venerdì 23 novembre 2007

FELICITA’ E IMPEGNO SOCIALE


Centonove 23.11.07
Augusto Cavadi

C’E’ UN LEGAME TRA FELICITA’ E POLITICA

Qui di seguito una traccia dell’intervento di Augusto Cavadi al seminario di formazione etico-politica organizzato il 1 ottobre 2007 dall’Associazione “Donne per Messina”. Per informazioni sull’Associazione contattare Tina Palmisano (donnepermessina@libero.it oppure 339.7714099).

La domanda - guida, cui cercheremo di rispondere insieme questa sera, è se esista un rapporto fra felicità e politica. Anche qui, come si è tentato di fare introducendo altri interrogativi negli incontri precedenti, occorre intendersi sul significato che diamo a quei segni linguistici convenzionali che sono le nostre parole. Chiediamoci dunque, innanzitutto, cosa intendiamo per ‘felicità‘ sia quelli che pensiamo che sia accessibile su questa terra sia quelli che la concepiamo come inattingibile. Per gli uni e per gli altri è uno stato interiore - in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva, realistica, ontologica - di gratificazione piena, tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale. Dico “in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva” perché, in genere, non siamo disposti ad accreditare per felicità lo stato psichico di chi sia in preda ad allucinogeni e che, una volta uscito dal delirio, si dovesse scoprire senza amori o senza lavoro o senza salute. E dico “tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale” perché, se sperimento la felicità - almeno nel momento in cui la sperimento - sarebbe molto strano che desiderassi un cambiamento radicale (o se, al contrario, non lo temessi come una disgrazia).

