domenica 31 dicembre 2017

LA "BUSACCHINARA" DI FOSCA MEDIZZA: NINFOMANE E MISTICA





LA BUSACCHINARA DI FOSCA MEDIZZA

   Come scrive nella sobria ma efficace Introduzione Gian Mauro Costa, Pigalle – la protagonista del romanzo di esordio di Fosca Medizza La Busacchinara. Nel geode è l’embrione dell’Uno (Qanat, Palermo 2014, pp. 115, euro 15,00) – è “un personaggio femminile che difficilmente si potrà dimenticare”. E’ infatti una donna straordinariamente conseguente rispetto ad alcuni chiari principi etici, primo dei quali: “Non c’è niente da salvare in questo mondo, solo il piacere, il piacere da offrire e da ricevere”. La società, oggi come ieri, è affollata da soggetti di cui ci dimentichiamo facilmente perché sono (quasi) tutto e (quasi) il contrario di tutto: né neri né bianchi, ma – noiosamente – grigi. Quando incontriamo, nella vita o nella letteratura, qualcuno che si identifica con il proprio ideale (o, meglio, che tende a identificarsi con il proprio ideale: se ci riuscisse sempre e comunque, diventerebbe anche lui noioso) il suo segno s’imprime nel nostro animo. E nel nostro inconscio.
  Giuseppina, che sceglie per sé il nome Pigalle e che dagli abitanti di un piccolo comune della Sicilia interna – Bisacquino - viene ribattezzata Busacchinara, ha un senso religioso grezzo ma radicato. Da ragazza ha già un amante, Emilio, il “primo” e “unico” uomo che ha davvero amato. Quando il fratello Crocifisso è in ospedale a rischio di morte, Pigalle promette alla Madonna di rinunziare ad Emilio in cambio della sopravvivenza del congiunto. Così avviene e la ragazza, per onorare il voto, si avvia su una strada di tragica inquietudine: “In tutti gli uomini che ho avuto, ho annegato il mio mancato amore, come fossero bicchieri di passito stravecchio nei quali inzuppare il biscotto secco della nostalgia”. E’ dunque riduttivo definirla una “ninfomane”, se non a uno sguardo superficiale. Più in fondo è una mistica che insegue, nel corso di ottanta lunghi anni, ciò che il “geode” del sottotitolo le ha evocato sin dall’adolescenza: “la presenza dell’Uno”, quella “origine, alla quale tendiamo nostalgicamente  e a cui possiamo tornare senza intoppi solo con il linguaggio verbale, o qualunque altra forma del codice visivo”, come la pittura che Pigalle ha esercitato incessantemente. Certo, c’è mistica e mistica: tutte sfociano nel “silenzio” con cui si chiude il romanzo, ma non per tutte è silenzio di assenza e di morte.
   La prosa di Medizza è precisa, calibrata, ma anche coinvolgente. Le consente, senza ombra di volgarità, di contribuire al capovolgimento in atto negli ultimi anni di una secolare tradizione letteraria: non più maschi che devono raccontare l’erotismo femminile, ma femmine che sono in grado di raccontare anche l’erotismo maschile. E nella storia della protagonista l’autrice fa incrociare, quasi raggi nel perno di una ruota variopinta, vicende umane più o meno intriganti, tutte segnate da una atavica maleducazione sessuale derivante da una concezione pessimistica della corporeità (che non cessa di essere negativa neanche quando viene idolatrata e assolutizzata, scorporandola dalla dimensione affettiva e donativa).

