un ‘post’ con il mio punto di vista sul “dio dei mafiosi” che ho appena terminato di leggere e del quale sono rimasto intimamente colpito:

http://blognew.aruba.it/blog.brunovergani.it/
Teologia_mafiosa_25576.shtml

Italiainformazioni del 10.2.2010 su Il Dio dei mafiosi


“Il Dio dei mafiosi”, la religiosità degli uomini di Cosa Nostra

di Antonino Cangemi
10 febbraio 2010

L’analisi del fenomeno mafioso svela un inquietante paradosso: gli uomini di “Cosa Nostra” sono, nella quasi generalità, cattolici e, non di rado, credenti pieni di fervore. Come è possibile ciò? La mafia, con l’efferatezza dei suoi crimini, non è sorda al richiamo di Dio? Come si spiega allora l’ostentata religiosità degli “uomini d’onore”?

A questi interrogativi risponde Augusto Cavadi, sociologo e teologo palermitano, nel suo recentissimo “Il Dio dei mafiosi”, edito da San Paolo. Cavadi parte da un’analisi, penetrante e aliena da luoghi comuni, della mafia.

Autore di diversi scritti sulla realtà mafiosa, Cavadi ne delinea i principali tratti che la connotano: l’omertà che preserva la segretezza dell’organizzazione, la struttura gerarchizzata e piramidale, il familismo amorale, il ruolo subalterno della donna, l’ideologia pervasa di dogmatismo e fondamentalismo che si accompagna alla pratica dell’ obbedienza cieca al potere carismatico del boss, la sottovalutazione della vita terrena a cui fa da contraltare l’esaltazione della virilità e dell’onore, l’individualismo e la diffidenza nei confronti della vita pubblica.

Nell’universo mafioso, più complesso di quanto possa apparire, Cavadi scorge aspetti tribali e arcaici che si coniugano ad altri moderni e, soprattutto, l’assimilazione di elementi desunti da modelli culturali borghesi-capitalisti (quale, ad esempio, l’assenza della solidarietà, se non limitata al ristretto nucleo familiare), dal “cattolicesimo mediterraneo”, da canoni comportamentali meridionali e siciliani.

Sviscerata la mafia nei suoi diversi e problematici profili e svelatone l’intreccio con culture da essa esteriormente lontane, Cavadi dimostra, con sorprendente lucidità, come possa configurarsi una “teologia dei mafiosi”. Una “teologia” cioè che indica in che modo gli uomini d’onore credono, come vivono la loro religiosità, come raffigurano Dio, la madonna, i santi.

Il Dio dei mafiosi è onnipotente, punitivo, privo di misericordia, trascendente , “garante dell’ordine cosmico e dell’ordine sociale”, in quest’ultimo aspetto simile a quello del cattolicesimo borghese. Esige obbedienza assoluta e sacrifici fini a se stessi. E’ inarrivabile, se non attraverso la mediazione dei santi e della madonna, che infatti sono oggetto di particolare venerazione (si pensi alle tante processioni sovvenzionate dai mafiosi). In ciò si evidenzia l’influsso delle tradizioni cattoliche mediterranee, come pure nell’enfatizzazione della passione e della crocifissione e, di contro, nel minimizzare la resurrezione. Nel sentire religioso dei mafiosi prevalgono i registri lugubri, la mancanza di gioia e di bellezza. Il Dio della mafia è’ una divinità quasi spietata, che non conosce tenerezze e perdono e che, in qualche modo, assomiglia ai boss stessi. Lo si potrebbe identificare in una loro proiezione.

Nelle pagine del saggio si evidenzia anche come una parte della comunità ecclesiale retrograda e miope, per usare eufemismi, si sia resa complice di “Cosa Nostra”, assecondandone i culti e accettandone protezione e offerte e che, similmente, tanta borghesia “accomodante” la abbia agevolata, disconoscendola o ridimensionando la sua pericolosità sociale.

Nel 1993, ad Agrigento, le dure parole di condanna di Giovanni Paolo II: “Dio ha detto una volta: “Non uccidere!. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio”. E di recente, alla conferenza episcopale di Assisi, monsignore Mariano Crociata ha stroncato ogni equivoco: “Non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche, perché chi fa parte delle organizzazioni criminali già automaticamente è fuori dalla comunione ecclesiale”.

