giovedì 29 settembre 2016

ROMA CAPITALE: CHE SUCCEDE ? COSA FARE ?

Tramite il mio amico romano Nino Lisi ricevo questa analisi-appello che volentieri rilancio.

*UN, DUE, TRE... STELLA!*
*Sulla necessità a Roma di uno scatto della città*
I primi due mesi della nuova amministrazione di Roma Capitale hanno visto
una pressione mediatica e politica senza precedenti a cui è stata e
continua ad essere sottoposta la Giunta Raggi. Al contempo, sono emersi
anche alcuni deficit evidenti e allarmanti del Movimento Cinque Stelle
nell'idea di governo della città che rischiano di rendere vano qualsiasi
reale cambiamento.

Il primo deficit è nella mancanza di una visione sistemica della città. Per
trasformare una città come Roma affrontando le pressioni dei suoi poteri
consolidati, mediatici ed economici, serve una capacità di visione delle
complesse dislocazioni dei differenti poteri (rendita fondiaria e
immobiliare, sistema bancario e finanziario, multiutility in borsa come
Acea, partecipate come Atac e Ama, governo centrale, prefettura e questura,
Vaticano, solo per citare i più evidenti) altrimenti si rischia di cadere
nell'errore di pensare che l'aver preso il governo della città coincida con
l'aver preso il potere nella stessa. Ma il governo della città è in realtà
solo uno degli strumenti del potere.

Due sono le immediate conseguenze di questo equivoco.
La prima è che si pensi che con la vittoria elettorale il più sia stato
compiuto e che si tratti ora solo di amministrare meglio delle precedenti
esperienze di governo, come se fosse un semplice dato tecnico. La stessa
idea che la squadra di governo debba essere scelta solo attraverso i
curricula e le competenze tecniche, astrae totalmente il governo della
città dai terreni del conflitto e della partecipazione, ovvero dalla
politica in quanto tale, e la direzione delle scelte viene affidata ad una
somma di competenze individuali, di per sé immaginate come oggettive e
neutrali rispetto alle contraddizioni della città. Ma con questo metodo
possiamo trovarci all'assessorato al bilancio tanto un liberista di destra
come il defenestrato De Dominicis, quanto un antiliberista attento ai
diritti e ai movimenti sociali. Entrambi magari con nobili curricula, ma
con visioni opposte della città. Governare la città è un atto politico, non
procedurale e impone delle scelte strategiche. Se invece si guardano solo
le carriere professionali e le referenze di "amici fidati" senza una
visione politica verso cui tendere, si rischiano di imbarcare anche
personaggi come Marra – già frequentatore delle giunte di destra di Comune
e Regione – o Muraro – che dentro Ama non si sa in cosa si sia distinta dal
resto dei dirigenti e consulenti dell'azienda dei rifiuti capitolina.

La seconda conseguenza è che, paradossalmente, proprio i Cinque Stelle, che
devono il proprio successo alla feroce critica verso le forme della
rappresentanza istituzionale e all'idea che i cittadini possano
rimpadronirsi della politica, rischiano di diventare, loro malgrado, gli
ultimi epigoni di una democrazia rappresentativa in crisi – per giunta
ulteriormente attaccata dalle proposte di riforma costituzionale del
governo Renzi – dimenticandosi dell'importanza della partecipazione diretta
e dal basso.

Se al contrario, si avesse la consapevolezza che l'aver preso il governo
non coincide con l'aver preso il potere, si avrebbe anche l’intelligenza di
capire che la trasformazione della città può avvenire solo attraverso la
reale implementazione della partecipazione diretta dei cittadini, delle
fasce escluse e periferiche, delle esperienze di autorganizzazione, nonché
manifestando un sincero interesse per quelle pratiche di conflitto sociale
indirizzate contro quei poteri forti che nella capitale non saranno certo
disposti a mollare l'osso.

Il secondo deficit consiste nella mancanza di un'analisi convincente dei
concetti di legalità/illegalità, sul fenomeno della corruzione e del
clientelismo che tanto ha investito la nostra città.

Siamo tutti coscienti che la corruzione sia stata una delle cause che hanno
caratterizzato il malgoverno della città, ma insistere su un’idea di
legalità astratta e senza contenuto, fa perdere di vista che troppo spesso
in questi anni a Roma si è *legalmente* devastato il territorio proprio
attraverso il ricorso a norme urbanistiche dettate dalla sete di profitto
di alcuni settori economici, mentre *illegalmente* si sono restituiti alla
città spazi e immobili abbandonati autoproducendo servizi, cultura e
socialità.

La medesima logica astratta della legalità porta ad evitare ogni
riflessione sui beni comuni e sui servizi pubblici, rifugiandosi nella
legalità del bando di appalto: come se Mafia Capitale non avesse preso la
città attraverso la vittoria di regolari bandi dell'ente locale e come se
beni comuni e servizi debbano essere naturalmente messi sul mercato, con
l'unica avvertenza di avvisare l'autorità anti-corruzione per un parere
sulle modalità. Al contrario è la filosofia di gestione dei beni comuni
della città che va profondamente cambiata, ed è un cambiamento che di
tecnico ha ben poco.