Ebbene, posto che le felicità sia questo - o qualcosa di simile - possiamo cominciare a fissare alcuni paletti, almeno provvisori.
Il primo: forse la felicità è attingibile in questa vita, forse un’illusione atroce, ma in ogni caso ogni uomo ha diritto di poterla cercare con tutti gli strumenti immaginabili, tranne quelli che danneggino altri non consensualmente.
Il secondo paletto è consequenziale: la politica non può assicurare la felicità ai cittadini (quando lo promette, prepara infelicità inumane), ma può provocarne l’infelicità (per esempio calpestando i diritti umani elementari). Dunque non ci dobbiamo attendere dai regimi politici la felicità, ma abbiamo il diritto di attenderci che essi non ce la distruggano alla radice: la buona politica può - e deve - assicurare le condizioni perché i cittadini stessi possano, se vogliono, mettersi alla ricerca della felicità.
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Ammettiamo di vivere in un regime democratico che, con tutti i limiti, ci garantisca - come fa la Costituzione della Repubblica italiana sinora vigente - il diritto alla ricerca di una felicità, sia pur parziale e provvisoria. Ebbene, se interroghiamo la tradizione occidentale, che indicazioni possiamo raccogliere?
Ogni tanto il papa, in curiosa sintonia con atei strumentalmente devoti, ricorda che l’Europa ha radici cristiane. Verissimo. Ma altrettanto vero che il cristianesimo, come noi lo abbiamo conosciuto, soprattutto nella versione cattolica, ha a sua volta radici ebraiche e radici greche: l’Europa cristiana è come un fiume in cui sono confluite almeno due filoni precedenti: la sapienza greca (Atene) e la profezia biblica (Gerusalemme ).
Ebbene, quali modelli di felicità ci vengono consegnati da queste due antiche sorgenti di cultura?
Per la saggezza greca, la felicità è - fondamentalmente - astensione dal dolore, ricerca dei piaceri ragionevoli e contemplazione della verità delle cose. “Astensione dal dolore”: il male e il bene sono entrambi costitutivi della natura ed è illusorio, dunque, sperare di vivere solo in una dimensione di positività. Ciò che possiamo fare è perseguire una strategia di riduzione del danno, magari usando la filosofia che - secondo Epicuro - deve guarirci dai mali dell’anima esattamente come la medicina ci può guarire dai mali del corpo. Questa visione non va scambiata per un pessimismo paralizzante e rinunciatario: evitare i mali non esclude la “ricerca dei piaceri ragionevoli”, dunque di piaceri moderati (per la ragione che, se eccessivi, diventano causa di nuovi malanni). La saggezza è dunque saper miscelare dolore e piacere che - Platone lo fa dire a Socrate nel “Fedone” - sono come i due capi della stesso pezzo di corda: non si può afferrarne uno senza, per ciò stesso, portar via anche l’altro.
Tra i piaceri che ci sono accessibili in questo mondo, secondo diversi filosofi greci ce ne è uno talmente intenso da assomigliare alla felicità, al massimo di fioritura che un soggetto umano può sperimentare da mortale: la sapienza, la “contemplazione della verità delle cose”. Quando sappiamo qualcosa di vero (sapère, il “sàpere” dei Latini, cioè l’assaporare con gusto e il far proprio con calma), la nostra beatitudine si avvicina a quella divina. Se poi arriviamo a contemplare le essenze della realtà, la nostra passione (il nostro eros) arriva al culmine dell’appagamento. Il discorso di Diotima sull’amore nel “Simposio” sintetizza questo itinerario esistenziale in maniera anche letterariamente affascinante.
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Se dovessimo scegliere un testo che si abbini, un po’ per somiglianza ed un po’ per contrasto, con il discorso sull’amore platonico, potremmo scegliere il Discorso della Montagna così come viene costruito, nei rispettivi “vangeli”, da Matteo e da Luca. So che può sembrare strano: il passaggio cruciale di quel Discorso evangelico non è forse costituito dalle “beatitudini”? E le “beatitudini” non sono forse l’esaltazione dell’infelicità? La “vulgata” catechetica lo sostiene da non so quanti secoli, ma gli esegeti insegnano esattamente l’opposto: Gesù di Nazareth proclama “beati” (cioè: “felici”) i poveri e gli oppressi non perché avranno il privilegio di restare tali sino alla morte e di essere ricompensati nell’altra vita, ma perché già da subito - e già da qui - comincia il ribaltamento della loro condizione. Che poi questo non sia avvenuto, o stia avvenendo in tempi troppo dilatati e in maniera troppo deludente, è un’altra faccenda (e coinvolge il fallimento storico del cristianesimo o, come titolava più drasticamente un libro di Sergio Quinzio, “La sconfitta di Dio”). Ebbene, perché questo brano evangelico può essere adottato come sintesi emblematica - sul tema della felicità - di tutta la tradizione ebraico-cristiana? Perché esso proclama che il segreto ultimo della felicità non è l’eros che aspira a perfezionarsi moralmente e ad appagre la propria sete di sapere, bensì l’agape: l’amore che cerca il bene dell’altro in quanto altro, senza contare su gratitudini e gratificazioni. Essere felici è possibile nella misura in cui non si insegue la propria felicità, ma ci si impegna nella storia a favore degli infelici - di chi è infelice come noi o più di noi.
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Da queste due lezioni che ci provengono dalla sapienza greca, da Atene, e dalla profezia biblica, da Gerusalemme (rimando, per approfondimenti maggiori, ma accessibili ad un vasto pubblico, il volumetto di Elio Rindone dal titolo “Ma è possibile essere felici? Interpretare il passato senza restarne prigionieri”, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005), penso che derivi per noi che viviamo nel XXI secolo un compito inedito: ipotizzare e sottoporre a sperimentazione una sintesi che - dopo aver destrutturato il ‘buon senso’ cattolico-borghese - inveri la saggezza greca e la testimonianza biblica. Che significa “destrutturare il ‘buon senso’ cattolico-borghese”? Significa dire no all’esaltazione della “carità” (che è negazione di aspetti basilari dell’eros e negazione di aspetti basilari dell’agape) e dire sì alla rivalutazione di questi aspetti positivi, rivoluzionari, sia dell’eros che dell’agape. Più concretamente, significa dire no all’accettazione del dolore (proprio e altrui) come dato indiscutibile e insuperabile e dire sì alla lotta (scientifica, tecnica e sociale) contro ogni forma di sofferenza fisica e psichica (vedi, solo per trarre un esempio dall’agenda politica attuale, le cure palliative e l’accanimento terapeutico); significa dire no all’ascetismo moralistico e dire sì ad una distribuzione più equa del diritto ai piaceri come possibili vie alla gioia (dunque contrastando la tendenza ad una divaricazione sempre più schizofrenica fra l’edonismo spudorato di pochi privilegiati e l’invidia, più o meno rassegnata, delle masse) ; significa dire no all’egoismo individualistico (che, al massimo, si estende al familismo tribale) e dire sì alla solidarietà planetaria e metodica.

venerdì 16 novembre 2007

LE VARIE FORME DI CONTROLLO DEL TERRITORIO


Repubblica – Palermo 16.11.07
Augusto Cavadi

E SE PROVASSIMO A RIBELLARCI AGLI ESTORSORI DEL POSTEGGIO?