Tutto ciò rivela una nuova consapevolezza della malvagità mafiosa da parte della istituzioni della Chiesa. Ma Cavadi, che conosce bene il fenomeno mafioso e talune ambiguità tuttora presenti nel mondo religioso, sente il bisogno, nell’ultimo capitolo del libro, di individuare una serie di anticorpi di cui la cristianità deve munirsi per arginare il triste legame tra “Cosa Nostra” e la chiesa. E ciò sulla scorta dell’esempio dei tanti preti di elevato spessore etico, primo tra tutti Don Pino Puglisi (da non perdersi il suo ironico “padrenostro del picciotto” ricordato nel volume), e nel nome del messaggio misericordioso del vangelo.

Nota: Lo stesso giorno la medesima recensione è uscita anche su “Siciliainformazioni.com”

sabato 13 febbraio 2010

“Il prato e il pozzo” di Maria Teresa De Sanctis


“Centonove” 12.2.2010
COM’E’ STUPIDO IL MALE

Secondo la Prefazione di Francesco Gambaro, la raccolta “Il prato e il pozzo” (La Zisa, Palermo 2009) di Maria Teresa De Sanctis contiene “racconti, anche filosoficamente ardui”. Nella misura in cui ciò è vero, è lecito leggerli con gli occhiali del filosofo. Il che significa, innanzitutto, rinunziare a focalizzare l’aspetto linguistico ed estetico, insomma l’aspetto propriamente letterario. Da questa angolazione infatti tutto ciò che ho da notare, da semplice lettore della strada, è che l’autrice mostra una cura insolita della parola. E forse è proprio in questa attenzione al vocabolo e alla costruzione della frase che si annida la differenza fra la scrittura di un ‘pensatore’ e la scrittura di uno ’scrittore’. Alcuni di noi, filosofi per mestiere e per passione, usiamo la lingua; altri, uomini e donne di letteratura, fruiscono della lingua. Altrimenti detto: alcuni ci serviamo della lingua come mero veicolo per dire altro, autori come la De Sanctis servono la lingua per farla risuonare nella maniera quanto più musicale possibile. Chi utilizza la lingua può essere un filosofo o uno scienziato o un teologo, non uno scrittore: solo chi si cura della lingua, per toglierle opacità e farla risplendere, merita d’essere chiamato scrittore (o poeta). Non sono in grado di dire se Maria Teresa sia una ‘grande’ scrittrice, ma so con certezza che appartiene alla famiglia degli scrittori. O, per lo meno, che si candida seriamente ad entrarci. Come negare questo status a chi confida di essere abitata dal “gusto per la parola cercata, inseguita e amata infine”? Ad una autrice che tiene ad evidenziare, nel dettato dei suoi racconti, un “ritmo nascosto” che è “poesia dell’esistenza, del dolore, del mistero”? (Si potrebbe notare che lo stile del giornalista dovrebbe assumere qualcosa della trasparenza comunicativa del filosofo-scienziato senza però rinunciare a qualcosa del fascino evocativo del narratore-poeta: ma è una notazione da chiudere rigorosamente fra parentesi se non si vuole perdere il filo della recensione).

Subito dopo aver distinto la scrittura teoretica dalla scrittura letteraria, devo però subito aggiungere che filosofia e poesia non sono alternative ma, di solito, si intrecciano intimamente. La ragione di questo intreccio? Entrambe (se non sono chiacchierologia) vogliono dire la vita. Sono desiderio di togliere il velo all’esistenza. Con una parola abbastanza sputtanata, ma non facilmente sostituibile, cercano verità. E’ la stessa De Sanctis a confessare, nella sua Introduzione, l’origine esperienziale della sua ispirazione fantastica: “Ascolto quel che accade e basta questo per avere sempre qualcosa da raccontare”. Un buon libro di letteratura (che è sempre, come in questo caso, “una prosa che sa di poesia”) vale se ci fa conoscere un po’ meglio la dimensione nascosta, ma profonda, della realtà: esattamente come ogni buon libro di filosofia.
Ma, in concreto, in questi brevi racconti, quali sono i temi filosofici toccati? Mi limiterei a sottolinearne due.