Il concetto di legalità e onestà, su cui i Cinque Stelle hanno raccolto
tanti consensi, va urgentemente riempito di contenuti alternativi, poiché
il rischio è che leggi ingiuste potranno rovesciare il loro significato,
facendo diventare illegale l'interesse della collettività e legale
esclusivamente quello del profitto privato. Onesto è, per noi, chi si
adopera per l'interesse collettivo. Legale, quell’amministrazione che crea
le condizione di legittimità per far emergere ed esprimere l’interesse
collettivo stesso, ratificando, ad esempio, che l’utilizzo del patrimonio
(sia esso occupato e/o in concessione, pubblico e/o privato) con finalità
sociale è consentito o che i servizi pubblici - come quello erogato dai 96
lavoratori del canile comunale di Muratella in autogestione da più di tre
mesi – non possono essere sottoposti a un bando a vantaggio di una società
privata la cui unica *mission* è il profitto.

Allo stesso modo, il coraggioso NO alle Olimpiadi non può essere
interpretato come una strada per eludere processi d’illegalità, né un mero
terreno di contrapposizione al Governo Renzi. Al contrario, dovrebbe essere
valorizzato come la volontà politica di governare le città fuori dai grandi
eventi e grandi opere che negli ultimi trent'anni hanno prodotto una
concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, mentre quello che serve è
mettere al centro l’idea di un reale piano partecipato, come anche una
gestione alternativa dell'urbanistica, dei beni comuni e dei servizi
pubblici locali.

Il terzo deficit consiste nella mancanza di un'analisi sulla
contrapposizione fra vincoli finanziari dettati dalle politiche liberiste e
risposta ai bisogni della città. L'idea che l’efficienza del governo
cittadino si misuri sulla stabilità dei conti e sul contenimento delle
spese rimuove totalmente l'utilizzo ideologico del debito come strumento
per l'espropriazione sociale, e dunque della necessità di una lotta
partecipata contro i vincoli imposti dallo stesso per l'affermazione dei
diritti sociali insopprimibili degli abitanti della città. L'audit del
debito e la sua radicale ristrutturazione non può che essere una battaglia
politica di trasformazione della città, e non una semplice operazione
tecnica di compatibilità tra gli attori coinvolti (città, governo centrale,
banche, costruttori).

Siamo di fronte, per la prima volta da anni, ad un'amministrazione che, con
tutti i gravi limiti sopra descritti, non è l'espressione dei poteri forti
della città e su alcuni temi – come il NO alle Olimpiadi – segna coraggiose
discontinuità con il passato, rovesciando la tovaglia di una tavola
imbandita da tempo. Ma se alle lobby finanziarie e immobiliari non si
contrappone un'amministrazione con una visione complessiva, disposta a
riconoscere l’indipendenza della partecipazione sociale e la sua forza come
principale ostacolo ai poteri dominanti, allora è facile prevedere, già da
ora, il risultato finale della partita sul futuro della città.

Noi non staremo a guardare e come movimenti sociali cittadini non abbiamo
intenzione di delegare a nessuno il conflitto sociale nei territori che
rilanceremo già nelle prossime settimane. 


Il *1 ottobre* saremo insieme ai lavoratori dei servizi esternalizzati per condividere una piattaformacomune, a partire dal primo grande risultato conquistato dagli operatori del canile comunale di Muratella dopo mesi di lotta: la riassegnazione del servizio ai lavoratori come passaggio verso l'internalizzazione.

 Il *4 ottobre* saremo in piazza del Campidoglio a ricordare alla Giunta comunale che Roma vuole cambiare, e vuole decidere del suo futuro. Starà
all'amministrazione con i suoi atti concreti scegliere da che parte stare.


*Decide Roma - Decide La Città*

IN CARCERE I POSTEGGIATORI ABUSIVI RECIDIVI ?


   ”Repubblica – Palermo” 27.9. 2016
MA CHE LA BATTAGLIA PER LA LEGALITA’ NON SI CONCLUDA CON LA GALERA PER I POSTEGGIATORI ABUSIVI


