sabato 28 luglio 2018

NOTERELLE DALL'OSSERVATORIO DEL MIO BLOG


La prestigiosa rivista "Servitium" mi ha chiesto una testimonianza sull'esperienza, assai limitata, di gestore di un blog che si occupa non solo di letteratura e di politica, ma anche di filosofia (di strada) e di teologia (laica). Qui di seguito il mio contributo.
                                                      ...
“Servitium”
III, 237 (2018)
Il blog strumento di comunione
 di Augusto Cavadi 

Dall’invenzione-scoperta del fuoco in poi, ogni innovazione tecnologica suscita pari entusiasmi e apprensioni. Internet non poteva fa- re eccezione. Intanto che si chiariscano le diatribe filosofico-socio- logiche sul dominio della tecnica, ognuno cerca nel suo piccolo un proprio modus vivendi. Per quanto mi riguarda seguo il criterio adottato quando è arrivato il telefono, poi il televisore, poi il cellulare: né adorare né sabotare, ma utilizzare. Così da anni sperimento la gestione di un blog (www.augustocavadi.com) come luogo di dialogo con alcune centinaia di persone – la maggior parte delle quali amiche nella vita prima che nella “rete” – desiderose, come me, di confrontarsi francamente ma serenamente sulle domande cruciali dell’esistenza. Dunque anche sulle questioni spirituali (in generale) e teologiche (in particolare). 
Rispetto ai social, tenere un blog comporta numerosi vantaggi: primo e fondamentale fra tutti è che sei letto quasi esclusivamente da un pubblico che si auto-seleziona, che ti visita appositamente, a cui interessa ciò che scrivi anche se non lo condivide. Non di rado sono persone – come Maria D’Asaro (maridasolcare.blogspot.it) o Bruno Vergani (www.brunovergani.it) – che, a propria volta, aggiornano un loro blog con interventi pacati, articolati. Niente, dunque, slogan sbrigativi né polemiche da cortile. Qualcuno, ogni tanto, ci prova a fare “ammuina”: ma, se nessuno gli dà retta, presto desiste e naviga altrove. 
Dal mio (parziale, modesto, limitato) punto di vista e d’interlocuzione ho registrato sinora la conferma di ciò che tutti gli osservatori della chiesa cattolica (almeno italiana) sanno: che in essa, dal Concilio vaticano II in poi, il pluralismo di posizioni è davvero stupefacente. Ma una cosa è saperlo in astratto, un’altra sperimentarlo effettivamente nel quotidiano. Si va dai nostalgici del devozionismo privato e municipale quasi superstizioso agli intellettuali che si sfidano a colpi di decostruzionismo francese e di analisi del linguaggio anglosassone; dai difensori accesi di simboli identitari ritenuti millenari (e invece inventati da cinque o sei secoli al massimo) agli esteti che non accettano nulla del cattolicesimo tranne la solennità delle liturgie in latino e dei canti gregoriani. La varietà e la mobilità delle posizioni creano situazioni al limite del comico: gruppi e movimenti ultra-papalini, ad esempio, accelerano tanto sulla difesa della “civiltà cristiana” dall’invasione islamica da tro- varsi a sbattere contro gli inviti accorati del papa (di cui si proclamano fedeli a oltranza) ad accogliere lo straniero non “nonostante sia” ma “proprio perché è” diverso. 
Per sincerità devo confessare che, in questa variopinta girandola di casi antropologici interessanti, non tutti mi riescono ugualmente simpatici. Capisco chi è stato da sempre progressista e adesso si rallegra di vedere sul soglio pontificio un gesuita abbastanza aperto; capisco un po’ meno chi è stato da sempre conservatore e ades- so si chiede con preoccupazione cosa abbia combinato lo Spirito santo consigliando a Benedetto XVI le dimissioni e al concistoro cardinalizio l’elezione di un successore sideralmente distante; non capisco per nulla, e anzi mi provocano fastidio, quanti sono stati da sempre conservatori e adesso, da una sera a una mattina, si svegliano progressisti, tolleranti, ecumenici. Apprezzerei una conversione meditata e sofferta, ma il conformismo è brutto anche quando ci si sposta da posizioni sbagliate a posizioni più corrette. Specie se c’è puzza di arrivismo... 
I sommovimenti tellurici di questi decenni non lasciano indenni neppure i territori esterni al mondo ecclesiale. Ciò vale, innanzitutto, per il variegato mondo “protestante”: ormai la differenza fra un cattolico e un luterano è molto meno significativa della differenza fra un cattolico conservatore e un cattolico progressista o fra un luterano conservatore e un luterano progressista. I confini attraversano le chiese trasversalmente più che separarle verticalmente. In questi anni sono stato contattato da una chiesa locale evangelicale per uno scambio di opinioni in campo teologico e morale. Ho trovato una comunità piccola, ma davvero desiderosa di capire e di orientarsi. Ci siamo via via confrontati sul modo di concepire il divino, di interpretare la Bibbia, di rapportarci alle tematiche etiche attuali e le nostre idee – o per lo meno le nostre ipotesi – si sono avvicinate sin quasi a identificarsi. Attraverso la mia amichevole mediazione hanno voluto incontrare preti come don Cosimo Scordato e teologi come Vito Mancuso con i quali hanno avuto dialoghi intensi. Una volta uno di loro ha commentato: «Ma chi l’avrebbe detto, anche solo dieci anni fa, che saremmo stati entusiasti di parlare con studiosi cattolici?». Risultato: hanno mutato denominazione (da Chiesa El Shaddai, che in ebraico sarebbe l’Onnipotente, in Comunità di libera ricerca spirituale Albert Schweitzer) e ai loro incontri partecipano persone di vario orientamento, anche agnostici in ricerca. 
Già, anche agnostici: infatti quando una chiesa planetaria, come la cattolica, allenta i vincoli dottrinari e disciplinari al proprio interno, sprigiona energie che si ripercuotono non solo nell’ambito dell’ecumenismo cristiano ma, più ampiamente, nella società civile. Una chiesa monolitica che, compattamente, propone l’aut-aut di accettare o rifiutare un “pacchetto” di dogmi e di prescrizioni morali, infatti, provoca molto facilmente il rifiuto altrettanto deciso e compatto delle donne e degli uomini in sincera ricerca della verità. Ma una chiesa che conosce l’elasticità delle articolazioni interne, la “gerarchia delle verità”, l’autocritica rispetto ai propri errori, la sincera disponibilità a imparare dalle acquisizioni più valide delle scienze e del pensiero e delle arti..., è una chiesa che incuriosisce molto di più i non-credenti o i diverso-credenti. Anche da questo punto di vista non mancano i paradossi: non si tratta di fare il modernista a tutti i costi, di scimmiottare un progresso che spesso è tale solo in quanto nega e contesta. A un non-cristiano interessa assai poco la diatriba fra aggiornati e passatisti. Ma se il cristiano guarda alla propria tradizione con attenzione critica; se depura il messaggio evangelico originario dalle superfetazioni di cui si è appesantito nei secoli; se è talmente “tradizionalista” da ritornare alle radici di un annunzio semplice e profondo («Il regno di Dio è vicino: convertiamoci alla verità nella libertà e nell’equità»), allora cessa di essere un’anomalia antropologica e diventa un rispettabile cooperatore del cantiere dell’umanità. Il futuro del pianeta ha bisogno di raccogliere i rivoli di tutte le sapienze emerse nei millenni: la tradizione ebraico-cristiana non ha più titoli di altre, ma neppure meno. Se essa riscopre lo specifico della vicenda umana di Gesù di Nazaret – la centralità dell’ agape in un progetto di vita personale e sociale – acquista un sobrio ma indiscutibile diritto d’interlocuzione nell’agorà della Terra. 
«Ma non è troppo poco questo specifico cristiano? Dove andremo senza l’apparato metafisico di una dottrina teologica capace di dirimere ogni minimo dubbio, insegnandoci per filo e per segno – anzi, per domanda e risposta – chi è Dio, perché c’è il mondo, perché c’è il dolore nella storia, che cosa ci aspetta dopo la morte? E cosa sarà dei fedeli se davanti ai dilemmi morali dell’esistenza, dalla procreazione alla cura delle malattie terminali, non avranno un prontuario autorevole di ricette pronte-da-portare che li sollevi dalla fatica della riflessione e della deliberazione?»: queste, e simili, le obiezioni che avverto oggi circolare in molti ambienti cattolici e perfino in persone che, pur non essendo cattoliche, ritengono che la chiesa cattolica costituisca un baluardo insostituibile contro i venti distruttivi della postmodernità. È da questa paura della libertà che scaturisce la diffidenza, e in alcuni l’ostilità, verso il nuovo-antico paradigma di papa Francesco (che egli ne sia consapevole sino in fondo o meno): se non sappiamo riconoscere la serietà e la profondità di questa paura, se non sappiamo valutarla nella sua tragicità con il rispetto con cui Dostoevskij l’ha rappresentata sulle labbra del Grande Inquisitore, cadremo nella trappola dello scon- tro frontale intestino. Oggi la partita si gioca fra chi è disposto a vendere la coscienza in cambio della certezza e chi è disposto a mantenere il timone della propria vita anche a costo di rischiare il naufragio. È una partita interna alla chiesa cattolica, ma non soltanto: altre chiese, altri partiti, altre organizzazioni socio-culturali, altri sistemi politici ne sono investiti. Nietzsche l’aveva predetto con la solita diabolica lucidità: la verità non è questione di acume intellettuale, ma di coraggio. 