Primo: l’enigma del dolore, della sofferenza, del male. E’ esagerato affermare che è il filo conduttore di questa antologia, di questo florilegio? No, ma a patto di una precisazione: non è il negativo in generale che sembra ferire direttamente il cuore di Maria Teresa De Sanctis, bensì quel negativo che dipende dalla volontà umana. Non il dolore che possono provocare, innocentemente, un terremoto o un fulmine; bensì il dolore per così dire superfluo che possono provocare uno stupro o un bombardamento aereo. Questo è il male che scandalizza di più e per il quale l’autrice non ha altri aggettivi che: “stupido”. Alla domanda angosciata ed angosciante sul perché del male, poeti e filosofi - in questo affratellati non solo fra loro ma con l’intero genere umano - non hanno risposte. Possono solo spostare la questione dalle cause prime alle prospettive future; dall’eziologia alla teleologia: come contrastare il male, smussarne gli aculei, eroderne la sovranità tracimante?
Ma così, passando dalla diagnosi alla terapia, incontriamo un secondo tema del libro (anzi, probabilmente, il tema generatore): il tema dell’amore. Lo so: si ha pudore nel pronunziare un vocabolo tanto inflazionato, ma i poeti devono essere spudorati e ripetere - come fosse la prima volta - ciò che è stato già detto un milione di volte. Per fortuna, anche la De Sanctis è affetta da questa mancanza di pudore e si lascia scappare: “Si vive per questo? Sì, per l’amore, per l’altro, per celebrare la gioia dell’essersi trovati, scoperti e riuniti”.
Data la rilevanza del tema, si potrebbe chiudere con l’accenno al l’amore come senso dell’esistere; ma non resisto alla tentazione di una nota in calce sul tema del tempo. Che cos’è il tempo? La filosofia tramanda da secoli la considerazione di sant’Agostino: se nessuno me lo chiede, lo so; se qualcuno mi chiede di spiegarlo, non lo so più. Ebbene, un possibile riflettore puntato sul tempo può farne emergere una delle tante sfaccettature: il tempo come occasione per sperimentare la vita eterna. Noi siamo abituati a pensare che la vita eterna inizia (se inizia) ‘dopo’ la vita terrena, temporale appunto. Ma è così? O non ha forse ragione l’anonimo autore del vangelo tradizionalmente attribuito a Giovanni , secondo il quale la vita eterna o si sperimenta ora o non la si sperimenta mai? In ogni ipotesi, è esattamente quello che sostiene anche l’autrice di questi racconti (che, molto probabilmente, non pensava minimamente a nessuna Scrittura sacra) quando scrive che “il mistero del tempo” è “sentirsi così vicino all’eterno, al supremo, al sublime”. Per l’evangelista e per la scrittrice palermitana molto ‘laica’ l’eternità non è nessuna fuga ultra-fisica: è sperimentare l’estasi dell’amore. E’ la nostra vita terrena non ‘quantitativamente’ estesa nel tempo, bensì ‘qualitativamente’ intensificata in alcuni momenti apicali che ci strappano alla impermanenza e alla transitorietà. Un personaggio di de Crescenzo l’ha espresso in maniera scanzonatamente napoletana: visto che non possiamo allungare la vita, cerchiamo almeno di allargarla.

giovedì 11 febbraio 2010

Ci vediamo venerdì 12 febbraio al Teatro Savio di Palermo?


Venerdi 12 febbraio alle ore 17.00,
su invito dell’Associazione culturale “Euterpe”,
presso l’Istituto Salesiano “Gesù Adolescente”
via Evangelista Di Blasi n.102 (Teatro Savio)
terrò una conferenza dal titolo
“Si può essere cristiani oggi?.
Seguirà il dibattito.
L’incontro è stato organizzato per provare a ripercorrere un “filo rosso”
che colleghi i miei ultimi tre libri (sull’identità ‘oltre-cristiana?, sulla specificità dell’agape e sulla inconciliabilità del messaggio evangelico originario con sistemi di poteri mafiosi).

lunedì 8 febbraio 2010

Ci vediamo su RAI 3, martedì 9, un po’ prima del pranzo?