 Favorevoli o contrari alla proposta di arresto (in caso di recidiva) dei posteggiatori abusivi? Ci sono ragioni per l’assenso come per il dissenso, ma la vivacità del dibattito scatenatosi in rete dimostra almeno una cosa: che non si tratta di una questione peregrina. E’ in gioco un interrogativo che tocca molto da vicino la sensibilità di centinaia di migliaia di cittadini (se ci limitiamo alla sola Palermo).
   Proprio per questo sarebbe auspicabile che prendessero la parola, per il sì o per il no, solo quelle persone che – utilizzando effettivamente l’auto o la moto ogni giorno, specie quando ciò è imposto da ragioni di lavoro – abbiano effettiva esperienza del fenomeno. In teoria, infatti, sarebbe difficile ritenere meritevoli di galera (ammesso che la galera serva a qualcosa: ma qui il discorso prenderebbe ben altra direzione) dei poveri cristi che, con delicatezza, ti aiutano a parcheggiare e con altrettanta discrezione ti fanno capire che gradirebbero una mancia, anche piccola. La prassi quotidiana, però, è ben diversa. In alcuni (pochi) casi, specie se si tratta di immigrati clandestini atterriti dall’idea di essere scoperti e rimpatriati, le cose si svolgono effettivamente in un clima di mitezza e di cortesia; ma in molti altri casi, specie se si tratta di residenti nel quartiere in cui devi posteggiare, la fenomenologia è ben altra. La richiesta è imperiosa, in alcuni casi ti gettano ai piedi con disprezzo una moneta ritenuta insufficiente, se ti allontani senza versare l’imposta ti si urlano dietro minacce…Una volta che, per evitare storie, ho spostato di cento metri la moto in una zona deserta (apparentemente estranea al controllo territoriale del richiedente pizzo), ho ritrovato una delle due ruote tagliate: come dimostrare legalmente ciò di cui ero, e resto, moralmente certo?
    Ovviamente una legge non può prevedere diversa applicazione a seconda che, nei singoli casi, cambi il tono della voce del posteggiatore, l’espressione del volto, la sua biografia, il contesto sociale in cui ti avvicina: dunque arresto per tutti o per nessuno. (Ogni giudice applicherà poi le attenuanti o le aggravanti del caso secondo il suo buon senso).
    Se ci concentriamo sulla norma ipotizzata, mi pare abbastanza ovvio che  - considerata in sé stessa – possa risultare sproporzionatamente severa: davvero vogliamo gettare in carcere dei poveri spiantati in una società di corruttori e corrotti, mafiosi e complici di mafiosi, imprenditori che sottopagano in nero eserciti di dipendenti, maschi che picchiano selvaggiamente compagne e figli, produttori e spacciatori di ogni tipo di droghe, costruttori edili che sfigurano le nostre coste e le nostre colline solo per sete di profitto?  Differente il giudizio se le autorità competenti (a cominciare dal sindaco Orlando) assicurassero che la lotta ai posteggiatori abusivi fosse solo l’inizio di un nuovo ciclo. Palermo ha disperato bisogno di legalità democratica. Da qualche parte bisogna pur partire (e Aristotele insegna che il meno importante in sé è però spesso il più rilevante per noi): e partire da una pratica odiosa, pervasiva nello spazio e pressoché continua nell’arco della giornata, può costituire un buon avvio. Perché questa partenza acquisti senso, però, deve essere seguita passo dopo passo da azioni sempre più estese e incisive: dagli ambulanti che occupano costantemente piste ciclabili e persino corsie di bus (vedi corso Tuckory, arteria chiave per chi vuole uscire dalla città) agli automobilisti che posteggiano in duplice fila  riducendo a budelli strade trafficate (vedi via Ernesto Basile, arteria chiave per chi vuole entrare in città); dagli evasori abituali e pervicaci sui mezzi di trasporto pubblico a quanti, del tutto impunemente, lastricano le strade di Palermo di rifiuti – anche ingombranti – a tutte le ore del giorno e della notte.
   Una stagione di legalità equa e trasparente innalzerebbe la qualità della vita nella nostra splendida città; l’accresciuta qualità della vita attirerebbe turismo meno sfuggente; turismo meno labile comporterebbe posti di lavoro e introiti finanziari. Con maggiore serenità economica sarebbe meno difficile rispettare la legalità: e così il cerchio virtuoso si chiuderebbe.
                                                       Augusto Cavadi
                                                                              www.augustocavadi.com
                       
  
   

venerdì 23 settembre 2016

SI, OGGI E' USCITO "PSICOTERAPIE.UN MANUALETTO DI ORIENTAMENTO ALLA SCELTA" DI LIA CUCINOTTA

Oggi è uscito libretto di Lia Cucinotta Psicoterapie.Un manualetto di orientamento alla scelta (Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 102, euro 5,00), destinato a chi voglia conoscere le varie scuole di psicoterapia operanti in Italia in modo che - in caso di necessità per sé o per persone care - non si scelga il terapeuta a caso, ma a ragion veduta. 

     Data l'importanza dell'evento ho pensato di invitare l'autrice (messinese) a Palermo per la sera di martedì 27 settembre c.m.
     La proposta è questa:
     * appuntamento alle 19,30  (esatte) presso la trattoria "Al vicolo" in piazza San Francesco Saverio a Ballarò;
     * dalle 19,30 alle 21,00 l'autrice, l'editore (Mario Trombino) ed io presenteremo e discuteremo il manualetto;
     * alle 21 sarà servita una cena di due portate (a scelta di ciascun partecipante secondo il menù della casa).