    Augusto Cavadi

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domenica 24 dicembre 2017

IL VOLTO POETICO DEL NATALE, LA SUA SOSTANZA ETICA




VIVERE IL NATALE NELL’EPOCA POST-SACRALE

 Puntuale, come il Natale, arriva – nei salotti e sui media – la polemica contro il consumismo  e, più in generale, la banalizzazione della ricorrenza religiosa a mera occasione di svago mondano (o, nei casi migliori, di ricongiungimento familiare). Ma questa polemica presuppone la convinzione che, dopo duemila anni di cristianesimo, si possa avvertire il  Natale come nel V, nel X nel XV secolo. Una convinzione illusoria per un’infinità di ragioni.
   La prima, di carattere più generale, è che dalla fine dell’Ottocento a oggi la società si è “secolarizzata” e l’insieme delle credenze, dei miti, dei simboli che costituisce patrimonio di ogni religione è stato sottoposto al vaglio della ragione adulta. Anche se non mancano segnali di “de-secolarizzazione”, solo “una minorità da imputare a se stessi” – per scomodare Kant – potrebbe farci vivere la dimensione religiosa come nelle culture medievali. Da questo dato di fatto derivano due conclusioni principali: o l’abbandono definitivo di ogni sistema teologico (la strada dell’ateismo o, per lo meno, dell’indifferentismo agnostico) o la re-interpretazione radicale del linguaggio religioso tradizionale (oggi incomprensibile alla stragrande maggioranza della popolazione mediamente istruita).
   La prima via la conosciamo abbastanza perché è imboccata da persone sempre più numerose, specialmente giovani: ci si getta alle spalle Gesù come Babbo Natale, la Madonna come la Befana, i Vangeli come le favole dei Fratelli Grimm. Molto meno esplorata la strada alternativa (che i migliori teologi sondano da decenni, scoraggiati da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, ma non da Francesco che – conoscendo “l’odore del gregge” – la pratica egli stesso scandalizzando i guardiani dell’ortodossia sclerotizzata): la strada della demitizzazione e della ri-traduzione del messaggio originario. In parole semplici e limitandoci al tema del Natale: i vangeli dell’infanzia non sono stati pensati e scritti come cronache storiche, ma come pie leggende (in termini tecnici: midrash aggadici). Essi partono da dati storici ormai assodati: che un predicatore errante di Galilea ha annunziato, in parole e in opere, una rivoluzione della fede ebraica in nome di una solidarietà universale, al di là di ogni genere di barriere etniche e sessuali. Circa cinquant’anni dopo, ricorrendo alla simbologia dell’Antico Testamento, Matteo e Luca costruiscono dei racconti che, per loro e per i contemporanei,  avevano esclusivamente lo scopo di esprimere l’ammirazione e la devozione per il Maestro. “E’ un peccato” – scrive il vescovo episcopaliano John S. Spong in un prezioso volumetto tradotto in questi giorni in italiano, “La nascita di Gesù tra miti e ipotesi” – “che i greci, e in genere i non-ebrei di cultura ellenistica e latina, che divennero la maggioranza della Chiesa cristiana, non conoscessero le Scritture ebraiche abbastanza bene da capire ciò che volevano dire le storie originali. Il letteralismo non è solo un’espressione d’ignoranza biblica, ma è una distorsione del vangelo talmente pericolosa da diventare distruttiva per il cristianesimo stesso” .
  Rivalutare il Natale significa dunque capire che i racconti tradizionali, quadri e presepi inclusi, appartengono alla sfera dell’immaginazione poetica e che come tali vanno vissuti: ma che il suo significato più profondo è provare, per un giorno e per l’intero anno, a tradurre in scelte personali e politiche il messaggio originario di Gesù, attento alla dignità di tutti ma particolarmente sensibile alla sofferenza degli oppressi della Terra.

Augusto Cavadi
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http://www.nientedipersonale.com/2017/12/24/vivere-natale-nellepoca-post-sacrale/

venerdì 22 dicembre 2017

ATTENDENDO NATALE. CONSIDERAZIONI DI TEOLOGIA 'LAICA'




