giovedì 30 luglio 2020

DOPO POLIZZI GENEROSA: UN BREVE RESOCONTO PER CHI NON C'ERA (O C'ERA MA...DORMIVA)


“UNA MONTAGNA DI FILOSOFIA”: BREVE RESOCONTO PER CHI NON C’ERA 
(O C’ERA ED ERA…DISTRATTO)

 

Alcune amiche e alcuni amici, che non hanno potuto partecipare a “Una montagna di filosofia / Festival delle pratiche filosofiche”, tenutosi a Polizzi Generosa (dal 10 al 12 luglio 2020), mi chiedono un resoconto e una qualche forma di bilancio.

Personalmente ho trovato questi tre giorni magici: non saprei come altrimenti qualificare un evento – un insieme di eventi – dove, per l’abilità e la generosità dei ‘facilitatori’ cui spettava il compito di avviare riflessioni e confronti,  i “non-filosofi (di professione)” presenti hanno partecipato attivamente e costantemente.

Poiché come organizzatore del Festival non posso essere una voce obiettiva, preferisco dare la parola a un messaggio di commento tra i molti che mi sono pervenuti a voce, per email, per w’app e per messaggi su FB.

“E’ stata un’esperienza davvero gradevole ed intensa” mi ha scritto, ad esempio, Giancarlo Lo Curzio, architetto e instancabile operatore nel mondo del sociale e del lavoro. “In particolare” -  ha proseguito nel suo messaggio – “hanno destato in chi scrive molta ammirazione gli interventi di Orlando Franceschelli (in super-forma, asciutto e ricco di ragionamenti) su come rileggere il naturalismo darwiniano alla luce dei disastri ambientali contemporanei, e di Alberto Biuso che (in ottima forma e brillante come sempre) ha illuminato con vigorosi ed efficaci stimoli  il rapporto fra il mondo vissuto e la dimensione temporale. A lui si deve la piacevole partecipazione di un nutrito gruppo di studentesse e di studenti dell’Università di Catania. Bella sorpresa la grande limpidezza di Claudia Fanti, di cui sono  ammirevoli la scrupolosità e la capacità di entrare nel dettaglio, obiettivamente piuttosto rare in chi oggi si occupa d'informazione. Insomma, alla domanda  «Ne valeva la pena ?» non posso che rispondere che con un sì convinto”. Giancarlo non passa sotto silenzio, con tono simpaticamente ironico, un’osservazione (per altro da lui già comunicata in sede di assemblea plenaria conclusiva): “Lo spirito laico dell’iniziativa - organizzata dalla locale «Fondazione G.A. Borghese» (diretta da Gandolfo Librizzi) insieme alla «Casa dell’equità e della bellezza» di Palermo (diretta da Augusto Cavadi e Adriana Saieva) - ha sostanzialmente prevalso, anche se alcuni pensatori polizzani, fautori di una visione del mondo filtrata dalla teologia, hanno talmente insistito nella propria passione da far venire a qualcuno il dubbio che in certi momenti sembrasse più appropriato definire qualche sessione «Una montagna di teologia»…Ti passo una fotografia emblematica in cui l'espressione poco entusiasta del naturalista Orlando Franceschelli, tra due teologi,  sembra confermare tale dubbio (vedi foto sopra). Eccellente il contesto locale, con la popolazione poliziana palesemente meritevole del titolo di ‘generosa’, stupendi i tanti beni culturali del luogo, e felice sede delle conclusioni la «Fondazione Borghese» che da 20 anni sviluppa una disseminazione culturale di alto livello”.

 

·      BREVE NOTA A MARGINE: Giancarlo, opportunamente, sottolinea “lo spirito laico dell’iniziativa”. Vorrei precisare che ci sono almeno due modi di intendere la laicità. Il primo, e più diffuso, misura le parole, i concetti, i contenuti di un discorso: dunque se parlo di Platone o di Marx sono laico, se parlo di Gesù o di Maometto non lo sono, se parlo di Buddha o di Lao Tse sono nel mezzo fra laicità e non-laicità. Poiché trovo riduttivo e fuorviante questa concezione della laicità, cerco di praticarne e diffonderne un’altra che si basa sul punto di vista, sulla prospettiva critica, sul metodo con cui vengono trattati i vari contenuti. Secondo questa accezione di laicità può capitare benissimo (a me è capitato tante volte nella vita) che persone parlino di Platone o di Marx in maniera dogmatica, presupponendo che Platone e Marx abbiano detto solo cose vere e dunque indiscutibili; e che altre persone parlino di Gesù o di Maometto come di personaggi storici (conoscibili attraverso racconti più o meno leggendari, mitizzati) che hanno detto cose vere e cose false, cose condivisibili e cose contestabili. E’ chiaro che i primi, nonostante sembrino laici, in realtà non lo sono e che i secondi, nonostante sembrino non essere laici, in realtà lo sono. Chi presuppone a priori che la verità sia già contenuta negli scritti che trasmettono le idee di Platone, di Marx, di Gesù, di Maometto fa teologia (più o meno buona, più o meno interessante per un filosofo, ma fa teologia); chi non dà nulla per scontato e chiede ragione delle idee di chiunque (sia pure Platone, Marx, Gesù o Maometto) fa filosofia (più o meno buona, più o meno interessante per un teologo, ma fa filosofia). Purtroppo in Italia è difficile distinguere la laicità come                    a-religiosità, come diffidenza anti-teologica, come silenzio sul divino  dalla laicità come apertura mentale a 360 gradi, spregiudicatezza intellettuale che non si ferma davanti a nessun totem e a nessun tabù, ma esamina al vaglio della critica razionale ogni testo, ogni evento, ogni messaggio. Eppure, quando mettiamo il naso fuori dagli ambienti provinciali della cattolicissima Italia (dove basta che un politico parli della Madonna e sventoli un rosario in piazza per identificarlo con un credente, senza interrogarci sulle cause e sugli scopi del suo discorso contenutisticamente teologico-religioso), scopriamo tutto un altro mondo: per esempio, come ha mostrato in un suo saggio il compianto Filippo Costa, che nelle opere di Kafka non si cita mai la parola Dio e c’è tanta teologia (come in un negativo fotografico) e, al contrario, Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago non è certo un libro teologico, ma un capolavoro di pensiero laico e di poesia commovente. Non lasciamoci dunque ingannare dalle apparenze: la laicità non è un discorso ‘senza’ questo o quel riferimento alle Upanishad induiste o alla Bibbia ebraico-cristiana o al Corano, bensì un discorso curioso e indagatore ‘in più’ rispetto a eventuali devozioni acritiche a numi celesti o terreni.