Martedì 9 febbraio, alle 12.45, sarà trasmessa una puntata della rubrica “Le storie. Diario italiano” di Corrado Augias interamente dedicata al mio libro “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Milano 2009). L’intervista l’ho già registrata a Roma e sarà mandata in onda, dunque, in differita.

giovedì 4 febbraio 2010

Una città di m…?


“Repubblica - Palermo”
2.2.2010

I CANI, CAMBRONNE E LE VIE DI PALERMO

Gli storici raccontano che, all’ingiunzione di arrendersi a Waterloo, il generale napoleonico Cambronne abbia risposto agli inglesi con un laconico: “Merde!”. E’ da allora che in Francia le persone educate usano un elegante perifrasi: “le mot de Cambronne”. In Sicilia non siamo così raffinati, ma abbiamo a disposizione una serie di sinonimi per difendere la nostra onorabilità: dagli infantili ‘cacca’ e ‘pupù ai dotti ‘escrementi’ e ‘feci’.
Per quanto strano possa sembrare, tanta è la cura nell’evitare di nominare i prodotti naturali della nostra attività digestiva quanta l’incuria nell’evitare di lastricarne le nostre strade. No, per carità: non è frequente (anche se mi è capitato più di una volta di assistere alla scena pietosa offerta da una povera matta senza fissa dimora) che un cittadino alleggerisca in pubblico le viscere costipate. Ma frequente, anzi frequentissimo, anzi abituale è che un cittadino consenta al proprio cane di farlo, senza preoccuparsi minimamente di raccogliere le tracce evidenti dell’operazione fisiologica. La parola ci turba, la cosa no: e nessuno sospetta che la maleducazione si manifesta in entrambe le modalità. Se mai, più gravemente nella seconda. Anni luce fa, in città comparvero delle macchinette che distribuivano, per pochi centesimi, guanti di plastica e paletta: ma, a parte il fatto che già allora persi più di una monetina senza avere in cambio gli arnesi promessi, ormai quelle colonnine sono scomparse. La decenza della città, l’igiene dei passanti, l’incolumità degli anziani e delle donne incinte (persone per le quali occasionali scivoloni - sul quinto elemento dimenticato da Empedocle - risultano più dannosi) è affidata al buon senso degli amici degli animali. Che, a giudicare da ciò che si vede, non è dei più elevati.

Anche in questo caso, come in altri simili, si può sperare che con il lento scorrere dei decenni, o dei secoli, il livello di consapevolezza civica delle generazioni si innalzi, almeno quanto basti per uscire fuori dalla m… . Ma si può anche chiedere alle autorità pubbliche che la faticosa evoluzione etica venga accompagnata, e debitamente stimolata, da qualche provvedimento preciso. Sono convinto che a Venezia o a Firenze i marciapiedi non siano così imbrattati come da noi per pure ragioni ideali: all’origine almeno, la differenza è stata segnata da amministrazioni che sancivano con multe i trasgressori ed amministrazioni che - per le motivazioni più disparate - chiudevano e chiudono gli occhi (e si tappano il naso).
Quando, una settimana fa, mi è capitato di osservare un anziano signore - vestito molto modestamente - che raccoglieva con un foglio di giornale quanto il suo cagnolino andava depositando allegramente accanto agli alberelli, mi sono leggermente commosso: è stato come un barlume di speranza in una notte senza senso. Alcuni minuti dopo mi sono chiesto, però, se solo dieci o venti multe affibbiate in pochi giorni dai vigili urbani non sarebbero sufficienti ad anticipare il tempo in cui anche a Palermo o a Catania il gesto di ordinaria educazione di un cittadino perbene possa passare inosservato.

Augusto Cavadi

lunedì 1 febbraio 2010

Marhaba, Mabsutha?


“Centonove” 29.1.2010

MARHABA, MABSUTHA?
OVVERO, COME STAI?