“LAURIA – NUOVE ROTTE”
Magazine di Sport e Cultura
Dicembre 2017

     I biblisti sono ormai unanimi: natale non è il centro dei quattro vangeli. Questi testi sono stati costruiti intorno a ciò che i primi cristiani ritenevano il fulcro della propria fede: la resurrezione di Gesù (e non è un caso che della nascita del Redentore parlano solo Matteo e Luca, redatti successivamente a Marco che ne tace). Eppure…Eppure natale è la festa più emozionalmente avvertita dai cristiani e, per molti versi, dagli abitanti del pianeta. Come mai?
La chiesa dei primi secoli è stata strategicamente geniale nell’adottare come ricorrenza della nascita di Cristo non la sua data cronologica  (per altro impossibile da determinare per mancanza di registri anagrafici all’epoca), ma la festa del dio Sole: un modo semplice, immediato, ma efficace di esprimere la convinzione che il  Maestro fosse la nuova Luce apparsa sulla terra per diradare il buio di quei tempi (e non solo di quelli!).
La rilevanza del natale è sottolineata dal cammino che lo precede e dalle tappe che lo seguono. Lo precedono, infatti, quattro settimane di preparazione interiore e comunitaria: l’Avvento. Sono i giorni di attesa dell’Arrivo (Ad-venire) del Messia. Ma in che senso se ne può parlare? Con i Padri della chiesa, e oltre loro, si potrebbe rispondere: in quattro sensi.
Il Verbo di Dio è venuto una prima volta nella persona storica di Gesù; viene ogni giorno nel cuore di ogni uomo e di ogni donna che si aprano con sincera disponibilità alla Luce; viene ogni giorno nella carne dei deprivati (in questi anni sbarcando fisicamente, sulle nostre spiagge, da barconi stracarichi di disperati); verrà per l’ultima volta alla fine dei tempi – o, per lo meno – alla fine del tempo mortale della nostra mortale umanità.
Se le cose stanno così – almeno nella fede tradizionale dei cristiani – essi fanno molto bene a festeggiare la prima venuta del Salvatore a Betlemme ( o a Nazareth o dovunque sia effettivamente avvenuta); ma non fanno altrettanto bene a dimenticare di celebrare le altre due venute (nella propria interiorità e nei propri fratelli più sfruttati dai meccanismi del capitalismo internazionale) e a prepararsi alla fine (prossima o lontana, comunque certa) di questo pianetino sperduto nell’universo.
  Il vangelo di Cristo è un patrimonio etnico limitato all’Occidente, che lo ha gelosamente impacchettato in  trattati teologici, dizionari e catechismi , o non piuttosto un evento a cui ogni civiltà ha diritto di attingere liberamente, se necessario traducendo nella propria lingua (nelle proprie categorie culturali) un messaggio comunicato in aramaico venti secoli fa?
  La risposta più chiara l’hanno data, da mille anni, le chiese autocefale dell’Oriente cristiano-ortodosso (greche, slave, russe): esse celebrano il natale il 6 gennaio. Non quando il bimbo viene partorito nel guscio di una famigliola mononucleare, ma quando viene esposto al pubblico e offerto ad estranei vicini e lontani. Vicini come i pastori, gente semplice che non ha bisogno di molte spiegazioni: corre in soccorso di chi ha bisogno, a dare latte e paglia a chi soffre fame e freddo. E lontani come i magi che come personaggi storici non hanno le carte in regola, ma come figure simboliche sono insostituibili: la loro presenza attesta, fin dai primordi, che il vangelo non è un affare provinciale ma una proposta potenzialmente universale, destinata non a soppiantare le sapienze già fiorenti (di cui i magi sono, appunto, esponenti) bensì a integrarsi con esse in tensione verso sintesi inedite  da aggiornare in continuazione.  La poesia dell’Epifania (o Manifestazione) va fruita in tutta la sua ricchezza, senza ridurla a quadretti bucolici da presepe. Essa, infatti, veicola una novità talmente dirompente che oggi, dopo venti secoli, sta davanti a noi come un traguardo utopico più che indietro come un residuo archeologico: la novità proclamata dall’ebreo-romano Paolo di Tarso a proposito di un popolo, vasto quanto l’umanità, in cui sarebbero diventate irrilevanti le differenze fra ebrei e pagani, uomini e donne, nobili e proletari.

Augusto Cavadi

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giovedì 21 dicembre 2017

DOV'E' - SE E' ANCORA VIVO - MATTEO MESSINA DENARO ?




“Siciliainformazioni”
20.12.2017

DOV’E’ MATTEO MESSINA DENARO?

