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Nel
1968 i venti della contestazione giovanile, soffiando dai campus statunitensi e dalla Sorbona di Parigi, arrivarono alla
periferica Sicilia. O, per lo meno, nella mia città: Palermo. Un giovane prete,
che insegnava “religione” nel nostro liceo, ci aprì - con molta moderazione – alle novità ecclesiali operate dal
Concilio Vaticano II che si era chiuso a Roma nel 1965. Più tardi avrei letto
sui libri che i due processi - il
rinnovamento interno al mondo cattolico e la contestazione globale nella
società occidentale – non si erano srotolati parallelamente: senza il primo,
infatti, difficilmente si sarebbe registrato il secondo. Ma, prima di impararla
sui libri, quella connessione la vissi nella carne. Da una parte, infatti,
condividevo l’ansia di cambiamento rivoluzionario della mia generazione e
partecipavo attivamente alle iniziative studentesche; dall’altra, però, non mi
convinceva il marxismo cui aderivano, più o meno consapevolmente (spesso meno)
tanti fra i miei coetanei più svegli.
La decisione di impegnarmi radicalmente mi si configurò come un dilemma:
o la strada della politica extra-parlamentare (non di rado sconfinante nel
terrorismo ‘rosso’) o la consacrazione totale al regno di Dio mediante i voti
di obbedienza, castità celibataria e povertà.
Varie circostanze mi indussero a perseguire il secondo sentiero (a cui sarei stato fedele, sempre più
problematicamente, sino al giorno del mio trentatreesimo compleanno), ma con un
grosso ostacolo dinnanzi: l’amicizia affettuosa con una ragazza di due anni più
giovane, un sentimento che – specie da parte sua – assomigliava molto a ciò che
potevo supporre fosse la passione amorosa. Nei mesi travagliati che mi furono
necessari per scegliere, la partner appena
sedicenne e per giunta appartenente a una famiglia notoriamente ‘laica’ tentò
di dissuadermi dalla vocazione monastica (o da quella che così mi appariva, sia
pur vissuta in modalità da rivedere) regalandomi un libretto di poche pagine: Libertà nel mondo di Hans Kueng. Quale
il senso del dono strategico? In esso l’allora giovane e sconosciuto teologo di
lingua tedesca presentava il profilo teologico e spirituale di un santo
canonizzato dalla Chiesa cattolica che non aveva scelto la via della rinuncia
‘religiosa’. Obbedienza a un altro uomo? Era la seconda autorità del regno
inglese e, quando si trattò di obbedire al sovrano contro le sue convinzioni,
fermamente si rifiutò. Castità celibataria? Era sposato e molto legato alla
moglie e ai figli. Povertà? Non proprio, a giudicare dalle proprietà fondiarie
e dai privilegi legati alla sua altissima carica pubblica. Ma Thomas More si
era mantenuto “libero” dentro: possedeva senza essere posseduto. E che si
trattasse di libertà interiore ma reale lo dimostrò quando, in occasione del conflitto fra il
proprio re (Enrico VIII) e il papa dell’epoca (che non intendeva concedergli
l’annullamento capzioso del primo matrimonio), seppe seguire ciò che riteneva
giusto anche a costo di perdere i beni, gli affetti familiari, la stessa vita.
Accettando l’esecuzione capitale, More proclamava che riconoscere la signoria
dell’Unico significa emanciparsi, in radice, da tutti i poteri terreni. Egli
offrì una testimonianza di fedeltà allo Spirito (o per lo meno alla voce della
propria coscienza nella quale in ultima istanza possiamo ascoltare il volere
divino) della quale molti uomini
consacrati in maniera ufficiale e solenne non furono capaci né prima né dopo di
lui.
Sarei insincero se non confessassi di aver recepito allora il pugno allo stomaco inferto amabilmente
dalla mia innamorata sedicenne: perché partecipare all’avventura della
fondazione di un nuovo ordine monastico nel mondo se si poteva raggiungere la
santità anche attraverso la condizione matrimoniale, l’impegno politico e la gestione
dei beni economici? Però…Però nessuno mi obbligava a scegliere la strada
alternativa. E, in quella fase della vita, mi sembrò che la via matrimoniale
fosse buona, ma quella del celibato consacrato addirittura ottima. Si trattava piuttosto di correggere
seriamente e in profondità le modalità della consacrazione evangelica, facendo
spazio molto più concretamente alla dignità della singola persona umana, alla
sua relazionalità affettiva e sessuale, alla sua responsabilità
socio-economica.
Per non farla troppo lunga, dirò che quel volumetto fu la porta
d’ingresso per conoscere non solo una vicenda biografica intrigante (lessi poi
altri libri su Thomas More e soprattutto la sua Utopia e le sue lettere dalla prigione); non solo uno dei teologi
più profondi e coraggiosi a cavallo fra il XX e il XXI secolo (non c’è un solo
testo firmato da Kueng che non mi abbia aperto orizzonti liberatori); ma anche,
più ampiamente, un nuovo “paradigma”
di intendere e di vivere la fede nel vangelo senza chiudersi alle innumerevoli
sapienze del pianeta. Nessuna sorpresa, dunque, se ogni tanto mi è capitato di
rileggere Libertà nel mondo e di
prestarlo ora a uno ora a un altro dei miei amici. Come è noto, però, i libri
sono un po’ permalosi: se si accorgono che te ne privi spesso e volentieri,
equivocano sui tuoi sentimenti e suppongono che tu non ci tenga abbastanza.
Dunque, per protesta, non tornano più fra le tue mani. Da qui la necessità di
riacquistare più di una volta lo stesso titolo. Sino a quando il testo cui sei
tanto affezionato non si trova più in commercio.
E’ proprio quello che mi è capitato di recente con l’introvabile, aureo,
libretto di Kueng. Grazie alla generosità – per bocca di Chiara Benedetti -
della casa editrice della prima edizione (la Queriniana di Brescia) e della casa editrice che ospita questa
seconda edizione (Il pozzo di Giacobbe di
Trapani) ho potuto scrivere una e-mail
all’autore per chiedergli l’autorizzazione a ripubblicarlo. Solo poche ore dopo
mi è arrivata, pronta ed entusiastica, la risposta: “Mi pare un’ottima idea!”
Non ci resta che il piacere di rileggere quelle pagine scritte mezzo
secolo fa e, soprattutto, di provare a tradurle nel nostro modo di intendere e
di spendere l’unica esistenza che abbiamo a disposizione.
Augusto Cavadi