 

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

lunedì 27 luglio 2020

MASCHI NON VIOLENTI CON LE DONNE SECONDO MARIA D'ASARO


Mercoledì 29 luglio alle 20,30 (puntualmente) faremo un'altra festa-presentazione per questo libretto curato dal Gruppo "Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne". Chi vuole prenotarsi, legga prima il comunicato-invito incollato qui di seguito. A seguire troverete il link per leggere l'accurata e acuta recensione che ha pubblicato proprio ieri Maria D'Asaro.

* PER PARTECIPARE ALLA PRESENTAZIONE A PALERMO:

Mercoledì 29 luglio 2020, alle ore 20,30 , il Gruppo “Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne” invita amiche e amici a una piccola festa presso il Laboratorio “Andrea Ballarò” di  Largo Rodrigo Pantaleone, 9 (davanti l’OVS di via Marchese di Villabianca/via Filippo Cordova).

L’intento è di far conoscere meglio le finalità e le attività dell’associazione in occasione della pubblicazione, a cura di Augusto Cavadi, del libro L’arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato (Di Girolamo, Trapani 2020).

Nel corso della serata, molto fantasiosamente, si alterneranno momenti musicali, letture dal libro e brevi confronti di opinione, balli…Saremo accompagnati dagli interventi musicali di Gianfranco Gioia (clarinetto e sassofono) e Alba Lizio (piano).

E’ prevista una quota di euro 15,00 con cui l’associazione sarà in grado di offrire a ciascun partecipante un apericena + 1 copia del volume (prezzo di copertina: euro 13,90). Nel caso che una coppia desideri avere solo una copia del libro, la quota sarà di euro 20,00 complessivi per entrambi. 

 La partecipazione sarà strettamente riservata alle prime 20 persone che si prenoteranno via e-mail all’indirizzo  laboratorionausicaa@gmail.com oppure al cellulare w’app 3473576075 e riceveranno conferma mediante lo stesso mezzo.

Rina Anzaldi

Renato Franzitta

 

* PER LEGGERE LA RECENSIONE DI MARIA. D'ASARO:

sabato 25 luglio 2020

IL VIAGGIO DELLA FEDE DI UN MODERNO ERETICO


In Italia, per una serie di circostanze storiche, studiare teologia è quasi sinonimo di frequentazione di Facoltà e Isti- tuti cattolici. La Chiesa si rallegra del monopolio pressoché totale (se si esclude la Facoltà valdese di teologia a Roma), lo Stato è felice di risparmiare soldi per cattedre ritenute assai poco produttive; ma gli effetti sono disastrosi. I teologi stentano a uscire dai recinti confessionali per timore dei provvedimenti disciplinari e pestano più o meno l’acqua nello stesso mortaio, gli studiosi “laici” delle altre discipline sfiorano qua e là le tematiche religiose con l’attrezzatura intellettuale di bambini preparati così così per la prima comunione.

In questo scenario – muti che (non) parlano a sordi – a soffrire è la vita della teologia e, in misura differente, delle altre forme del sapere (filosofia, scienze logico-matematiche, umane e naturali). In attesa che la situazione si sblocchi dal punto di vista istituzionale e accademico, è compito dell’editoria non del tutto subordinata al profitto aprire porte e finestre e far circolare, nelle aule universitarie e fra la gente desiderosa di conoscere e di pensare, qualche ventata d’aria fresca.

Che di questi apporti liberi – liberi dall’obbedienza ecclesiastica quanto dalla furia polemica a ogni costo – si avverta la necessità lo documenta anche il successo editoriale di autori italiani (come Ortensio da Spinetoli, Alberto Maggi, Vito Mancuso) e stranieri (come Raimundo Panikkar, Hans Küng, Eugen Drewermann) che non hanno avuto, e non hanno, vita facile nelle proprie comunità d’appartenenza, ma che costituiscono per milioni di lettori nel mondo degli spiragli di luce fra le nebbie del conformismo dogmatico.

Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico è stato tradotto per il pubblico italiano che, pur non essendo addentro gli studi teologici, ritiene di avere il diritto/ dovere d’informarsi sulle frontiere più avanzate della ricerca per orientarsi, criticamente, di conseguenza. Non si tratta di sostituire un catechismo ormai ammuffito con un altro più osé che strizzi l’occhio alla sensibilità dei contemporanei, bensì di superare l’orizzonte catechistico delle formule belle-e-pronte per entrare nel terreno, affascinante e rischioso, della ricerca personale sulla base di dati (storici e esegetici) per quanto possibile oggettivi e di argomentazioni (logiche ed ermeneutiche) per quanto possibile convincenti. Chi ritiene che la fede sia rassicurazione confortante, analgesica, non gioiosa inquietudine, farà bene a chiudere il libro (forse in attesa di tempi più maturi).

