martedì 31 dicembre 2013

Un papa marxista secondo Elio Rindone

Rilancio dal mio blog un articolo di Elio già ospitato da www.italialaica.it
 E' il mio modo di augurarvi un 2014 meno brutto del 2013: purché non dimentichiamo che "la storia siamo noi" (Francesco De Gregori).
A.
 
SCANDALO IN VATICANO: UN PAPA COMUNISTA!
di Elio Rindone
 
“Tutto mi sarei aspettato, fuorché un papa liberale” pare che abbia esclamato il principe di Metternich quando gli giunse la notizia dell’elezione di Pio IX. E in effetti gli atti compiuti dal nuovo papa tra il 1846 e il 1847 furono tali da sconcertare le cancellerie europee e suscitare l’entusiasmo persino di uomini come Mazzini e Garibaldi, tutt’altro che ben disposti nei confronti del papato.
Così, oggi, un vero e proprio panico hanno provocato nelle stanze del potere politico ed ecclesiastico i gesti e le parole di papa Francesco, che riscuote invece la più ampia fiducia dell’opinione pubblica, anche al di fuori della cerchia dei fedeli.
In particolare, l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ha suscitato le ire degli ambienti finanziari che detengono oggi il vero potere, tanto che un influente commentatore radiofonico americano, facendosi interprete di tali risentimenti, ha bollato come ‘marxista’ il vescovo di Roma.
In effetti, in quel documento il papa accusa l’attuale sistema economico di negare la dignità dell’uomo, dichiarando senza mezzi termini: “Questa economia uccide” (n. 53). E della società attuale offre una descrizione impietosa che non può essere facilmente smentita: “grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare” (n. 53).
Per il papa, l’impoverimento di buona parte della popolazione mondiale non è un caso. Esso dipende dall’avidità, che non conosce limiti, delle classi dirigenti, che sono riuscite a imporre la “dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano” (n. 55) la quale, estranea a ogni prospettiva morale e religiosa, produce “una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali” (n. 56).
E Bergoglio non rinuncia a sferrare un vero e proprio attacco alla teoria, veramente peregrina ma indiscussa da decenni, secondo la quale, se i ricchi diventano più ricchi anche grazie a sostanziose riduzioni delle tasse, i poveri ne hanno un beneficio: “alcuni ancora difendono le teorie della ‘ricaduta favorevole’, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante” (n. 54).
Un papa che chiama ‘grossolana e ingenua’ la fiducia nella bontà dei detentori del potere, e che per di più dichiara che i fatti smentiscono i guru dell’economia, merita senza dubbio l’accusa di marxismo e sarebbe lecito aspettarsi una qualche ritrattazione! A chi lo accusa Bergoglio risponde, invece, che certo l'ideologia marxista è sbagliata, ma che ha conosciuto tanti marxisti buoni come persone, per cui non si sente per nulla offeso, e, per quanto riguarda la risibile teoria per cui il benessere dovrebbe sgocciolare verso il basso come da un bicchiere stracolmo, osserva con ironia che in realtà: “C'era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s'ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri” (intervista a La Stampa, 15/12/2013).
Del resto, Bergoglio ha buon gioco nel dimostrare che le sue affermazioni non sono ispirate da Marx ma appartengono alla dottrina tradizionale, che già dai tempi dei Padri della Chiesa sostiene che il possesso privato dei beni si giustifica solo “per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune” (n.189). E che anzi la Evangelii gaudium, che ha le caratteristiche di un discorso programmatico che traccia le linee-guida di un pontificato particolarmente sollecito nei confronti dei poveri, non è che la riproposizione del discorso programmatico che Luca attribuisce a Gesù, il quale si dice inviato “per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (4, 18-19).
Il cuore del vangelo, chiarisce a ragione il papa, non è la promessa di una salvezza esclusivamente individuale o puramente spirituale ma l’annuncio che “è vicino il regno di Dio” (Marco 1, 15). E se Dio regna, nella società non ci può essere posto per l’ingiustizia e la sopraffazione: “Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali” (n. 180).
Ovvio, a questo punto, che un papa che ispira la sua azione al vangelo sia una novità sconvolgente per le gerarchie ecclesiastiche: contesta col suo esempio il loro stile di vita che, per usare un eufemismo, è decisamente poco sobrio, mette in pericolo carriere che sembravano inossidabili, si propone di imporre regole di trasparenza nelle attività finanziarie della Santa Sede… Come non rimpiangere i tempi in cui si coprivano gli scandali con la quotidiana difesa dei principi non negoziabili?
E non meno preoccupati sono i laici cattolici che possiedono grandi ricchezze: davvero dovrebbero smettere di accumulare denaro, evadere il fisco e usare per i loro affari l’arma infallibile della corruzione? Se si continua di questo passo, si finirà col tenere lontani dall’eucaristia non solo i divorziati risposati ma anche i responsabili della fame di milioni di esseri umani, e ciò sarebbe veramente intollerabile!
Ma un vero e proprio terrore si è impadronito dei nostri politici, accomunati, senza distinzione tra ex socialisti, ex comunisti o ex democristiani, dall’attaccamento alle poltrone e dalla sudditanza al grande capitale finanziario: tutto potevano aspettarsi, fuorché un papa comunista! Hanno faticato tanto per convincere gli elettori che il crescente divario tra ricchi e poveri è una fatalità, che loro combattono con determinazione la corruzione e l’evasione fiscale anche se non ottengono alcun risultato, che allo smantellamento dello stato sociale sono costretti dai burocrati europei, che i condoni e i regali alle banche sono necessari per salvare l’euro… e a sorpresa arriva un papa che grida che il re è nudo e che non bisogna credere ingenuamente alla ‘bontà di coloro che detengono il potere economico’!?
Ora cosa succederà? Non è difficile prevedere che, come nell’Ottocento le forze conservatrici si unirono per indurre Pio IX a quella retromarcia che ne fece un ultra-reazionario, così anche oggi i poteri politici, economici e clericali faranno di tutto per rallentare, ostacolare e alla fine vanificare l’azione riformatrice di papa Francesco. Ma è ugualmente certo che Bergoglio, se sarà sostenuto dall’opinione pubblica e riuscirà, pur con gli inevitabili compromessi, a tener duro, potrà non solo arginare la crisi del cattolicesimo ma anche contribuire alla creazione di una società più umana.
 
www.italialaica.it 22.12.2013

venerdì 27 dicembre 2013

Conversazione con Stijn Vloeberghs


Stijn Vloeberghs


TESI DI LAUREA in Master in tourism

intitolata

Anti-mafia tours of Addiopizzo Travel in Sicily: Dark Tourism - Memory Market

Belgio, settembre 2013
(Lingua olandese)

Interview met Augusto Cavadi
(autore de La mafia spiegata ai turisti e de I siciliani spiegati ai turisti).


S: Qual è il suo ruolo nel movimento anti-mafia?
A: Come saprai, non ci sono dei ruoli ufficiali, istituzionali. Di fatto io mi sono ritagliato un ruolo di coscienza critica: nel senso che fin da quando, una trentina di anni fa, mi sono avvicinato in maniera più diretta al movimento anti-mafia, ho visto una sproporzione fra la passione emotiva, sentimentale, e la consapevolezza critica. Allora ho pensato che - viste le mie attitudini e il mio mestiere di professore - la cosa migliore fosse dedicarmi a ‘accorciare’ questo gap tra il sentimento e la ragione; e quindi fornire al movimento anti-mafia delle occasioni di informazione, di studio, di analisi, di progettazione. In quest’ottica mi sono sia iscritto al Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, nel cui ambito ho lavorato fino a 5 anni fa; poi nel 1992 ho fondato insieme ad altri amici la Scuola di formazione etico-pollitica “Giovanni Falcone”. Questi sono stati i due spazi, i due strumenti, di cui mi sono servito. Da 5 anni, per vari ragioni, ho preferito fare un passo indietro, rispetto al Centro “Impastato”, mentre continuo a lavorare come presidente dell’Associazione di volontariato culturale che è appunto la Scuola di formazione etico-politica “Falcone”.