giovedì 26 luglio 2018

QUALCHE NOTERELLA SPARSA DAL/SUL MESSICO

ALLE AMICHE E AGLI AMICI che mi chiedono incuriosite/i, passo volentieri qualche appunto che ho preso durante queste tre settimane nella penisola dello Yucatàn. Tra qualche ora riprendiamo l'aereo per Milano. E' stato bello partire, è stato bello girare da queste parti, ma è altrettanto bello tornare a casa ritrovando amici di ogni specie... animale (compresa, ovviamente, l'umana).
PS: Il murale che ho fotografato è di facile comprensione: "Se nessuno ci salva dalla morte, almeno che ci salvi l'amore della vita").

***
Un po’ in tutti i Paesi del mondo si assiste ad una velocizzazione crescente dei cambiamenti (e si spera che gli Antichi avessero torto nell’assioma: motus in fine velocior…). Ma in queste tre settimane nella penisola dello Yucatan, in Messico, questa percezione è stata tanto evidente e intensa da risultare inquietante. Non sono certo le sceneggiate organizzate a uso e consumo dei turisti – con artisti di strada camuffati da indigeni che battono tamburi e danzano – a darti l’impressione di vivere in pochi metri la transizione di secoli, forse di millenni. No: piuttosto è la passeggiata un po’ più lunga nella Quinta Avenida di Playa del Carmen a farti passare, surrealisticamente, dal XXI secolo all’XI o XII. Cominci dall’imbarcadero per l’isola di Cozumel e sei immerso nella contemporaneità con i suoi pregi (una chiesetta bianchissima la cui abside è un vetro enorme che accompagna il tuo sguardo sull’oceano) e i suoi difetti (spreco di luci e di suoni assordanti dalle prime ore del mattino sino a notte fonda). Ti inoltri fra due fila fittissime di negozi che vendono di tutto, che ti offrono servizi dettagliati per la cura del corpo dai capelli alle unghie dei piedi; ovviamente ce n’è per tutte le tasche, soprattutto per i milionari che possono acquistare oggetti impreziositi dalle grandi firme italiane e francesi. L’amico che ci accompagna spiega che solo cinque anni prima le piazzette di alcuni dei centri commerciali più lussuosi erano pezzi di foresta con alberi altissimi e antichissimi. E’ solo un indizio, un’anticipazione. Terminata la parte turistico-commerciale, la stessa strada continua per chilometri costeggiando una giungla che la divide dalla spiaggia. Cartacce, rifiuti, carcasse di animali un po’ dovunque. Getti lo sguardo nella fitta vegetazione selvaggia e vedi delle capanne abitate: da quanti secoli? Ti auguri che siano ormai abbandonate, ma persone di ogni età che incontri per strada contraddicono i tuoi auspici: sono particolarmente scuri di pelle, coperti di pochi stracci, a piedi nudi, sporchi almeno quanto abbronzati. Ogni tanto qualcuno entra o esce dalla giungla. Che fanno per le strade disabitate o brulicanti di turisti da ogni parte del mondo? Soprattutto bambini e ragazzine infilano le manine negli improbabili cestini dei rifiuti per trarne lattine abbandonate  di bevande d’ogni genere: possono così riempire sacchi neri più grandi e pesanti di loro che rivenderanno non so a chi e non so a quanto. 
 Così, a pochi metri di distanza, scorre davanti ai tuoi occhi il futuro (al cinema è già possibile assistere a film 4 D: se un’auto sbanda sullo schermo, il tuo sedile si inclina di conseguenza; se vi soffia un forte vento, la tua faccia viene schiaffeggiata da folate di vento…);  il presente (sei in America, ma la globalizzazione ti consente di acquistare tessuti del “Bianco del Nilo”, sandali tedeschi “Birkensotock” e gelati italiani “Amorino”); il passato (la guida del sito archeologico di Coba informa che sino agli anni Settanta del secolo scorso in molti villaggi si sconosceva lo spagnolo e ancor oggi delle persone anziane parlano solo la lingua maya: dall’invasione degli Europei nel XV secolo  ai nostri giorni il tempo si è fermato). 
  Proprio nessun filo rosso lega in queste zone del Messico (esentate dalla pestilenza del narcotraffico , con delitti di ogni genere annessi, che sfregia altre regioni del medesimo Stato) passato, presente e futuro? Almeno uno mi colpisce: l’eccezionale mitezza di questa gente. Il bambino più misero, trasportato da un papà altrettanto malandato che pedala sulla “limousine maya” (il risciò locale), ti sorride e ti saluta esattamente come la ragazza benestante, a passeggio con i suoi cani, che non hai mai visto prima in vita tua. Gli automobilisti sono di una disciplina rigorosa ma – non so come spiegarmi meglio – senza quel sapore di freddo legalismo che si avverte nell’Europa continentale. Specie nei confronti dei pedoni è una disciplina gentile, cortese. Anche qui traspare un rispetto quasi sacro per la persona dell’altro, chiunque egli sia. La tonalità di fondo sa di atavica, inossidabile pazienza. Certo questo pregio ha, come risvolto, una lentezza operativa talora esasperante. Come nel caso dei carabinieri in Italia, capisci che le barzellette sui messicani sono due o tre: le altre riportano aneddoti veri. Ma appena pensi che in Europa tutti hanno fretta, sono impazienti e aggressivi, ti è facile perdonare i ritmi da contagocce dominanti da queste parti. C’entra la convinzione maya che la vita è un cerchio eterno che prevede la morte, la permanenza nell’altro mondo e la rinascita? Forse non si avverte l’urgenza di sbrigare tutto in tempo prima di morire: quello che non si riuscirà a completare oggi, lo si completerà domani; e quello che non si completerà in questa vita, lo si completerà nella prossima. 
    Tutto ciò rende facile, e doloroso,  immaginare l’impatto delle popolazioni indigene con i primi conquistadores: le une che accoglievano fiduciose, a braccia aperte, gli altri, armati di tutto punto e accecati dall’avidità e dai pregiudizi razzisti. Come spesso accade nella storia, i più civilizzati si sono rivelati troppo evoluti per difendersi dalla violenza dei degenerati.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 25 luglio 2018