La quota prevista (cena 15,00 + libretto 5,00) è di 20,00 euro a persona.
(Nel caso di coppie più o meno ufficiali, il partner può pagare solo il costo della cenetta: euro 15,00).
Per ovvie ragioni non potremo essere più di 30 partecipanti.
Il criterio di selezione sarà la data di prenotazione con e-mail al mio indirizzo (acavadi@alice.it) : in ogni caso non oltre la sera del giorno prima (intendo non oltre la sera di  lunedì 26 settembre).


martedì 20 settembre 2016

LA COPPIA LESBICA A SAN SAVERIO. DUE PAROLE DI CHIARIMENTO


“Repubblica – Palermo”
16.9.2016

IL PRETE E LA COPPIA LESBICA IN CHIESA

  Quando, tre o quattro anni fa,  il pastore valdese Alessandro Esposito ha celebrato le prime nozze in Italia di due donne omosessuali a Trapani, ero intenzionalmente presente all’avvenimento. Domenica 4 settembre, invece, mi trovavo quasi per caso alla celebrazione eucaristica del mio fraterno amico don Cosimo Scordato nel corso della quale il Rettore della Chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria ha presentato alla comunità Elisabetta e Serenella e ha invitato a pregare per il loro amore, in vista delle nozze civili che sarebbero state officiate dal sindaco Leoluca Orlando, riscuotendo per le due ‘fidanzate’ un lungo e caloroso applauso.
   E’ stato interessante, per me, ascoltare qua e là qualche commento dei fedeli presenti. A una signora che mi ha chiesto se adesso i preti potevano “sposare” anche le coppie omosessuali ho spiegato che da sempre   - secondo il catechismo della Chiesa cattolica – il prete non “sposa” nessuno: la teologia ufficiale insegna che il sacramento del matrimonio è l’unico dei sette canonici a non avere per ministro un sacerdote o un vescovo, bensì gli sposi stessi. Dunque, anche nei matrimoni più tradizionali, il prete è solo un testimone ufficiale di un rito i cui protagonisti sono l’uomo e la donna. Come mai questa eccezione rispetto al clerico-centrismo degli altri sacramenti (almeno in via ordinaria: il battesimo può essere amministrato, in casi di emergenza, anche da un laico – e persino da un ateo)?
   La ragione è tanto semplice quanto sconosciuta ai più. Per i primi mille anni del cristianesimo non è esistito un sacramento del matrimonio. Ogni coppia si sposava secondo i riti e le consuetudini civili della propria etnia. Poi, pian piano, si propagò l’abitudine di passare, dopo il rito civile, da una chiesa per chiedere la benedizione religiosa: intorno al XII – XIII secolo la Chiesa stabilì che il momento religioso precedesse la celebrazione laica. Poi che la sostituisse se si voleva un matrimonio valido agli occhi di Dio. La festa in chiesa, da suggello di un matrimonio già celebrato, diventò unica condizione per celebrarlo.
  Oggi, sappiamo, molte persone sono tornate volontariamente al rito civile. O perché non credono nella valenza religiosa del matrimonio o – caso meno frequente, ma non rarissimo – perché sono talmente cristiane da non volere ibride contaminazioni della sfera intima con la sfera burocratica: in questi casi la coppia credente chiede la preghiera della comunità cattolica di appartenenza o prima o dopo il proprio matrimonio civile.
  Il caso di Elisabetta e Serenella rientra, dunque, in questa tipologia: non perché abbiano scelto liberamente il solo rito civile, ma perché la legislazione ecclesiastica non ha consentito loro alternative. Don Cosimo Scordato, in linea con papa Francesco ma più radicalmente con il proprio stile di sempre, non ha dunque compiuto nulla di particolarmente trasgressivo: ha accolto , come non poteva non fare, il desiderio di due credenti di essere sostenute dalla preghiera della comunità alla vigilia di un passo rilevante della propria vita. Certo, gesti come questi sono indicativi della maturazione della coscienza cattolica media che, sempre più, impara a vedere nelle unioni ufficiali fra persone omosessuali non una minaccia per l’istituto matrimoniale ma, se mai, un ulteriore riconoscimento del suo valore oggettivo, sociale, culturale. Per questo, all’osservazione di un signore presente a messa (“Ma don Scordato non obbedisce ai dettami della Chiesa?”), mi è stato spontaneo rispondere divertito: “Al contrario. Mi pare che obbedisca non solo ai dettami attuali ma, persino, in anticipo, ai dettami futuri!”.
                                                           Augusto Cavadi
                                                          www.augustocavadi.com
                                                        


venerdì 16 settembre 2016

"MOSAICI DI SAGGEZZE" SECONDO GIULIANA SAMMARTINO


I Mosaici di saggezze di Augusto Cavadi



       Una prima qualità del recente libro di Augusto Cavadi (Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015, pp. 357  , euro 25,00) è il tono complessivo del testo, un po’ british e di basso profilo: lungi dall’attribuire alla dimensione spirituale – laica - della filosofia un ruolo salvifico (come si rischia quando la si esalta come ‘arte di vita’), le attribuisce più modestamente la ricerca quotidiana e metodica del significato (il “filosofo-in-pratica” come “artigiano” che attinge alla tradizione reinterpretandola, senza scindere pensiero da sentimento); una ricerca continua, con sudore della fronte e pazienza, perché la filosofia è strumento di guarigione lenta dalla malattia del pensiero superficiale.