S: Di che si occupa questa associazione?
A: Noi lavoriamo per progetti: se c’è una scuola pubblica o un centro sociale, una parrocchia o un sindacato, che ci chiede un momento di formazione dal punto di vista etico-politico, e quindi anche poi anti-mafia, noi ci mettiamo a disposizione. Per noi l’anti-mafia non può essere solamente ‘anti’: deve essere inserita in una proposta ‘per’: la proposta è di dare una coscienza etico-politica, all’interno della quale poi - come corollario, spesso inevitabile - uno non può accettare la mafia. E quindi, quando una di queste associazioni ci invita, noi programmiamo l’intervento: può essere una sera, possono essere tre giornate, possono essere incontri settimanali per due mesi…Anche gli argomenti li concordiamo: in genere si tratta di tematiche che hanno a che fare con la questione meridionale, la disoccupazione, le ideologie politiche del ventesimo secolo, il problema del consenso e del dissenso, la storia della mafia, la storia dell’anti-mafia. In genere, gli argomenti che noi offriamo sono questi, però ogni volta li calibriamo, li ri-orientriamo, secondo le esigenze della comunità che ci invita. faccio un esempio: andrò nel mese di aprile a parlare ai ragazzini della scuola media di Amandola che è un paesino delle Marche ed è chiaro che l’intervento sarà diverso rispetto a quando vado a parlare con i sindacalisti, i muratori, i falegnami di Torino. Insomma: cerchiamo di orientare l’intervento.

S: Qual è il suo rapporto con organizzazioni come “AddioPizzo” e “Libera”?
A: Sono iscritto a “Libera” e sono amico di “AddioPizzo” perché alcuni dei fondatori di “AddioPizzo” erano stati alunni della scuola in cui insegnavo molti anni fa o comunque avevano letto il mio libretto del 1992 (un libretto ripubblicato più volte, in migliaia di copie, che si chiama Liberarsi dal dominio mafioso, con sottotitolo Ciò che può fare ciascuno di noi qui e subito). Là avevo ipotizzato che anche sul piano economico si facesse un’opera sia di boicottaggio dell’economia illegale sia di promozione dell’economia legale. Quindi alcuni di questi ragazzi, poi diventati adulti, che hanno fondato “AddioPizzo”, una volta mi hanno detto: tu sei un po’ il nostro papà o il nostro zio, il nostro nonno forse… Tutte le volte che mi chiedono di incontrare delle comitive di studenti, o di operatori sociali o di preti, dò sempre la mia disponibilità.

S: E con “Libera”?
A: Si, con “Libera” mi comporto alla stessa maniera.

S: Fermiamoci un po’ su La mafia spiegata ai turisti: perché l’hai scritto, con quale scopo?
A: Lo scopo è quello che dichiaro nella Prefazione: annoiato di sentirmi rivolgere sempre le stesse domande sulla mafia (anche perché, per rispondere a queste domande di base, va via la prima ora dell’incontro e, in genere, dopo un’ora d’attenzione ci si stanca), ho pensato di fornire questo strumento e di incontrare soltanto quei gruppi che sono disposti a masticare e digerire prima questo ‘antipasto’; poi, sulla base di questo testo - dato per per letto - , possiamo poi approfondire e discutere. Altrimenti diventa noioso per me e, credo, anche poco utile per chi voglia andare al di là dei luoghi comuni. In sintesi: una alfabetizzazzione di base, per turisti ma anche per siciliani ignari, è ciò che volevo dare con questo libretto.

S: È stato difficile sintetizzare la trattazione della mafia - qualcosa di complesso - in poco più di 30 pagine?
A: No, non mi è stato difficile, perché come mestiere sono insegnante e ho anche la passione del giornalismo: sia come insegnante che come giornalista tendo alla sintesi, è qualcosa che opero prima di tutto per me e poi conseguentemente per gli altri. Mi spiego: quando ho studiato un problema, e vi ho riflettuto, anche se sono solo, ho bisogno di dirmi quali siano i nuclei essenziali. Perciò è un libretto che ho scritto in un’oretta di tempo. Certamente presupponeva venti anni di studi analitici precedenti. E, come capita spesso nella vita, libri che mi avevano impegnato per anni, sono stati letti forse da pochi specialisti; questo, invece, ha avuto – per tutta una serie di coincidenze fortunate – un successo internazionale. La decisione dell’editore italiano di farlo tradurre in tante lingue, per venderlo ai turisti stranieri in Italia, ha portato anche il “New York Times”, la BBC e le televisioni di mezz’Europa a chiedermi interviste. È stato un successo assolutamente sproporzionato (ride).

S: Adesso è sopratutto per stranieri ma all’inizio l’intenzione era solo di informare gli italiani?
A: No, è stato destinato subito a tutti i turisti turisti. E quando pensavo ai turisti, pensavo ai turisti italiani e ai turisti stranieri. È chiaro che quando l’ho cominciato a presentare in Italia, di solito l’ho presentato nella versione italiana, ma la versione inglese e francese sono venute poco dopo. Qualche collega che insegna nelle scuole mi ha fatto notare: “Ma forse i primi turisti sono i nostri studenti perché non è detto che, se si è nati in Italia o in Sicilia, si sappiano queste cose.” Magari da bambino ho sempre sentire parlare della mafia, ma in termini molto più simile di scenegiati televisivi, e non sulla base di analisi storiche, sociali, politiche corretta.

S: Sulla seconda pagina hai scritto che gli italiani e i siciliani hanno ancora più pregiudizi in paragone con gli stranieri: come va inteso?
A: Allora, ci sono due tipi di ignoranza, no? L’ignoranza di chi sa di essere ignorante per cui, tu che vieni dal Belgio, mi chiedi: “Augusto, spiegami qualcosa della mafia perché dalle mie parti non c’è”. Questa è l’ignoranza positiva. Poi c’è l’ignoranza di chi da bambino ha sentito parlare della mafia, in termini cosi sicuri e cosi dogmatici, da non avere nessuna curiosità. E’ questo genere di ignoranza che si nutre di tutta una serie di luoghi comuni, di stereotipi : “Prima la mafia era buona, poi è diventata cattiva”; “la mafia non ha mai ammazzato i bambini, non ha mai ammazzato donne, non ha mai ammazzato preti prima di don Puglisi nel 1993. …”. Quando queste scempiaggini te le senti ripetere fin da bambino, te ne fai una convinzione cosi profonda, che quella ignoranza diventa presuntuosa, inattaccabile. L'ho constatato anche sulla mia pelle. Non è stato facile, quando ho conosciuto già trentenne il Centro studi “Impastato” , dire a me stesso: “Tu sei uno che è che nato a Palermo; che si è laureato a Palermo in filosofia; che insegna filosofia, storia, educazione civica a Palermo da tanti anni… eppure non sai veramente che cos’è la mafia.” Ammetterlo è stato un atto di grande onestà intellettuale.
È vero che in giro non c’è nolta consapevolezza di questa ignoranza. Quando proponi un corso di aggiornamento, molti professori qualificati e molti dirigenti scolastici pur preparati in altri settori, ti obiettano: “No, basta: ormai, sulla mafia sappiamo tutto; ne abbiamo sentito parlare troppe volte.” Poi se vai a verificare, a sondare, vedi che tutta questa conoscenza non c’è: alla fine il siciliano medio sa sulla mafia quello che sa il milanese medio, perché la fonte per tutti e due sono stati romanzi come Il Padrino e sceneggiati televisivi come La Piovra. Che l’uno abiti a Palermo e l’altro a Milano non comporta conseguenze differenti perché il cittadino di Palermo non ha letto una sola pagina un po’ più scientifica rispetto al coetaneo di Milano.