AVERE MENO E' MEGLIO O PEGGIO ? L'OPINIONE DI SALVATORE LA PORTA

30.6.2018



 SULL’ARTE DI NON AVERE NIENTE

Un libro fitto di riferimenti – ad altri libri, a film, a canzoni – può dare fastidio. Ma se le citazioni sono infilzate come da un’unica freccia, che le attraversa per lanciarle in avanti verso un bersaglio preciso, perdono qualsiasi sapore di erudizione e risultano quasi inevitabili; in certo senso, è come se acquisissero una nuova anima.
E’ questo il caso del libro – bello-e-buono direbbero i Greci – Less is more. Sull’arte di non avere niente di Salvatore La Porta  (Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 176, euro 16,00). In esso infatti Buddha e Socrate, Platone e Dostoevskij,  Gaugin e  Proust, Mark Twain e Fabrizio De André (insieme a molti altri) vengono evocati – talora come autori, talaltra proprio come personaggi storici -  per articolare la dimostrazione di una tesi centrale: vivere con meno è vivere più intensamente, “ il desiderio di possedere è naturale ma è anche una trappola” e “c’è un’alternativa altrettanto connaturata all’essere umano: la capacità di non avere niente, di decidere che è meglio avere di meno per conservare la propria libertà intellettuale, morale e fisica”. Quest’arte non ha nulla a che fare con l’ideologia della miseria, con il pauperismo, con il masochismo: “saper rinunciare al desiderio di possesso, o almeno lottare contro di esso, è anche e soprattutto un’arte della gioia, l’opportunità di riappropriarci dei nostri reali desideri e di lavorare per essi nel corso dell’esistenza, senza sensi di colpa,  sfidando la possibilità di un fallimento senza il terrore di chi pensa che perdere quel che si ha è perdere se stessi”. 
   In ogni epoca – né la nostra sembra fare eccezione, anzi ! – il senso della proprietà come elemento irrinunciabile della propria identità viene instillato sin dai primi anni di vita. Il prezzo è alto: la progressiva riduzione, sino alla completa “eliminazione”, del “gioco” dalla vita. Copriamo di regali i bambini, privandoli dell’esperienza di “vivere senza avere niente almeno durante l’infanzia, in modo che possano comprendere da sé chi siano e chi vogliano diventare. Perché facciamo una cosa tanto orribile ai figli che amiamo? Per paura ovviamente. L’eterna antagonista dell’arte di non avere niente”.
   “Se l’arte di non avere niente si esprime durante l’infanzia nel gioco, in seguito si realizza invece nel viaggio”: ma a patto che sia davvero un’avventura, un’apertura all’imprevisto, non l’ingreggiamento in una comitiva organizzata dall’inizio alla fine.  Arthur Rimbaud – con il suo “andare avanti e indietro per la Francia, l’Inghilterra, l’Europa” senza avere “una rendita da spendere” – è un modello esemplare di questo genere di viaggio avente come méta la riscoperta della propria nudità esistenziale. Un altro modello è stato Jack London che, in una lettera all’amico Ronald Franz, scriveva: “C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo”. Chi evita il viaggio autentico si dedica a “sistemarsi”, ma “quando tutto è accumulato, completato, adulto, è altrettanto naturale un improvviso disagio.Una sorta di claustrofobia, nel fissare dal fondo di queste pareti ogni giorno più alte e ormai in penombra, quel cielo lontanissimo”. Insomma: “i beni che accumuliamo sono statici, e noi siamo una strana razza di crostacei, meno furbi di un paguro che, quando incontra una conchiglia più comoda, vi si trasferisce senza grossi traumi.  Per noi, prima o poi arriva sempre quella notte di sogni inquieti, l’orrore per il nostro guscio”. 
    E questo non vale solo per i beni materiali, ma per gli onori e per le nostre stesse idee. Per gli onori: “ogni uomo è tormentato dall’ambizione ma incapace di dimenticare la bellezza che soltanto l’arte di non avere niente può farci vivere”. Le nostre idee: non è sorprendente che anche esse “siano proprietà che accumuliamo nel tempo e che finiscano, come tutti gli averi, per modificare i nostri comportamenti al di là dei nostri veri desideri. Fanno parte del guscio anche queste: a volte sono laparte più spessa”.
     L’ultima occasione che ci offre la vita di sperimentare la saggezza della moderazione (in un mondo di sperequazioni incredibili fra chi ha troppo e chi ha quasi niente: “secondo il rapporto Oxfam del 2017, l’1 per cento della popolazione più benestante del pianeta possiede più ricchezza netta del resto dell’umanità. Il rimanente 99 per cento, appunto”) è l’invecchiamento e l’approssimarsi alla morte. Ma è appunto un’occasione: la si può valorizzare come anche sprecare nel rimpianto e nel rammarico. 
    Il libro così intenso perché così sincero di La Porta si chiude con l’allusione a quelle migliaia, a quei milioni, di esseri umani che praticano sul pianeta “l’arte di non avere niente” e proprio per questo non hanno neppure “visibilità”, riconoscimento sociale, gratitudine pubblica: sono persone coraggiose e generose che nell’impegno sociale, nel volontariato, nelle organizzazioni non governative…spendono quel poco che posseggono per “seguire le proprie idee”. Il lettore è dunque invitato a mettersi fuori, dall’uscio della propria casa, alla ricerca di queste persone che, avendo rinunciato “a una parte dei propri averi: al tempo, all’ozio, anche al denaro, magari”, riescono a “scoprire una soddisfazione più profonda dopo aver dato, dopo essersi stancato, per non aver guadagnato nulla di tangibile”. Secondo l’autore , per ogni sarebbe il modo migliore di completare il libro con la propria, inconfondibile, firma.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 24 luglio 2018

