martedì 27 giugno 2006

LA MAFIA PIU’ PERICOLOSA? QUELLA CHE NON SI VEDE


Repubblica – Palermo 27.6.06

AA.VV.
Mafia e potere
EGA
Pagine 223
Euro 14

La cattura di Provenzano ha, per qualche giorno, svegliato l’opinione pubblica dal sonno dogmatico. Poi - spentisi i riflettori sul casolare corleonese – ci si è riaddormentati, la testa declinata sulla comoda illusione che la mafia ormai sia defunta. Tanto che quasi metà dei siciliani ha deciso di astenersi dalla competizione elettorale fra un simbolo vivente dell’antimafia ed un imputato di concorso in associazione mafiosa. E una netta maggioranza di quanti non sono rimasti a casa, si è scomodata proprio per consentire la rielezione del secondo. Ma davvero la mafia sommersa, che al tritolo in autostrada preferisce i patti sottobanco, è così insidiosa?

Chi cerca una risposta onesta, documentata, argomentata ha adesso a disposizione una breve ma efficace summa curata da Livio Pepino e Marco Nebiolo per i tipi di quella stessa casa editrice che, mensilmente, pubblica dal 1993, la rivista “Narcomafie” . Il volume è stato preparato ed edito a Torino, ma – quasi inevitabilmente – la stragrande maggioranza dei contributi è firmata da studiosi e magistrati siciliani. Salvatore Lupo, infatti, delinea (dall’angolazione dello storico) l’evoluzione - o l’involuzione – del rapporto fra Stato e sistema mafioso, pervenendo alla sottolineatura del “problema della cattiva politica, da cui la mafia militante trae oggi ossigeno per sopravvivere e domani potrebbe trarre occasione di clamorose rivincite”. Umberto Santino applica (dall’angolazione del sociologo) alla situazione contemporanea la categoria “borghesia mafiosa” da lui elaborata – tra notevoli resistenze culturali - a partire dalle preziose indicazioni di Franchetti nel XIX secolo e di Mineo nel XX. Per concludere con l’auspicare “politiche integrate che incoraggino la fuoriuscita dall’illegalità sistemica degli strati tanto popolari quanto borghesi”. Ancora sociologico l’approccio di Rocco Sciarrone (che analizza “nodi, intrecci, connessioni” delle “reti mafiose”) e di Alessandra Dino (che focalizza il ruolo, non a caso assai poco studiato, che “un sapere, anche accademico, che si accredita come neutrale osservatore della realtà”, può svolgere a sostegno della criminalità).
Negli interventi del deputato Francesco Forgione e del magistrato Roberto Scarpinato le analisi scientifiche si intrecciano con le esperienze autobiografiche di chi incontra, e contrasta, la fenomenologia mafiosa nell’ambito della politica e dell’attività giudiziaria. Anzi i curatori hanno
deciso di dedicare a quest’ultima area tutta la seconda parte del volume. Oltre che Giovanni Fiandaca, nella sua veste di docente universitario di diritto penale, vi apportano il contributo professionale vari magistrati impegnati in prima persona in processi - direttamente o indirettamente – attinenti ai meccanismi di potere mafiosi: Antonio Ingroia, Gioacchino Natoli, Piergiorgio Morosini. Non poteva mancare -a conclusione – la testimonianza di Gian Carlo Caselli che, per la sua storia, costituisce una sorta di ponte fra Palermo e Torino. Con toni comprensibilmente sofferti, non può esimersi dal ribadire il suo allarme di questi ultimi anni: “la posta in gioco non riguarda ‘soltanto’ le inchieste di mafia, ma la concezione stessa della democrazia che si appanna tutte le volte in cui si concretizzi una forte e sistematica insofferenza verso l’indipendente esercizio della giurisdizione”.