Con dovizia di dettagli, grinta comunicativa e coraggio personale (non proprio comune nel mondo della stampa) Giacomo Di Girolamo, “ex giovane” giornalista di Marsala continua a costruire una  “sorta di piccola enciclopedia della mafia” (p. 357)  con uno dei suoi volumi – a mio avviso – più riusciti: L’invisibile. Matteo Messina Denaro (Il Saggiatore, Milano 2017, pp. 408, euro 19,00). Le buone enciclopedie si distinguono dalle meno istruttive perché, nelle prime,  la messe delle informazioni è coordinata logicamente da un’idea complessiva. E qui la griglia interpretativa c’è: la mafia non è opera di grandi geni del male, bensì un sistema relazionale complesso intessuto dalla connessione fra l’esercito dei militanti e una più ampia area sociale di politici, imprenditori, burocrati e professionisti. La biografia del padrino latitante è ricostruita con attenzione, dall’adolescenza all’enigmatica maturità: tanto enigmatica da suggerire all’autore l’ipotesi, la “fantasia”,  che Matteo Messina Denaro sia già morto e che le sorelle e i familiari più stretti lo usino come un marchio di fabbrica (un brand) per continuare a lucrarne profitti (come già è capitato per altri boss mafiosi, tra cui lo stesso padre di Matteo, don Ciccio).
  Se è questo il quadro complessivo (e complesso) del sistema mafioso, catturare Matteo Messina Denaro – o avere la certezza della sua morte - sarà importante, ma non decisivo: decisivo sarebbe scardinare la ragnatela di complicità e di collusioni che egli ha costruito intorno a sé e di cui, in qualche misura, è rimasto anche prigioniero.
   Per rappresentare la situazione Di Girolamo usa talora formule paradossali ( come: “la vera forza della mafia non sta certo dentro la mafia”, p. 242). Se qualcuno la intendesse alla lettera, certamente la troverebbe falsa e alzerebbe il sopracciglio destro in segno di disappunto; come slogan giornalistico a effetto, però, può avere una sua efficacia comunicativa per destrutturare vecchie concezioni folkloristiche di Cosa nostra. Decodificata e tradotta in termini meno paradossali, la formula sostiene ciò che – secondo quanto ricorda lo stesso autore a p. 366 – sosteneva trent’anni fa Giovanni Falcone: “La mafia sarà distrutta quando sarà degradata al rango di associazione criminale comune. Fin quando beneficerà di infiltrazioni nella società civile e nel mondo affaristico, sarà difficile annientarla”. Molti anni prima di Giovanni Falcone, Mario Mineo – e soprattutto, dopo di lui, Umberto Santino – avevano spiegato (recuperando e attualizzando l’intuizione di Franchetti nell’Ottocento che individuava la spina dorsale della mafia in “facinorosi della classe media”) che la mafia non sarebbe mafia se il nucleo degli “uomini d’onore” non fosse incistato – costitutivamente, non accessoriamente – in un “blocco sociale” interclassista formato da esponenti di tutte le classi sociali e, primariamente, della “borghesia” (mafiosa). Di Girolamo rende con pennellate efficaci questa zona para-mafiosa (che, riprendendo una suggestione di Nino Amadore, definisce Cosa grigia) di cui, sempre più spesso, fanno parte  sedicenti militanti dell’antimafia: “C’è la mafia, ma ci sono anche i politici che si fanno corrompere per due lire, gli imprenditori del Nord che vengono in Sicilia per cercare boss per costruire i parchi eolici, i funzionari degli enti locali al servizio del miglior offerente” (p. 291).
  Un libro perfetto, dunque? Per fortuna, no. L’autore ha ancora tanto da affinare e offrire a chi non sia affetto da “Tl;Dr, cioè Too long; Didn’t Read (troppo lungo, non l’ho letto)”, espressione che “riassume la pigrizia diffusa, la superficialità, la nostra stizza verso tutto ciò che va in profondità, e dunque è noioso” (p. 366). E ha da controllare meglio la tentazione di presentare come del tutto inedite, originali, delle analisi che  - sia pure in posizioni di marginalità nel mercato editoriale – sono state elaborate molto tempo prima della sua “seconda nascita” nel maggio del 1992. Non è (solo) una questione di riconoscenza e gratitudine personale, ma (soprattutto) di lucidità diagnostica: Cosa Nostra non si è trasformata “in qualcosa di diverso”, in “Cosa Grigia” (p. 291). Non sarebbe mai stata Cosa Nostra se non fosse stata sempre, in proporzioni più o meno accentuate, Cosa Grigia.