S. Allora attribuisci la responsabilità dei pregiudizi sulla mafia a certi romanzi e a certi film?
A: No, non soltanto. C’è tutta una letteratura etnologica - fiabe, racconti, proverbi, rappressentazioni teatrali - che, sin dall’Ottocento, ha dato alla mafia una visione romanzata, avventurosa, mitica. Come sappiamo, anche nei casi in cui l’eroe viene rappresentato in maniera negativa, è comunque il protagonista: incosciamente è proprio su di lui che si concentra la simpatia, o almeno la solidarietà, dello spettatore. Se poi lo spettatore è una persona totalmente ignorante o un bambino, questo processo di identificazione con Toto Riina, o Salvatore Giuliano, è un meccanismo quasi inevitabile. L’abbiamo visto qualche anno fa quando in televisione è stata trasmessa una fiction a puntate, Il capo dei capi, tutta dedicata a Totò Riina. Nelle scuole elementari i bambini, il giorno dopo, scherzavano sulla fiction, ma l’identificazione più frequente era avvenuta con Totò Riina, di certo non con il capitano dei carabinieri che l’aveva contrastato.
Prima di andare avanti, voglio fare una precisazione. Ti ho detto poco fa che i pregiudizi dei siciliani sulla mafia sono più difficili da smontare rispetto ai pregiudizi degli stranieri. In genere è così perché i pregiudizi dei siciliani sono di soggetti sicuri di sé, mentre il milanese o lo svedese possono avere un’immagine sbagliata, ma sono più disposti a correggersi. Ora vorrei aggiungere che questo fenomeno non toglie che ci possono essere siciliani disposti a mettersi in crisi (ti ho ricordato pocoi fa il mio stesso caso autobiografico) così come, all’opposto, ci sono degli stranieri che vengono con in testa già una teoria e cercano soltanto conferme. Quando Leoluca Orlando era sindaco di Palermo per la prima volta, un giornalista dell’Europa del Nord si è presentato a lui per intervistarlo sulla mafia con un giubbotto antiproiettile. Orlando l’ha mandato, giustamente, al diavolo perché è chiaro che dall’intero servizio televisivo allo spettatore medio sarebbe rimasta impressa solo un’idea: che a Palermo non puoi camminare e fare il giornalista se non hai il giubbotto antiproiettile. E questo è profondamento falso. E chiaro, per tornare al tema del mio libretto, che, se uno viene col giubbotto antiproiettile, sarà difficille spiegargli che il turista in Sicilia è la persona più al sicuro: la mafia ha bisogno del turista per guadagnare, per far funzionare alberghi e ristoranti. A darle disturbo sono il giornalista siciliano o il magistrato siciliano che non accettino la mafia, non certo il giornalista che viene della Svezia o il turista che viene dagli Stati Uniti.

S: Quindi ci sono film, diciamo, negativi, ma…
A: …girano anche film positivi.

S: Questo voglio chiedere, perché ti riferisci per esempio a I cento passi che ha avuto molto successo sopratutto in Italia. Quindi i film possono anche cambiare in meglio l’immagine della mafia e della Sicilia in generale?
A: Sì sì. I film, ma in generale direi l’arte. Mi sono concentrato sui film perché sono la forma d’arte più popolare: soprattutto per uno straniero è più facile che abbia visto un film nella sua lingua che non abbia letto la traduzione dall’italiano di un romanzo o di una poesia. Però in generale è chiaro che l’arte ha questa grande capacità di comunicare: se le idee di cui l’artista si fa portatore sono sbagliate, l’arte può fare molto male; se sono giuste può fare molto bene (intendo più di un libro di saggistica, di storia o di sociologia, che viene comunque letto da pochi interessati).

S: Nel tuo libretto hai distinto quattro tipi di film: quale tipo di film può essere utile nel senso di mostrare la realtà autentica della mafia?
A: Secondo me, se si escludono i film apologetici, come Il Padrino di Coppola, negli altri tre generi (quelli atipici, quelli storici e quelli che hanno una fonte letteraria) si possono trovare film buoni o meno buoni. Tra quelli atipici, ad esempio, includo i film ironici: ed è ovvio che ci può essere un humour un po’ stupido, ma anche un’ironia genialmente efficace come in Johnny Stecchino di Roberto Benigni. Stessa differenza all’interno dei film di impianto storico: alcuni sono spaventosamente noiosi, altri come Il giudice ragazzino sono davvero riusciti. Anche i film che vengono dalla letteratura talora tradiscono bei romanzi, talaltra li traducono in maniera pregevole. In conclusione direi che tutti i tipi di film possono aiutare più o meno a capire la mafia tranne quelli anche involontariamente apologetici (perché dovrebbe essere chiaro che il termine si riferisce non tanto all’intenzione ‘soggettiva’ del regista quanto al risultato ‘oggettivo’, preterintenzionale).

S: Perché hai deciso di aggiungere un allegato su Peppino Impastato?
A: Nella storia della lotta alla mafia tutte le vittime hanno, indubbiamente, la medesima dignità. Altrettanto indubbiamente ci sono state delle vite più significative, più eloquenti, e delle vite simbolicamente meno clamorose . Se io muoio facendo la scorta di un magistrato è, come dire, un po’ nell’ordine delle cose; se, come nel caso di Peppino Impastato, sono figlio di una famiglia mafiosa - e ho cercato di fare antimafia con la cultura, con la politica, con la mobilitazione sociale dei miei coetani - , le mie scelte danno alla mia figura un profilo altamente simbolico. Quindi, non potendo evocare le centinaia di vittime che sono debitamente ricordate in altri libri curati proprio dal Centro “Impastato”, ne ho scelto una.

S. Un altro allegato è dedicato proprio al Centro siciliano di documentazione “G. Impastato”.
A. Anche se non faccio più parte del Centro “Impastato”, è rimasta una grande gratitudine per quello che ha significato nella mia vita e per quello che continua oggetivamente a operare. Quindi là c’è una miniera di testi e di documenti. Se c’è un viaggiatore che dice: “Io voglio studiare di più il fenomeno mafioso e la storia dell’antimafia.”, la prima indicazione che gli do è di recarsi al il Centro “Impastato” o per lo meno di visitarne il sito in internet.

S. Un altro allegato ancora elenca altre associazioni che a Palermo sono impegnate a fare l’anti-mafia…
A. Sì, da “Libera” a “AddioPizzo” a molte altre, in modo di dare l’idea che non c’è solo il Centro “Impastato”. Più in generale: che a Palermo non c’è solo la mafia, ma anche un’anti-mafia attiva.

S. Cosa hai imparato dalla prima edizione del libretto?
Ho cercato di far tesoro di alcuni suggerimenti. Per esempio la traduttrice russa mi ha suggerito di allargare la prospettiva e di scrivere un secondo testo (che poi è effettivamente uscito col medesimo editore Di Girolamo): I siciliani spiegati ai turisti (i siciliani, non solo la mafia dunque). Ho poi anche appreso a quanti equivoci è esposto ogni nostro atto. Una rivista russa, che si chiama “Italia” e in cui ogni articolo è pubblicato in italiano e in russo, mi ha intervistato sulla traduzione in russo del mio libretto e, per finire, mi ha chiesto: “Non prova alcun pudore nell’arrichirsi, sfruttando un fenomeno brutto come la mafia?”. La domanda mi ha stupito, ma anche divertito. Ho risposto che forse mi avevano scambiato per qualche autore di grido, come Roberto Saviano, e che – poiché guadagno un po’ meno di trenta centesimi per ogni copia venduta - interpretavo la loro domanda come un augurio per il futuro. Avrei risposto fra alcuni decenni, quando sarei davvero diventato ricco…