Il volume prende lo spunto dal convegno Mafia e potere organizzato a Palermo nel 2005 da Magistratura democratica, Libera, CGIL e Giuristi democratici. La maggior parte dei contributi costituiscono le rielaborazioni di interventi svolti in tale occasione. Comune l’intento, come si legge nell’Introduzione, di evidenziare “la necessità di una ripresa culturale forte dell’impegno antimafia, di un’accresciuta attenzione critica a quanto sta avvenendo nella politica e nell’assetto legislativo, della esclusione di ogni delega (neppure al giudiziario: ché, tra l’altro, anche a Palermo e a Roma non tutto è oro…”).

sabato 24 giugno 2006

CINQUE RAGIONI PER OCCUPARSI DI FILOSOFIA


“La Sicilia - Trapani”
24.6.2006

CINQUE RAGIONI PER OCCUPARSI DI FILOSOFIA

Molti sarebbero portati a ritenere di non aver nulla a che spartire col filosofare, ma un recente saggio divulgativo di Augusto Cavadi (E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Trapani, DG Editore, 2006) potrebbe farli ricredere.
Cavadi – esperto in scienze storico-morali e sociali, docente di filosofia nei licei, giornalista e saggista infaticabile – con questo suo agile e divertente “pamphlet” ci accompagna lungo le vie di una disciplina che, al di là delle mode (si pensi, ad esempio, alla figura del “consulente filosofico”) e della consapevolezza che se ne ha, finisce col permeare le nostre esistenze.
Il suo accattivante volume (indirizzato proprio a coloro che sono privi di «solide basi filosofiche») ci illustra, per cominciare, la «dimensione gratuita, disinteressata dell’attività filosofica» (Aristotele, nella “Metafisica” le attribuiva il «puro scopo di sapere»).
«Agli esordi – spiega Cavadi – (la filosofia) viene presentata come un lusso, come uno spreco: come la trasgressione della ferrea legge dell’utile». Ma, paradossalmente, non occorre essere degli scialacquatori per frequentarla e apprezzarla.
Il nostro saggista propone almeno «cinque ragioni per occuparsi di filosofia (pur senza farne un mestiere)»: per passione intellettuale (il gusto per la verità), per consapevolezza professionale (ogni disciplina ha un proprio “statuto epistemologico”), per orientamento esistenziale (decifrare il senso della propria cruda sopravvivenza quotidiana), per discernimento religioso (neppure i grandi mistici e religiosi possono «farsi beffe» della filosofia, Blaise Pascal docet), per responsabilità politica (nella scelta di modelli di civiltà).
Se, poi, la passione per la filosofia ci prendesse la mano, Cavadi avverte che «chi non si occupa di qualcosa in particolare» finirà con l’interessarsi alla verità, alla felicità, alla morte, a Dio…
Ma il nostro scrittore – che correda il suo volume di una ampia rassegna critica e bibliografica – sa bene, come insegna Agostino, che vi sono ambiti in cui il ragionamento deve arrendersi alla parola che allude, che evoca, alla poesia o al silenzio mistico, ma anche alla pratica amorosa…
Cavadi, insomma, quanto meno ci aiuta a capire che risma di filosofi siamo!

Salvatore Mugno

venerdì 16 giugno 2006

NON SONO I PENTITI


“Repubblica – Palermo” 16.6.06

TESTIMONI DI GIUSTIZIA. I diritti dimenticati.