       L’autore parte da lontano e ricostruisce le vicende storiche per cui la filosofia greca, originariamente sintesi di pensiero e di vita spirituale (nel senso di vita interiore e pratica al tempo stesso), si sia nel Medioevo spaccata in due: da una parte la filosofia come pensiero logico astratto, dall’altra la spiritualità come esperienza religiosa in senso sempre più strettamente confessionale. Questa dicotomia ha fornito al Magistero cattolico il monopolio della spiritualità sì che, nel linguaggio ordinario attuale, ‘spirituale’ è sinonimo di ‘religioso’: e ciò con l’oggettiva complicità dei filosofi ‘laici’ che si sono progressivamente  ritirati dall’impegno politico e di guida delle coscienze (come attestato, fra l’altro, dallo smarrimento dell’unitarietà fra etica e politica). Secondo Cavadi è venuto il momento storico di ricucire la frattura medievale e moderna fra ragione e volontà; di ritornare al “cuore pensante” (Hegel), alle radici multietniche della compassione laica e mondana; di rifidanzare l’eros greco con il misticismo orientale e con l’agape cristiana.

        Ma nel libro non c’è solo un’enunciazione di intenti: attingendo alla tradizione filosofica occidentale (dai Pre-socratici ai Contemporanei) si suggeriscono, con attenzione certosina, indicazioni operative  su ogni aspetto quotidiano delle nostre esistenze: dal mangiare al leggere, dalla sessualità alle professioni e alla stessa ricerca scientifica, quasi a sottolineare che non esiste spazio al quale sottrarre il nostro impegno di filosofi-in-pratica, perché la filosofia è “vita pensata”.  Quasi un invito a sostituire il motto sessantottino “tutto è politica” con il più comprensivo “tutto è filosofia”.

        Ogni lettore, ovviamente, troverà più eloquenti alcuni passaggi e meno interessanti altri. Personalmente ho apprezzato, in particolare, le pagine dedicate alla filosofia come esperienza totale e non come mera conoscenza teoretica, esperienza del mistero dell’Essere e non semplice indagine logica. E ancora: la filosofia come responsabilità verso il futuro indifeso (l’archetipo è l’obbligo di cura verso il neonato), contro il nichilismo moderno e la titanica violenza della tecnica, dal momento che c’è un logos anche nel cuore dei minerali . Inoltre: il concetto di “ascetismo metropolitano” (Duccio Demetrio) e la trasfigurazione della quotidianità: sapere guardare con animo puro, dalla panchina della stazione al tramonto dietro un palazzo, il mistero della vita palpitante (o lo intravedi lì o non lo trovi mai). Infine: le considerazioni sul “sapere invecchiare” e sull’  “imparare a morire” da cui deriva l’esortazione a vivere intensamente ogni istante come se fosse l’ultimo; a prendersi cura di sé ma prestando ascolto e sintonizzandosi con ciò - o colui - che ci circonda); a vivere con generosità la propria morte: con essa daremo spazio agli altri, avendo esaurito la nostra parte in quell’angolo di mondo dove siamo stati gettati.

     Come ogni prodotto letterario, anche questo testo è suscettibile di riserve e critiche. Personalmente, ad esempio, non ho apprezzato la prolissità di molti passi: che sia dovuta  alla necessità editoriale dei testi umanistici di riempire un tot di pagine o al bisogno degli autori di confessare doverosamente ai colleghi la fonte delle citazioni altrui ? Non mancano, a mio avviso, neppure alcune inesattezze di date: l’inizio dell’universo dovrebbe risalire a 13,7 miliardi di anni fa e non a 15, l’inizio della vita a 4,4 miliardi e non ad 8, l’homo sapiens è comparso 200.000  anni fa e non 5 milioni di anni fa (quest’ultima data si riferisce alla comparsa degli ominidi). Il paragrafo dedicato a Karl Jaspers forse meritava qualche parola in più,  magari ricordando la sua testimonianza come psichiatra rivoluzionario (la malattia mentale non più vista come ‘effetto’ di una causa da spiegare’ ma come espressione simbolica di una visione del mondo che va ‘compresa’, e dove il malato va aiutato con una cura che è ‘chiarificazione d’esistenza’); come filosofo della politica (l’uomo moderno deve impegnarsi nella ‘cura di sé’ come parte del tutto, trascendendo l’orizzonte limitato d’individuo liberale, grazie a una metanoia, a un radicale cambio di prospettiva); e come filosofo dell’esistenza (la filosofia accompagna l’uomo nelle situazioni limite dove sperimenta la finitudine e l’angoscia ma trascendendola).

   In conclusione, il continuo invito dell’autore, che attraversa tutte le parti del testo, a mediare fra posizioni estreme (scetticismo o entusiasmo fideistico) può sembrare un po’  ‘democristiano’ e suonare ovvio, ma il buon senso non è quasi mai originale. Nel complesso, comunque, non si può negare che il libro raggiunga  lo scopo divulgativo e l’intento di esortare all’impegno.



                                     Giuliana Sammartino
www.nientedipersonale.com
13.9.2016

martedì 13 settembre 2016

CI VEDIAMO LUNEDI 19 SETTEMBRE 2016 A BOLOGNA ?