S: Hai detto: “Ho scelto Peppino Impastato come un esempio, un simbolo”. Il movimento anti-mafia ha bisogno di questi eroi-martiri, per cambiare le cose?
A: La risposta è sì, ma a certe condizioni. I martiri laici, un po’ come i martiri cristiani, servono come modelli di vita, a patto però che non li si isoli su una nicchia, su un altare, dicendo: “Sono uomini speciali, io sono un povero mortale, non potrò fare come Peppino Impastato o come Giovanni Falcone”. Questo è un problema che abbiamo dibattuto anche in questi mesi da quando abbiamo saputo che il 15 maggio don Pino Puglisi sarà proclamato beato. È un fatto positivo, ma può trasformarsi in un fatto negativo. Mi spiego: che la chiesa cattolica dica che un prete deve combattere la mafia e che, se muore, la sua morte vada riconosciuta come martiro, è un grande passo in avanti. Questo però non dovrebbe significare perdere la memoria della concretezza storica della paura che un don Puglisi ha provato. Se la beatificazione dovesse servire per metterlo sull’altare, e dire: “Egli era speciale, quindi gli altri preti possono benissimo continuare la vita di sempre”, questa beatificazione si risolverebbe in un boomerang. Per questo, con alcuni amici, abbiamo scritto su padre Pino Puglisi, che abbiamo conosciuto personalmente, un libro in cui, per la prima volta, la sua vicenda esistenziale è inserita nella storia di Brancaccio, nel contesto sociale del suo quartiere e nel contesto ecclesiale della chiesa cattolica palermitana. In cui facciamo vedere che c’è stato nello stesso parroco palermitano un cammino di consapevolezza. Insomma, nessuno di noi nasce con il volto di un anti-mafioso. Ci si può diventare, se la vita presenta delle sfide e se uno è disposto ad accettare questa sfida.

S: Quindi, resta importante alimentare come un fuoco la memoria di chi ci ha preceduto? E’ per questo che ha pubblicato anche la raccolta di interviste e racconti di vita Gente bella. Volti e storie da non dimenticare?
A: Certo, perché dimenticare i caduti dell’anti-mafia è come dimenticare, in genere, le vittime innocenti di tutte le tragedie del mondo. E seppelirli una seconda volta. Purché la nostra memoria non sia archivistica, ma – per riprendere un teologo della liberazione sudamericano - una sovversiva: non una memoria puramente antiquaria, museale, ma una attualizzante.

S: Una domanda a proposito di consapevolezza: se la mafia è in questa fase più nascosta da prima, adesso il rischio è forse più grande di…
A: …di sottovalutarla?
S: Sì.
A: Indubbiamente. Non è un caso che, nei dibattiti in occasione dell’ultima campagna nazionale per le elezioni politiche, non ho mai sentito una volta la parola mafia.

S: Strano! Ma è vero che mafiosità sia del tutto esterna ed estranea rispetto alla mentalità siciliana?
A: E’ una questione da affrontare con precisione chirurgica. E’ ovvio che mafiosità e sicilianità non possano essere considerati sinonimi (e questa è la tentazione dei non-siciliani). Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che non si può neppure affermare il contrario, cioè che i siciliani sono puri e che la mafia è a Roma (e questa è la tentazione dei siciliani). Fare dei siciliani delle vittime è un’operazione sicilianista: un’operazione ideologicamente para-mafiosa, filo-mafiosa, che tende ad attribuire sempre ad altri la responsabilità dei nostri mali. Si cercano i colpevoli altrove: i francesi, gli spagnoli, i Borbone, i Savoia… E’ vero che le dominazioni straniere non ci hanno fatto bene, ma nessun influsso culturale esterno può fare male se già il terreno non è predisposto ad accogliere i germi negativi e a respingere gli input positivi. Insomma, la vera verità secondo me è che essere siciliano non significa né essere automaticamente mafiosi né non esserlo automaticamente. Ritengo che nella mentalità siciliana ci siano, come nella mentalità dei Paesi in tutto il mondo, elementi favorevoli ed elementi sfavorevoli al radicarsi del sistema mafioso. Perché però nel Meridione italiano questo sistema ha attecchito più che in Svezia o in Australia? Le ragioni sono molteplici e non tutte note. Tra queste ragioni ci dovremo abituare anche ad annoverare la libertà degli uomini. Se non fosse fuori luogo, direi la creatività degli uomini che possono inventare qui un sistema di dominio che altrove non viene inventato o viene solo importato per imitazione. Un certo storicismo, intrecciato con un certo sociologismo, ci inducono nell’errore di voler trovare in ogni analisi storica solo motivazioni oggetive trascurando il fattore imponderabile della soggettività. Lo dico semplicisticamente: se dieci siciliani decidono quasi due secoli fa di fondare Cosa Nostra e dieci lussemburghesi, nello stesso periodo, pur avendone l’occasione, non lo fanno, il risultato è che la mafia in Sicilia è molto più radicata che nel Lussemburgo. E’ in gioco l’imprevedibilità del libero arbitrio individuale…Certo poi le opzioni dei singoli hanno diversa fortuna a seconda dei contesti storici e cultutrali: un certo sistema economico, una certa politica nazionale, una certa religiosità medieterranea…Sono tutti segmenti, ma non illudiamoci di poter costruire una mappa completa e definitiva. Per ritornare alla tua domanda, e chiudere questa risposta, non c’è dubbio che la mafia si sarebbe estinta senza agganci a Roma, a New York, a Marsiglia, a Medellin, a Tirana; ma da questo a negare che sia un fenomeno originariamente siciliano ce ne passa ! Con una formula sintetica direi che ha la testa in Sicilia e diramazioni in tante altre parti del mondo. Si potrebbe aggiungere che alcune di queste diramazioni – come la ‘ndrangheta calabrese – sono in grado di superare in efficacia e pericoloistà lo stesso prototipo.

S: È anche per spiegare questa strana situazione che hai scritto I siciliani spiegati ai turisti?
A: Mi sono spinto a una schematizzazione che ogni tanto fa arricciare il naso degli specialisti in scienze umane, ma a cui sinora credo profondamente. Premetto che in Sicilia abitiamo circa cinque milioni di persone. Fonti investigative, sulla base anche di dichiarazioni di mafiosi collaboranti, individuano un millione circa di cittadini siciliani mafiosi e amici dei mafiosi; l’esperienza trentennale di militanza nel movimento antimafia mi testimonia che esiste un altro milione di cittadini siciliani che hanno scelto di schierarsi nettamente contro la mafia. Fra filo-mafiosi e anti-mafiosi in servizio permanente effettivo si colloca una palude di tre milioni di siciliani incerti, illusoriamente neutrali, sostanzialmente indifferenti: questa maggioranza di siciliani sono dei tiepidi che non riescono a schierarsi né con la mafia né con l’anti-mafia. Sono l’hard core dell’isola e la guerra non avrà fine sino a che questa maggioranza silenziosa non deciderà da che parte schierarsi.
Dell’ambivalenza di questa ampia fetta di siciliani mi sono occupato anche nel libretto che ho scritto dopo quello sulla mafia. Una contraddizione fra tante? Siamo un popolo particolarmente ospitale (è normale accogliere un amico a casa per non mandarlo in albergo oppure accompagnare a piedi un turista sconosciuto da una piazza all’altra); ma non fai in tempo per degustare tanta accoglienza e…zac, un ragazzino ti scippa il portafoglio o il tassista ti fa pagare il doppio del dovuto. Avrei dovuto scrivere - ci sto pensando conversando con te - che non per caso una delle caratteristiche della nostra alimentazione migliore è l’agrodolce.