Ci sono libri straordinari perché raccontano storie eccezionali con un linguaggio innovativo; altri, invece, deludono perché raccontano trame fantasiose in maniera letterariamente pretenziosa. Talvolta, però, capita di imbattersi in volumi straordinari perché raccontano, con tono ordinario, storie ordinarie: racconti di vita vissuta in cui è facile riconoscersi, specchiarsi. Ed è allora come se il risultato raggiunto dall’autore - ricomporre il filo nascosto della propria breve esistenza - diventasse un risultato condiviso da noi lettori: quasi che anche noi, ripercorrendo le tappe di quella biografia, ci trovassimo a recuperare la trama sfilacciata, perduta, della nostra stessa vita. “Marhaba, mabsutha?” (Midgard editrice, Perugia 2009, pp. 138, euro 14), di Fiorenza Morighi, è uno di questi libri straordinariamente ordinari. In esso infatti l’autrice ripercorre le tappe salienti della sua intensa, ma ‘normale’, esistenza: gli anni della formazione cattolico-borghese, l’impatto con il ‘68, un matrimonio contratto pur di evadere lecitamente dalla prigione familiare d’origine, un divorzio per evadere dalla prigione familiare d’elezione…E soprattutto l’impegno, di insegnante e di attivista, per un mondo in cui la globalizzazione cessi di essere la maschera dell’occidentalizzazione del globo e diventi davvero planetarizzazione delle idee e delle persone, non soltanto delle merci e delle finanze.