I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI (20a PUNTATA)

“Il Gattopardo”
(Sicilia)
1.7.2018
IL SENSO DELLA MORTE NELLA TRADIZIONE SICILIANA
Il turista può imparare molto, anche su di sé,  da un siciliano capace di osservare e di riflettere. Ma almeno altrettanto può imparare, sulla propria fisionomia culturale e psicologica,  un siciliano da un turista saggio e acuto (come sono spesso i grandi artisti). Questa considerazione mi è tornata in mente leggendo delle note del regista Wim Wenders, autore del film Palermo shooting: “Non credo di conoscere nessun'altra città in cui il senso della vita è così forte. Forse perché è altrettanto forte il senso della morte. Solo a Palermo il protagonista capisce come vivere il presente. La questione del tempo sta diventando centrale nella mia vita. E ogni volta che vengo a Palermo per me significa fare un salto in un tempo diverso: è come se in questa città si fosse costretti a entrare in contatto con il tempo presente. Qui ci sono le catacombe, la festa dei morti, un dipinto come Il trionfo della morte, un affresco che è stato come un enorme testo per il film. Io credo che una città possa avere un forte diritto alla morte solo se ha un forte rapporto con la vita”.  
  Ho trovato le  parole del regista tedesco interessanti da più punti di vista.
Innanzitutto valgono un po’ per l’intera Isola e non solo per il capoluogo: se solo Palermo ha catacombe e affreschi rinascimentali dedicati alla Signora del nulla con la falce in mano, in tutto il resto della Sicilia è ancora diffuso il culto dei morti e gli stessi protagonisti del racconto evangelico (Gesù, la Madonna e Giovanni Battista  in primis) sono rappresentati e venerati o da morti o da “addolorati” per la morte altrui. Così come in tutta la regione, nella notte fra il 1 e il 2 novembre, ai bambini i parenti defunti portano doni di ogni specie: una sorta di strategia pedagogica per legare il dolore e il lutto alla sorpresa gioiosa. Sino ad oggi, almeno, l’ Halloween statunitense si è aggiunto, senza scalzarla, alla notte dei regali dall’aldilà.
        Questo senso così egemone, talora soffocante, dell’imminenza della morte può spiegare – come ci suggerisce inoltre Wenders – una concentrazione sul “presente”: ma di che genere è questa “concentrazione”?  C’è qualcosa di animalesco in essa. E, dunque, secondo i gusti personali di ognuno di noi, di attraente e di preoccupante. Il siciliano, spesso, cancella ogni progettualità per il futuro. Non mette da parte volentieri il denaro, non ama rinunziare all’uovo oggi per avere la gallina domani: ciò lo difende dall’avarizia, ma lo espone all’imprudenza. Difficile che rinunzi a spendere tutti i risparmi degli ultimi dieci anni per una strabordante mangiata con familiari e amici in occasione di battesimi o prime comunioni o nozze: sarebbe davvero da ingenui ignorare che, in questi casi di spreco, la fede in senso religioso giochi un ruolo trascurabile  rispetto alla motivazione edonistica dell’afferrare il giorno che sfugge. 
    Più in generale, ciò che Wenders non scrive, ma che a me palermitano risulta evidente, è che questa familiarità con la prospettiva della morte, anche improvvisa, ha agito e agisce nella società siciliana come una lama a doppio taglio. Da una parte, infatti, sostiene e incentiva lo sprezzo della vita (propria oltre che altrui) di tanti criminali, specie se organizzati in cosche mafiose; ma, dall’altra, sostiene il coraggio di tantissime persone – uomini e donne – che hanno affrontato lo strapotere mafioso con la piena consapevolezza dei rischi che correvano e che corrono. 
                                                           Augusto Cavadi                                                                  www.augustocavadi.com

lunedì 23 luglio 2018

SIA CHE PAPA FRANCESCO ABBIA RAGIONE SIA CHE SBAGLI, IN OGNI CASO...