S: Agrodolce?
A: Sì, molti piatti sono giocati sul contrasto dell’agro e del dolce, dell’aceto e dello zucchero, che messi insieme danno un sapore che non è né aspro né mieloso. Quasi un simbolo dell’ambivalenza siciliana…

S: Però potrebbe essere la somma del buono di due lati. Ma spostiamoci dalla cucina al turismo in generale: quale potrebbe essere l’importanza del turismo nella lotta contro la mafia?
A: Dobbiamo partire dal fatto che il turismo è uno dei campi che ha arricchito la mafia. Il compito è di togliere, in maniera graduale ma decisa, spazi all’inquinamento mafioso e incentivare, promuovere, favorire il turismo pulito. Ecco perché ritengo che gli itinerari turistici proposti da “AddioPizzoTravel”, da “Libera” e da altre organizzazioni locali siano una trovata geniale. Aggiungo subito che il turismo pizzo free non è un cammino facile: se devi ospitare una comitiva, questa deve scegliere fra due preventivi. E il preventivo etico può arrivare al doppio di quello comune perché, in quello ordinario, puoi avere il ristorante che non ti rilascia la fattura integrale o l’albergo che non mette in regola le cameriere e quindi gli costano la metà rispetto a un’albergatore onesto. Non sono difficoltà insormontabili, ma voglio dirlo per evitare che si faccia poesia scavalcando la prosa quotidiana. C’è una strada lunga e in salita per rendere conveniente la legalità. Che l’onestà paghi è vero in prospettiva, non è vero nell’immediato: la politica deve rendere già da ora conveniente rispettare le regole e dannoso violarle.

S: In un libro di venti anni fa – Liberarsi dal dominio mafioso – si legge come sottotitolo: Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito. Ti chiedo: i turisti stessi posono fare qualcosa contro la mafia?
A: Il massimo che può fare un turista è ciò proviamo a fare noi consumatori abituali in tutto il mondo: andare nel negozio del commercio equo e solidale pur sapendo che il sacchetto di caffè lo paghiamo una volta e mezzo rispetto al supermercato; accontentarsi di consumare un po’ meno caffè pur di contribuire con i nostri soldi a far rispettare i diritti dei contadini del Sud- America. Il turista in Sicilia può fare ciò che dovrebbe fare ovunque: sforzarsi di essere un consumatore critico. Inoltre può fare un’altra cosa (ma si tratta di qualcosa che riesce solo automaticamente, spontaneamente): riportare in patria una’immagine adeguata, realistica, della Sicilia. Raccontare la Sicilia come è davvero: non un luogo paradisiaco di rose e gigli, ma nemmeno un inferno infestato da attentati e battaglie per strada. Raccontare che la Sicilia è un’isola molto bella, dal punto di visto naturale, artistico, storico; e molto travagliata dallo sforzo di una consistente minoranza di siciliani nel cercare di liberarsi dal dominio mafioso, soprattutto convincendo la nutrita maggioranza di indecisi.

S: Quali aspetti della realtà mafiosa dovrebbero essere messi a fuoco ai turisti nel cosro delle loro visite?
A: Penso che della mafia o se ne parla in tutte le sue articolazioni o è meglio tacerne. La mafia è mafia perché è un mix: non è solo militare, non è solo politica, non è solo economica, non è solo culturale. Se sottolineamo un solo aspetto a dispetto degli altri, non parliamo più di mafia ma di altro. Aggiungo che non basta dire la verità intera sulla mafia: bisogna dirla inseparabilmente dalla verità intera sull’antimafia. Quando ho presentato La mafia spiegata ai turisti a un folto numero di guide turistiche della mia città, una di loro mi ha chiesto: “Ma noi, ai turisti, dobbiamo dire o tacere la verità sulla mafia ?”. Mi è stato spontaneo rispondere ciò che risponderei anche oggi: ”Dovete dire la verità, ma la dovete dire tutta: che Palermo è la capitale della mafia ma che è anche, inscindibilmente, la capitale dell’anti-mafia. La verità è questa: da 150 anni abbiamo il cancro e da 150 anni lo combattiamo. E’ falso che siamo sani, è falso che siamo morti: non siamo né sani né morti, siamo in lotta per la guarigione.

S: Allora, secondo te, anche le autorità turistiche comunali e provinciali dovrebbero usare la mafia come tema per promuovere la città?
A: La questione è indubbiamente delicata. Non auspicherei una sopravvivenza in eterno della mafia per alimentare l’attrazione turistica della città. Ma sino a quando la mafia c’è, gli enti preposti dovrebbero promuovere una presentazione quanto più oggetiva possibile della mafia e dell’anti-mafia. Se fossi il sindaco di Palermo o il presidente della Regione, comprerei migliaia dei miei libretti e li darei in giro per il mondo a tutti gli operatori turistici… (ride). Al di là della battuta umoristica, se non con questo libretto si dovrebbe comunque attuare un’operazione del genere: invece non si parla della mafia perché si ha paura di scoraggiare il turismo, ma è proprio il silenzio sulla mafia che la rende miticamente minacciosa agli occhi dei potenziali visitatori. Il risultato è che tutto questo aspetto della storia e dell’attualità della Sicilia rimane come una specie di tabù: come in certe famiglie, un segreto che tutti conoscono, ma di cui nessuno parla.

S: Segreti pubblici?
A: Non so se la formula ossimorica è frequente in Belgio. Da noi si dice: segreti di Pulcinella. Ciò di cui sono convinto, al di là dei modi di dire, è che, quando vado a casa di una persona dove c’è stata una tragedia, penso sia meglio che una volta se ne parli apertamente e poi basta. E’ molto peggio, invece, dire a sé stessi: “Io lo so, ma devo fare finta di non saperlo; tu sai che io lo so, ma devi fare finta che io non sappia”. Le guide turistiche e la mafia: non si può affidare tutto al caso. Sinora, se ho capito bene, c’è la guida preparata che a domanda del visitatore risponde; quella che fa finta di non capire la domanda; quella che improvvisa una risposta zeppa di sciocchezze perché non si è preparata…

S: Ma, secondo te, qual è la percezione da parte dell’uomo della strada di queste iniziative anti-mafia come il turismo pizzo free?
A: Nella media borghesia, per quel poco o tanto che sono conosciute, sono apprezzate. Purtroppo ci sono strati popolari che neppure sanno che esistono “Addiopizzo” o “Libera”. Una delle tragedie del movimento anti-mafia è che la mafia riesce essere trasversale rispetto a tutti ceti sociali, mentre l’anti-mafia attuale è un fenomeno di élite, riservato a fasce di borghesia illuminata. Non è stato sempre così: per esempio i Fasci italiani, tra il 1892 e il 1894, sono riusciuti a convolgere i contadini in una lotta per la terra contro i grandi feudatari che si servivano non solo dell’esercito, ma anche dei mafiosi per sparare sui dimostranti. Questo coinvolgimento, veramente popolare, non siamo riusciti a realizzarlo a cavallo fra il XX e il XXI secolo: speriamo di riuscirci attraverso le scuole che sono, insieme alle chiese, le uniche ad arrivare agli strati popolari. Ma anche qui occorrerebbe una strategia più intelligente di quelle comunemente adottate: se si fa un lavoro di spot pubblicitari (spesso purtruppo è cosi, il maestro e la maestra non hanno gli strumenti né culturali né pedagogici per costruire un percorso organico), allora ci si limita ad una retorica dell’antimafia che non incide nela mentalità effettiva delle nuove generazioni. Un’altra speranza di entrare nei ceti popolari è alimentata dall’arte: quando si riesce a fare qualche film, qualche sceneggiato televisivo, di buona fattura, riusciamo a parlare anche agli strati sociali meno istruiti. Se continuiamo a organizzare solo manifestazioni, dibatti, presentazioni del libri…siamo sempre quella stessa centinaia di palermitani che ci incoraggiamo a vicenda.

S: Già convinti?
A: Già convinti.

