IL TRAVAGLIO DI UN MONSIGNORE
Centonove 30.9.2005
Per almeno un ventennio - gli anni Sessanta e Settanta del secolo appena conclusosi – difficilmente si sarebbe trovato a Palermo uno studente liceale o universitario che non avesse partecipato ad almeno un incontro nella “Sede di don Elio Parrino”, nell’aristocratica Villa Pottino di viale della Libertà. Era un po’ il pendant del Manifesto (poi Gruppo Praxis) di Mario Mineo: l’una nell’area cattolica, l’altro nella marxista, si interpretavano come la coscienza critica di masse ritenute inconsapevoli. Non senza motivi, in caso di conversione dall’una o dall’altra parte, i frequentatori di un circolo preferivano transitare nel circolo speculare. Quei ragazzi si sono poi sparpagliati nel mondo e non pochi hanno raggiunto posizioni di prestigio, dal Parlamento di Strasburgo al Consiglio di Stato, dalla RAI ai piani alti dei Ministeri. Anche quella piccola organizzazione giovanile ha fatto la sua strada: diventando prima la sezione palermitana della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), poi il “Centro di formazione cristiana”. All’inizio degli anni Ottanta, quando ormai gravitavano intorno ad essa centinaia di uomini e donne (ed alcuni soci avevano già realizzato un’esperienza di vita comunitaria, nel nome di San Tommaso d’Aquino), una scissione interna ne ha provocato l’eclissi dal panorama sociale e culturale cittadino.
Che ne è stato di quel nucleo originario di fedelissimi discepoli del “padre fondatore”? L’evoluzione, per certi versi strabiliante, viene raccontata dallo stesso Monsignore in un libro pubblicato in questi giorni da una casa editrice di cui inaugura l’attività editoriale (E. PARRINO, Logos e koinonia. Per una vita consapevole e condivisa, Edizioni Logos e Koinonia, Palermo 2005, pp. 286, euro 15,00). Nell’immaginario collettivo della mia generazione quell’insegnante di religione al Liceo Garibaldi era un po’ l’emblema dell’ortodossia intransigente, geloso custode dei dogmi e dell’interpretazione tomistica che ne davano teologi e filosofi soprattutto francesi (Jacques Maritain ed Etienne Gilson in primo luogo); e la sua comunità ha ospitato, per conferenze e seminari, alcuni dei massimi esponenti del pensiero cattolico ufficiale (Divo Barsotti, Ignace de la Potterie, Salvatore Garofalo, Georges Cottier…). Ma tanta fedeltà alla Tradizione avveniva in nome di un principio metodologico basilare: la consapevolezza critica. Credere sì, ma solo se – e per quel tanto che – un sano esercizio della ragione ne avesse consentito lo slancio al di là dei dati empirici e dei fatti storici. Ebbene, apprendiamo da questo libro che l’autore e le persone che gli sono rimaste accanto hanno portato alle estreme conseguenze logiche quel criterio di ricerca: arrivando alla conclusione che le verità essenziali del messaggio biblico (c’è un Dio che ama l’uomo e che si è manifestato in maniera singolare nell’uomo di Nazareth) sono state, in questi due millenni, sovraccaricate da una massa schiacciante di superfetazioni, credenze, riti e precetti. Per chi dedica la vita allo studio della Bibbia e della storia della teologia, “scoprire di trovarsi di fronte a gratuite manipolazioni e arrangiamenti, quando si tratta della realtà di Dio, diventa veramente un’esperienza deludente, se non addirittura traumatizzante e scioccante. Imbattersi nelle innumerevoli debolezze umane dei rappresentanti qualificati della religione, siano essi membri del clero o laici rappresentativi delle istituzioni, diventa una cosa di ben poco conto, sapendo in fondo che siamo tutti poveri uomini impastati in un certo modo (…). Ma trovarsi ad essere presi in giro da costruzioni artificiose di un’ideologia religiosa che può essere frutto di fanatismo, come soltanto anche frutto di una suprema leggerezza, o forse anche, e questo è un fenomeno estremamente frequente, trovarsi di fronte a gente che crede di rendere le cose o più semplici o più gradevoli, banalizzando le cose fino all’estremo della sopportabilità, e tutto questo spesso appoggiato e avallato dal crisma dell’autorità che non è altro che autoritarismo che scaturisce dall’arroganza e dall’ignoranza, va al di là di ogni possibile pazienza e sopportazione umana” (p. 192).
Da qui la decisione di lasciarsi alle spalle le vecchie strutture cattoliche e di fondare un’associazione laica che sin dal nome (“Logos e koinonia”) faccia intuire le finalità: studiare tutta la cultura, non solo teologica, dell’Occidente e salvare, in un’esperienza di condivisione esistenziale, le perle tuttora valide che possono rintracciarsi in un fiume per molti versi melmoso e inquinato.