Anche grazie alle sollecitazioni dei giovani di “Addiopizzo”, imprenditori e commercianti palermitani hanno lanciato in questi giorni “Futurolibero”, la prima associazione antiracket nella capitale della mafia. Un certo ottimismo - che sarebbe sciocco trasformare in euforia - è giustificato. Non si può stare in tensione tutta la vita: ogni tanto bisogna sapersi godere le boccate d’ossigeno. Tra un respiro di sollievo e l’altro, però, è lecito provare a rispondere a qualche interrogativo.

Il primo - e più rilevante - lo ha posto Tano Grasso verso la conclusione della manifestazione di sabato scorso al teatro Biondo: che cosa sta facendo di nuovo, e di meglio, il governo di centro-sinistra a favore di quanti si schierano in concreto contro i mafiosi? Forgione, in qualità di presidente della commissione parlamentare antimafia, è stato molto preciso nell’elencare le cose fatte e le cose da fare. Dai due sottosegretari presenti ci si aspettava risposte almeno altrettanto puntuali, ma invano. Si sono avute delle dotte disquisizioni di carattere generale che, nel contesto, sono risultate deludenti. Poiché si tratta di due persone preparate e dialetticamente attrezzate, si può ritenere che mancassero fatti documentabili da raccontare. L’attenzione verso queste tematiche, da parte del governo che rappresentano, sarà tale nei prossimi mesi da metterli in condizione di essere più dettagliati in un’occasione futura?
Un secondo interrogativo che circolava nel corso della mattinata nasceva dalla constatazione che tra le centinaia di cittadini accorsi non si individuasse “nessun rappresentante della chiesa cattolica”. Capisco il senso della domanda e sarebbe certo il caso che la chiesa di Palermo - come è stato auspicato anche da queste colonne in occasioni recenti - rendesse manifesto l’appoggio a quelle persone (cattoliche o no) che si stanno maggiormente esponendo nella resistenza contro l’oppressione mafiosa. Tuttavia è opportuno considerare che i preti più sensibili alle problematiche civili non godono - di solito - del dono dell’ubiquità e non ci si può aspettare di vederli presenziare ad ogni appuntamento pubblico (specie quando, come forse in questo caso, non sono stati esplicitamente invitati). Soprattutto è opportuno approfittare di queste assenze, più o meno casuali, per tentare di modificare una diffusa mentalità involontariamente clericale: perché non considerare rappresentanti della chiesa cattolica anche dei fedeli battezzati e praticanti? Di questi laici credenti, uomini e donne impegnati in organizzazioni cattoliche, ce n’erano in sala più d’uno: un piccolo segno, forse esiguo, ma che va valorizzato senza nostalgie per tonache svolazzanti e crocifissi penduli.
Terzo, ed ultimo, interrogativo: sarebbe strategico accompagnare la lotta di alcune fasce produttive contro il mega-pizzo degli estortori con una lotta, meno eroica ma più quotidiana, contro il micro-pizzo dei posteggiatori abusivi? Non mi riferisco - è chiaro - al ragazzo di colore che ti indica un posto libero, ti offre con un sorriso la scheda del parcheggio, ti saluta garbatamente anche se non ti trovi spiccioli in tasca. No, mi riferisco a quei posteggiatori che si armano di berretto d’ordinanza, fischietto al collo, blocchetto di tagliandi fantomatici e ti chiedono - con tono deciso - di versare l’obolo non appena hai chiuso la serratura dell’automobile. Ce ne sono dappertutto, ma soprattutto nelle adiacenze degli ospedali pubblici. E se, timidamente, proponi di saldare il ‘debito’ al tuo ritorno - magari dopo aver constatato che l’auto non è stata né rubata né scassinata - ti senti rispondere che il tuo angelo custode quella sera deve andar via prima. Inutile obiettare che allora dovresti pagare in anticipo una vigilanza…che non ci sarà. Forse, per alcuni bilanci familiari, due o tre euro al giorno (dunque sessanta o novanta euro al mese) sono trascurabili: ma, anche in questi casi (per altro sempre meno frequenti), cedere alle pressioni - in mancanza di un controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine - significa alimentare un espediente per far soldi parassitariamente (con la minaccia, non sempre tacita, di procurare danni) che, nel tempo, se incontrastato, si trasforma in costume e, infine, in mentalità. Abolire il mini-pizzo da marciapiede potrebbe costituire un modo per boicottare quella “industria della protezione” (che protegge i cittadini inermi dalle intimidazioni da essa stessa prodotte) di cui il mega-pizzo è il profitto più cospicuo.