Il suo autore, Lloyd Geering, rientra infatti nel novero di quei pensatori coraggiosi che, scavalcando steccati confessionali ed epistemici, hanno deciso di seguire il proprio desiderio di divino senza rinunziare alla passione per la verità. La nostra casa editrice, stimolata dal curatore della presente opera, don Ferdinando Sudati, ha già fatto conoscere in Ita- lia alcuni di questi pensatori, come il gesuita Roger Lenaers e il vescovo episcopaliano John Shelby Spong. La loro testimonianza, che in alcuni casi ha provocato censure e sofferenze, ci è preziosa sia nei passaggi che possiamo condividere sia nei passaggi che, risultandoci problematici, c’inducono a elaborare piste alternative.

Molte persone religiose riescono a separare il sentimento dell’infinito dalle richieste dell’intelligenza: ma altre non accettano di spaccare in due l’interezza dell’esperienza esistenziale. Anche a costo di dover “re-immaginare” il divino cento e cento volte, sino al punto da intuire che Esso/Egli/Ella è esattamente al di là di ogni immagine possibile; anzi, di ogni concetto.

Ma se la dimensione divina è inattingibile alla nostra mente non significa che la teologia sia un’attività superflua. Essa, tra molti compiti, ne ha due: liberarci dagli idoli che produciamo nella storia identificandoli con l’Assoluto; predisporci, così, a quella felice povertà che favorisce l’esperienza concreta dell’amore. La teologia che ci spoglia delle false certezze è la medesima che ci espone alla consapevolezza che assaporare il divino è possibile solo volendo bene e lasciandosi voler bene. Poco? Molto? In ogni caso, è tutto ciò che è attingibile all’umanità in questa fase del suo cammino evolutivo. Chi promette di più potrà ingannare le folle per un periodo anche lungo, ma prima o poi le illusioni evaporano e l’essenziale emerge.

Augusto Cavadi www.augustocavadi.com

* Il testo è stato pubblicato come Prefazione. Chi potrebbe leggere questo libro (e chi no) (pp. 7 -9) del volume del ministro ordinato della Chiesa presbiteriana neo-olandese Lloyd Geering, Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, pp. 252, euro 25,00. 

mercoledì 22 luglio 2020

ROSARIO LIVATINO, MAGISTRATO DELLA REPUBBLICA E MARTIRE DEL VANGELO



"Adista"
18.7.2020

ROSARIO LIVATINO, MAGISTRATO DELLA REPUBBLICA

 E MARTIRE DEL VANGELO

 

Del magistrato Rosario Livatino la memoria collettiva ricorda – anche grazie al titolo di un bel film di Alessandro di Robilant  – l’ingiuria coniata da Francesco Cossiga: “giudice ragazzino”. Che si tratti di una figura complessa, intensa, travagliata lo evidenzia molto bene don Pio Sirna nel suo Rosario Livatino. Identità, martirio e magistero (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020) appena pubblicato. Non si tratta di uno dei tanti volumetti, non privi di merito, che sintetizzano brevemente le linee essenziali di un personaggio e delle sue vicende, ma di uno studio monografico analitico e approfondito che ne scandaglia – documenti alla mano – i risvolti più vari. Una possibile chiave di lettura del libro (si tratta di un’indagine teologica, più precisamente di teologia ‘spirituale’) è che esso intenda dimostrare come in questa esistenza si sia incarnato, pur con serie crisi di coscienza e gravi sofferenze interiori, il modello di laico delineato dal Concilio Vaticano II.

  Livatino, infatti, da una parte coltiva – attraversando momenti di dubbio e di vera e propria oscurità – la dimensione della fede, consapevole che la vocazione alla santità non è un’esclusiva degli uomini e delle donne che si consacrano in modo speciale a Dio, ma riguarda tutti i battezzati e tutte le battezzate; anzi, l’intera umanità che vive anche fuori di confini ecclesiali: “La sua vicenda, del tutto fuori dalla «asfissia delle tipologie di antiche nostalgie monastico-clericali», prende a tema l’autentica santità di un battezzato che, vissuto nel mondo, si è lasciato guidare nel cammino verso il fine ultimo, non deflettendo neanche quando si è sentito chiamare da Dio a dare la vita. Proprio per questo è testimone significativo e imitabile”.

Ma, dall’altra parte e con non minore convinzione, il giovane magistrato coltiva la dimensione della lealtà civica che impone universalmente – e in modo del tutto particolare ai funzionari dello Stato -  il rigoroso rispetto della Costituzione e di tutte le leggi non in dissonanza da essa. Nella sua ottica non regge alcuna dicotomia: “l’irrinunciabile primato di Dio nella coscienza dell’uomo non è in contrasto con il potere/giurisdizione della legittima autorità civile di organizzare la vita della polis bisognosa di ordine, legalità e giustizia. Nella dialettica Città di Dio-città dell’uomo, Gerusalemme-Atene, il cristiano obbedisce perciò allo Stato fino a quando questi non si mette contro Dio e la sua divina legge”. 

Appartenenza confessionale e laicità nella propria professione, dunque, lungi dall’escludersi reciprocamente, si esigono e si supportano a vicenda. Il cristiano – ad esempio il giudice cristiano – che nell’esercizio delle proprie funzioni si facesse condizionare da simpatie e antipatie ideologiche (comportandosi come membro di una lobby religiosa)  tradirebbe, prima ancora della deontologia, la fedeltà evangelica.

 Il ‘martirio’ – in senso teologico ma anche di ‘testimonianza’ civile – di Livatino è avvenuto nel contesto della criminalità mafiosa siciliana. Sarebbe però riduttivo non coglierne, nella concreta irripetibilità storica, il significato molto più ampio, direi universale: da Socrate a Gandhi,  le civiltà susseguitesi sul pianeta sono punteggiate da personaggi che in maniera tanto eloquente quanto silenziosa richiamano a tutte e a tutti noi che la durata dell’esistenza è un valore, ma non il più decisivo. 



Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

                              

lunedì 20 luglio 2020

IL GRUPPO "NOI UOMINI A PALERMO CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE" SI PRESENTA


Care e cari, 
   ormai da cinque anni abbiamo avviato a Palermo una sezione del movimento nazionale "Maschile plurale" (uno dei due presenti nel Meridione italiano, da Roma in giù).
      Con questo video di circa 10 minuti proviamo a raccontarci su YouTube.
      Inoltre da qualche giorno è disponibile, in tutte le librerie 'on line' e nelle librerie fisiche che ne fanno richiesta,  un libro, a mia firma, che in realtà raccoglie esperienze, riflessioni, contributi di tutti i membri del Gruppo:



Augusto Cavadi (www.augustocavadi.com)

venerdì 17 luglio 2020

IL SUD: SVILUPPO SENZA AUTONOMIA

“IL GATTOPARDO”
Giugno 2020

SVILUPPO SENZA AUTONOMIA

    Quando un visitatore mi chiede come mai la Sicilia (e con essa il Meridione italiano) stenti a decollare socio-economicamente, nonostante le ricchezze naturali e le potenzialità umane, mi trovo in difficoltà. La tentazione è di attribuire il ritardo alla mafia: sarebbe una risposta vera, ma parziale. In un libro di alcuni anni fa (Perché il Sud è rimasto indietro di Emanuele Felice), ho trovato delle indicazioni preziose e – purtroppo – ancora attuali. L’autore esamina le tesi “assolutorie” di chi attribuisce il ritardo del Sud o al Nord sfruttatore o alla collocazione geografica  (svantaggiata rispetto ad alcune risorse naturali, come l’energia idraulica, e ai mercati continentali);  e le tesi “accusatorie” di chi punta il dito sui meridionali stessi (o perché tarati geneticamente o perché incapaci di cooperazione sociale). Intento dell’autore è contestare entrambe le teorie, pur recuperandone  frammenti di verità.
    Ai fautori del vittimismo (qualcuno ha parlato di “meridionalismo piagnone”) Felice ricorda che il divario fra il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie era già netto al momento dell’unificazione italiana, checché ne scrivano gli “storici borboniani” rilanciati da Terroni di Pino Aprile in poi. I meridionali sono stati sì sfruttati, ma non dai settentrionali, bensì “dalle loro stesse classi dirigenti” (i nobili prima, i borghesi -  “imprenditori dell’arretratezza” – dopo). Dovrebbero riconoscere autocriticamente di essere diventati, da “sfruttati”, “complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare”, dei loro sfruttatori. Né  risultano convincenti le lamentele basate sulla posizione geografica del Sud: “nella nostra epoca sempre più sono gli uomini che fanno il proprio destino. La geografia può rappresentare al massimo un’opportunità, che oltretutto bisogna saper cogliere”. Ed essere nel cuore del Mediterraneo, all’incrocio di tre continenti, potrebbe rivelarsi un’opportunità da cogliere più che un inconveniente di cui lamentarsi.
  Allora hanno ragione quanti puntano il dito accusatorio contro i meridionali? Sì, ma a patto di distinguere i gradi di responsabilità morale e politica. La prospettiva lombrosiana non regge alle obiezioni storiche e scientifiche: le popolazioni meridionali non costituiscono una “razza maledetta”, biologicamente e mentalmente inferiore ad altre.  Il Sud ha accettato una  “modernizzazione passiva” ovvero “l’adattamento a una modernità imposta dall’esterno, in primo luogo dallo Stato centrale”, per esempio mediante l’ intervento della Cassa per il Mezzogiorno. Ma, poiché tale modernizzazione allogena risultava “un corpo estraneo rispetto all’economia e alla società meridionali”, bastò la crisi petrolifera del 1973 per bloccare la crescita effettivamente registrata negli anni dal 1957 al 1972. Nel ventennio successivo si assistette così alla “lunga agonia dell’intervento straordinario”, complice anche una politica clientelare che indirizzava i flussi di denaro pubblico “in misura crescente verso impieghi improduttivi”. I risultati furono disastrosi: uno  “sviluppo senza autonomia” (secondo la nota formulazione di Carlo Trigilia) e un generoso finanziamento a vantaggio delle criminalità organizzate. Di tutto questo, ai contadini dell’interno, ai pescatori delle coste, agli operai delle poche industrie metallurgiche…si possono attribuire le stesse responsabilità storiche dei ceti dirigenti, degli amministratori pubblici, dei funzionari della Regione autonoma? No,  non si può fare di tutte le erbe un fascio. Chi più ha fruito dei benefici, legali e illegali, è più in debito verso la collettività.
      Oggi siamo ancora davanti a un bivio: o “proseguire lungo lo stesso cammino che è stato percorso negli ultimi quarant’anni: senza cambiare nulla, attendere una manna che si fa sempre più rada; nel frattempo continuare a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli indicatori della modernità, rispetto agli altri paesi avanzati”; oppure “rifondare la vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando in questo modo un autonomo processo di modernizzazione attiva; una modernizzazione che forse aiuterebbe l’Italia tutta a uscire dalle secche in cui è finita” .
                                                         Augusto Cavadi
                                                      www.augustocavadi.com