S: Riprendiamo l’accenno alle scuole. Si può trasferire il messaggio anti-mafia restando nell’ambito di un’aula o pensi che le gite scolastiche siano essenziali per cambiare prospettiva e respirare aria diversa?
A: Nelle class si può fare educazione su mafia/anti-mafia, purché si inserisca, come ti dicevo poco fa, in un’ottica di educazione politica più in generale. Ma soffriamo di un grosso equivoco in Italia. “La politica resti fuori dalle scuole” si ripete. Se si intende dire vi devono restare fuori i partiti, i volantini elettorali, mi pare ovvio. Non così ovvio se vanno via fuori dalle scuole non soltanto le controversie tra i partiti, ma proprio l’educazione politica. E questo è un disastro che ha, tra mille altre conseguenze, il fatto che, quando si introduce il discorso mafia/anti-mafia, lo si affronta senza le premesse (politiche) e senza le conseguenze (politiche). E quindi è un tronco di discorso, incompleto nella diagnosi e nella terapia.
Passo alla seconda parte della domanda: è utile uscire dall’aula, partire, viaggiare lontano dall’ambiente siciliano? Per risponderti brevemente, devo informarti che in Italia (non so se è così anche da voi in Belgio) abbiamo tre formule: il gemellaggio con un’altra scuola, lo stage e il viaggio d’istruzione. Credo molto nel gemellaggio e nello stage; molto meno nel viaggio d’istruzione. Il viaggio d’istruzione è più che altro un pretesto per fare vacanza: quello che si può veramente imparare nel viaggio d’istruzione è minimo rispetto all’investimento di tempo.

S: Ed è utile il viaggio d’istruzione di altre scolaresche in Sicilia?
A: Dipende se queste classi, italiane o straniere, che arrivano In Sicilia abbiano o meno dei referenti qualificati. Se una scuola arriva qua e vuole capire la mafia soltanto passeggiando per strada, affidandosi al caso, o magari visitando qualche lapide mortuaria, sono sicuro che non ne capisca molto di più di quanto ne sapesse prima di partire. Addirittura può peggiorare le sue opinioni: se capita che una alunna viene scippata, i compagni penseranno di aver sperimentato la mafia confondendola con la micro-criminalità ovunque diffusa. Diversamente vanno le cose quando una scuola si legge prima qualche paginetta, prenota un appuntamento con qualcuno di noi studiosi del luogo, magari incontra pure qualche testimone dell’antimafia. Comunque, sia gli studenti siciliani che vanno fuori sia gli studenti che vengono in Sicilia, dovrebbero avere almeno una conoscenza sommaria della storia italiana e della Costituzione italiana. E in Italia non è frequente che uno studente legga, almeno una volta nella vita, la Costituzione italiana per intero.

S: Veramente neppure io ho mai avuto in mano la Costituzione del Belgio… Ti ringrazio del tempo che mi hai dedicato. Quando avrò pubblicato la mia tesi in fiammingo ti farò avere almeno la parte che riguarda la nostra conversazione di oggi.

lunedì 23 dicembre 2013

Bruno Vergani sul mio "Il Dio dei leghisti"

"Cronache laiche"
 
 
Bruno Vergani
martedì 17 dicembre

 

Antropologia del leghista, un po' tribale e un po' credente

Si può essere cattolici e votare Lega? La domanda pervade "Il dio dei leghisti", di Augusto Cavadi, che delinea con gran lucidità il codice culturale del popolo del Carroccio.

Raduno della Lega Nord. Umberto Bossi arringa il popolo bergamasco. «Stavolta abbiamo subito anche il Presidente della Repubblica che è venuto a riempirci di tricolori sapendo bene che il tricolore non piace alla gente del nord. altro che democrazia!»
Sotto il palco i militanti latrano compatti: «Vergogna!»
Bossi: «Eh certo!»
Pubblico: «Usciamo dall'Italia! Andiamocene via!»
Bossi: «Mandiamo un saluto al Presidente della Repubblica!» E fa le corna.
«D'altra parte nomen omen. si chiama napoletano. Oh no! Non sapevo che l'era un terùn!»
I militanti leghisti esultano: «Roma ladrona la Lega non perdona!... Monti Monti vaffanculo! Monti Monti vaffanculo!»
Bossi: «E magari gli piace, cazzo!»
Il pubblico in delirio applaude il capo. Qualcun altro invece lo denuncia per vilipendio al Capo dello Stato, tra questi il regista Ermanno Olmi.

Cattolica gran parte di quel pubblico esultante. Cattolico il regista che denuncia.  Qualcosa non torna. Cosa? Era la fine di dicembre del 2011 e la risposta era in stampa: "Il Dio dei Leghisti" di Augusto Cavadi oggi in libreria.
Chi è il leghista? A quale tipologia umana appartiene? Chirurgico l'autore, filosofo e teologo, ne delinea il "codice culturale". Appare un tipo umano aderente ad una ideologia semplificata, un leninismo temperato dall'oratoria efficace e popolana. E' reattivo: avverte la globalizzazione una minaccia alla sua identità e per difendersi si attacca alle tradizioni, alle radici popolari e mitiche, del suo territorio. "Tribalismo ipermoderno" che mai ironico difende i suoi miti provinciali per non essere fagocitato da socialismi o liberismi omologanti o sopraffatto dal diverso, dallo straniero. I suoi principi etici sono elementari, primo fra tutti l'"idiotismo apolitico": prima io poi gli altri. E' un gran lavoratore, quasi eroico. Orgoglioso della sua virilità talvolta è ossessivamente omofobo. Tronfio della sua ignoranza diffida degli intellettuali.

Il libro è generoso di citazioni; alcune appaiono irreali. Borghezio, come prova provata di non essere razzista sentenzia: «Le nere le ho provate quando sono stato in Africa, nello Zaire. Ah, le katanghesi! Le katanghesi! Prodotto notevole. Mica come le bruttone nigeriane che battono da noi. Quello che ho assaggiato lì era proprio un prodotto locale notevole». Cavadi mantiene calma, profondità e lucidità: non scrive contro qualcuno, ma per comprendere e agire per migliorare le cose.

Fotografato il tipo umano veniamo informati delle sue concezioni teologiche: un panteismo naturalistico mischiato ad un cristianesimo ideologico, dove la religione è collante sociale e identitario. Il simbolo del crocifisso, ostentato nei locali statali, esprime e sintetizza il patrimonio religioso ed etico padano. E a quel punto il lettore sente emergere chiara e forte dal profondo una domanda. La domanda. Si può essere cattolici e votare Lega? Com'è possibile conciliare il pensiero profetico, agapico, rivoluzionario, universalistico di Gesù di Nazareth - dove gli ultimi saranno i primi e i nemici amati invece che combattuti - con quel mix di panteismo naturalistico cristianista-egocentrico della Lega Nord? Qui l'Autore analizza il punto di incontro tra Chiesa cattolica e Lega, i "valori non negoziabili", e nel confrontarli con il pensiero espresso da Gesù di Nazareth ne indica le incongruità. Questo è il problema e molti cattolici, di base e non, si sono accorti. Altri no: richiede fatica di pensiero relativizzare la propria visione del mondo quando la si considera unica ed esclusiva. Quando ci si ritiene depositari del bene assoluto si  tende, a gloria di Dio e talvolta in buona fede, a relativizzare il temporale. Così, dalle alte sfere, indifferenti a quello che i comuni mortali si ostinano a chiamare ancora bene e male, si tira dritto per rafforzare l'istituzione salvifica. Tutto fa brodo per ingrandirla e difenderla, Borghezio che "prova" le katanghesi incluso.