Care e cari,

 dal 15 al 23 settembre sarò in Emilia.
 Dal 16 al 18 conto di assistere a qualche evento del Festival di filosofia di Modena, Sassuolo e Carpi.
 Il 19 sera parteciperò, come si legge nel depliant sopra pubblicato, a una "Cena antropologica" dedicata al tema di uno dei miei ultimi libretti.
  Superfluo aggiungere che mi farà piacere re-incontrare quanti di voi vorranno/potranno farsi vivi in uno di questi nove giorni.

lunedì 5 settembre 2016

"GRATUITA' " SECONDO FRANCESCO GIARDINA


“Centonove”
1.9.2016

LA GRATUITA’ SECONDO GIARDINA

    Questo denso, e intenso, saggio di Francesco Giardina è due volte inattuale. Con sguardo fenomenologico, infatti, esamina la gratuità da varie angolazioni (dall’antropologia alla teologia, dalla filosofia alla pedagogia): un aspetto delle relazioni umane, dunque, poco diffuso nella pratica e sospetto nella teoria. Poco diffuso nella pratica:  tra gli amministratori pubblici o tra gli imprenditori sono così rari i casi di soggetti motivati dal desiderio di servizio e di promozione sociale che restano sommersi, e nascosti, dalla marea della categoria cui appartengono. Sospetto nella teoria: dopo Nietzsche e Freud è quasi un luogo comune supporre che, almeno inconsciamente, chi fa qualcosa di gratuito per l’altro lo stia realizzando – in realtà – per autosoddisfazione.
  Ma è davvero così ? Lo è sempre e necessariamente? Lo è in misura totale o la gratuità  - irrealizzabile al cento per cento – può costituire comunque un ideale utopico verso cui procedere passo dopo passo? Il libro prova a suffragare la risposta affermativa a questa domanda. A partire, ovviamente, da un’ipotesi definitoria: “Gratuito è ciò che accoglie ogni essere e ogni esperienza senza attendere nulla in cambio, senza porre condizioni preliminari” (p. 15).
   La posizione di Derrida è nota: il dono sarebbe gratuito se fosse ignoto il donante, ignoto il donatario, inafferrabile il dono stesso. Dunque rimane aperta “la questione se sia possibile il dono” (p. 37). Una prima risposta ci viene dalla Bibbia: Giobbe testimonia una fede che oltrepassa ogni logica utilitaristica, resta fedele a Dio anche quando tutto congiura contro la sua integrità fisica e psichica. Ma Giardina si chiede: “nell’accompagnarci in tale percorso non pretende troppo da noi il Libro di Giobbe?” (p. 46). Una seconda risposta ci viene dalla tradizione biblica ripensata, laicamente, da Hans Jonas: quando assumo la responsabilità del cosmo (attuale) e delle generazioni a venire, so che né il cosmo né le generazioni future ricambieranno ciò che opero a loro vantaggio. In qualche misura “supero me stesso, vado oltre il mio tempo, mi lascio tramontare nel tempo a venire dell’altro il cui  apparire io non voglio impedire. Questa unilateralità è gratuità” (p. 59). Una terza risposta ci viene dalla mistica di varie tradizioni religiose, in particolare dalla mistica mittle-europea dei secoli XIV – XVII: l’uomo divinizzato, che è tale in quanto lascia essere Dio in lui, supera anche “la logica della paura poiché ha abbandonato ogni speranza e ogni timore, è ormai al di là del bene e del male, semplicemente ama e amando assume il punto di vista di Dio” (p. 68). Giardina si preoccupa di sottolineare la portata politica di queste posizioni mistiche: “Vivere e praticare il <<senza perché>> può essere al tempo stesso l’esperienza più semplice ma anche la più difficile, la più immediata ma anche la più rivoluzionaria. La libertà del <<senza perché>>, in un mondo globalizzato sempre più individualista, utilitarista e chiacchierone, è scandalosa, è pericolosa, è una mina vagante da neutralizzare poiché interrompe le <<normali>> relazioni interessate fra le persone” (p. 75).
     Una quarta risposta ci proviene dall’Oriente, più precisamente dal buddhismo nella cui ottica “l’ impermanenza e l’ interdipendenza rendono vuoto l’uomo in quanto quest’ultimo non ha un’identità permanente e immutabile che si possa <<isolare>> e  <<fissare>>: cade dunque il principio di proprietà” (p. 90). Anche la filosofia occidentale, almeno quando si lascia stupire non solo da “come il mondo è” ma più radicalmente dal fatto “che esso è” (Wittgenstein) (p. 113) , ha tematizzato l’esperienza della gratuità (soprattutto con J-L. Marion) ; così come la teologia protestante recente che, con Moltmann ad esempio, ha interpretato la creazione del mondo come “il gioco di Dio” (p. 115). La letteratura (con La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth) come la pedagogia (Giardina dedica un intero capitolo ai laboratori maieutici di Danilo Dolci) non sono certo estranei alla riflessione sulla gratuità e accompagnano il lettore alla conclusione (provvisoria) del piacevole volume: “L’uomo della gratuità è colui che dona senza scambiare, senza attendersi un ritorno, un ri-cambio: egli dona e si dona spontaneamente, naturalmente, senza sapere di essere un donatore, senza sapere a chi in particolare giungerà il suo donare e donarsi, senza sapere che cosa doni nel suo donare, e tuttavia questo non sapere non esclude la donazione ma anzi la rende autentica in quanto offerta e creazione di nuove possibilità d’esistenza” (p. 207).