venerdì 9 novembre 2007

SIAMO VERAMENTE SUPERIORI?


“Centonove” 9.11.07
Augusto Cavadi

UN SICILIANO IN COLOMBIA

I numerosi addetti che hanno controllato, ai quattro scali del viaggio, il mio biglietto aereo da Palermo a Medellin, si sono equamente distribuiti in due sottogruppi: i diffidenti e i divertiti. Come mi ha spiegato, all’arrivo, il collega dell’università da cui ero stato invitato, non capita tutti i giorni che un palermitano attraversi l’oceano alla volta della Colombia per un convegno di didattica della filosofia. Pare che la ragione più frequentemente abbia un diverso carattere - per così dire - speculativo.

Confesso che - istruito solo da alcune fonti più o meno ufficiali pescate da internet - ero sbarcato con l’atteggiamento sottilmente paternalistico di chi pensa che, per quanto male si possa stare in Sicilia, comunque si è sempre europei che visitano una parte del mondo in via di sviluppo. Ma presto mi sono dovuto ricredere. Certo, né a Medellin né a Bogotà, si può notare quell’ostentazione di benessere che nelle strade principali di Palermo o di Trapani nasconde molto bene la povertà - non solo materiale - di vaste zone sia del centro storico che delle periferie di recente urbanizzazione. Insomma, fosse questione di vetrine o di jeans firmati o di fuoristrada (?!) nel cuore del traffico cittadino, il siciliano in Colombia potrebbe benissimo mantenere il più o meno celato senso di superiorità. Non così se si parla con la gente, si partecipa ai seminari di studio, si visitano le biblioteche pubbliche: c’è un fervore di idee, una sete di confronto, come dalle nostre parti - forse un po’ in tutto l’Occidente industrializzato - è sempre più raro registrare.
Tre esempi per tutti. Gli insegnanti - dei vari gradi d’istruzione scolastica - si interrogano con molta serietà sulla dimensione politica della loro attività professionale. Nei momenti conviviali o di relax davanti all’immancabile cerveza si appassionano alle discussioni sugli aumenti salariali, ma non sbadigliano distrattamente quando si tratta di interrogarsi sul rischio di appiattire la vita scolastica sulla mentalità, i desideri e i linguaggi del consumismo sociale dominante: astutamente sostenuti dalla convinzione che c’è, per quanto sotterraneo, un nesso fra sistema capitalistico sfrenato e sottovalutazione della funzione intellettuale.
All’università di Bogotà sono attivi dei corsi specificamente predisposti per alunni sordomuti, con traduzione simultanea delle lezioni nel linguaggio dei segni.
Le biblioteche pubbliche, poi, non hanno nulla della severa, tetra clausura delle nostre, quasi templi da riservare ai fedeli più motivati. Sembrano davvero tese ad autopromuoversi per promuovere cultura nel territorio: spazi luminosi e colorati, pareti di vetro in modo da ridurre al minimo - proprio fisicamente - la separazione fra chi passa per strada e chi è dentro a consultare un libro o un periodico. E, per attrarre l’interesse dei passanti, vistosi gonfaloni impermeabili sfidano venti e piogge per ricordare che “un popolo che non legge si condanna all’oscurità” o che “la lettura può liberarci dallo sconforto verso il genere umano e ricordarci che siamo capaci di realizzare cose magiche”.
Non si può supporre che questa atmosfera effervescente sia dovuta, come nei Paesi scandinavi, al fatto che siano stati definitivamente appagati i bisogni materiali elementari. Da espressioni raccolte in momenti differenti e da persone differenti, ho recepito un senso pacato ma profondo della propria dignità di popolo: con radici, mi pare, che potrebbero benissimo risalire a ben prima dell’invasione coloniale europea. Per questo, a poche ore dalla partenza, una considerazione captata per caso non mi è risuonata - come sarebbe stato all’inizio del viaggio - paradossale. Di fronte ad un intoppo burocratico fastidiosissimo, una signora colombiana - del tutto ignara della mia nazionalità e rivolta polemicamente al funzionario - osservava a voce alta e indispettita: “Se procediamo di questo passo, arriveremo ai livelli dell’Italia”. Scherzi della globalizzazione: ormai le banane si producono in molte repubbliche.