Bruno Vergani

Augusto Cavadi
Il Dio dei leghisti
Edizioni San Paolo, 14 euro

domenica 22 dicembre 2013

L'odissea per pagare una multa

“Repubblica – Palermo”
21.12.13

L’ARCANO DI UNA MULTA SVELATO DOPO UN’INCREDIBILE ODISSEA


Per una colpevole distrazione, due carabinieri mi hanno giustamente appioppato la seconda multa in quarant’anni di onorata carriera di automobilista. Devo riconoscere che l’agente verbalizzante è stato anche piacevolmente sdrammatizzante. Dopo aver esaminato i documenti, mi ha comunicato la sentenza con uno spiritoso: “Complimenti, ha vinto il 30% di sconto”, spiegandomi che entro 5 giorni avrei potuto pagare 29 euro anzicché 41. Mi ha consegnato il verbale, un conto corrente postale già prestampato e un foglio con le istruzioni per l’uso. Poiché opero versamenti postali da più di mezzo secolo, ho compiuto l’imperdonabile, fatale, leggerezza di non leggermi con attenzione le istruzioni stampate in caratteri minuscoli.
Il lunedì mattina mi presento alle poste e, poiché è un giorno di scadenze varie (dalla Tares all’Imu), mi tocca una ‘coda’ di due ore e tre quarti. Quando arriva il mio turno, l’addetta mi comunica – con sincero dispiacere – che il computer, senza dare spiegazioni,  si rifiuta di registrare il versamento. Il giorno dopo cambio ufficio postale nella speranza di trovare o un’impiegata più informata o un computer più recettivo: ma, dopo un’ora e dieci minuti di attesa, il responso non muta.
Cerco allora una stazione dei carabinieri dalla quale vengo dirottato su un certo ufficio della Benemerita dall’altra parte della città e, finalmente, mi viene svelato l’arcano: il bollettino postale prestampato - dove dovevo scrivere solo l’importo della multa e le mie generalità - era stato congegnato in modo da funzionare solo dopo i cinque giorni dal verbale per pagare la multa intera. E da essere respinto entro i cinque giorni dalla data di consegna. Per beneficiare dello sconto, invece, sarei dovuto recarmi alle poste, chiedere un modulo totalmente in bianco, compilarlo a mano in tutte le sue parti secondo la falsariga del bollettino prestampato e finalmente saldare il debito con la legge. Evidentemente in nome del principio: “Perché rendere facile l’assolvimento di un dovere civico se, con un pizzico di fantasia,  lo si può rendere diificile?”. “Ma una volta che sono qua” – ho chiesto al carabiniere – “non potrei pagare direttamente invece di tornare alle poste?”. Cortese ma ferma la risposta: “Mi dispiace, non dipende da me: sarebbe logico così, ma la procedura non prevede pagamenti che non passino dagli uffici postali o, se è già iscritto al sito delle poste italiane, attraverso internet”. Ma non ero iscritto, avrei dovuto attendere qualche giorno la conferma mediante telegramma cartaceo (?!) dell’iscrizione telematica (sforando i cinque giorni tollerati per lo sconto) e dunque, buono buono, mi sono sorbito la terza fila (questa volta ‘solo’ di 55 minuti) alle poste. Insomma: come correzione pedagogica del cittadino indisciplinato, niente da invidiare all’Impero asburgico del XIX secolo.
 Doppia morale della favola (che purtroppo favola non è, ma cronaca puntuale). Primo proposito: starò attentissimo a leggere in futuro ogni istruzioni per l’uso su come pagare le multe alla posta e intanto avvertirò quanti più parenti ed amici possibile della delicatezza del meccanismo procedurale in vigore. Secondo proposito: difenderò con vivacità l’onore dell’Arma in occasione delle prossime barzellette sui carabinieri. Altro che ingenuità intellettiva! Solo una mente assai raffinata, direi quasi diabolicamente inventiva, poteva progettare un sistema così sottile di punizione per i trasgressori del codice stradale. Per i prossimi vent’anni non mi permetterò nessuna distrazione: dovessi lasciare l’auto sotto casa e non toccarla per quel tanto che mi resta da vivere.

Augusto Cavadi

lunedì 16 dicembre 2013

LIBERI DI PARLARE ANCHE IN CHIESA, SOPRATTUTTO IN CHIESA


“Centonove” 29.11.2013

LIBERI DI PARLARE ANCHE IN CHIESA, SOPRATTUTTO IN CHIESA

     Maria D’Asaro e Ornella Giambalvo sono tra le tantissime persone che, da decenni, partecipano alla più straordinaria liturgia eucaristica cattolica che si celebri a Palermo: la messa domenicale presieduta nel quartiere Ballarò da don Cosimo Scordato. Per festeggiarne il 65mo compleanno hanno pubblicato, col titolo Libertà di parola (Cittadella editrice, Assisi 2013, pp. 308, euro 19,00), una corposa selezione per tematiche delle sue omelìe che sarà, per molte persone che le abbiano ascoltate direttamente (per esempio per molti studenti provenienti dalla Sicilia che hanno trascorso alcuni anni nel vicino pensionato universitario “San Saverio”), motivo di gioia intellettuale ed esistenziale rilmeditare.  Anche perché le pagine ci restituiscono, quasi integralmente, la figura del presbitero bagherese trapiantato a Palermo.
                 Una prima caratteristica di don Scordato è la sua discrezione. Anche in queste prediche la sua è una presenza più per sottrazione che per esibizione. Rarissimi o del tutto inesistenti, infatti, i riferimenti autobiografici: secondo lo stile di Gesù di Nazareth, egli non annunzia sé stesso, bensì il Regno di Dio. Come il vangelo non è cristocentrico, bensì teocentrico (o, se volessimo essere puntigliosi, regnocentrico), così questi commenti al vangelo non sono cosimocentrici perché chi le pronunzia non è  l’annunziatore di sé stesso, bensì un dito che rinvia ad altro: all’Altro che è il Padre, all’altro che è il fratello.
                  Questa discrezione non equivale ad assenza di originalità. Don Scordato vuole essere fedele alla Parola di Dio: ma questa fedeltà consiste nel ripeterla come fossimo magnetofoni, pappagalli ammaestrati? O non piuttosto nell’interpretarla alla luce della storia in cui siamo immersi e da cui siamo sfidati? Egli non si sottrae al compito di interrogare la Bibbia a partire dalla quotidianità, dalla concretezza della cronaca. La sua fedeltà è l’unica fedeltà possibile nella tradizione biblica: è una fedeltà creativa. E questa è una seconda caratteristica della sua personalità che emerge da queste pagine. La Bibbia è cresciuta su se stessa proprio perché, sino a quando non è stato fissato un canone, ogni narratore aveva la libertà di ampliarla, approfondirla, attualizzarla. La Bibbia non è per i cristiani ciò che il Corano è per i musulmani: ai cristiani non importa custodire in bacheca un Libro per non farlo sporcare dalla polvere dei secoli, quanto piuttosto una storia – che continua sino ad oggi, che continuerà sino alla fine di questo mondo - di cui quel Libro è parziale, incompleta, narrazione.
    Questa discrezione, questo procedere con gli altri evitando di mettersi davanti agli altri, lo si nota particolarmente perché, se è una virtù rara fra noi esseri umani, è addirittura rarissima tra i preti. Qui tocchiamo una terza caratteristica del modo di essere e, dunque, di predicare di don Cosimo: la sua laicità. Egli è prete tanto poco quanto Gesù volle essere sacerdote. Una volta, rispondendo ad una mia domanda nel corso di una lunga intervista che divenne un libro, egli sostenne che  “il ‘presbitero’, letteralmente ‘l’anziano’, non ha una ‘parte’ da recitare né tanto meno da far prevalere sugli altri: egli dovrebbe essere soltanto il ‘luogo’ visibile (perché il luogo in senso assoluto è lo Spirito di Cristo) in cui i ‘laici’ si incontrano”. E davvero don Cosimo, con la sua comunità della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria,  è stato ed è per molti di noi laici un ‘luogo’ di incontro, di fecondazione delle diverse identità culturali, di meticciato delle nostre diverse culture di provenienza.
      L’invisibilità di don Cosimo, la sua originalità malgrado sé stesso (“a sua insaputa”), la sua laicità. Ma vorrei aggiungere almeno una quarta caratteristica che fa continuamente capolino nelle sue omelie: il suo humour. Egli prende la vita con… teologia, ma anche con…filosofia: è un maestro nell’arte di sdrammatizzare, di vedere le cose da un punto così alto che esse si ridimensionano e si manifestano nella loro piccolezza. Le battute umoristiche anche nel bel mezzo di un commento serissimo al vangelo del giorno non sono solo sintomo di un carattere positivo, allegro, resistente; bensì anche di un distanziamento ironico tipico di personalità così sagge da  saper ridere, o per lo meno sorridere, delle miserie umane. Non posso fare a meno di chiudere con un ricordo personale a questo proposito. Circa venti anni fa una ragazza del Centro sociale gli riferì scandalizzata che un parroco della Palermo-bene, a cui si era rivolta per chiedere il permesso di vendere all’uscita dalla messa alcuni oggettini di natale preparati dalle donne del quartiere, le aveva risposto: “No, cara. I vostri regalini continuate a venderli a Ballarò. Di’ a don Scordato che ognuno si munge la sua vacca”. Forse qualche altro prete sarebbe rimasto dispiaciuto, se non offeso, dalla risposta, ma Cosimo si limitò ad osservare seraficamente: “Dovete capirlo, il mio confratello è abituato a un linguaggio… pastorale”.
      Augusto Cavadi