Augusto Cavadi

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martedì 19 dicembre 2017

COME E' ANDATA A RIMINI? VEDIAMOCI GIOVEDI' 21 DICEMBRE



Come molti di voi sapete, dall'8 al 10 dicembre 2017 si è svolto a Rimini il Convegno nazionale delle Comunità di base italiane sul tema "Beati gli atei perché vedranno Dio".
Giovedì 21 dicembre, alle 20.15, su invito della Comunità di libera ricerca spirituale "Albert Schweitzer" di Palermo, terrò una conversazione pubblica per dare un resoconto sintetico dei momenti salienti del Convegno (gli Atti completi non usciranno infatti prima del giugno 2018).
L'appuntamento è presso la sede della Comunità, nella "Casa dell'equità e della bellezza", in via Nicolò Garzilli 43/a.
La partecipazione all'incontro è libera e gratuita.
Al termine della conversazione si condivideranno i dolci natalizi e le bottiglie di vino che ognuno vorrà mettere in tavola.

sabato 16 dicembre 2017

I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI (QUATTORDICESIMA PUNTATA)

“Gattopardo”
Dicembre 2017

I SICILIANI SPIEGATI AI TURISTI (14)

Tra le sorprese – non proprio entusiasmanti – che attendono il turista in Sicilia rientra il gap fra la fama letteraria dell’Isola e il livello medio dell’istruzione. Da una parte, infatti, lo straniero associa il nome della Sicilia ai tragici greci, a Empedocle d’Agrigento e Gorgia da Lentini, alla Scuola poetica di Federico II , ai vari  Bellini, Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Gentile, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Guttuso, Consolo, Camilleri…e, dall’altra, osserva la rispettosa distanza che il siciliano medio mantiene rispetto a tutto ciò che evoca l’idea di “cultura”. Nelle città europee è normale che nei mezzi pubblici i viaggiatori siano concentrati su un giornale o su un libro; laddove, dalle nostre parti, il lettore solitario è un’eccezione rara e adocchiato con un mix di soggezione e compassione. Le librerie, per fare un altro esempio, non sono del tutto deserte solo perché, ormai, si contano sulle dita della mano: e comunque vi entra, eccezion fatta per l’inizio degli anni scolastici, un siciliano su dieci in un anno.
  Si potrebbe obiettare che in ogni Paese del pianeta ci sono geni creatori e analfabeti: ma, tra i due strati, si dispiega un ceto intermedio più o meno colto. Proprio quello strato sociale che manca, o difetta molto, in Sicilia: tra l’aristocrazia intellettuale e il “sottoproletariato cognitivo” (come lo ha definito Davide Miccione) si fatica a rintracciare una borghesia illuminata o, per lo meno, curiosa.  E poiché intellettuali raffinati (spesso rintanati nei propri circoli provinciali) e analfabeti totali  costituiscono delle minoranze statistiche, il tono culturale di una società è caratterizzato da virtù e vizi della maggioranza intermedia. Che, nel nostro caso, spende molto più per  cene in pizzeria , abiti alla moda e cellulari di ultima generazione che per libri, giornali e spettacoli di livello artistico. E, se invita un ospite a pranzo, resta tra lo stupito e il deluso qualora questi – invece dell’ennesima bottiglia di vino o dell’ennesimo vassoio di pasticcini – dovesse presentarsi con in mano un volume d’arte o un romanzo. Probabilmente è in questa scarsa propensione a informarsi, ad aggiornarsi, ad approfondire criticamente le conoscenze… che affondano le radici altri ritardi più eclatanti della Sicilia: dal punto di vista della maturità civica e della moralità pubblica come della ricerca scientifica e della produttività economica. Ma queste sono problematiche che difficilmente possono interessare il turista: almeno sino a quando il regresso culturale dei nativi non dovesse arrivare a compromettere ulteriormente la sopravvivenza  dei beni artistici e delle bellezze naturali di cui l’Isola è immeritatamente straricca.

Augusto Cavadi

(Autore del volumetto I siciliani spiegati ai turisti, Di Girolamo, Trapani 2014, disponibile presso lo stesso editore in lingua inglese e cinese)