Non è scritto da nessuna parte che di mafia si debba parlare solo in Sicilia. Inevitabile, però, che – dovunque se ne parli - si parli anche della Sicilia e dei siciliani. Così è avvenuto nei giorni scorsi anche alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, dove si è svolto il “Forum nazionale contro la mafia” organizzato dall’associazione degli studenti di sinistra. Impossibile rendere conto degli innumerevoli e prestigiosi interventi (Vigna, Caselli, Ingroia, Tescaroli,Veltri, Santino, Sanfilippo, Cozzo, Piscitello, Licata, Borsellino, Arnone…) ascoltati in assemblea e nei seminari. Né, forse, necessario: la stampa, anche nazionale, ha dato spesso voce a questi protagonisti di rilievo sì che difficilmente accade che offrano elementi inediti. Tra questi, almeno uno avrebbe meritato maggior risalto. Stimolati anche da una relazione precedente di Marco Travaglio, alcuni ragazzi hanno chiesto al giudice Grasso come mai sia stato permesso a Vespa e a La Rosa di entrare, con la troupe televisiva, nel covo di Provenzano col duplice danno di inquinare le impronte dei visitatori clandestini e di distrarre, con particolari folcloristici e culinari, l’attenzione del pubblico dai nodi problematici seri di quella cattura e, soprattutto, di quella latitanza. La risposta del procuratore nazionale antimafia è stata sornionamente disarmante: nessuno ha mai dato l’autorizzazione, lui stesso si è rifiutato di prendere parte alla trasmissione, le riprese sono state operate in un locale attiguo dove Provenzano non ha mai messo piede. Insomma: i due tanto celebrati volti televisivi – dunque, a monte, la Rai - hanno raggirato la buona fede di milioni di spettatori.

Almeno un cenno, poi, merita a mio avviso un’esperienza massmediaticamente poco nota - ma non certo poco significativa - raccontata da un avvocato e da un prete di una città dell’Italia settentrionale. Entrambi hanno fondato, in stretta cooperazione col vescovo della loro diocesi, un’associazione per tentare di dare una risposta – assistenziale nell’immediato, politica in prospettiva - ad una richiesta precisa: una mano per sopravvivere. Da parte di chi? Di cittadini che vivono, o che hanno vissuto, sotto un programma statale di protezione. All’interno di questa categoria (centinaia di soggetti) sono compresi - e confusi nell’immaginario collettivo, anche del pubblico istruito – sia i “collaboratori di giustizia” (impropriamente detti ‘pentiti’) sia i “testimoni di giustizia” (cioè le persone che, avendo assistito a delitti di mafia, si sono spontaneamente offerte di andare in tribunale a deporre contro i colpevoli). Agli uni e agli altri lo Stato promette legislativamente protezione in cambio di cooperazione. Ma, in effetti, questa protezione arriva tardi, funziona parzialmente, si esaurisce troppo presto. Per questo quasi sempre finiscono sul lastrico e bussano alla porta di centri sociali o parrocchie per avere quel sostegno che la norma garantisce e la burocrazia nega. Da qui l’idea di fondare un’associazione che accompagni collaboratori e testimoni (molti dei quali siciliani) a reinserirsi nel contesto sociale da cui si sono - più o meno volontariamente - staccati e, ancor più, a lottare per migliorare a loro vantaggio radicalmente le leggi e soprattutto le pratiche. A parere dei responsabili dell’organizzazione di volontariato “Ezechiele 37”, i ritardi nel settore sono gravi. Poiché le conseguenze appaiono preoccupanti (già, dal 2000 ad oggi, si sono registrate in Italia circa 1200 vittime di omicidi mafiosi), essi guardano con apprensione alle iniziative ormai indilazionabili che la nuova maggioranza parlamentare dovrebbe assumere. E, per preparare il terreno, hanno inviato ai sindaci della Toscana una lettera per suggerire che, alle soglie dei diciotto anni, tutti i giovani ricevano solennemente – dopo un breve corso di formazione - una copia della Costituzione italiana come “viatico laico”. La proposta non sarebbe inopportuna neppure dalle nostre parti: analfabetismo politico e qualunquismo elettorale, per quanto non necessariamente, di fatto si accompagnano spesso. Se avevamo bisogno di un’ulteriore conferma, ce l’ha data quel 40% ed oltre di elettori siciliani che - dopo cinque anni di lamentazioni – lo scorso 28 maggio sono rimasti a casa. E che, probabilmente, il prossimo 25 giugno se ne andranno a mare.