  
www.livesicilia.it
  21.7.2018

L’INFALLIBILITA’ PAPALE DOPO PAPA FRANCESCO 

Questo papa gesuita – il primo papa proveniente dalla Società di Gesù fondata in piena polemica contro i luterani da sant’Ignazio di Loyola – sta realizzando nella storia della Chiesa cattolica una frattura epocale. A qualcuno la cosa risulta entusiasmante, a qualche altro dolorosamente preoccupante, a qualche altro ancora non importa assolutamente nulla: ma l’evento è per molti versi interessante. 
   A farmi riflettere su un aspetto logicamente paradossale della questione sono state le critiche che contro questo pontefice vengono rivolte con sempre maggiore insistenza da cardinali, vescovi, teologi, preti e studiosi cattolici e che, con diligenza stupefacente, un vaticanista di tradizioni laiche come Sandro Magister raccoglie e rilancia sia dal suo blog sia dalle colonne del suo settimanale, “L’Espresso”.
   Cosa sostiene questo ampio, e sempre meno silenzioso, fronte conservatore? Che papa Francesco con il suo insegnamento, soprattutto in campo morale e soprattutto nel sotto-settore della morale sessuale, ha tradito la Tradizione cattolica autorizzando pratiche (come l’accesso di coniugi divorziati, e risposati, alla comunione all’interno delle celebrazioni eucaristiche) che in maniera definitiva erano state proclamate, da precedenti Concili ecumenici e papi, inammissibili (nonostante molte altre Chiese cristiane, diversamente dalla Chiesa cattolica romana, le avessero ritenute del tutto accettabili in forza del principio evangelico che “i malati, e non i sani, hanno bisogno del medico” o, fuor di metafora, che i cosiddetti peccatori hanno bisogno di accostarsi alle fonti della grazia molto più dei cosiddetti santi).
   Cosa c’è di tragico, o di irresistibilmente divertente, a seconda dei punti di osservazione, in queste accuse contro il vescovo di Roma? Che chi le pronunzia, nell’atto in cui le pronunzia, si caccia in un cul de sac da cui mi sembra impossibile uscire. Infatti, se non mi inganno, le possibilità logiche sono due e soltanto due. Ed entrambe sono inaccettabili per un cattolico ortodosso-tradizionalista.
   La prima: Bergoglio ha ragione, nel magistero precedente della Chiesa cattolica non c’è nulla di infallibile e di irreformabile, dunque il paradigma cattolico (come si è andato strutturando dal Medioevo a oggi) è definitivamente smentito e superato.
   La seconda: Bergoglio ha torto, nel magistero precedente della Chiesa cattolica tutto era infallibile e irreformabile ed egli non avrebbe potuto modificarlo in punti ritenuti dogmatici. Ma Bergoglio, regolarmente eletto papa, ha interrotto - di fatto - questa continuità ferrea e si è mostrato fallibile, affermando, con il suo insegnamento, che i papi precedenti non sono infallibili. Se in ciò sbaglia, almeno un papa nella storia è fallibile (egli stesso):  dunque non si può più sostenere che i papi siano infallibili. Anche in questa ipotesi,  il paradigma cattolico (come si è andato strutturando dal Medioevo a oggi) è definitivamente smentito e superato.
    Non so se sono stato abbastanza chiaro ma, se non erro, abbiamo il privilegio di assistere al paradosso di un papa che, in quanto papa, sta dicendo che i papi non sono infallibili (almeno non in tutte le questioni in cui si sono ritenuti, e sono stati ritenuti, tali). O ha ragione (e cade il principio cattolico dell’infallibilità papale per errori di tanti altri papi) o ha torto (e cade lo stesso principio cattolico dell’infallibilità papale per questo solo errore di Francesco). Appena lascerà la terra, per il premio celeste o la dannazione eterna,  i detrattori di oggi si affretteranno a notare che egli non ha rivendicato il carisma dell’infallibilità per dichiarare fallibili i papi precedenti e che, dunque, il nuovo papa potrà dire, infallibilmente, che Bergoglio è stato fallibile nel dichiarare non infallibili i predecessori. 
  A quel punto ogni buon cattolico potrà in coscienza decidere se sia più paradossale un papa (Bergoglio) che affermi fallibilmente di non essere infallibile o un eventuale nuovo papa che, come Pio IX, ritornasse a affermare infallibilmente di essere…infallibile.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

domenica 22 luglio 2018

LOTTA NONVIOLENTA ALLA MAFIA: AGGIORNAMENTI DA VINCENZO SANFILIPPO

Enzo Sanfilippo
Nonviolenza e mafia”
                                                       Relazione del 12 aprile 2018 
presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo 
all’incontro organizzato 
dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”,
 nell’ambito della Settimana della nonviolenza promossa
dalla Consulta per la Pace del Comune di Palermo.