Ci si augurar che il tentativo del prete ormai ultrasettantenne e dei suoi amici vada in porto: in tempo di povertà intellettuale, ogni mattone può servire a costruire un futuro più civile. Ma non ci si può nascondere le ragioni di perplessità sulla riuscita dell’iniziativa, sintetizzabili in una considerazione di fondo: nel volume è quasi del tutto assente la prospettiva del ‘noi’. La proposta viene presentata come frutto dell’illuminazione privata, individuale, carismatica di un solo uomo: agli altri, e alle altre, non spetta che il compito di aderire o meno, in posizione molto chiaramente subordinata. Si leggono affermazioni che lasciano stupefatti: “Ci può essere il singolo che si incanta, e che per la verità io non ho mai trovato, dei grandi valori umanistici e che gli dedica la vita. Ma io, purtroppo, non ho mai trovato qualcuno che si dedicasse a tali valori. (…) Ai nostri giorni non c’è alcuna speranza o prospettiva. Sembrerebbe soltanto un sogno la possibilità che ci sia qualcuno che si impegni a studiare e ad approfondire la cultura umanistica. Non ci sarà nessuno che si metterà a studiare per una migliore conoscenza della cultura umanistica e a studiarla con tutto il cuore. (…) Non ci sarà nessuno che si metterà a studiare materie umanistiche, che si dedicherà, per una vocazione che ha del sublime, a un tale impegno di ricerca e di studio, che non dà nessuna speranza e prospettiva di grandi guadagni e che, tuttavia, invece, aiuterebbe molto a migliorare la conoscenza dell’uomo, della persona umana, e a scoprire, per poterne vivere, quei valori che rendono l’uomo veramente la più alta creatura della realtà da noi conosciuta “ (pp. 12 – 21). Dai centri di ricerca culturale e religiosa fondati da don Elio Parrino, sono passate centinaia di uomini e donne che, ormai da decenni, dedicano la vita a riflettere, a insegnare, a scrivere, a operare: sono tutti dei falliti, che “hanno disperso grandi possibilità, ricche risorse” (p. 13), solo perché a un certo momento del cammino si sono staccati dalla pesante protezione del ‘padre spirituale’? E’ proprio certo che “la lucida critica di un uomo anziano, che si sente amaramente solo” (p. 10), non dovesse farsi altrettanto lucida “autocritica” sulle ragioni di questo abbandono? Nella Prefazione (anonima) si sostiene che il “sogno” di questo strano prete “avrebbe avuto bisogno di validi collaboratori” (p. 9): ma, ammesso che chi gli è rimasto vicino non sia tra questi, non sarebbe stato il caso di approfondire i motivi per cui i “validi collaboratori” abbiano scelto strade divergenti?
Se questa autocritica avesse avuto più ampio spazio, forse si sarebbe evitato un errore del passato che sembrerebbe riprodotto, tale e quale, nel presente: formulare la proposta come impresa di una èlite spirituale che non prevede nessun collegamento organico con altre associazioni similari né, tanto meno, con organizzazioni impegnate nella trasformazione delle strutture economico-sociali.
Una sorta di riedizione de Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hess immemore dei dubbi salutari che assalgono il protagonista alla fine della corsa. Insomma: un progetto squisitamente a-politico che difficilmente potrà contribuire a ricongiungere la dimensione aristocratica degli intellettuali con la pratica, generosa ma convulsa, degli operai del vangelo. Si poteva scrivere a Palermo un libro sul futuro della civiltà senza citare una sola volta il sistema di potere mafioso? Si poteva analizzare il contesto ecclesiale siciliano senza accennare, neppure di passaggio, né alle complicità della Chiesa cattolica con le cosche mafiose né al martirio di preti, con don Pino Puglisi, che hanno spezzato ogni legame con l’universo mafioso? Era difficile. Ma don Elio Parrino c’è riuscito. Ignoro quanto una visione ‘metafisica’ - che non attraversi lo spessore storico della quotidianità effettiva, reale di uomini e donne, bensì lo eluda e lo sorvoli dall’alto della propria vocazione contemplativa- possa davvero entusiasmare le giovani generazioni. Chi si è reso seriamente conto della crisi epocale che stiamo attraversando, non può sottovalutarne la complessità: se le ideologie religiose vengono abilmente strumentalizzate dai poteri politici ed economici (che, in casi come quello italiano, disastrosamente coincidono), non può essere la solitaria crociata di un pugno di samurai illuministi a capovolgere la situazione e ad aprire prospettive di liberazione. C’è bisogno di un’ottica sinergica in cui i partiti politici, i sindacati, l’associazionismo laico e religioso, le strutture scolastiche ed universitarie, il mondo dei massmedia… vengano – per quanto possibile – sensibilizzati e coinvolti: proprio in quanto istituzioni. E’ davvero incredibile che un progetto di rinascita tanto affezionato (giustamente) al patrimonio greco, veda “l’impegno sociale e l’attività che esso richiede” come “un momento secondario, con la caratteristica proprio di un’appendice” (p. 18): come se per Socrate, Platone, Aristotele e tanti altri la dimensione ‘politica’ non fosse costitutiva dell’intera esperienza antropologica! Ancora più incredibile risulta questa sottovalutazione dell’impegno socio-politico in un progetto che intende valorizzare, accanto alla tradizione sapienziale greca, il messaggio biblico originario (non ancora edulcorato e addomesticato dalle teologie conservatrici). Nell’ottica della Bibbia, infatti, il gesto del volontario che si accosta al singolo indigente per “restituire dignità di persone a chi è emarginato dai meccanismi del perbenismo e dell’egoismo borghesi” (p. 282; interessante in proposito tutta l’Appendice II, L’attività della san Vincenzo, pp. 277 – 283), è certamente lodevole. Ma del tutto insufficiente. Si tratta di ri-fondare la città in maniera che i diritti di ciascuno siano garantiti in maniera sistemica, costante, strutturale: perché ‘il’ modo di amare Dio è la solidarietà verso i fratelli e tutto, anche i momenti di studio e di preghiera, devono essere finalizzati alla liberazione dalla povertà, dall’ingiustizia, dalla violenza.
Augusto Cavadi