martedì 6 novembre 2007

LA NASCITA DEL PARTITO DEMOCRATICO


Repubblica – Palermo 6.11.07
Augusto Cavadi

MISSIONE DEL PD SICILIANO: FORMARE DI PIU’ I CITTADINI

Il Partito democratico è partito con un passo più allegro del previsto. Le riserve avanzate sulla sua natura e sulle modalità della sua genesi appartengono al passato: sarebbe mero disfattismo qualunquistico continuare a brandirle come una clava, ma imperdonabile superficialità non tenerne conto quali indicazioni prospettiche e costruttive.
In primo luogo va chiarita la necessità di un funzionamento effettivamente democratico del nuovo partito. Sappiamo come è andata a finire sino ad ora nelle vecchie organizzazioni: formalmente è la base ad eleggere i dirigenti locali e sono questi ad eleggere i dirigenti regionali e nazionali; sostanzialmente sono i dirigenti di rango superiore a nominare dall’alto i dirigenti locali distribuiti sul territorio a titolo di luogotenenti cooptati in virtù della loro provata fedeltà.

Per le primarie si sono portate varie e, credo, solo parzialmente convincenti ragioni per spiegare come mai più che di elezioni si dovesse trattare di una specie di referendum confermativo delle decisioni romane: ma, chiuso il periodo costitutivo, sarà il momento di praticare all’interno del PD quella democrazia partecipativa che - a parole - si auspica all’esterno? Se questa innovazione non dovesse realizzarsi, il PD si distinguerebbe dalla Casa delle libertà solo per un particolare: la minore coerenza rispetto a quelle formazioni di destra che si basano sul leaderismo e hanno, almeno, il pudore di non autodefinirsi eredi di tradizioni democratiche come il socialismo, il cattolicesimo popolare e il liberalismo progressista. A giudizio di un gruppo di partecipanti alla prima assise nazionale di Roma ancora non ci siamo. In una lettera aperta a Walter Veltroni contestano che la votazione finale si sia svolta “a sorpresa, su un documento letto in fretta, mai discusso in precedenza e senza alcuna possibilità di discuterlo”, 
”senza alcuna garanzia di democrazia (nessuna verifica dei votanti, dei favorevoli e dei contrari)”.
Contestano, inoltre, “una nomina delle commissioni per quote di liste contraddicendo le dichiarazioni che non ci sarebbero state correnti”; “la votazione per un vicesegretario non prevista in alcuna norma del Regolamento e presentata con una palese forzatura dello stesso regolamento”; 
”la decisione di far eleggere i Coordinatori provinciali (da nessuna parte si dice provvisori) dagli eletti nelle Assemblee Costituenti regionali e nazionali con uno straordinario percorso di autoleggittimazione dall’alto verso il basso”; “la decisione di costituire il partito democratico nei territori, secondo le modalità decise congiuntamente dal Segretario Nazionale e dai Segretari Regionali, con un metodo che definire verticistico è un eufemismo”. Tra pochissimi giorni avremo, in Sicilia come nel resto del Paese, la prima assemblea regionale: assisteremo a procedure altrettanto disinvolte, con forzature interpretative e adattamenti fantasiosi?
In secondo luogo va chiarita la necessità di un radicamento culturale della nuova aggregazione politica. Con entusiasmo un po’ infantile, si è ripetuto da più parti (soprattutto da chi ha creduto dogmaticamente ad alcuni sistemi ideologici del XIX - XX secolo) che il PD nasce come partito “post-ideologico”: ma questo significa che va oltre le ideologie del Novecento o che navigherà a vista, pragmatisticamente, senza idee orientative? Non si tratta ovviamente di ricostruire le vecchie “scuole di partito” che avevano il pregio di fornire criteri interpretativi ma con le