***
Innanzi tutto consentitemi di ringraziare gli organizzatori di quest’incontro, la Consulta per la pace e la Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, poiché quest’invito ha coinciso con un mio desiderio di riattivare proprio in questo anno 2018 un gruppo di riflessione... Pensavo qualche tempo fa a quanti anni erano passati … il saggio sulla rivista “Quaderni Satyagraha” è del 2003 e 15 anni mi erano sembrati un tempo buono. Francesco Lo Cascio mi ha chiesto poi di inserire il logo della Comunità dell’Arca tra i promotori della settimana, cosa che ho fatto molto volentieri e che mi dà l’occasione per un ultimo ringraziamento poiché la Comunità dell’Arca è la Casa direi spirituale e fraterna da cui ricevo insegnamento e sostegno per questo sforzo di comprensione e di impegno.
Ci sono dei tempi a volte molto lunghi durante i quali le idee acquisiscono una certa “maturità” e quindi la possibilità di essere accolte. Accolte ovviamente come tappa di un percorso che ci deve portare ad una evoluzione ulteriore.  La nonviolenza non l’abbiamo inventata certamente io e mio figlio Manfredi:  essa - diceva Gandhi - è antica come le colline. Ma la nonviolenza non può neanche porsi come un assoluto immodificabile (raccogliamo immediatamente la provocazione di Ines Testoni e di Emanuele Severino che, in un libro che citerò tra poco, invitano ad aver consapevolezza della inevitabile violenza della nonviolenza. Una nonviolenza che ha questa consapevolezza è diversa, ci dicono, da una che non ne ha…). 
Certamente oggi non abbiamo molto tempo a disposizione, mi limiterò quindi ad aggiungere un paio di input di cornice generale a quanto detto da Manfredi Sanfilippo che ha giustamente inscritto il tema del conflitto mafioso nel modello di Johan Galtung, che possiamo ritenere il massimo teorico vivente degli studi sul conflitto. La riflessione di Manfredi ci ha fatto andare avanti su questo sentiero ma anche su un altro: sul tema della comunità come modello sociale evolutivo e forma nonviolenta di contrasto alla mafia che è stato il titolo della sua tesi magistrale in Cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti all’Università di Pisa, tema che non avremo il tempo di affrontare questa sera, ma che sarà interessante affrontare in un'altra occasione.
Quello che vorrei fare nella prima parte del mio intervento è ripartire dai concetti chiave che guidarono la nostra riflessione 15 anni fa. Nella seconda parte vorrei riferirvi di alcuni studi accademici di cui abbiamo avuto notizia che hanno fatto esplicito riferimento al nostro paradigma, citando il saggio e il libro del 2005… Ma anche di esperienze, o dichiarazioni pubbliche, di persone impegnate sul fronte del superamento al sistema mafioso che, anche senza un rapporto diretto con noi, si muovono lungo coordinate simili. Sono queste notizie molto incoraggianti che possono farci allargare il cerchio e programmare nuovi momenti di riflessione e di incontro.
L’intento generale che mi ero proposto nel 2003 e su cui lavorò nei due anni seguenti un gruppo di amici palermitani (tra cui A. Cozzo, E. Villa, U. Santino, A. Puglisi, S. Di Vita, G. Abbagnato. A. Cavadi e altri) fino all’organizzazione del convegno Superare il sistema mafioso - Il contributo della nonviolenza che si tenne a Baida nel maggio del 2005, può essere sintetizzato nei seguenti punti:F
·     Stimolare la ricerca delle scienze umane (sociologia, antropologia, psicologia, economia, ecc.) sul fenomeno mafioso collocandosi in una postazione più interna in quanto, si diceva, non si tratta solo di conoscere una realtà criminale, ma di far evolvere un sistema di cui anche noi ricercatori studiosi, cittadini, facciamo parte;  
·     far emergere la valenza scientifica -  oltre che sociale - del lavoro delle associazioni, dei movimenti, delle comunità, dei singoli cittadini, per abituarci a considerare le singole azioni organizzate in una prospettiva di comprensione nel senso weberiano del termine del fenomeno mafioso; 
·     uscire da un paradigma esclusivamente giudiziario e repressivodelle azioni sociali e politiche di contrasto alla mafia [erano anni, quelli in cui ci trovavamo a riflettere, in cui tutto era incentrato sull’arresto realizzatosi del capo-dei-capi… addirittura “Repubblica” ospitò un dibattito con diversi interventi   in cui ci si poneva la domanda se COSA NOSTRA stesse per scomparire…];
·     favorire anche una evoluzione del paradigma della legalitàdentro cui si muoveva il cosiddetto fronte “anti-mafia”, compresa “Libera”, nella sua prima stagione;
·     creare un ponte tra la dimensione, la spinta spirituale che esige da noi un cambiamento interiore di evoluzione e di non complicità con la mafia, la dimensione scientifica che ci fa conoscere la realtà e le azioni collettive/comunitarie per il cambiamento.
Abbiamo segnato una prima tappa con la pubblicazione di un libro a più voci in cui sono raccolte le riflessioni iniziali (Mafia e nonviolenza, Di Girolamo, Trapani 2005) cui ha fatto seguito l’organizzazione di un convegno nazionale sugli stessi temi. Quest’appuntamento ci ha consentito di incontrare varie persone e di conoscere direttamente realtà e gruppi, anche fuori dalla Sicilia. 
La nonviolenza infatti non è soltanto un metodo di azione ma è contemporaneamente un modo di concepire la realtà sociale che è vista come  un organismo in cui le parti cosiddette “cattive” sono intrecciate profondamente con quelle “sane”. 
Questa visione rimanda alla impossibilità di estirpare, di annientare violentemente, una parte della società umana per quanto essa possa essere a ragione giudicata “malata” poiché ogni malattia lascia tracce in tutto l’organismo, pronte a ricostituirsi velocemente. 
Sembrerà strano ma la persona che ci ispirava maggiormente per queste posizioni - diciamolo - un po’ eretiche, era Giovanni Falcone, il nostro concittadino giudice che ci aveva lasciato come eredità, tra le altre cose, quel bellissimo libro-intervista scritto con Michele Padovani in cui egli fa una sintesi straordinaria dell’idea di mafia che si era fatta durante il suo lavoro investigativo. Cito:

“La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia” [1].

E ancora:

“ La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione” [2].

Giovanni Falcone aveva saputo coniugare la sua competenza investigativa con un intuito antropologico che certamente gli ha consentito una conoscenza profonda e non solamente giudiziaria dell’universo mafioso. Egli inoltre, nello stesso libro, fa trasparire una sensibilità e uno stile di comprensione che lo avvicinano non poco al pensiero nonviolento. 
Ma, se la mafia è sistema, chi cerca di comprenderla non può adottare uno schema dualista (mafia-antimafia). È proprio a partire da queste intuizioni che, dopo lo studio di Fabio Armao (Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, 2000), parlai, forse per primo, di “sistema sociale mafioso”, abbozzandone un modello con un centro e quattro sotto-sistemi:
·      Area politico-amministrativa
·      Area delle attività economiche e produttive
·      Area della cultura e della socializzazione
·      Area della contiguità affettiva e familiare.