mercoledì 15 luglio 2020

...E QUI LA CORTESE RISPOSTA DI EUGEN DREWERMANN



Qui di seguito la traduzione (di cui sono debitore a Rossella Sorce in Moeller):
Egregio Signor Cavadi,
La ringrazio di cuore per il Suo impegno.
Per quanto riguarda le domande:
1)     La religione risolve un problema, che non trova risposta nelle scienze della natura = tutte le spiegazioni causali non danno risposta alla messa in discussione dell’esistere (Dasein) a partire dalla contingenza. Noi siamo, non siamo però necessariamente. Una necessità causale non può dare spiegazione al nostro esistere, bensì solo una necessità libera. Noi dobbiamo esistere semplicemente per una Persona che desidera che noi esistiamo. Questa Persona è a sua volta non contingente, ma assoluta. Dio non ha bisogno di noi, però noi viviamo grazie a lui.
2)     La “razionalità” dell’universo è cieca e muta di fronte l’enorme quantità di sofferenza che è propria dell’ambivalenza di tutto il creato. Secondo il principio di conservazione di energia noi non siamo altro che elementi transitori. L’universo non ha bisogno di noi e non sente la nostra mancanza. L’etica si contraddistingue per l’attenzione al valore del singolo esistente. Per la natura noi non siamo né significativi né voluti - essa gioca con noi.
3)     Solo quando la paura del nulla a fondamento dell’esistere si placa nella fiducia in Dio, fondamento che (tutto) regge, termina la lotta per conquistare il diritto di  esistere - mediante la concorrenza tra chi produce di più -  e (ottenere) l’autostima. Solo allora termina la lotta di tutti contro tutti e noi diventiamo capaci di libertà, autonomia e bontà.
4)     Le religioni antiche consideravano divine le manifestazioni della natura perché vi riconoscevano simboli: il sole per esempio, con tramonto e alba, costituiva per loro una risposta alla domanda su morte e resurrezione, così come l’andare e venire della luna, il salire e scendere del Nilo ecc. Con panteismo (o esoterismo) o materialismo ciò non ha niente a che vedere.
Spero che vada bene così.
Con gratitudine per il Suo interesse religioso,  i migliori auguri per una bella estate sull’Elba.
Cordialmente
Eugen Drewermann
Molti cari saluti anche a Rosella Moeller

Paderborn 14.7.2020

LA MIA LETTERA A EUGEN DREWERMANN...

PALERMO, 1 LUGLIO 2020

Egregio Dottor Drewermann,
 in occasione del Suo compleanno ho pubblicato due brevi articoli in segno di stima e di gratitudine: cfr. https://www.zerozeronews.it/eugen-drewermann-fra-gesu-e-freud/ e 
Ora aggiungo il link a un terzo, più corposo, articolo su una rivista di cultura mediterranea:
Grazie alla cortesia di una mia amica, posso inviarle una breve sintesi in tedesco con alcune questioni: se Lei volesse rispondermi, sia pur brevemente, gliene sarei davvero grato.
In ogni caso, Le rinnovo gli auguri per i prossimi…80 anni!
AUGUSTO   CAVADI

***

Anlaesslich des 80. Geburtstages von Eugen Drewermann (am 20. Juni 2020) veroeffentlicht der italienische Philosoph Augusto Cavadi in der online Zeitschrift „Dialoghi mediterranei“ des euro-arabischen Institutes in Mazara del Vallo (Trapani) einen kurzen Essay, Theologie und Psychoanalyse. Einladung zum Denken mit Eugen Drewermann, (qui il link), als Geburtstagsgeschenk fuer den deutschen Denker.
Im Cavadi’s Text wird hervorgehoben, dass Drewermann, entgegen einigen aktuellen theologischen Stroemungen, sich nicht der Theorie des Todes der Religion anschliesst, sondern er betrachtet die Religion (wenn sie angemessen gelebt wird, also fern von jeglichen dogmatischen und institutionellen Formen) als notwendig fuer das existenzielle und psychologische Ueberleben der Menschheit. 
Erste Frage: entspricht der Religion/dem Glaube, wovon wir ein ‚verzweifeltes‘ Beduerfnis haben, ein ‚objektiver‘, absoluter,noumenischer Gott, welcher ‚vor‘, ‚ohne‘ und ‚jenseits‘ von uns da-ist?
Zweite Frage: die Religion ist zweifellos Trost fuer das Individuum und ethischs Reservoir fuer das Volk. Aber muss man wirklich zwischen Gott und das Nichts (aut-aut) waehlen? Gibt es wirklich keine weitere Loesung (tertium non datur)? Denker wie Karl Loewith sagen, dass es moeglich sei, atheist zu sein und gleichzeitig in die Rationalitaet des Universums Vertrauen zu haben.
Dritte Frage: setzt sich vielleicht Drewermanns Gedanke, dass die Religion dem Menschen als Therapie gegen das „ontologische Durcheinander“ dient, dem Gegengedanke der atheistischen Denkern (die keine Religion akzeptieren, weil sie eine zu bequeme Loesung waere) aus?
Vierte Frage: Drewermann behauptet oft, dass der Kosmos, so wie wir ihn aus den Naturwissenschaften kennen, zu viele schmerzhaften Widersprueche in sich haelt, und dass er deswegen keine solide Basis bilden kann, um daraus einen maechtigen und guetigen Schoepfer schliessen zu koennen. Wie versoehnt sich diese Thesis mit der Verherrlichung der naturalistischen Religionen, die, so wie die aegyptische, die Goettlichkeit der Sonne, der Sternen und einigen Tieren erklaeren? Also: sind allein die poetische Intuition und das symbolische Denken, die uns ermoeglichen, den chaotischen und absurden Kosmos als Gottes Koerper zu identifizieren?