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


  

venerdì 2 settembre 2016

LE SFIDE DELLA RELIGIOSITA' POPOLARE


“Niente di personale”

1.9.2016



FESTE PATRONALI:  EREDITA’ DA CONSERVARE O RESIDUO  MEDIEVALE DA CANCELLARE?





Le  feste patronali – e più in generale le manifestazioni popolari di devozione religiosa – hanno senso? Ne hanno ancora, ammesso che lo abbiano avuto in altre fasi della storia? Le risposte nette sono le più facili, ma anche le meno interessanti.



LA POSIZIONE TRADIZIONALISTA

Poco interessante, infatti, è la posizione tradizionalista secondo cui sarebbe autolesionistico – da parte delle gerarchie ecclesiastiche -   interrompere una continuità storica e culturale quasi bimillenaria, proprio quando comunità di altre confessioni religiose (di matrice induista e buddhista) organizzano, in Sicilia, le loro prime processioni di quartiere. Questa tesi, infatti, abbagliata dall’ottica della concorrenza nel mercato delle religioni fra offerte alternative, non tiene in conto tante altre considerazioni: per esempio che  i cattolici praticanti sono diventati anche nel Meridione italiano una minoranza statistica e che, dunque, ogni esternazione prorompente dei loro sentimenti (mediante chiusura al traffico di strade e di piazze, inquinamento acustico provocato da campane mattutine, tamburiate diurne e nenie serali, investimento di denaro pubblico in feste e festini…) viene vissuta dalla maggioranza dei cittadini più come una prevaricazione invadente che come una testimonianza edificante. Inoltre non tiene in conto che, anche all’interno della minoranza statistica costituita dal mondo cattolico,  tali manifestazioni plateali di devozione per la Madonna e i santi (soprattutto per quelli la cui vicenda biografica è quasi totalmente trasfigurata dalla leggenda) costituiscono  ormai un dato residuale. Non sto escludendo che la donna dell’Albergheria di Palermo possa chiedere – come ha fatto, davanti a me, la signora Concetta - a una vicina di casa se creda in Dio e, avutane risposta negativa, possa incalzare: “Ma neppure in padre Pio?” Sto solo affermando che il Concilio Vaticano II non è passato invano e che anche sociologicamente la fede dei cattolici che sono stati a scuola e che leggono i giornali si concentra sempre di più  sul mistero di Dio, sul messaggio  di Gesù di Nazareth e sulle sfide interiori costituite dalle tragedie della vita (dolore, morte, guerra, ingiustizie sociali…). Già nel lontano 1988, il sociologo fiorentino Arnaldo Nesti – da me intervistato per la rivista “Segno” a proposito di una sua ricerca comparativa sulle feste religiose a Siviglia, Lima, Città del Messico e Palermo – osservava, a proposito del  festino palermitano di santa Rosalia, che “appare debole il mito fondatore, ancorato ad una struttura dissociata ed estrinseca rispetto al vissuto nel presente; assenti appaiono processi di ri-significazione; basso il livello rituale e delle pratiche di pietà; la saldatura della dimensione civile con quella ecclesiastica non è sufficiente ad alimentare un ethos collettivo, a conservare un rapporto attivo col mito fondatore. Tutto appare formale, retorico, quasi insieme di motivi estrinseci, specialmente nell’attuale situazione della città”. Non credo che quasi  trent’anni dopo la situazione sia migliorata (nonostante “le seimila acquasantiere”, “appositamente realizzate in occasione del 379° Festino”, generosamente distribuite, dal “Comune, in collaborazione con la Curia Arcivescovile”,  ai “degenti ricoverati negli ospedali e nelle case di cura pubbliche”).



LA POSIZIONE ABOLIZIONISTA

   Questo indubbio processo di secolarizzazione non legittima, d’altronde, la superficialità della tesi opposta secondo cui la società post-moderna si avvierebbe verso la cancellazione della festa, verso un’omologazione dei giorni e delle ore; e che sarebbe saggio assecondare e accelerare tale “eclissi del sacro”.  A smentirla basterebbe il clima di coinvolgimento emotivo, di identificazione collettiva, che si registra negli stadi di calcio o nei concerti rock: se non sono fenomeni religiosi questi…

 Per restare nel caso particolare di Palermo, poi, la necessità di ricucire le dieci, cento “città” in cui si trova frammentata è particolarmente urgente: che cosa hanno in comune gli abitanti di Brancaccio con i concittadini di via Libertà? Perché nella borgata marinara di  Vergine Maria si dice “lavora in città” per indicare qualcuno che si sposta di tre chilometri con l’autobus urbano? E che cosa consentirà alla seconda generazione di tunisini di avvertirsi concittadini della seconda generazione di tamil? Ogni acritica esaltazione della secolarizzazione, o addirittura della de-sacralizzazione degli spazi pubblici, rischia di dimenticare che  - come ha scritto uno dei maggiori storici contemporanei -  una città è fatta di tante cose, ma soprattutto dalla consapevolezza di essere una città. Tale consapevolezza necessita o di simboli identitari religiosi o di equivalenti funzionali dei medesimi.