Infatti solo inscrivendo esplicitamente la mafia dentro la lettura sociologica del sistema sociale appare evidente la sua natura “non residuale”. [Autocitazione: “Il successo della mafia non nasce da un’evoluzione tutta interna alla storia delle organizzazioni mafiose. Essa si inserisce nella differenziazione sistemica collaudata dal sistema stato-mondo che a sua volta deve fronteggiare varie tendenze di crisi che ne minano la stessa fondazione”].
Quale sia la crisi del mondo globalizzato è noto a tutti. Il pensiero economico-consumista dominante è in difficoltà poiché il suo stato di perfetto funzionamento si ha nella misura in cui l’uomo è ridotto acosa e tale riduzione deve avvenire in tutti i suoi sottosistemi. La mafia, come la conosciamo, può costituire la soluzione del problema poiché ha costruito una sua cultura (che la Testoni chiama anti-cultura) e sottili meccanismi di introiezione psicologica che fanno leva sulle aree di contiguità affettive e familiari. 
Da qui il nostro interesse per gli studi sullo psichismo mafioso di I. Fiore e del gruppo degli psicologi dell’Università di Palermo (Lo Verso, Lo Coco e altri).
Ma mi sembra importante sottolineare che la visione sistemica del mondo è comunque appunto una visione, non è la realtà. Essa ha un valore semplificante ed euristico. Ci serve cioè a risolvere un problema. 
Le costruzioni sociologiche (mi azzarderei a dire anche quelle filosofiche, ma non ho gli strumenti per sostenerlo) sono sempre relative ai processi di trasformazione che vogliamo contrastare, attivare, assecondare, rallentare o accelerare. 
Ultimamente questo mi ha portato ad interrogarmi sull’uso che abbiamo fatto e facciamo (figli forse di un visione marxista del mondo) del concetto di “struttura” che pone l’attenzione su un meccanismo centrale di funzionamento.Negli studi sulla mafia dicevamo che il sistema politico-amministrativo e in particolare il sistema giudiziario permangono in una posizione centrale mentre invece andrebbe messo più a fuoco il sistema culturale. Ora sono gli stessi magistrati, forse i più illuminati e intelligenti, a porre in guardia dai limiti del paradigma giudiziario. 


Ma, sempre citando Falcone, se la mafia ci rassomiglia dobbiamo capire “quanto”: dobbiamo capire la nostra posizione in una scala di distanziamento. Bene ha fatto Manfredi Sanfilippo a completare il modello sistemico individuando in ciascun sottosistema tante possibili posizioni.
Questo schema è molto utile perché facilita il processo di consapevolezza del nostro essere parte del sistema e può darci indicazioni per le azioni di trasformazione. 
È il punto di sutura tra una teoria del sistema e una teoria dell’azione introducendoci finalmente alla nonviolenza…
Chi è stato alla recente presentazione del libro di Marinetta Cannito (La trasformazione dei conflitti) ricorderà come questa autrice, nostra amica di fede battista, sottolinea fortemente l’importanza di questo passaggio teorico proposto da uno studioso americano,  Lederach,  che invita anche il mondo nonviolento al passaggio dal concetto di “soluzione” (soluzione dei conflitti) al concetto di “trasformazione” che ci porta a quella visione, di un corpo, di un sistema che deve trovare al suo interno le modalità evolutive di trasformazione, di guarigione. Un corpo guarisce realmente quando non si va mutilando di ogni parte che non funziona, ma utilizza le parti sane per compensare o modificare altri organi riportandoli al funzionamento originario o il più delle volte a un nuovo funzionamento che fa evolvere l’organismo nel suo insieme. E chi ha attraversato la malattia uscendone ne riconosce spesso il senso nella storia della propria esistenza.
Tanti altri punti andrebbero ripresi e spero che ne avremo occasione. 

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Come vi avevo preannunciato volevo rendervi partecipi di alcuni studi di cui sono venuto a conoscenza (alcuni dei quali scoperti da poco tempo ) che hanno cercato di accostare metodo nonviolento e superamento del sistema mafioso.
La ricerca testuale è sempre più agevolata da internet… Così ho scoperto , per esempio che il testo Nonviolenza e mafia (Di Girolamo, Trapani 2004) ,  da me curato in prossimità  dell’omonimo convegno organizzato dal gruppo di studio di cui vi ho parlato, nel 2005, è tra i testi suggeriti per l’esame di sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria. Inoltre il percorso di ricerca di cui abbiamo parlato è stato citato in altri testi e ricerche sul tema della mafia.
Il più corposo per mole e qualità è certamente il volume di Ines TestoniLa frattura originaria. I. Testoni è docente di Psicologia Sociale all’Università di Padova ed è discepola di Emanuele Severino che molti considerano un gigante della filosofia (Massimo Cacciari ritiene che sia l’unico filosofo che nel Novecento si possa contrapporre a Heidegger). In questo libro (che peraltro ha la prefazione del maestro) la Testoni inscrive in maniera sistematica la questione della nonviolenza e della mafia, del femminile, della risoluzione dei conflitti, all’interno del discorso filosofico accogliendo pertanto quella doppia definizione di nonviolenza (risoluzione dei conflitti e insieme cammino verso la Verità) che si trova all’inizio del mio saggio, condividendo il limite di una violenza legittima dello Stato che, se non letta all’interno di una evoluzione storica delle stesse forme dello Stato, rischia di duplicare i livelli di violenza del sistema fino al rischio di una sua de-umanizzazione e mafiosizzazione. Ma in fondo penso appaia a tutti evidente, come diceva spesso Lanza del Vasto, che una risposta violenta alla violenza non fa che raddoppiarla. L’applicazione della nonviolenza alla mafia, letta come una pericolosissima deriva dell’Occidente, per nulla superata anche a fronte di misure straordinarie che non hanno impedito alle mafie di diffondersi oltre le tradizionali regioni del Sud, diventa allora un’occasione per mettere a nudo, con uno sguardo che valorizza il femminile, la crisi dell’Occidente senza trascurare e mettere a prova rigorosa le aporie e i dilemmi etici della stessa nonviolenza e del pacifismo affrontandoli con grande competenza da Gandhi ad Aldo Capitini, da Danilo Dolci a Ernesto Balducci, con un quadro teorico di riferimento che coinvolge tutte le scienze umane dalla filosofia alla psicologia, dalla sociologia alle scienze politiche.