modalità dell’indottrinamento catechistico: si tratta piuttosto di programmare, con convinzione e serietà, dei luoghi di alfabetizzazione politica in cui a tutti i cittadini (dunque non solo a iscritti e simpatizzanti del PD) venga offerta la possibilità di un’istruzione - semplice, chiara e per quanto possibile obiettiva - sui principali meccanismi istituzionali e sulle principali proposte alternative riguardanti la politica internazionale, i sistemi economici, la sanità, la scuola, i diritti civili. In questo campo Palermo, insieme a Milano, può vantarsi di aver avviato i primi spazi in cui si è provato ad offrire, in maniera pressoché gratuita, un’offerta di formazione civica a cittadini di varie età e di vari orientamenti personali: ai nuovi organismi direttivi del PD decidere se valorizzare questo patrimonio (accentuandone, dove il caso, laicità e pluralismo) o fare del post-modernismo l’alibi di una politica senza idee e senza valori.
In terzo luogo - abbastanza conseguentemente - va chiarita la necessità di una organicità programmatica. Che all’interno di una aggregazione partitica pluralistica ci sia un dibattito continuo, spregiudicato, autentico non può scandalizzare se non chi è abituato a ricevere “la linea” dalla dirigenza centrale o dal padrone del vapore. Ma questo dibattito, a trecentosessanta gradi, non può ignorare alcuni punti fermi. Non avere un’identità rigida, sclerotizzata, non significa essere privi di dna. E’ troppo facile bollare come “antipolitica” ogni richiesta, più o meno rumorosa, di moralità elementare e di legalità minima. Dalle nostre parti questo significherà non solo vigilare attentamente sulla pregiudiziale antimafiosa nel reclutamento interno e nella stipulazione delle alleanze esterne, ma anche lavorare affinché il PD nazionale assuma la lotta alla mafia con una determinazione di cui, sinora, non si è notato alcuna traccia di rilievo. Una cosa, infatti, è attendere il giudizio della magistratura prima di condannare questo o quell’esponente partitico (attendere il giudizio di primo grado, senza necessariamente differire il proprio al termine di una scalata quasi infinita…) e tutta un’altra cosa è denunziare con forza la responsabilità oggettiva di quei politici che nella mentalità, nel modo di esprimersi e soprattutto nel modo di agire, mostrano di saper convivere troppo bene con i mafiosi e con i loro complici. Deve essere chiaro che nessuna dote elettorale più o meno limpida può trasformare un politico di questa risma in un alleato tatticamente utile per spostare le maggioranze. O, per lo meno, chi non è d’accordo su questo criterio dovrebbe mostrare un minimo di decenza e spiegare pubblicamente perché, a suo parere, il PD in Sicilia potrebbe ospitare nel suo mini-pantheon - senza contraddirsi - anche il totem andreottiano .

venerdì 2 novembre 2007

IL CONVEGNO


Centonove 2.11.07
Augusto Cavadi

FILOSOFIA MEDIEVALE, E POI?

All’inizio dell’autunno Palermo ha ospitato il XII congresso mondiale di filosofia medievale. A prima vista, un tipico esempio di evento del tutto esterno ed estraneo alla vita della città. Ma è andata proprio così? E, in ogni caso, cosa resta da fare adesso perché si raccolgano i frutti dell’imponente iniziativa?
Non mi riferisco, prioritariamente, all’aspetto turistico-sociale (anche se non mi pare irrilevante che centinaia di professori e ricercatori provenienti dai cinque continenti abbiano avuto modo di conoscere da vicino Palermo, al di là degli stereotipi, nei suoi vizi effettivi come nei suoi non piccoli pregi), ma proprio al significato culturale dell’assise: alle sue potenzialità di crescita intellettuale e civile.