TESTO ORIGINARIO MIO IN ITALIANO:
In occasione degli ottant’anni di Eugen Drewermann (20 giugno 2020) il filosofo italiano Augusto Cavadi pubblica, sulla rivista on line “Dialoghi mediterranei” a cura dell’Istituto Euro-arabo di Mazara del Vallo (Trapani), un breve saggio critico, Teologia e psicoanalisi. Invito al pensiero di Eugen Drewermann,  quale omaggio di compleanno per l’autore tedesco.
 Nello scritto di Cavadi si mette in evidenza come, in contrapposizione ad alcune tendenze teologiche contemporanee, Drewermann non sposa la teoria della morte della religione ma sostiene che essa (se intesa rettamente, dunque non in forma dogmatica e istituzionale) è necessaria alla sopravvivenza esistenziale e psicologica dell’umanità. 
Una prima questione: alla religione/fede , di cui abbiamo ‘disperato’ bisogno, corrisponde un Dio ‘oggettivo’, assoluto, noumenico che sussiste ‘prima’, ‘senza’ e ‘oltre’ noi? 
Una seconda domanda: indubbiamente, la religione è un conforto per il singolo e una riserva etica per i popoli. Ma davvero bisogna scegliere (aut-aut) fra Dio o il nulla? Davvero tertium non datur ?  Pensatori come Karl Loewith sostengono che sia possibile essere atei e avere fiducia nella razionalità dell’universo.
   Una terza questione:  la tesi di Drewermann,  per cui la religione serve all’uomo  come cura del “disorientamento ontologico”, non si espone  al capovolgimento esatto dei pensatori atei (i quali affermano che nessuna religione va accettata perché sarebbe troppo comoda) ? 
Una quarta questione: Drewermann afferma più volte che il cosmo, come lo conosciamo alla luce delle scienze naturali contemporanee, è fitto di troppe contraddizioni dolorose e, perciò, non può costituire una base solida per risalire a un Creatore potente e benevolo. Come si concilia questa tesi con l’esaltazione delle religioni naturalistiche che, come l’egiziana, proclamano la divinità del sole, delle stelle, di tanti animali? Insomma: sono solo l’intuizione poetica e il pensiero simbolico che possono consentirci di identificare il cosmo caotico e assurdo come il corpo di Dio?

martedì 14 luglio 2020

OSSERVAZIONI CRITICHE DI FRANCO CORTIMIGLIA

Dopo aver letto il mio Invito al pensiero di Eugen Drewermann (https://www.augustocavadi.com/2020/07/invito-al-pensiero-di-eugen-drewermann.html) , Francesco Cortimiglia mi ha cortesemente inviato una serie di obiezioni e considerazioni critiche che vorrei offrire alla condivisione dei lettori interessati a questo Autore e a questa tematica:


Perché la mia fede è ragionevole
Riflessioni sulla religiosità consapevole a margine di un articolo di Augusto Cavadi

Possiamo rinunciare alla religione? o ne abbiamo un insopprimibile bisogno? Questa esigenza di fondo ci parla solo della nostra disperata precarietà o pone la basi per un dialogo possibile con il divino? E se esiste la possibilità di un itinerarium in deum, qual è il ruolo della ragione in questo percorso di fede? Queste domande ed altre ancora suscita la lettura dell’articolo di Augusto in occasione degli ottanta anni di Drewermann. Proverò ad evidenziare alcuni nuclei concettuali che a me paiono essenziali, per provare poi a condividere i pensieri che le domande di Augusto mi suscitano.
Possiamo rinunciare alla religione?
Drewermann, ci ricorda Augusto, sostiene l’irrinunciabilità, della “religione” per la sopravvivenza della specie umana. Drewermann non si riferisce alle religioni storiche, intese come sistemi gerarchici / dottrinari / etici / liturgici, verso le quali mostra invece di una durezza sprezzante. Si riferisce invece alla “religione” come sinonimo di “fede”: e fede non in quanto accettazione di (presunte) verità rivelate, ma come atteggiamento di “fiducia” in un Ente che, “nella sua potenza e nella sua bontà, regge il mondo” e ciascun vivente.
La religione, per Drewermann, è “essenzialmente una risposta alla contingenza”, o, per essere più chiari, a questo problema di fondo: tutti sono consapevoli di essere “abbandonati a se stessi di fronte alla morte, alla caducità, alla nullità, alla non-necessarietà dell’esistenza”, in modo tale che “ognuno è condannato alla sofferenza e all’infelicità e ciò per il semplice fatto di essere un uomo che pensa”.

Che l’esperienza religiosa nasca dalla esperienza della precarietà e del limite, nessuno può dubitare. La questione è: abbiamo strumenti per trovare una via verso il significato e il valore di un’esperienza così contraddittoria e dolorosa o siamo condannati alla disperazione? Nella suddetta accezione, “religione” è comune a tutte le tradizioni sapienziali dell’umanità e la sua eclisse non è né prevedibile né auspicabile. L’esperienza del mondo ci mostra, infatti, soprattutto errori e orrori; al punto che la condizione naturale dell’uomo è l’angoscia (smarrimento al cospetto della morte), da cui deriva ogni forma di cattiveria, egoismo, avidità, prepotenza, violenza.Tuttavia Drewermann si chiede: “perché, sino ad oggi, in preda all’angoscia, l’umanità non si è autodistrutta? Che cosa l’ha, sinora, preservata dal suicidio nichilistico? Che cosa l’ha ‘salvata’, che cosa potrà salvarla?” La risposta è la giustificazione della irrinunciabilità della fede: l’umanità è salvata dall’idea che la morte non è la fine di tutto. Solo questa idea “può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva”. È questa la religione in senso forte l’essenza della fede non come ‘credenza’, condivisione di dottrine, ma come “affidamento nelle braccia di Dio.