Riguardo alla magistratura, mi vengono in mente due esempi. Uno è quello del magistrato minorile Roberto Di Bella, in magistratura dal 1993, oggi presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria che parte dalla constatazione amara della continuità generazionale. Cito da un’intervista:
Avendo un lungo periodo di esperienza professionale sempre nello stesso posto, ho avuto la possibilità di avere uno sguardo privilegiato sul mondo minorile della provincia di Reggio Calabria e ho notato che adesso mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ‘90. Tutti con lo stesso cognome, tutti appartenenti alle famiglie storiche del territorio, più o meno con gli stessi reati…”.
Questo rappresenta un significativo fallimento delle politiche repressive e dell’assenza di un investimento culturale e formativo nel mondo della scuola, che ha portato questo magistrato a impostare azioni comuni con il mondo della scuola.
Cito ancora: “E’ un problema soprattutto culturale oltre che criminale, di cui noi giudici minorili ci rendiamo conto da anni.  E’ un problema culturale perché questi ragazzi non conoscono altri tipi di orizzonti; credono che la strada della ‘ndrangheta sia l’unica possibile. Non sanno che esiste un’alternativa perché loro, al di là del loro paese e della famiglia, non riescono a vedere. Quindi serve un’infiltrazione di cultura ed è quello che sta alla base del nostro orientamento giurisprudenziale, che nei casi estremi comporta provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale...Occorre poi fare cultura. Servono centri di aggregazione sociale come i “ punti luce”  creati da “Save the Children”, che organizza attività culturali, di sostegno allo studio e ricreative nei contesti più a rischio. Esistono realtà– come quella di S. Luca – tristemente famose in Europa in cui solo adesso si sta cominciando a focalizzare l’attenzione e considerare il grave problema culturale. Che deve essere risolto con la predisposizione di servizi socio-sanitari adeguati al territorio, con la creazione di centri di aggregazione culturale e sportiva. Con insegnanti e dirigenti scolastici capaci di ampliare gli orizzonti culturali dei ragazzi”.
Ecco, dovremmo approfondire queste pratiche, chiedere ai governi di impostare politiche competenti sul piano pedagogico che non si esauriscano nelle “giornate della memoria” o con questi incontri di una mattinata all’anno con il magistrato, il giornalista, il testimone o il parente di vittima. Dei limiti di questa “retorica dell’anti-mafia” ci ha parlato, in questa sede, il giornalista Giacomo Di Girolamo autore di un libro dal titolo provocatorio: Contro l’antimafia.
Penso possano essere lette come segno di un limite del paradigma repressivo le recenti dichiarazioni del magistrato Nicola Gratteri che (con un linguaggio ancora tutto interno, a mio avviso, a un paradigma punitivo)  ha tuttavia aperto ad alcuni temi interessanti  durante un ‘audizione in Commissione Diritti umani in Senato. “Il tossicodipendente [nelle comunità terapeutiche]  deve lavorare otto ore al giorno, perché un altro [il mafioso in carcere] può stare 10 ore davanti la tv? Occorre farli lavorare come rieducazione, non a pagamento. Se abbiamo il coraggio di fare questa modifica, allora ha senso la rieducazione. Ci sono capi mafia di 60 anni che non hanno mai lavorato in vita loro. Farli lavorare sarebbe terapeutico e ci sarebbe anche un recupero di immagine per il sistema”.
C’è un’altra ricercatrice interessata all’approccio nonviolento: è Sandra Sicurella, ricercatrice presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna. È titolare dell’insegnamento “Mafie e processi di vittimizzazione”. Questa ricercatrice ha pubblicato lo scorso anno un libro dal titolo Da quel giorno mia madre ha smesso di cantare. Storie di mafia.  E’ un lavoro di ricerca che nasce dall'idea di dare voce ai familiari delle vittime di mafia meno conosciute. La narrazione delle loro storie consente di farle uscire dall'oblio cui spesso sono destinate. Un concetto cardine è che la memoria serve non solo per perpetuare il ricordo delle vittime, ma per trasmettere degli esempi in grado di diffondere una cultura di superamento del sistema mafioso.
Siamo già in contatto per una collaborazione…
Che senso ha infatti il ricordo? Vorrei chiedere, con tutto il rispetto che merita, a Don Ciotti, a “Libera”: ha ancora un senso leggere ogni 21 marzo questo elenco interminabile di vittime della mafia? O potrebbe aver senso valorizzare ogni anno una narrazione di superamento, di fuoriuscita, in cui anche la sofferenza può essere offerta come risorsa per la vita? 
Il tema delle vittime ci riporta alla giustizia rigenerativa della quale ci parlò Marinetta Cannito già nel 2005 e su cui qui a Palermo c’è già un’esperienza significativa con l’Ufficio di Mediazione Penale minorile istituito dal comune di Palermo. E’ un tema molto collegato all’approccio nonviolento e che scopre un altro punto debole del paradigma giudiziario: l’ assoluta solitudine della vittima di ogni reato.  Al di là dei possibili risarcimenti economici, del loro uso di testimoni al fine dell’accertamento fattuale dei reati,  le vittime non hanno importanza. Ebbene ci sono esempi storici di grande portata (Sudafrica, ) ma anche esempi italiani molto significativi (incontro tra terroristi e parenti di vittime. Vedi  Il libro dell’incontro. Vittime e responsabilidella lotta armata a confrontoa cura di Bertagna, Ceretti e  Mazzuccato) che ci dicono dell’importanza sociale dell’incontro, ovviamente strutturato volontariamente, tra autori e vittime di reato. 
Ma un’altra sorpresa è stata la citazione del nostro percorso in alcuni studi di pianificazione urbanistica, tra cui quello di Laura SaijaLa ricerca-azione in pianificazione territoriale e urbanistica che riporta a sua volta il volume La Piazza è mia dell’architetta Agata Bazzi chiamata al ruolo di sovraordinato prefettizio nel Comune di Villabate , che narra la sua esperienza giocata tra le teorie di pianificazione e progettazione partecipata e l’esperienza vissuta di un humus culturale mafiogeno diffuso e di una mancanza di una condivisione dei valori della democrazia. Ancora una volta l’accento ritorna ad una esigenza educativa che possa riportarci verso contesti in cui la comunità (cum-munus) possa ricostituirsi.
Mi pare ci siano piste di riflessione molto interessanti e potenzialmente feconde.
Grazie.



[1]G. Falcone e M. Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano 1992, p. 82.