LA SOLUZIONE ABBASTANZA EQUILIBRATA DELLA GIUNTA PALERMITANA

   Negi ultimi anni (dal 2012 in poi) mi pare che il festino palermitano abbia imbroccato una direzione convincente, equidistante dalla mera conservazione della tradizione come dalla cancellazione radicale di ogni manifestazione popolare. Per valutare meglio questa direzione di marcia può essere istruttivo evocare, rapidamente, lo scenario culturale attuale nel quale questo nuovo corso si è, abbastanza felicemente, inserito.

      Da una parte l’uomo post-moderno resta un animale religioso. Ha bisogno di avvertirsi re-ligato, legato-a, qualcuno o qualcosa che dia senso al suo breve esistere terreno. Per secoli questo bisogno di legami è stato soddisfatto dal rapporto (vero o presunto) con la trascendenza (di molti dei o di un solo Dio): ma la secolarizzazione, dettata anche dal rifiuto della società istruita di vedersi strumentalizzare dagli apparati ecclesiastici, ha messo seriamente in crisi questa dimensione ‘verticale’ della religione. Che fare dunque? Arrendersi a un atomismo individualistico che esalta il privato rispetto al pubblico, ma dimentica che ‘privato’ significa anche esser privo di relazioni con un Tutto di cui sentirsi parte? Oppure, al contrario, fare finta di nulla e riproporre le devozioni di origini medievali con tutti i rischi di feticismo e di idolatria?

     Gli ideatori di queste edizioni hanno saputo, con intuizione creativa, dare una risposta al dilemma. Hanno provato a re-inventare una religione civile che, senza essere in polemica o in  alternativa con la religione cattolica, possa comunque trovare consensi anche nel mondo del disincanto ‘laico’. L’icona della Santuzza come un simbolo di femminilità che, evitando la provocazione sessuale e la mercificazione del corpo, non nasconde le sue forme: come sintesi di gradevolezza estetica e di protezione materna. E soprattutto quel mettere sul carro, intorno al carro e sotto il carro, alcuni protagonisti della Palermo migliore, che resiste ai pregiudizi razziali e al dominio mafioso, quasi a indicare nuovi modelli di santità capace di parlare non solo ai frequentatori di templi e sacrestie, ma anche alle donne e agli uomini del servizio umanitario e della donazione altruistica.



UN DUPLICE  AUSPICIO

     L’osservatore partecipe di questo piccolo miracolo non può fare a meno di nutrire una doppia speranza.

    Prima di tutto: che anche in futuro le autorità civili, lungi dall’addormentarsi sugli allori, continuino a stimolare la creatività degli artisti affinché sappiano arricchire di tematiche e personaggi la struttura formale della festa. Sarebbe davvero triste se, liberatisi dagli stereotipi del passato, si dovessero trasformare i nuovi simboli in stereotipi retorici. La vita scorre: e ci sono molti modi di lavorare per rendere vivibile la città e, di conseguenza, molte rappresentazioni possibili di tali novità.

      Un secondo auspicio riguarda la chiesa cattolica che è in Palermo: che possa evitare di vivere trionfalisticamente questo nuovo corso, quasi una rivincita del sacro sul profano. Le trecentomila persone presenti a ciascuna delle recenti  edizioni non sono trecentomila devoti nel senso canonico, tradizionale, del termine: ognuno di loro ha un proprio modo di interpretare la sua partecipazione e sarebbe bello che tutti i ‘pastori’ imparassero a rispettare, senza imporre etichette, tale pluralità di sentimenti. Tanto più che non si tratta soltanto di rispettare molti modi di vivere il cristianesimo (dal devozionismo cattolico alla sobrietà valdese-metodista-battista), ma ormai molti modi di vivere la dimensione spirituale dell’esistenza (comprese concezioni aconfessionali o addirittura atee) . Con la beatificazione di don Pino Puglisi è arrivato un segnale interessante: il prete è chiamato a vivere il proprio ministero sintonizzandosi con i bisogni e i progetti della gente. Il credente non è invitato a vivere in maniera straordinaria, a prendere le distanze dai concittadini, bensì a condividerne le sofferenze e il desiderio di riscatto.  La chiesa, più che madre e maestra dell’umanità, deve imparare a concepirsi come sorella e compagna: una parte  - forse minoritaria – della società, alla quale apportare il proprio contributo di autenticità e di impegno nell’ottica di un bene ‘comune’ che, in quanto tale, non può essere monopolio di nessuno. Mi pare fortemente dubbio che il pellegrinaggio (un po’ trionfalistico e un po’ idolatrico) delle reliquie di don Puglisi  per le parrocchie della diocesi palermitana  sia stato in sintonia con questa logica ‘pastorale’ auspicabile e con l’elezione di papa Francesco  (non così fanta-teologica come si poteva ritenere sino a pochissimi anni fa.)  Dai segnali sinora registrati la nomina del ‘dossettiano’ don Corrado Lorefice ad arcivescovo del capoluogo regionale lascerebbe ben sperare in un clima diverso.

Augusto Cavadi

                                                              www.augustocavadi.com

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