Il cittadino medio non ha avuto né il tempo né la pazienza per seguire decine di relazioni e dibattiti, spesso in lingue diverse dall’italiano, per giunta su argomenti per lo più tecnici. Le analisi accurate sul contesto storico in cui è vissuto il pensatore islamico del dodicesimo secolo Ibn Tufayl’s Havy ibn Yaqzan (chi era costui?) o sul trattato De amore di Andrea Cappellano (chi era quest’altro?) avranno appassionato i tre o quattro competenti della materia, non certo l’opinione pubblica alle prese con interrogativi ben più concreti e immediati. Ma il convegno ha dimostrato che la filosofia non è essenzialmente ricostruzione filologica e storica di testi, bensì interrogazione radicale sull’enigma della vita individuale e universale: perciò i diversi intellettuali, soprattutto insegnanti, siciliani che hanno partecipato - in tutto o in parte - al convegno potranno ‘tradurre’ per un pubblico più ampio - a cominciare dagli studenti universitari e liceali delle città di provenienza- alcune acquisizioni emerse dall’imponente nella settimana di studio.
Un dato incoraggiante è che alcuni interventi hanno provato ad osare uno sguardo ben oltre le dispute specialistiche (per altro, al loro livello, ineludibili) sull’interpretazione di un’opera minore del XIV secolo o addirittura di un singolo termine latino in essa ricorrente. Mi riferisco, pescando quasi casualmente tra le fitte pagine del programma, alla relazione di José Luis Cantòn Alonso sull’uomo come “luogo” in cui si manifesta l’universalità; o alla riproposizione, da parte di Giuseppe Allegro, della questione sull’onnipotenza di Dio; o alla focalizzazione, proposta da Mariana Paolozzi, del rapporto fra ragione e fede in funzione della ricerca della felicità. Come si sviluppano le idee? è la questione, non certo superata, cui ha provato a rispondere Mikko Yrjonsuuri, mentre Maria Lucilla Vassallo ha indagato, in un’ottica interculturale, Il femminile nelle filosofie tantriche shiva. Ma gli interventi dai titoli intriganti non hanno di certo scarseggiato: per esempio di Olli Hallamaa sull’eredità delle dispute teologiche nell’attuale ricerca sui calcolatori elettronici o di Aurélien Robert sull’atomismo nel Medioevo o di Gabriela Kurylewicz sulla musica come sintesi tra vita attiva e vita contemplativa. Altri contributi - quali Contro la teologia: una rivoluzione alla Kuhn di Howard Wettstein o Disordini mentali e ragione nel tardo Medioevo di Vesa Hirvonen o Padrona di casa, moglie, madre di Pavel Blazek o Implicazioni filosofiche di alcune opere sull’omosessualità di Carlo Chiurco o Persecuzione e soppressione fisica degli eretici nella tradizione teologica latina di Luciano Cova o La repressione dell’eresia nel pensiero scolastico di Guglielmo Russino - si sono configurati davvero provocatori. Anche perché - come nel caso della trattazione sull’universalità della ragione nel pensiero islamico da parte di Giuseppe Roccaro (in quanto docente palermitano ha esercitato, con la consueta signorile affabilità, gli ‘onori di casa’) - hanno sollecitato gli stessi musulmani a riscoprire dimensioni di laicità e di apertura di cui, nel Medioevo, sono stati esemplari esponenti.
Che questo congresso si sia svolto nel capoluogo della Sicilia presenta un significato storico e attuale da non trascurare: il Medioevo è stato per la nostra isola un’epoca di particolare splendore (ovviamente in relazione ai limiti di quel tempo). Nel basso Medioevo, infatti, i normanni e il loro ultimo erede, Federico II di Svevia, seppero creare un clima di accoglienza e di interazione fra culture ed etnie disparate: non solo gli indigeni siciliani con i normanni provenienti dalla Francia, ma anche ebrei, arabi, bizantini, latini, tedeschi poterono convivere nelle stesse città e cooperare, lasciando fra l’altro monumenti di insuperata bellezza come le cattedrali di Palermo, Monreale e Cefalù. Ognuno poté esprimersi nella propria lingua, senza la minaccia dell’omologazione forzata: l’integrazione avvenne (sino al 1492, quando il fondamentalismo cattolico di Isabella di Castiglia decretò l’espulsione di ebrei e musulmani) in nome del pluralismo e del rispetto delle minoranze. Che non ci sia qualche lezione che meriterebbe, oggi, di essere recuperata e valorizzata?