Esiste un Dio fuori di noi?
Resta da chiedersi, con Augusto, se questa visione esigenziale approdi ad un dialogo, incontro, esperienza che superi il semplice monologo dell’uomo che lotta contro la sua disperazione. Nella storia della teologia si è sempre inteso di poter desumere dal dato di fatto della creazione l’esistenza di Dio. È ancora possibile oggi percorrere questo itinerarium mentis in Deum? La risposta di Drewermann è negativa. Le scienze naturali renderebbero impossibile utilizzare le leggi dell’universo, la sua bellezza, la sua stessa esistenza, come piste per risalire a un Essere creatore. Sono infatti negate nella natura ordine, sapienza e bontà che possano farci risalire ad un loro principio. «Esiste una sofferenza talmente infinita, esistono talmente tante cose che non hanno ricompensa, talmente tanto caos e tanta assurdità in questo mondo, che non ci si può richiamare a un piano razionale in via di realizzazione».
La vita individuale e collettiva «va considerata tragica e per nessun motivo la grandiosa manifestazione di un Dio che ha organizzato tutto questo con amore e sapienza, con bontà e onnipotenza».
La consapevolezza della tragicità della vita e della inadeguatezza della ragione a risalire dalla realtà che osserviamo al Principio eterno che la giustifica – oggi nessuno potrebbe arrischiare una “giustificazione di Dio”, una “teodicea” alla Leibniz – non significa optare per il “crescente ateismo nell’età moderna”, non ci condanna ad abbracciare la secolarizzazione post-religionale.

Il linguaggio del mito è essenziale
L’ esistenza e la prossimità di Dio, la stessa convinzione salvifica della vita oltre la morte – per essere esistenzialmente efficace nelle vite e nella storia – non può configurarsi in termini concettuali: deve piuttosto manifestarsi poeticamente, nella lingua dei simboli, delle metafore, delle immagini.
Tutti i libri sacri infatti usano registri narrativi, raccontando sogni, miti, fiabe, saghe, leggende, visioni, storie di miracoli, profezie, parabole. “L’equivoco letale della cristianità per Drewermann si è consumato quando... questo linguaggio evocativo è stato trasposto sul piano logico-razionale ed è stato cristallizzato in dogmi e precetti.
Oggi la cultura – prosegue Augusto – ci mette a disposizione strumenti per riscoprire l’approccio più adeguato a questi testi”. Si pensi ad esempio alla psicoanalisi di Freud e di Jung: i commenti dello stesso Drewermann al libro di Giona e al vangelo di Marco ne sono esemplificazioni ammirevoli.
Sembra che il teologo-psicoterapeuta tedesco, osserva Cavadi, abbia sostituito l'antica via cosmologica con una nuova via ‘psicologica’ che porta a Dio partendo non più dall’universo fisico quanto dal mondo interiore e inconscio della specie umana.
Resta tuttavia aperta una questione rilevante. Chiede infatti Augusto: la religione/fede, di cui abbiamo ‘disperato’ bisogno, può considerarsi il correlativo antropologico di un Dato ‘oggettivo’, assoluto, noumenico? È la risonanza in noi mortali di un Eterno sussistente ‘prima’, ‘senza’ e ‘oltre’ noi?

L’esperienza interiore e l’incontro con i testimoni di Dio
Non so in Drewermann, a me la risposta sensata alla domanda sembra essere proprio quella prospettata da Cavadi nell’interpretare Drewermann. Augusto la respinge come insufficiente. A me pare ragionevole. Proverei a formularla così: la fede nasce dalle profondità di una esperienza interiore, che ci consente di postulare l’esistenza di Dio ed evitare l’incubo del Nulla. La nostra idea di un Dio potente e amante non nasce dalla clamorosa potenza di una rivelazione nella storia, non dall’autorità di un magistero, non dalle luminose certezze della ragione che dipana il mistero. Nasce invece da una esperienza interiore, che viene tuttavia ravvivata ed alimentata dall’incontro con altre
esperienze di fede, “dall’impatto con uomini concreti, in carne e ossa, che si fanno messaggeri dell’annunzio salvifico”.
La testimonianza di Drewermann riportata da Augusto è a riguardo di grande forza. Ne riproduco, per comodità uno stralcio:

Quando Gesù dice che le persone che soffrono, le persone che piangono, quelle che sono indifese, che sono impotenti, che sono malate, tutte queste persone devono avere necessariamente una possibilità, e che lui è venuto a fondare un mondo in cui la bontà diventi il fondamento portante delle relazioni reciproche – allora ho pensato che doveva essere proprio così, che solo così vale la pena di vivere. Il mondo così com’è non merita di esistere per più di un giorno. Ma il mondo, descritto come lo vuole e lo rende possibile Gesù, merita ogni genere di impegno e speranza.... In altri termini, ho creduto in Dio nel modo in cui Gesù ha cercato di portarlo nel mondo. Ho creduto al Dio di Gesù. Perché, nello stesso tempo, non riuscivo a capire come facesse Gesù a considerare possibile la sua bontà, se non presupponendola reale in ciò che egli chiama suo padre. E’ in forza di questa fede che egli compie cose del tutto paradossali, cose assolutamente incredibili. [...] Gesù non si stanca di portare argomenti a partire da un Dio che egli presuppone, ma che non può dimostrare. Ciò che fa è renderlo semplicemente presente nell’evidenza del suo comportamento umano. Ed è questo che mi ha convinto. In questo io credo ancora oggi, incondizionatamente. Non potrei esistere davvero un solo giorno senza avere questa sicura fiducia, vale a dire che ciò che Gesù voleva è possibile (Drewermann E. , E il pesce vomitò Giona all’asciutto. Il libro di Giona interpretato alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 2003).