giovedì 12 dicembre 2013

Ci vediamo tra Milano e Bergamo da sabato 14 a domenica 22 dicembre 2013 ?


Avrò la gioia di trascorrere una settimana piena in Lombardia da sabato 14 dicembre a domenica 22. 
Trascrivo i principali appuntamenti pubblici per avere la possibilità di incontrare le amiche e gli amici della zona che lo desidereranno.

Domenica 15 :
ore  11,00    : aperitivo presso la Libreria “Terzo mondo” di Seriate (Bg)
                      “Cattolici e leghisti: un binomio possibile?”  a partire dal
                      volume di A. Cavadi, Il Dio dei leghisti, San Paolo, Milano 2012.
                      (Con possibilità di restare a pranzo)
ore 17,30 - 20:  Incontro sulla filosofia fuori dai canali istituzionali ad Albino
(via don C. Rossi, 4/A. Prenotazione obbligatoria:     fulvio.manara@unibg.it)
Lunedì 16 :
ore  17,30   : presentazione del mio libro “Il Dio dei leghisti”
                    presso Libreria Claudiana di Milano (via Francesco Sforza 12/a)
Martedì 17:
ore 20,00 : conferenza pubblica su “La filosofia: una disciplina che serve a molto
                 solo se non serve nessuno” organizzata dall’associazione “Noesis”
                 presso Auditorium di Borgo Santa Caterina - Liceo Scientifico
                 “Lorenzo Mascheroni” di Bergamo
Mercoledì 18:
ore 9,00 – 11,00: incontro su don Puglisi con studenti dell’Istituto "Marisa
                           Belisario" di Trezzo sull'Adda (via Nenni, presso Piscine)
ore 20,30: Incontro con un gruppo di giovani sul fenomeno mafioso
                 presso  l’oratorio di Comenduno (frazione di Albino)
Giovedì 19 :
ore 20.45: Conversazione aperta con la Comunita di s. Fermo
                    di Bergamo  (Via SS. Maurizio e Fermo)

lunedì 9 dicembre 2013

Da Gesù a Ratzinger secondo Valerio Gigante


“Adista segni nuovi” ,
Roma 9.12.13


L’eterna dialettica tra cattolicesimo reale e ideale
di Valerio Gigante

  Da Gesù a Ratzinger, il passo è piuttosto lungo e la distanza quasi incolmabile. A percorrerla, in senso temporale, però, bastano i 12 agili capitoletti dell’ultimo libro di Elio Rindone, intitolato appunto Da Gesù a Ratzinger. Ideale evangelico e cattolicesimo reale (ed. il mio libro, 2013, pp. 256, 14€. Per acquistarlo: http://ilmiolibro.kataweb.it).
   Il volume, uscito a ridosso delle dimissioni di papa Benedetto XVI, cerca di raccontare – attraverso i documenti del magistero e gli interventi della gerarchia cattolica su temi politici e sociali – quanto la prassi e dottrina della Chiesa cattolica siano lontane dall’insegnamento di Gesù. E questo nonostante i pronunciamenti della gerarchia pretendano di essere pienamente aderenti al dettato evangelico. Anzi si pongano come unica interpretazione verace e genuina di quella Parola.
      Scorrendo l’indice (L’Italia e la controriforma; La Chiesa e la guerra; Intolleranza cristiana; La Chiesa ed i regimi di destra; Gli intellettuali italiani e la Chiesa cattolica; Radici cristiane, perché tanta insistenza?; Una sentenza sconcertante; Una Chiesa antilluminista; Libertà di coscienza e magistero ecclesiastico; Magistero ecclesiastico e Vangelo; Relativismo, dogmatismo, pluralismo; Ritorno a Pio X) si ripercorre il dibattito degli ultimi anni sui temi che più hanno diviso l’opinione pubblica: da quelli “eticamente sensibili” alla querelle giudiziaria sul crocifisso negli edifici pubblici; dalla “presenza” della Chiesa nella società e nella politica alla sua contiguità con la destra; dal rapporto tra la Chiesa e la modernità alla condanna del magistero ecclesiastico recente di ogni forma di relativismo e di secolarizzazione della società e della cultura.
     Un percorso dialettico tra cattolicesimo ideale e cattolicesimo reale, quindi, condotto attraverso l’analisi critica dei momenti più significativi della vita recente della Chiesa, la cui gerarchia, spiega Rindone, si rivela fortemente influenzata nella sua azione dalla preoccupazione di creare o mantenere posizioni di potere, piuttosto che da quella di salvaguardare la propria vicinanza al messaggio evangelico.
        Un’operazione possibile solo alla condizione – che nel nostro Paese è ormai una cronica realtà – di avere una opinione pubblica cattolica praticamente inesistente, fedeli che conoscono poco la Bibbia, ancor meno la teologia e la storia della Chiesa, generalmente disinformati o male informati, subalterni quindi allo strapotere mediatico di una gerarchia che comunica in maniera massiccia, continua e capillare i propri orientamenti in assenza quasi totale di voci “alternative” o critiche. Anche in virtù di enormi finanziamenti pubblici e del sostegno, talvolta censorio, dei media laici e dei poteri politici e finanziari che controllano l’informazione. E non ultimo, anche della sudditanza di molti intellettuali.
        Ma non è sempre stato così. In passato infatti, racconta l’autore in un rapido ed efficace excursus che va da Dante a Petrarca, fino a Dario Fo e Pasolini, gli intellettuali italiani non sono stati né allineati né subalterni; sono stati, invece, vigili, autonomi, critici. Sentinelle attente che, pur apprezzando il messaggio del Vangelo, o essendo essi stessi credenti, hanno fornito strumenti critici per leggere in maniera non banale né superficiale i meccanismi che guidano l’azione secolare della Chiesa, spesso esprimendo su di essa giudizi anche fortemente negativi.
      Rindone non assume mai toni apologetici, né apocalittici. Non pronuncia condanne, non assolve. Offre piuttosto, con il rigore del filosofo, cui si aggiunge la passione del teologo, materiale di riflessione accumulato in articoli pubblicati nel corso degli ultimi dieci anni su riviste e giornali laici (come Italialaica e Critica liberale). Perché in definitiva lo scopo dell’autore – come efficacemente spiega Augusto Cavadi nella sua introduzione – non è quello di «scoraggiare i riformatori, né chiamare alla crociata i delusi, né invitare i non credenti a riscoprire il messaggio cristiano originario, bensì a capire ed aiutare a capire». «Prima di tutto, se ci riusciamo, la verità: il resto ci sarà dato in sovrappiù».