L’autobiografia di questa vivace, luminosa, sessantenne - incredibilmente giovanile - può essere letta anche come lenta ma inarrestabile emancipazione da due Istituzioni che ne hanno segnato, in una maniera inestricabilmente positiva e negativa, la vita: la chiesa cattolica e la scuola.
Quanto alla prima, pur non negando il proprio debito verso associazioni cattoliche come la FUCI che l’hanno sensibilizzata alle grandi tematiche della pace e della giustizia, Fiorenza non può perdonarle la sessuofobia: “sembrava che l’unico grande peccato umano fosse quello riconducibile alla sfera sessuale, procreazione a parte” (p. 13). Come ripete spesso il teologo-psicanalista tedesco Eugen Drewermann, la chiesa cattolica ruba amore e restituisce angoscia. E per la giovane studentessa fu traumatico scoprire che condizionamenti molto simili subiva “l’amica-compagna di banco”, condizionata dalla “presenza di un padre-padrone sedicente comunista che vegliava costantemente su moglie e figlie”: “sapevo che la Chiesa aveva messo all’indice vari testi di letteratura e per i cattolici lettori era peccato avvicinarsi ad essi. Chi lo avesse fatto doveva emendarsi con la Confessione. Non immaginavo però che anche i comunisti, visti da me come l’opposto dei religiosi, vietassero le stesse cose. Nella mia casa cattolica c’erano tra quelli all’indice “Decameron” e “Satyricon”. Noi li leggemmo subito ambedue. Non mi confessai per questo. Sia pur timidamente e per temi alterni il senso critico cominciava a spuntare, ma quanto ci impiegò per crescere!” (p. 17). Erano gli anni in cui Palmiro Togliatti doveva nascondere la relazione extra-matrimoniale scandalosa con Nilde Iotti: ma anche nel XXI secolo, tra gli ultimi eredi del comunismo marxista, non mancano bigotti che non si sono preoccupati di risolvere i nodi psichici del rapporto con la propria e con l’altrui corporeità.
Si potrebbe obiettare che la stessa Bibbia, letta direttamente ed integralmente, avrebbe potuto offrire alla ragazza di buona famiglia l’antidoto al veleno sessuofobico di fattura clericale. Ma, per quanto strano possa oggi sembrare, sino al 1965 (anno di chiusura del Concilio vaticano II), neppure questa possibilità veniva concessa al fedele ‘medio’: la “lettura individuale” - diretta, senza la mediazione della chiesa gerarchica - delle Sacre Scritture era proibita o, per lo meno, “sconsigliata” (p. 42). Permetterla, o addirittura incoraggiarla, avrebbe significato abbattere - su una questione decisiva - la differenza fra cattolicesimo e protestantesimo.
L’altra istituzione verso cui la Maurighi sa di essere creditrice, oltre che in una certa misura debitrice, è la scuola intesa nell’accezione complessiva: il sistema formativo liceale e universitario che ella ha attraversato sino alla laurea per poi farvi presto ritorno come insegnante. Un sistema d’istruzione che avrebbe potuto rimediare, almeno in una certa misura, ai danni e alle lacune della formazione cattolica ricevuta in famiglia e in parrocchia, ma che - invece - si è rivelato altrettanto dannoso e lacunoso. L’incontro negli anni universitari con un coetaneo esule palestinese, il dolce e affascinante Abdul, segna una tappa decisiva nell’evoluzione culturale e spirituale di Fiorenza: egli le squarcia il velo dell’ignoranza storica e politica, aprendole prospettive inedite e sconfinate sul mondo. Le racconta di un popolo che, dopo duemila anni, si vede esiliato dalla sua terra perché sarebbero tornati gli abitanti primigeni (”Pensai che se fossero tornati gli Umbri e avessero occupato il giardino e la casa di mio nonno con la ‘legge del ritorno’, non mi avrebbe fatto per niente piacere”, p. 35); di una città - Gerusalemme - santa non solo per i cristiani, ma altrettanto per gli ebrei e per i musulmani (”Incredibile! In diciotto anni nessuno mi aveva fatto riflettere sulle basi comuni delle tre religioni”, p. 32); di solenni risoluzioni dell’ONU per una pace giusta e durevole in Medio Oriente che venivano totalmente disattese non solo da parte di gruppi estremistici palestinesi ma anche dai governi ufficiali israeliani…Insieme al pacifismo, Fiorenza scopre i problemi delle sperequazioni strutturali fra le economie del Nord e del Sud del mondo; ma anche l’innaturale subordinazione della donna al maschio (”in un Paese dove ancora veniva scusato il delitto d’onore, la violenza sulla moglie era un fatto privato e lo stupro un atto che violava il comune senso del pudore più o meno come masturbarsi per strada”, p. 56). Tutto ciò ha delle incidenze precise anche nella sua storia privata: come reggere il rapporto con un marito, sposato precocemente, che non ne condivide l’evoluzione emancipatrice? Nei capi di imputazione che le vengono rivolti dalla famiglia dell’ex-coniuge si disegna, quasi paradossalmente, un’immagine elogiativa: “contro di me giacevano tra le scartoffie curiali accuse infamanti, con tanto di testimonianze di parenti serpenti e di nemici vari: comunista era il primo capo d’accusa, che se ne portava dietro tanti altri davvero disonorevoli, come ad esempio frequentatrice dell’Associazione cinese, arrivista femminista, agitatrice propagandista, distributrice di manifestini ai crocicchi delle strade”. Forse - aggiunge ironicamente l’autrice - se avessi battuto le strade, non si sarebbe tentato di dichiarare canonicamente nullo il mio matrimonio e mi sarei salvata dall’infamia: “una innocua Maddalena da salvare contro la lapidazione e da ricondurre all’ovile, ma un’atea comunista era ben peggio! Ammorbava l’aria di tutti. Occorreva cancellarla come moglie” (p. 76).
La Maurighi di oggi è una donna con i suoi travagli, ma felice di vivere e impegnata in progetti, anche scolastici, di cui evoca nella seconda parte del libro esperienze significative e prospettive operative. Come una rediviva principessa Sheherazade de “Le mille e una notte”, prova a raccontarsi convinta che “sono le storie a proteggerci dalla morte: (…) fino a che possiamo trasferire il mondo in racconti, narrando anche le nostre peggiori avventure, siamo ancora vivi” (p. 37). Non sarebbe male se il suo esempio fosse seguito da altri, specie se arrivati al giro di boa della navigazione. Con una sola avvertenza: se dovesse capitare che un editore voglia pubblicare le nostre carte (il cui valore prescinde dalla possibile fruizione pubblica), dovremmo chiedere ad un esperto di scrittura una revisione preliminare che ne limi sviste e inesattezze. E’ un rammarico che, in questo caso, tale revisione non sia stata effettuata, oscurando un po’ la preziosità - che ovviamente rimane intatta - dei contenuti.

Augusto Cavadi