Perché la fede è ragionevole
Chiarita la centralità della dimensione interiore e del dialogo con l’esperienza altrui (gli amici di una comunità, i maestri di ogni tempo), ribadita la necessità del mito, rimane da affrontare ancora la questione posta da Augusto: è vero o falso che ciò che chiamiamo Dio – o dimensione divina della realtà – ha una consistenza ontologica indipendentemente da ciò che gli umani desideriamo o temiamo? O la necessità di abbandonare la teologia tradizionale e persino la teodicea ci deveindurre all’agnosticismo?
Vi dico subito che la risposta agnostica non mi pare necessaria. Mi pare anzi che l’agnosticismo rechi in sé una curiosa contraddizione. L’agnosticismo mi pare la curiosa posizione di chi afferma che Dio non può essere conosciuto con la ragione, ma insiste ad usare solo la ragione per conoscerlo.
Anch’io, che sono uomo di fede, potrei dirmi agnostico perché non dispongo di categorie capaci di esprimere compiutamente Dio e di dimostrarne ad altri, per via puramente razionale, l’esistenza e la prossimità. Eppure posso testimoniare la mia fede e dare argomenti della sua ragionevolezza.
Superato lo scandalo di una ragione che non può né afferrare né dire Dio, la mia fede è ragionevole per più ragioni.
  •   Innanzitutto proprio perché non si basa sulla sola ragione, né consiste in un sistema di idee e precetti in cui credere.
  •   In secondo luogo perché non si affida all’autorità di una tradizione che pretende di definire dogmaticamente ciò che l’esperienza di fede delle generazioni precedenti ha tramandato.
  •   Critica e respinge visioni costruite nel tempo per finalità eterogenee alla ricerca religiosa sulla base di interpretazioni infondate storicamente, razionalmente inaccettabili.
  •   È ragionevole perché non respinge il linguaggio del mito, perché comprende che non è il linguaggio della menzogna, ma un modo ricco di intendere ed esprimere la realtà, se non si ha l’ingenuità di prenderlo alla lettera o tradurlo in sistema di concetti.
  •   È ragionevole perché respinge l’ingenuità della scienza che pretende di escludere dalla realtà ciò che non può verificare sperimentalmente.
  •   È ragionevole perché continuamente purificata dalla superstizione che ricorre al soprannaturale per proteggersi da ciò che non si comprende (si tratti di ciò che ancora la ragione e la scienza non ha spiegato, o ciò che rimane essenzialmente impenetrabile alla indagine razionale e scientifica).
  •   È ragionevole perché è degno della dignità dell’uomo e della dignità di Dio partire dalla propria esperienza interiore per entrare in dialogo con l'esperienza di fede delle generazioni precedenti, confrontando diversità di bisogni, linguaggi, categorie, e scoprendo le affinità della vita che incontra la vita (qui non posso evitare un rimando a uno dei miei incontri sullEsodo tenuti lo scorso scorso anno presso la Fondazione "Parrino", in cui ho provato a porre questa delicata questione)
  •   È ragionevole perché è ragionevole seguire l'esempio di tante grandi anime
  •   ....
    Le posizioni agnostiche e apofantiche hanno valore come critica alla teodicea e alla teologia tradizionale che hanno preteso di capire e di dire oltre i limiti umani. La ragione tuttavia può ancora dirci tanto sulla qualità della nostra esperienza interiore, sul modo di accostarci al mistero, sulla ragionevolezza della fede, sulla universalità dell’esperienza di fede.

    Riscoprire il linguaggio dei simboli
    Augusto si dice convinto che “il dilemma Dio sì – Dio no vada sottratto al dominio esclusivo dei sentimenti e affidato prima di tutto al rigore della lucidità intellettuale”. Comprendo e condivido lesigenza del dialogo tra ragione e sentimento. Non condivido l’accento sul primato del rigore e della lucidità intellettuale da conservare rispetto alla sfera emotiva. Se il linguaggio dei simboli e la sfera irrazionale o prerazionale a cui attinge è il più adatto a sondare il mistero dell’essere e della vita e a parlarcene, se al rigore razionale non è concesso (per sua stessa lucida ammissione) di dire altro che balbettii sulla realtà divina, allora è l’uso esclusivo della ragione ad essere semplicemente insensato, mentre una ragione che dialoga con i propri sentimenti non perde la propria lucidità, ma, al contrario, la riconquista.
    Sono invece d’accordo sul fatto che bisogna andare “al di là della polarizzazione fra una fede ‘esigenziale’ (Dio c’è perché la vita senza di Lui sarebbe assurda) e un ateismo altrettanto ‘esigenziale’ (Dio non c’è perché ne abbiamo bisogno psicologico: la sua esistenza sarebbe troppo bella per essere vera).
    In realtà tutti noi (e lo stesso Drewermann) siamo tutti in una terza via (che racchiude, comè ovvio, una pluralità di vie possibili), in costante dialogo con pensatori, poeti, uomini e donne diogni tempo che si sono succeduti di generazione in generazione testimoniando la loro fede, la loro risposta totale di fiducia verso il mondo in generale, verso le persone e verso il futuro” (Geering L., Reimmaginare Dio. Il viaggio della fede di un moderno eretico, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, citato da Augusto). 
    Né il Dio dei filosofi e dei teologi, né il nulla degli atei, ma il Dio della fede, una fede che purifica se stessa nel confronto vitale della propria esperienza con quella degli altri e vigila, con la propria ragione, sulle derive irrazionali e sulle arroganze della ragione. In questo cammino di fede, occorre rivalutare il linguaggio dei simboli: a partire da quelli che emergono dal dialogo Cavadi- Drewermann: dall’antico simbolo poetico-filosofico dell’acqua alle suggestive metafore geometrico-poetiche dell’infinito, passando per i procedimenti analogici con cui ci spingiamo a parlare di Dio a partire dalla ricerca di pienezza di sapienza, di virtù, di giustizia, di felicità... un modo diverso di parlare del desiderio di Dio lasciando l’antico simbolo dell’acqua, principio di vita, per usare concetti che esprimono in modo più articolato l’idea della pienezza della vita, del suo significato e del suo valore: modi altrettanto suggestivi e parimenti inadeguati se pretendono di dire con esattezza qualcosa della realtà divina. Sono concetti, ma hanno valenza simbolica se riferiti a Dio, mai del tutto raggiungibile, nel nostro faticoso e incerto cammino.
                                                        Francesco Cortimiglia